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« Risposta #90 inserito:: Maggio 23, 2011, 04:56:51 pm » |
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23/5/2011
Dalla Moratti a Cetto La Qualunque
LUIGI LA SPINA
E’ un vero peccato che la campagna elettorale per il ballottaggio a sindaco di Milano si sia conclusa con una settimana d’anticipo e con un risultato a sorpresa: Letizia Moratti ha perso, ma non è stata sconfitta dal suo competitore Giuliano Pisapia, ma da se stessa.
Perché potrà anche riuscire a compiere l’impresa disperata di superare il candidato del centrosinistra, lunedì prossimo, ma a un prezzo che non bisognerebbe mai accettare di pagare, quello di rinnegare il proprio passato politico, le scelte programmatiche fatte e tante volte rivendicate, i valori in cui si è creduto o si è detto di credere e, soprattutto, tradendo la fiducia di coloro che per quei valori l’hanno eletta a loro rappresentante.
I segnali di fastidio e di distacco con i quali i moderati milanesi avevano risposto, col risultato del primo turno, ai toni estremistici e spregiudicati usati dalla candidata di Berlusconi e Bossi alla rielezione a sindaco di Milano, evidentemente, non sono bastati.
Così la Moratti, in questi giorni, ha inanellato una serie di promesse demagogiche che non solo contraddicono le decisioni più significative del suo precedente mandato, ma assumono caratteristiche che, nei cittadini più anziani, ricordano le scarpe spaiate offerte da Achille Lauro ai napoletani degli Anni 50 e, in quelli più giovani, i mirabolanti impegni elettorali dell’Antonio Albanese di «Qualunquemente».
L’Ecopass, la Ztl, le strisce blu e gialle sulle strade di Milano sono il segno più visibile e concreto della passata amministrazione milanese. Decisioni discutibili, certo, ma che sono nate dalla consapevolezza dei problemi d’inquinamento ambientale e di mobilità urbana nel centro storico. Ora, con una contraddizione clamorosa rispetto alle intenzioni dichiarate dalla Moratti, quelle di «raccontare ai cittadini le tante cose buone fatte a Milano», il sindaco uscente le rinnega. Con la sconcertante promessa di condonare le multe dei milanesi che hanno violato le disposizioni da lei stessa impartite.
Quale opinione la Moratti pensa possano avere di questi atteggiamenti proprio quegli elettori moderati che, fedeli al principio del rispetto della «legge e dell’ordine», hanno osservato le regole? A quale Milano si rivolge? Non crede di offendere, così, l’onestà e il civismo dei suoi concittadini? Soprattutto non ritiene di offendere se stessa, il suo passato di impegno pubblico, dalla presidenza Rai al ministero dell’Istruzione? Compiti svolti con risultati controversi, ma sempre con dignità e mai segnati da cotanto cinismo politico.
E’ con amarezza che occorre constatare l’impossibilità di assistere a una battaglia elettorale, a Milano, come si poteva prevedere: tra un galantuomo garantista di sinistra come Pisapia e una gentildonna di destra come la Moratti. E questa volta, non si può essere così ipocriti e falsamente equidistanti da non segnalare per colpa di chi un clima di civile competizione sia stato compromesso. Con altrettanta amarezza dispiace come la grande tradizione liberale, moderata e anche conservatrice di Milano si possa sentire abbandonata. Un passato che ricorda figure di cattolici come Filippo Meda, Gallarati Scotti, Giuseppe Toniolo, e di laici come Luigi Albertini e Giovanni Malagodi.
La deriva finale della Moratti sulla via dell’estremismo verbale e della demagogia elettorale più incontrollata può sorprendere chi credeva di conoscerla, ma corrisponde, purtroppo, agli atteggiamenti della coppia Berlusconi-Bossi di questi tempi. Il primo sembra non aver capito che le mosse a sorpresa, sul calare dell’ultimo gong nella campagna elettorale, possono essere efficaci le prime volte. Non più quando vengono ripetute dopo che gli elettori hanno constatato i risultati di quelle promesse. L’esempio più calzante è quello dell’abolizione totale dell’Ici. Una decisione che ha messo in difficoltà tutti i Comuni, costretti o a tagliare i servizi o a ricevere dallo Stato, attraverso le tasse, rimborsi che si sono tradotti in una sostanziale «partita di giro». Risultati ancora peggiori, proprio nell’opinione dei moderati italiani, hanno altre promesse berlusconiane, come quelle di lasciare mano libera all’abusivismo edilizio in Campania.
Il pericolo maggiore, sul piano nazionale, è, però, un altro. Le necessità elettorali, le traballanti maggioranze governative alla Camera, le incognite di un’ultima parte della legislatura che si presenta molto difficile potrebbero indurre Berlusconi a compiere una tale pressione su Tremonti da costringerlo a indebolire la ferrea difesa dei conti dello Stato fin qui esercitata dal ministro dell’Economia.
Con la situazione internazionale che caratterizza questi mesi e che si potrebbe aggravare nei prossimi mesi, a partire dalla tenuta dell’euro, il rischio è grave. Tremonti, infatti, si potrebbe trovare in una posizione, per lui, del tutto insolita. Il suo più fedele sostenitore, Umberto Bossi, potrebbe unirsi al presidente del Consiglio, questa volta, nel sollecitarlo a una linea di minor rigore.
Perché, quando i consensi calano, come sono calati quelli della Lega negli ultimi tempi, le promesse s’alzano. A cominciare da quelle più estemporanee, come lo spostamento di qualche ministero a Milano. Perché quella che una volta era una grande capitale morale possa divenire anche una piccola capitale ministeriale.
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« Risposta #91 inserito:: Giugno 01, 2011, 05:38:12 pm » |
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1/6/2011
Programma di governo in otto punti
LUIGI LA SPINA
Era l’ultima occasione. Ma era anche quella in cui il Governatore si sentiva più libero di parlare alla politica, perché non poteva più suscitare sospetti di una sua candidatura al governo del Paese. E Mario Draghi non se l’è fatta certo sfuggire.
Così, in attesa del suo trasferimento alla guida della Bce, la lettura delle sue «considerazioni finali» all’assemblea della Banca d’Italia gli è servita per tracciare un bilancio dei suoi cinque anni in via Nazionale, ma e soprattutto per lanciare un forte messaggio alla classe politica, a tutta la classe politica italiana.
La ricorrenza dei 150 anni dell’unità nazionale ha suggerito al Governatore una citazione di Cavour, significativa dell’indirizzo particolare che, quest’anno, ha voluto dare alla sua ultima relazione. Uno scritto nel quale lo statista piemontese lega la crescita dell’economia alla buona politica, quella delle riforme che «compiute a tempo, invece di indebolire l’autorità, la rafforzano». Draghi conserva una fiducia di fondo sul nostro Paese, perché osserva come la diagnosi sui problemi dell’economia sia sostanzialmente condivisa da tutti e la convinzione che non esistano terapie veramente alternative sia altrettanto unanime. Alla politica è mancato il coraggio di affrontare il vero nodo che soffoca la crescita: «gli intrecci di interessi corporativi che in più modi opprimono il Paese».
La ricetta che, ieri, il Governatore ha lasciato come una specie di testimonianza ereditaria della sua azione quinquennale alla Banca d’Italia si può sintetizzare con la rivendicazione, orgogliosa e ripetuta, di aver per primo insistito sulla necessità della crescita. Una «predica inutile» alla Einaudi, ha constatato con amarezza, perché su questo tema il giudizio di Draghi sull’azione del governo è spietato: si è fatto molto poco. E’ vero che Tremonti ha avuto il merito di salvaguardare i conti pubblici e l’amministrazione finanziaria ha lottato efficacemente contro l’evasione fiscale, ma senza riforme strutturali il sistema economico italiano non è in grado di affrontare la sfida della competitività internazionale.
L’indicazione di otto punti di intervento nelle politiche pubbliche lanciata da Draghi ieri costituisce, in realtà, un ottimo programma di governo. Dettagliato come il Governatore non si era mai spinto a suggerire e attento anche a misurare le riforme possibili alla luce della necessaria sorveglianza sui conti dello Stato. Anche per raggiungere l’obiettivo del pareggio di bilancio la sua ricetta è stata chiara e senza ipocrisie: è sbagliata la procedura di tagli uniformi su tutte le voci; meglio utilizzare il metodo selettivo già intrapreso dal compianto Padoa-Schioppa. Così come occorre che il federalismo fiscale non si traduca in una somma di nuovi tributi locali a quelli nazionali, che resterebbero invariati.
Se esplicita è stata l’agenda consegnata dal Governatore alla politica italiana, più criptico, ma altrettanto evidente, è stato il messaggio sulla credibilità, l’autorevolezza e il coraggio necessari per accogliere e realizzare questo programma. Draghi ha ricordato come, all’inizio degli Anni Novanta, la situazione del debito pubblico avesse messo l’Italia in condizioni ben peggiori di quelle attuali. Eppure, l’azione di uomini come Ciampi, a cui è stata riservata una passerella trionfale del tutto programmata in modo significativo, è stata all’altezza della gravità dei problemi.
Il richiamo all’ex governatore e Presidente emerito della Repubblica non è stato solo l’esemplificazione della necessaria qualità di una classe politica che sembra assai lontana da quel modello. Ma è servito anche a Draghi per lanciare a chi dovrà scegliere il nuovo Governatore un richiamo sull’opportunità di utilizzare le risorse interne della Banca d’Italia. Chiaro è apparso il suo insistere, proprio all’inizio del discorso, sui meriti «di competenza e di indipendenza» che fanno dell’istituzione un prezioso «consigliere autonomo, fidato, del Parlamento, del governo, dell’opinione pubblica». Così come il ribadire la necessità di preservare «una voce autorevole e senza interessi di parte». Una raccomandazione che è apparsa preoccupata. Speriamo che l’impressione sia sbagliata o che Draghi sia un po’ troppo diffidente. Meglio pensare e augurarci che sia stata del tutto inutile.
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« Risposta #92 inserito:: Giugno 10, 2011, 10:20:03 am » |
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10/6/2011 - SI APRE IL CANTIERE
Torino-Lione, il dovere dei sindaci
LUIGI LA SPINA
Dopo anni di polemiche, contestazioni, trattative, la prossima settimana dovrebbe segnare l’inizio, concreto seppur quasi simbolico, dei lavori per la nuova ferrovia Torino-Lione. Si tratta del primo pezzo, in Italia, del famoso «corridoio 5», il grande asse di comunicazione tra l’Ovest e l’Est dell’Europa, destinato a rivoluzionare il trasporto delle merci attraverso il nostro Continente.
Il clima politico e sociale nel quale si aprirà il cantiere destinato a inaugurare questa opera, fondamentale per lo sviluppo economico del Nord e, in particolar modo, del Piemonte, si annuncia pessimo. Negli ultimi giorni, agli annunci di mobilitazione di coloro che si oppongono al progetto, sono seguite minacce di morte, in puro stile terrorista, nei confronti di coloro che, invece, lo sostengono. L’ipotesi di un ricorso, deliberato e provocatorio, alla violenza da parte di gruppi estremisti è purtroppo prevedibile, nell’intento di suscitare una tale esasperazione emotiva da impedire un ragionevole confronto di idee e il rispetto delle decisioni assunte sulla base della regola fondamentale in democrazia, la volontà della maggioranza.
Da circa sei anni una commissione, guidata dall’architetto Virano, ha esaminato, con le parti coinvolte nel progetto, tutti i problemi ambientali, economici, sociali che la cosiddetta Tav potrebbe procurare alla vita delle popolazioni valsusine. Perché è ovvio il consenso di chi non è toccato direttamente dai disagi che arrecheranno i lavori e ne vede solo i vantaggi futuri.
Mentre è del tutto comprensibile la preoccupazione di chi, invece, vive in prossimità della nuova linea. Così, il tracciato della ferrovia è stato profondamente cambiato, il sistema di smaltimento dei rifiuti è passato dal camion al treno, sono state assicurate le stesse garanzie di sicurezza che sono valide in tutt’Europa e che sono state accettate per i valichi del Brennero, del Gottardo, del Loetschberg. E’ stato stabilito, infine, un piano di compensazioni per la Valsusa che prevede numerose opere di riqualificazione e ammodernamento infrastrutturale. Una prima parte di questi finanziamenti è stata varata, il resto arriverà man mano che i lavori avanzeranno.
Il metodo della trattativa e del confronto, almeno con chi non lo rifiuta pregiudizialmente, si è rivelato, quindi, fruttuoso ed è servito anche a fornire risposte esaurienti ad alcune obiezioni fondamentali sulla convenienza del progetto. E’ evidente, infatti, che le stime sui volumi di traffico non si possono calcolare sulla situazione attuale, ma sulla base delle previsioni per i prossimi cinquanta o cento anni. Basta ricordare le vicende del piano autostradale varato in Italia all’inizio della seconda metà del secolo scorso: sembrava sovrabbondante, ora ne lamentiamo le insufficienze. Anche le critiche relative ai costi non sembrano giustificate, perché la Ue ha destinato i finanziamenti solo per questo progetto. Se l’Italia rinunciasse, non solo non vedrebbe un euro per qualsiasi opera alternativa, ma sarebbe costretta a pagare penali per circa due miliardi. I vantaggi, poi, per l’economia locale, tra quelli diretti e quelli indiretti, non sono trascurabili, soprattutto in un periodo di crisi occupazionale come questo. Solo per scavare i sette chilometri del tunnel della Maddalena, un centesimo dell’intera opera, si calcolano ricadute di 35-40 milioni di euro. La previsione di una fermata della ferrovia a Susa, infine, consentirà ai viaggiatori che provengono da Londra o da Parigi o da Madrid di arrivare velocemente nel cuore della Valsusa, con conseguenze turistiche facilmente intuibili.
Nel tentativo di svelenire un clima che si stava facendo davvero troppo acceso, la decisione del ministro Maroni di riservare solo alle forze dell’ordine il compito di tutelare la sicurezza dei lavori, escludendo quelle militari, è apparsa davvero opportuna. Ma il clima nel quale si aprirà il cantiere di Chiomonte è affidato soprattutto alla responsabilità di coloro che rappresentano alcune istituzioni locali: i sindaci e il presidente della Comunità montana, Sandro Plano. Toccherà a loro il compito di assicurare che le frange estremiste e paraterroristiche rimangano isolate da coloro che, anche legittimamente, restano contrari al progetto e vogliono esprimere il loro dissenso in maniera pacifica. Il crinale fra la tentazione di accendere lo scontro per ingigantire il loro ruolo di mediatori e di unici potenziali pompieri della protesta «no Tav» si sta facendo troppo stretto e pericoloso. Di fronte alle minacce di morte e di violenza, non si tratta più di un invito alla coerenza politica fra la loro militanza nel Partito democratico che si batte per la realizzazione dell’opera e la loro opposta convinzione. Ma del rispetto per il compito istituzionale che devono rivestire: quello di rappresentanti di tutta la popolazione e, soprattutto, dello Stato italiano. Come ricorda, tra l’altro, la fascia tricolore che indossano.
da -
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« Risposta #93 inserito:: Giugno 18, 2011, 10:28:36 am » |
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18/6/2011
La politica è diversa dalla protesta
LUIGI LA SPINA
Il crepuscolo del berlusconismo in Italia, lungo o breve che sia, travagliato o meno, affida al Pd, il partito più forte dello schieramento che in questi anni si è opposto alla lunga egemonia politica del Cavaliere, una grande responsabilità. Quella di resistere a una tentazione e di non cadere in un equivoco. L’inaspettato successo dei referendum e le altrettanto sorprendenti vittorie di Pisapia a Milano e di De Magistris a Napoli hanno confermato la forza elettorale e l’efficacia comunicativa di un movimento trasversale di protesta.
Un movimento, guidato soprattutto dai giovani, contro una concezione della politica giudicata mediocre, corrotta, lontana dagli interessi urgenti dei cittadini. Molti commentatori, giustamente, ne hanno colto le caratteristiche innovative, a partire dalla prevalenza dell’uso propagandistico di Internet rispetto alla televisione e, simultaneamente, dal ricorso all’antico «passaparola» come mezzo di convincimento e stimolo a una rinnovata partecipazione politica. Un fenomeno che nella nostra società civile si era già annunciato, nei mesi scorsi, con i lusinghieri esiti delle manifestazioni delle donne o delle stesse primarie per la scelta dei candidati del centrosinistra. Ma che, nelle più recenti manifestazioni elettorali e referendarie, si è imposto con una straordinaria evidenza. Ecco perché il Pd potrebbe essere tentato di cavalcare, più o meno strumentalmente, questo inedito movimentismo protestatario per affrettare la caduta di Berlusconi e agevolare il proprio successo alla guida di un largo schieramento alternativo al centrodestra. La seduzione, in effetti, potrebbe sembrare molto allettante, ma si fonda su un equivoco interpretativo e comporta un rischio, per il futuro del nostro Paese, veramente altissimo.
La protesta emersa nelle inedite forme di queste settimane, infatti, non è il frutto di un clima para rivoluzionario o contestativo, come quello che, anche in Italia, maturò alla fine degli Anni 60 nel secolo scorso. Perché non si basa sulla fiducia di poter cambiare il nostro mondo, ma, al contrario, sul timore che possa cambiare questo nostro mondo. Allora, era l’ottimismo che accendeva l’immaginazione, ora, è la paura che turba gli animi. Allora, si chiedeva alla politica il coraggio di farsi da parte; ora, si chiede alla politica di farsi più responsabile, invece, del futuro dei cittadini. Allora, si inneggiava alla libertà, intesa in tutti i campi della vita. Ora, si cerca la rassicurazione, in tutti i campi degli interessi.
In questo contesto, è veramente illusorio pensare, per il Pd, di aggregarsi e, magari, di contribuire ad accendere fuochi di protesta come strumenti di lotta politica contro Berlusconi e il centrodestra. Perché l’indignazione contro la «malapolitica» non ha bisogno di un coro, compiacente e corrivo, di adulatori. Ma di un partito che dimostri di saper costruire un’alternativa di governo, con risposte realistiche rispetto ai timori degli italiani. Anche perché questo fenomeno politico e sociale di rivolta contro la classe politica ha già dimostrato, proprio a spese del Pd, quanto diffidi del paternalismo di chi si illude di poterlo rappresentare e, magari, utilizzare ai propri fini.
Il possibile equivoco di interpretazione nell’analisi di quanto sta avvenendo in Italia non costituisce, però, solo una trappola per chi travisasse, più o meno consapevolmente, il significato del fenomeno sociale al quale stiamo assistendo. Perché i tempi che si annunciano in Italia sono assai cupi: la manovra economica, ormai imminente, susciterà certamente malumori e proteste di varie categorie e l’esempio della Grecia, stretta tra rivolte sociali e tagli dolorosi a cui è costretto il governo, è troppo vicino, non solo geograficamente, per non preoccupare. Una sinistra estrema, poi, non paga di riflettere sull’irresponsabilità di comportamenti che costrinsero alle dimissioni Prodi e che provocarono la sua esclusione dal Parlamento, crede di sentire un clima di possibile rivincita. Così, rincorre qualsiasi focolaio di contestazione, da quella della Fiom a quella dei «no Tav», con antichi slogan e antiche illusioni. La maggioranza, infine, finché resterà tale, tra inchieste giudiziarie e delusioni elettorali, sembra ormai concentrata solo sulle sue convulsioni interne, in cerca di uno sbocco alla sua crisi che, per ora, neanche si intravede.
Proprio in queste circostanze, quando la politica sembra scappare dai suoi compiti ed eludere i suoi doveri, avvolta in un vuoto di decisione allarmante, si misurerà quanto sia credibile uno schieramento alternativo a Berlusconi che non si limiti a fare da megafono alle paure e alle proteste, ma che si assuma la responsabilità di avanzare proposte concrete di risanamento finanziario e di sviluppo economico. Un compito molto difficile. Ma se il Pd pensa di imboccare scorciatoie più facili per arrivare a palazzo Chigi potrà aumentare di qualche punto il suo bottino elettorale, ma non convincerà mai la maggioranza degli italiani ad affidare a un suo uomo le chiavi del governo.
da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8867&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #94 inserito:: Giugno 28, 2011, 04:38:33 pm » |
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28/6/2011 Abbattuto il muro dell'illegalità LUIGI LA SPINA Un muro è stato abbattuto: quello dell’illegalità che cingeva d’assedio il cantiere di Chiomonte, impedendo l’inizio dei lavori per la costruzione della linea di alta velocità Torino-Lione. Un altro muro si è innalzato: quello tra i valsusini contrari all’opera e i gruppi di violenti che hanno assalito con una pesante sassaiola le forze dell’ordine, utilizzando grosse pietre, estintori, balle di paglia incendiate. Il prezzo dello straordinario esempio di addestramento e di controllo dei nervi dimostrato da poliziotti, carabinieri e finanzieri è stato alto e amaro, perché ben 62 sono stati feriti, ma il loro comportamento ha evitato che lo sgombero del primo cantiere provocasse più gravi conseguenze. Così, alla fine di una giornata di grandissima tensione in tutta la valle, il bilancio «politico» dell’operazione d’avvio dei lavori si può considerare sostanzialmente positivo. Si deve dare atto a tutti i responsabili del ministero dell’Interno di aver pianificato le mosse delle forze dell’ordine con grande abilità tattica e con accorto senso di responsabilità. L’uso dei lacrimogeni ha reso impossibile lo scontro diretto con le frange violente dei «no Tav». D’altra parte, non si è verificato il fenomeno più temuto, quello che nel 2005 aveva provocato gravissimi incidenti e il forzato blocco dei lavori, cioè la partecipazione massiccia degli abitanti della valle alle azioni di protesta dei manifestanti più estremisti. Certo l’apertura del cantiere avvenuta ieri non deve illudere, perché i violenti non rinunceranno ai loro metodi di lotta e molti valsusini resteranno contrari al progetto. Ma l’esito della giornata, almeno, non ha confermato quelle fosche previsioni che, alla vigilia, molti avevano avanzato. Un contributo alla riflessione, nelle prossime settimane, potrà avvenire quando saranno esaminate, con maggior approfondimento e meno emotività propagandistica, le risposte che la nuova versione del progetto alta velocità Torino-Lione ha cercato di offrire alle tre principali obiezioni di coloro che lo osteggiano. L’ultima variante del percorso, infatti, quasi dimezza il costo dell’opera; non prevede più cantieri nella bassa valle; individua una serie di tappe per l’intera realizzazione della nuova linea. Per chi è ideologicamente contrario all’Alta velocità o per chi cerca un pretesto per una generica lotta contro lo Stato e, quindi, non è interessato veramente a entrare nel merito dei problemi, questa correzione in corsa non cambierà sicuramente le intenzioni più bellicose. Ma per la grande maggioranza degli abitanti valsusini, quella che si interroga, con timori comprensibili, sulle conseguenze concrete dei lavori per la loro vita, forse le nuove proposte attenueranno le preoccupazioni fondamentali. Anche perché è più difficile parlare di «devastazione della valle» se si valutano con attenzione le modifiche previste. Inoltre, se davvero i flussi di traffico non dovessero crescere fino a quei livelli che costringerebbero a rifare l’intera linea, l’utilizzo di parte di quella «storica» potrebbe essere confermato. Una flessibilità, dunque, che non esclude una revisione del progetto alla luce delle diverse condizioni che si dovessero presentare in futuro. C’è, infine, un altro elemento confortante da registrare al termine della giornata. L’inizio dei lavori a Chiomonte dà un primo segnale positivo agli ultimatum dell’Unione europea per il rispetto dei tempi da parte italiana. E’ evidente che il rischio di perdere gli oltre seicento milioni di euro stanziati da Bruxelles per il tragitto italiano della Tav non è fugato da un atto quasi simbolico quale si è compiuto, ieri, in Valsusa. Il cantiere esplorativo della Maddalena dovrà andare avanti e gli altri, previsti dal progetto, dovranno essere aperti alle scadenze programmate. I primi commenti, anche informali, registrati negli ambienti comunitari fanno capire che l’Europa guarda con un certo scetticismo e con immutata apprensione al faticosissimo avvio dell’opera. Ma un ulteriore ritardo non sarebbe stato certamente tollerato. L’ottimismo non è prudente e, forse, neanche consigliabile, ma non è proibito. Per ora, accontentiamoci. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8905&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #95 inserito:: Luglio 09, 2011, 05:06:46 pm » |
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9/7/2011 Dissoluzione senza soluzione LUIGI LA SPINA I regimi politici cadono in due modi: o perché sono sconfitti o per sfarinamento interno. Nel primo caso, il crollo può essere cruento, ma i vincitori riescono rapidamente a diventare una credibile classe dirigente alternativa. Nel secondo, l’agonia può essere molto lunga e molto pericolosa, perché lascia il Paese senza una guida sicura e in balia degli eventi. Com’era facilmente prevedibile, la fine del berlusconismo in Italia sta seguendo quest’ultima forma. Un modello che si potrebbe sintetizzare, anche in rima, così: dissoluzione senza soluzione. L’ultima ondata di scandali che si stanno abbattendo sul centrodestra avrà un effetto, in apparenza, paradossale e contraddittorio. Da una parte, ha bruciato la candidatura delle due più forti personalità ministeriali alla successione di Berlusconi, prima quella di Gianni Letta e, ora, quella del superministro dell’Economia, Giulio Tremonti; con risultati devastanti, sia per l’immagine del governo, sia per l’efficacia della sua azione. Dall’altra, costringerà tutti i ministri, a cominciare da quelli più sotto schiaffo giudiziario, a una resistenza e a una convivenza obbligata. Ecco perché, nonostante il clima pessimo che si respira nella Roma politica, il quarto ministero Berlusconi rischia, sì, di non poter governare con sufficiente credibilità, specialmente in un momento in cui chiede sacrifici agli italiani. Ma rischia anche di durare, perché sia nella maggioranza, sia nell’opposizione, non solo non è pronta una vera alternativa, ma non c’è molta voglia e molto interesse a cercarla. Una prospettiva davvero inquietante per gli italiani, con un’unica variabile a questo scenario, quella di un attacco della speculazione finanziaria internazionale contro il nostro Paese, ipotesi che proprio ieri si è affacciata sui mercati e che, certamente, è ancora meno confortante. Il quadro della situazione nei principali partiti è abbastanza chiaro. La Lega, ormai azionista di riferimento nella maggioranza, non ha alcun interesse, ora, a rompere l’alleanza con Berlusconi. Sia perché è molto difficile che possa immaginare un governo diverso che possa assicurarle un maggior potere, sia perché anche in quel partito è cominciata una lunga, logorante e molto incerta lotta alla successione del leader carismatico (o ex carismatico), Umberto Bossi. Pure nel Pdl gli equilibri interni sono precari, dal momento che l’investitura di Alfano è troppo recente perché si possa ritenere accettata da tutti e, soprattutto, il ministro della Giustizia deve ancora intraprendere un difficile cammino tra due precipizi: quello di apparire un segretario senza autonomia da Berlusconi e, quindi, con poca autorevolezza e quello di sembrare averne troppa, snaturando la fisionomia di un partito che forse può esistere solo se guidato dal suo fondatore. Al di là di questi problemi, però, il Pdl si trova, forse per la prima volta, davanti a un dilemma concreto e quasi drammatico. La manovra concepita da Tremonti, infatti, colpisce direttamente gli interessi proprio di quel ceto medio che costituisce il nocciolo duro del suo elettorato. Quello che vede decurtati i già miseri interessi dei titoli di Stato che detiene in banca. O quello che è preoccupato per la nuova tassazione sulle partite Iva. D’altra parte, il Pdl sa bene che il ministro dell’Economia è considerato, all’estero, l’unico baluardo allo sfondamento dei conti pubblici italiani. Una sua uscita di scena, se la manovra fosse stravolta in Parlamento, potrebbe segnare il via libera alla più sfrenata speculazione internazionale contro l’Italia. Anche la principale forza d’opposizione, infine, preferirebbe aspettare momenti più propizi per accollarsi un impegno governativo, così gravoso in circostanze come queste. Bersani, negli ultimi mesi, si è guadagnato sul campo la candidatura del Pd a Palazzo Chigi per le prossime elezioni. Ma il partito sente la pressione di un movimentismo, alla sua sinistra, che per un verso rischia di sedurre, con un facile populismo, una buona quota del suo potenziale elettorato e, dall’altra, potrebbe riportarlo ai tempi nefasti delle «gioiose macchine da guerra». In queste condizioni, sono inutili gli appelli al bon ton governativo, perché non si può immaginare che le forme non rispecchino la sostanza di questa implosione governativa. Come gli appelli alle responsabilità istituzionali, perché le virtù morali dei singoli sono già abbondantemente messe in dubbio dalle cronache quotidiane. E’ più interessante cercare la risposta a una domanda: stiamo assistendo alla fine del berlusconismo o alla fine del sistema della seconda Repubblica? L’offensiva della magistratura sulla politica ricorda l’epoca di «Mani pulite». Il distacco dei leader dagli umori degli italiani, dimostrato anche nei recenti referendum, fa pensare agli inviti craxiani di «andare al mare». Il dilagare di forme nuove nella protesta antipartitica rievoca l’epopea del «popolo dei fax». E’ vero che la storia non si ripete e, forse, la memoria è d’inciampo per scrutare il futuro. Ma la seduzione dei ricordi, qualche volta, è davvero troppo forte. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8958&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #96 inserito:: Luglio 21, 2011, 11:32:26 am » |
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21/7/2011 La fine di un'illusione LUIGI LA SPINA Può sembrare un paradosso. In una giornata politica di fortissima tensione, con le aule parlamentari ribollenti di urla, litigi al limite dello scontro fisico, e sintetizzata persino da un pugno sul tavolo sferrato dal presidente del Consiglio, i veri protagonisti sono stati due: una assenza e un lungo silenzio. La prima è stata quella di Umberto Bossi. Il secondo è stato quello che ha accolto il sì della Camera all’arresto di un suo componente. L’assenza certificava l’impossibilità, da parte del leader della Lega, di mantenere quel patto con Berlusconi che ha varato la legislatura e ha sostenuto per tre anni il governo. Il silenzio esprimeva la sorpresa, lo sconcerto, il disorientamento, quasi il panico dei deputati che assistevano alla fine di quell’intesa senza che se ne potesse intravedere un’altra. Come gli capita troppo spesso negli ultimi tempi, il presidente del Consiglio non aveva capito che gli umori del Paese avrebbero messo alle corde la resistenza del partito di Bossi. Così, i suoi pronostici ottimistici, fondati su un voto segreto che avrebbe dovuto mascherare il tradimento dei leghisti rispetto alle dichiarazioni ufficiali, si sono scontrati, ancora una volta, con una realtà che sembra ormai sfuggirgli. Eppure, gli sarebbe bastato notare quella mancata presenza e il plateale spostamento di Maroni dai banchi del governo a quelli del suo gruppo alla Camera per comprendere che nella Lega si è chiusa una stagione e, con essa, forse anche una legislatura. Occorreva un’occasione importante perché l’azionista di riferimento di questo governo, la Lega, mandasse questo segnale di distacco al suo amministratore delegato, Silvio Berlusconi. E la giornata alla Camera, ieri, è stata addirittura drammatica e dall’esito sconvolgente, perché da quasi trent’anni l’assemblea di Montecitorio non spediva un suo deputato dietro le sbarre di un carcere. Ma l’esito non era certo prevedibile per chi si fosse ostinato a seguire solo le liturgie del Palazzo, collaudate in anni di accordi trasversali, tra tutti i partiti, per difendere ad oltranza chiunque, tra quelle mura, fosse indagato anche con gravissime accuse. Bisognava intuire che la pressione dei cittadini contro una classe politica, apparsa inadeguata rispetto alla gravità dei problemi del Paese e indifferente di fronte ai sacrifici imposti, avrebbe sconvolto l’ordinario rito corporativo delle Camere e spezzato l’anello più sensibile della maggioranza, il partito della Lega. Solo i prossimi mesi chiariranno se l’assenza di Bossi, ieri nell’aula di Montecitorio, abbia avuto anche un altro significato: quello del passaggio di testimone di una leadership così carismatica e, fino a poco tempo fa, del tutto indiscussa. Se sarà Maroni a ereditare la guida della Lega o se la lotta per la successione provocherà una guerra fratricida, con una conclusione, magari, del tutto sorprendente. Ma il motivo di fondo del cambio di rotta clamorosamente annunciato ieri è già abbastanza chiaro: è finita, nella Lega, l’illusione che, pur di conquistare il federalismo, valesse la pena sopportare il sempre più faticoso appoggio a Berlusconi, alle sue leggi ad personam, ai suoi stili di vita, ai suoi metodi di governo. Per una contraddizione evidente e molto concreta: da una parte, gli effetti positivi per il Nord del federalismo fiscale appaiono lontani e molto dubbi, man mano che i decreti attuativi vengono approvati; dall’altra, tutti i tagli e le manovre del governo finiscono per penalizzare soprattutto le risorse degli enti più vicini al territorio, Comuni e Regioni. Con il risultato, reso evidente del voto delle amministrative, di una rivolta degli elettori della Lega, costretti a subire riduzioni dei servizi locali, senza vedere vantaggi da un sogno federalista rivelatosi assai deludente. E’ difficile prevedere se, in questa situazione di sbando parlamentare e governativo, la maggioranza numerica che sostiene Berlusconi, pur con la clamorosa eccezione del voto di ieri alla Camera, potrà resistere ancora. Certo il segnale lanciato dalla Lega, alla Camera, è molto forte. Ma più determinante per la sorte della legislatura sarà, forse, l’andamento dei mercati nelle prossime settimane. L’esito del vertice europeo, formalmente convocato per il salvataggio della Grecia, ma dedicato soprattutto alla difesa dell’euro, potrebbe aiutare anche il nostro governo, così traballante. Ma il logoramento politico di questi giorni, tra sconfitte parlamentari e dilagante sfiducia dei cittadini, non aiuta a offrire al mondo l’immagine di un’Italia pronta a superare una delle crisi più difficili della sua storia. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9003
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« Risposta #97 inserito:: Settembre 02, 2011, 10:13:34 am » |
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1/9/2011 Preoccupante vuoto di potere LUIGI LA SPINA Al di là dell’imbarazzante retromarcia sul riscatto degli anni di università o di leva ai fini della pensione, un caso in cui il dilettantismo e l’improvvisazione hanno sicuramente superato ogni limite, quello che colpisce in queste settimane di fine estate è un’impressione più preoccupante. Il drammatico scarto, cioè, fra la gravità dei problemi dell’Italia e il livello di consapevolezza politica, di competenza professionale e di responsabilità morale con i quali chi ci governa affronta una situazione certamente molto difficile. Il nostro Paese, infatti, soffre di tutti i problemi finanziari, economici e sociali dell’Europa e dell’intero Occidente con l’aggravante di due cospicui handicap rispetto alle altre nazioni: un pesantissimo debito pubblico e un livello di crescita nettamente inferiore. Ridurre il peso del primo sui conti dello Stato senza innescare una recessione, anzi cercando di stimolare investimenti e consumi, è compito arduo, soprattutto in una società come la nostra, dove il potere delle corporazioni sulle scelte della politica è molto forte. In queste condizioni, solo l’autorevolezza e la credibilità di una intera classe politica e, soprattutto, della sua espressione governativa potrebbe convincere i due fondamentali interlocutori, le istituzioni internazionali e i cittadini italiani, di essere in grado di fronteggiare la situazione. Occorre dimostrare ai primi di aver compreso la gravità dell’emergenza in cui si trova l’Italia e di avere la forza e il coraggio di imporre le misure indispensabili. Ai secondi è necessario parlare con la serietà che il momento richiede e non nascondere la verità, amara ma incontrovertibile: per riprendere il cammino della crescita sono necessari sacrifici, ma di tutti. Certamente graduati secondo le disponibilità economiche di ciascuno, senza illudere, però, che i problemi possano essere risolti con qualche estemporanea trovata punitiva contro chi è meno caro ai partiti della maggioranza o con le solite promesse di un radioso futuro in cui gli evasori saranno finalmente scovati e la politica sarà capace di tagliare i suoi costi. Promesse a cui ormai nessuno, neanche il più ingenuo, crede più. Lo spettacolo che la politica italiana offre alle istituzioni finanziarie internazionali, ai Paesi partner dell’eurozona e soprattutto ai cittadini è, a dir poco, sconcertante. I due leader della maggioranza governativa, Berlusconi e Bossi, sono apparsi, nei giorni scorsi, silenti e persino defilati, proprio quando ci sarebbe la necessità di esercitare una guida energica, lucida, autorevole. Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, a suo agio nelle discussioni intellettuali sui destini del mondo, sembra patire un oscuramento preoccupante, non si sa se dovuto ai guai giudiziari che l’hanno sfiorato o all’offensiva che una parte del suo partito sta conducendo contro di lui. Con risultati, in ogni caso, negativi. Perché questa offensiva non è sufficiente per costringerlo alle dimissioni, ma è sufficiente per metterlo in grande difficoltà. Questo sostanziale vuoto di una leadership all’altezza del grave momento in cui si trova il nostro Paese ha prodotto una confusione di idee assoluta, in cui la modestia delle competenze e l’irresponsabilità dei ruoli garantiscono una sfrenata libertà alla fantasia. Si avanzano proposte, come quest’ultima sugli anni di studio per raggiungere la pensione, senza calcolare le conseguenze economiche, valutare i rischi di incostituzionalità, comprendere gli enormi danni nel rapporto tra i nostri concittadini e lo Stato che una norma del genere avrebbe arrecato. L’unica preoccupazione sembra quella di scaricare i sacrifici su quella categoria che è più lontana dal proprio elettorato. Così il compromesso, soluzione inevitabile e anche accettabile quando riesce a evitare troppe ingiustizie, diventa una trappola, perché si trasforma in un veto di tutti contro tutti. Il risultato è inevitabile: la manovra non c’è più e i conti non tornano. Allora, almeno così pare, si dovrà ricorrere all’arma finale: l’aumento dell’Iva. Come tutte le armi finali, con effetti dirompenti. Sicuramente utili per garantire i saldi promessi all’Europa, ma rischiosi per i già modestissimi livelli di crescita economica del nostro Paese. E’ comprensibile che un governo, qualsiasi governo, si preoccupi delle conseguenze elettorali, quando decide provvedimenti che comportano sacrifici. Ma è incomprensibile come non si capisca come questo modesto carosello di proposte, pasticciate e incoerenti, suscitino negli italiani una irritazione e una indignazione ben maggiore di quella che produrrebbe un serio appello alla responsabilità collettiva. Peccato che i nostri politici disprezzino così tanto l’intelligenza e la maturità di coloro che governano. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9150
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« Risposta #98 inserito:: Settembre 07, 2011, 05:28:57 pm » |
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7/9/2011 Il nodo politico da sciogliere LUIGI LA SPINA In Italia, da un mese si recita sempre lo stesso copione. In agosto, era stato il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, a sollecitare urgenti misure di risanamento finanziario. La risposta fu, a parole, rassicurante, ma, nei fatti, poco credibile. Allora, i mercati fecero subito capire qual era l’opinione internazionale sull’atteggiamento del nostro governo e la Borsa consegnò a Berlusconi il suo ultimatum. Nuove promesse e nuovi dubbi sulla serietà di quelle intenzioni. Intanto, si susseguivano imbarazzanti giravolte governative sulle misure da prendere. Poi, è stato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a intervenire qualche giorno fa, suggerendo, in maniera molto autorevole e pressante, un inasprimento dei provvedimenti. Infine, è arrivato il colpo da ko dell’impressionante differenziale di rendimento dei nostri titoli di Stato rispetto a quelli tedeschi, una sanzione sui nostri interessi che ha costretto il governo a varare quelle misure alle quali sperava di non dover ricorrere. Ma ora, la domanda angosciosa è: arrivate solo adesso, basteranno per convincere mercati e autorità finanziarie straniere che l’Italia si è decisa a far sul serio? Al di là della discussione sull’efficacia e sull’equità della manovra decisa dal governo, nella sua ultima e speriamo definitiva versione, il problema dell’affidabilità del nostro Paese in ambito internazionale non è tanto tecnico-finanziario, ma è un problema politico. Per spiegarlo, può essere utile far riferimento a quell’ accostamento dell’Italia alla Grecia fatto dalla Merkel nei giorni scorsi e che ha così tanto sorpreso e irritato i leader della maggioranza. Sorpresa e irritazione raddoppiata ieri, quando Luis Zapatero, il capo del governo spagnolo, ha rimproverato l’Italia di non aver seguito, in una situazione simile, l’esempio di severità mostrato dal suo Paese al mondo. E’ vero che il debito pubblico in quella nazione iberica è molto inferiore al nostro, ma la fiducia internazionale sulle capacità di risanamento della Spagna si è consolidata quando Zapatero, che come Berlusconi aveva per molto tempo sottovalutato la gravità della crisi economica, ha concesso le elezioni e ha promesso di non ricandidarsi. Lo sblocco della situazione politica ha contribuito ad assicurare il sostanziale appoggio dell’opposizione ai provvedimenti governativi e, soprattutto, ha tolto a Zapatero l’ossessione degli effetti elettorali che potrebbero determinarsi a seguito di quelle misure. In Italia, la situazione è del tutto diversa. I partiti della maggioranza non solo contano di riuscire ad affrontare le attuali difficoltà senza perdere il consenso del Parlamento e, quindi, di poter arrivare alla normale scadenza della legislatura, fra due anni. Ma, è proprio sull’allungamento dei tempi del verdetto elettorale che possono sperare in una riconferma della loro supremazia alle Camere. Perché, in caso di un voto ravvicinato, come tutti i sondaggi indicano, le loro probabilità di vittoria sarebbero minime. Le incertezze sulla ricandidatura di Berlusconi, infine, alcune volte esclusa, altre volte riaffermata con sicurezza, accentuano l’irrigidimento di un quadro politico, precario nella sostanza, ma senza visibili alternative. Così, le opposizioni assicurano la loro disponibilità a contribuire alla manovra con una contropartita che Berlusconi evidentemente non può accettare, cioè il suo harakiri a Palazzo Chigi. Per di più, come si è visto ieri, si uniscono a un discutibile sciopero generale proclamato dalla sola Cgil. Con il risultato di offrire il fianco alla facile accusa di irresponsabilità in un momento in cui, invece, dovrebbero mostrare consapevolezza della necessità di sacrifici per tutti. Infine, le varie corporazioni degli interessi, quelle che impediscono in Italia una politica di vere riforme, trovano vita facile nell’opporsi a qualsiasi cambiamento, perché sfruttano sia la debolezza di una maggioranza terrorizzata dal rischio elezioni, sia l’opportunismo delle minoranze che non vogliono aiutare il governo senza averne un qualche vantaggio. Conseguenza del «fermo immagine» sul film della nostra politica è la sostanziale subalternità dell’Italia al giudizio degli altri. Non solo quando le decisioni sull’economia paiono dettate dalle autorità finanziarie europee e dai governi nostri partner nell’eurozona. Ma soprattutto quando l’efficacia e la credibilità delle misure che, infine, il nostro governo assume, non dipendono dal parere del Parlamento che sta a Roma o dalle opinioni dei connazionali che devono accettare quei sacrifici, ma dalle valutazioni che si fanno oltre i nostri confini. Può sembrare ingiusto e persino umiliante che ciò avvenga, ma non è detto, dopotutto, che sia un male. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9170
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« Risposta #99 inserito:: Ottobre 01, 2011, 03:33:18 pm » |
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1/10/2011 Un fossato tra il Paese e il governo LUIGI LA SPINA Ancora una volta, la grande sensibilità ed esperienza politica del Capo dello Stato ha individuato il problema più grave dell’Italia d’oggi: il distacco e la profonda sfiducia dei cittadini nei confronti di chi li governa. Così va intesa la sollecitazione di Giorgio Napolitano a una riforma elettorale che restituisca al popolo il giudizio sui propri rappresentanti alle Camere e tolga alle segreterie dei partiti il potere assoluto di nominarli in Parlamento. Ma anche la sua nuova, durissima condanna di chi, di fronte ai veri problemi del nostro mondo globalizzato, favoleggia soluzioni fuori dalla realtà, come quella della secessione padana. Quest’estate che sembra non voler più finire ha acuito l’impressione dell’assoluta solitudine degli italiani rispetto alla loro classe politica. Preoccupati per la sorte dei loro risparmi, per il futuro dei loro figli, per il clima di disorientamento che si diffonde, tra annunci di imminenti catastrofi e rassicurazioni assai poco credibili, avvertono la sconcertante sordità del loro governo e la desolante impotenza della loro opposizione. La sensazione è quella di un Paese abbandonato a se stesso, aggrappato alla speranza che la tutela interessata dei partner europei basti a salvarlo e la supplenza di autorevolezza e di credibilità del Presidente della Repubblica sia sufficiente per preservarne l’onore internazionale. Berlusconi, i suoi ministri e la sua coalizione partitica paiono racchiusi come in un bunker di totale isolamento rispetto a quello che avviene fuori dal perimetro della Roma politica. Questa specie di autismo governativo viene rafforzato ogni volta che, con il voto palese, le Camere ribadiscono, con puntualità sistematica, la quota di una sempiterna maggioranza. Una maggioranza che sfida con successo le accuse di connivenze mafiose nei confronti di uno dei suoi ministri, di corruzione nei riguardi di un suo rappresentante, stretto collaboratore del titolare dell’Economia, e che sostiene, a colpi di fiducia, i provvedimenti del suo governo. Vittorie che irridono i patetici tentativi dell’opposizione di ottenere un ribaltone parlamentare, aggravandone le divisioni ed esasperando i suoi caratteri litigiosi e inconcludenti. Ma che hanno soprattutto l’effetto di autorizzare la chiusura di ogni ascolto agli umori dell’opinione pubblica, con la ripetizione di quello che è ormai diventato un «mantra» autoassolutorio: «Finché i numeri alle Camere lo confortano, il governo ha sempre ragione». La più significativa conferma di questo fossato che si sta scavando tra il Paese e il governo è venuta ancora ieri, quando si sono registrate le stizzite repliche di alcuni esponenti della maggioranza al piano per la crescita proposto dalla Confindustria e da altre rappresentanze imprenditoriali. Le proposte della Marcegaglia, certo, possono e debbono essere discusse ed è naturale che suscitino consensi e dissensi. Quello che ha colpito, però, è il distacco che si è creato con un mondo, quello delle forze produttive della nostra società, che, per anni, ha costituito uno dei punti di riferimento del berlusconismo nel nostro Paese. Quanto è lontano l’entusiastico consenso di quell’assemblea confindustriale di Vicenza, nel 2006, che elesse l’attuale presidente del Consiglio suo paladino, dal secco ultimatum intimato dalla Marcegaglia al governo. Ma quanto è lontano, soprattutto, l’atteggiamento risentito e quasi sprezzante verso il presidente degli industriali italiani da parte di un ministro come Sacconi, da sempre beniamino di ogni platea confindustriale. Ecco perché sembra davvero che il fortino in cui si è chiuso il governo, nella sua orgogliosa autosufficienza parlamentare, abbia sollevato tutti i ponti levatoi. Anche quelli con i suoi tradizionali alleati e scambi pericolosamente la garanzia della sua esistenza con l’efficacia della sua azione. Dentro quelle mura si agitano duelli personali e politici, come quelli che combattono Tremonti e Berlusconi. Si sentono echi di battaglie infinite, come quelle tra la magistratura e il presidente del Consiglio. Risuonano nomi di donne e voci di allegri festini. Si percepiscono persino felpati avvertimenti, come quelli inviati dalla Chiesa italiana nei confronti di un certo «costume», chiamiamolo così, politico. Fuori, oltre il fossato, stanno gli italiani, osservatori smarriti di lotte furiose, ma lontanissime dalle loro più urgenti preoccupazioni. La sera, le tv, moderni cantastorie, raccontano le solite favole. Ma ormai non incantano più. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9264
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« Risposta #100 inserito:: Ottobre 13, 2011, 12:05:55 pm » |
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13/10/2011 Balletto di viltà politica LUIGI LA SPINA La liturgia della crisi ha compiuto un altro importante passo, ma non è detto che sia arrivata all’ultimo. E’ possibile che il nuovo ricorso di Berlusconi al voto di fiducia, col voto palese della Camera, consenta domani il prolungamento di un’agonia che ormai contrasta, in maniera insopportabile, con l’urgente necessità di una forte guida del Paese. Un governo che aiuti l’Italia a superare uno dei momenti più difficili della sua storia repubblicana. Capace di imporre decisioni certamente impopolari, ma che abbia la credibilità e l’autorevolezza di farle accettare, sia dalle autorità finanziarie europee, sia dai mercati internazionali. Certo, i due comunicati con i quali il Presidente della Repubblica ha espresso la sua grave preoccupazione per le conseguenze della bocciatura sul rendiconto del bilancio dello Stato impediscono, da un lato, scappatoie tecnico-procedurali e, dall’altro, costringono tutti ad assumersi responsabilità politiche finalmente chiare. Napolitano, infatti, col primo, ha chiesto al governo di non limitarsi a esibire una maggioranza numerica alla Camera, ma a dimostrare di essere in grado di fornire «risposte credibili» alle esigenze del Paese. Col secondo, ha ricordato che spetta all’esecutivo riuscire a individuare una soluzione, corretta giuridicamente e politicamente accettabile, rispetto al voto sul consuntivo di bilancio e spetta al Parlamento il giudizio sulla ammissibilità di tale soluzione. Con questa specie di ultimatum istituzionale, il capo dello Stato, insomma, vuol mettere fine a quel triste e meschino balletto di vera e propria viltà politica che, in questi mesi, sta sfaldando il governo, ma anche il Parlamento, e che riguarda un po’ tutti. A partire da un presidente del Consiglio che non si rende conto di non poter più contare su una maggioranza tale da consentirgli di assumere quelle decisioni che sarebbero indispensabili per affrontare la crisi. Per proseguire con deputati che, quando costretti dal voto palese, non rinnegano la loro fiducia a Berlusconi. Ma, appena possono farlo senza assumersi pubblicamente la responsabilità di provocare la caduta del governo, colgono tutte le occasioni, anche le più importanti, per manifestare il loro dissenso e il loro malcontento. Per finire con un’opposizione che, divisa tra la volontà di andare subito a nuove elezioni e quella di aiutare la formazione di un nuovo esecutivo, «tecnico» o di «decantazione» come è più di moda definirlo adesso, non offre all’opinione pubblica un accordo, concreto e praticabile, né di politica economica, né di riforma elettorale. Vedremo se, in questi giorni cruciali per affrontare una situazione finanziaria che, come ha ricordato il governatore uscente della Banca europea, Jean-Claude Trichet, si è aggravata drammaticamente, l’appello all’assunzione di responsabilità lanciato da Napolitano avrà ottenuto l’effetto di far uscire un po’ tutta la nostra classe politica dall’opportunismo più miserevole. Quello che si occupa, per esempio, solo del calcolo, peraltro molto imprevedibile, sulla posizione più favorevole per ottenere un posto alle Camere anche nella prossima legislatura. Ma il governo, se anche questa volta dovesse trovare la fiducia a voto palese, sarà comunque costretto a dare la vera risposta a Napolitano entro la fine del mese. Quando dovrà presentare, infatti, le misure per lo sviluppo dell’economia. Sarà questa la prova di poter ancora pretendere di governare il Paese. Ma non sarà facile, perché Berlusconi dovrà scegliere tra due alternative altrettanto scomode. O sconfessare Tremonti, e Bossi che sostiene a spada tratta il ministro dell’Economia, trovando le risorse necessarie, con il condono fiscale ed edilizio o con la patrimoniale, e magari con tutti e due. Una soluzione che rischia contraccolpi drammatici sui mercati finanziari, per le obbligate dimissioni di Tremonti e il probabilissimo distacco della Lega dalla maggioranza. O varare provvedimenti «a costo zero», come vuole il suo più autorevole ministro, ma con effetti pratici così ridotti sulla situazione dell’economia nel nostro Paese da perdere qualunque residua credibilità nei confronti sia dei cittadini italiani, sia della comunità politica e finanziaria europea. Tra tante incertezze e tante preoccupazioni, i prossimi giorni daranno a tutti noi almeno una consolazione: quella di vedere protagonisti e comprimari della nostra scena politica essere costretti a gettare la maschera delle ambiguità. Magari lo spettacolo non sarà edificante, ma, di questi tempi, bisogna sapersi accontentare. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9315
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« Risposta #101 inserito:: Ottobre 26, 2011, 05:14:36 pm » |
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26/10/2011 La coerenza negoziabile LUIGI LA SPINA In politica fare previsioni è sempre azzardato. Ma rispondere alla domanda che tutti si fanno, in queste ore, è davvero impossibile. Perché l’esistenza del governo è appesa non solo al filo della difficilissima intesa con la Lega sulle pensioni, ma alla credibilità delle promesse contenute nella lettera che il premier, oggi, si porta in tasca per presentarla al nuovo vertice europeo. Se l’accordo, o il mezzo accordo, proclamato ieri sera porterà solo aggiustamenti minimali e poco incisivi al nostro sistema previdenziale, la reazione dei nostri partner stranieri e, soprattutto, quella dei mercati finanziari potrebbe sopraffare il desiderio della coppia Berlusconi-Bossi di evitare, in questo momento, le elezioni anticipate. C’è un’unica scienza, invece, in grado di prevedere il futuro, almeno quello prossimo, con sufficiente attendibilità: la demografia. Una disciplina del tutto trascurata dai nostri politici, perché ha due caratteristiche molto scomode. Non consente quella flessibilità d’interpretazione che aiuta a giustificare le tesi più disparate e, soprattutto, le giravolte più spericolate. Ma ha un difetto, poi, davvero imperdonabile: si occupa, appunto, del futuro. Un tempo che proprio non interessa quella politica così ossessivamente preoccupata del consenso che si raccoglie oggi, non della gratitudine che si otterrà domani. Ecco perché è spesso sulle pensioni che i governi si spaccano o rischiano di spaccarsi e perché, su questo argomento, la confusione delle idee e, soprattutto, la contraddizione delle parole è sempre al massimo. Eppure, la negletta demografia parla con un linguaggio che tutti capiscono e che si può riassumere in pochi dati. In Italia stanno andando in pensione le classi più numerose, quelle del «baby boom» scoppiato dal dopoguerra alla fine degli Anni 60. Il nostro Paese ha, tra quelli più sviluppati, un solo record, quello degli anni in cui si gode la pensione. Un risultato ottenuto da quasi due primati, quello della fine precoce del periodo di lavoro e quello della più lunga aspettativa di vita. Gli italiani, in media, usufruiscono della pensione per 23 anni; le italiane addirittura per 27. Con un mercato del lavoro che registra un’alta percentuale di disoccupazione giovanile e una spesso lunga precarietà, le vie d’uscita, se non si vogliono tagli drastici agli incassi mensili dei pensionati, sono solo due: o si alza l’età in cui si smette di lavorare o ci si deve augurare un’epidemia che colpisca gli anziani del nostro Paese in maniera micidiale. Le altre nazioni europee, scartando evidentemente la seconda strada, hanno già provveduto a imboccare la prima. I motivi per cui, in Italia, si fa così fatica ad accettare la scontata conseguenza di quanto ci dice la demografiasono altrettanto semplici. Sindacati e politici difendono i loro iscritti e i loro sostenitori. I primi hanno ormai una maggioranza composta da pensionati o pensionandi e rappresentano soprattutto coloro che lavorano in aziende mediograndi,con contratti a tempo indeterminato. I secondi non hanno nessun interesse ad accaparrarsi il consenso delle future generazioni. Per capirlo non serve la matematica, basta l’aritmetica: i giovani, rispetto agli anziani o ai quasi anziani, sono pochi e non conviene barattare il suffragio dei tanti che desiderano smettere il più presto possibile di lavorare con i consensi, labili e futuribili, di elettori che, magari, non saranno più chiamati a votare per loro. Gli effetti politici di questa realtà sono evidenti nella confusione, nella demagogia, nelle contraddizioni dei principali protagonisti della nostra classe politica. Cominciamo dalla Lega, anche perché l’attualità giornalistica dello scontro nella maggioranza l’impone. C’era un suo ministro, nel 2004, che non era un omonimo di Roberto Maroni, ma era proprio lui, l’attuale capo del dicastero dell’Interno, che firmò una legge sul cosiddetto «scalone» pensionistico. Prevedeva l’immediato e drastico (di ben 3 anni) innalzamento dell’età per smettere di lavorare. Ma quella legge, sostenuta e varata con convinzione dall’allora ministro del Welfare, sempre lui, Roberto Maroni, fu abrogata, tre anni dopo, dal centrosinistra arrivato al governo. Se quel provvedimento fosse stato attuato, non avremmo risolto, magari, tutti i nostri problemi previdenziali, ma sicuramente saremmo molto più avanti sulla strada per risolverli. E’ perlomeno curioso che, oggi, sia lo stesso Maroni ad affiancarsi a Bossi nella resistenza fermissima a «toccare le pensioni». Come sorprende la disponibilità del Pd, ora, ad accettare la drastica cura che ci chiede l’Europa sul tema, visto il passato atteggiamento di quel partito, determinante per ottenere la cancellazione di una legge che andava proprio incontro a quelle esigenze. E’ proprio vero che la coerenza, in politica, è una virtù, per usare un lessico vaticanesco, del tutto «negoziabile». Dipende dalla posizione parlamentare, in maggioranza o all’opposizione, non dal merito della questione a cui si è di fronte. Tanto alle capriole si trova sempre una giustificazione. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9366
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« Risposta #102 inserito:: Novembre 03, 2011, 05:10:18 pm » |
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3/11/2011 Il vuoto di responsabilità collettiva LUIGI LA SPINA In un momento tra i più difficili della storia repubblicana, la nostra politica sembra svolgersi su due piani diversi, su due mondi quasi incomunicabili. Da una parte, il governo cerca affannosamente di presentarsi al vertice di Cannes con qualche impegno che dimostri la sua capacità di affrontare una situazione drammatica. Nel tentativo disperato non solo di convincere i capi degli altri 19 Paesi più importanti del mondo, ma soprattutto i mercati e la speculazione finanziaria. Dall’altra, l’unica figura rispettata e autorevole riconosciuta dalla comunità internazionale tra la nostra classe politica, cioè il Presidente della Repubblica, guarda, con una serie di consultazioni straordinarie, al dopo Berlusconi. Ieri, la rappresentazione sui due palcoscenici della politica italiana non poteva essere più esplicita. Le riunioni convocate dal presidente del Consiglio si svolgevano sulla base del copione ormai consueto negli ultimi mesi di questo ministero: scontri verbali molto duri tra Berlusconi e Tremonti, con accuse reciproche di essere i principali responsabili della mancanza di credibilità dell’azione governativa, minacce incendiarie di Bossi, caccia all’ultimo deputato incerto per convincerlo a rinsaldare l’esangue maggioranza su cui precariamente ancora si regge il governo. Una scena continuamente interrotta dalle voci più incontrollate sui provvedimenti che sarebbero stati varati nella notte, dal prelievo forzoso sui conti correnti alle varie forme che potrebbe assumere la cosiddetta «patrimoniale». Sul Colle, come familiarmente il gergo politico chiama il palazzo della presidenza dello Stato, prendeva forma, di fatto, una nuova configurazione dei poteri italiani: la guida semipresidenziale di un Paese in stato d’emergenza. Napolitano convocava i partiti della maggioranza e quelli dell’opposizione, si consultava col nuovo governatore della Banca d’Italia e con il nuovo presidente della Banca europea, parlava con i principali partner stranieri. Così, nel rispetto formalmente rigoroso dei rispettivi compiti tra Palazzo Chigi e il Quirinale, il presente e il futuro della politica italiana sembrano non aver alcun rapporto tra di loro. Come avviene tra le rassicurazioni, le promesse, le illusioni, le speranze di cui si riempiono la bocca i leader dei partiti di governo e la spietata realtà delle tragiche cifre che compaiono sugli indici della Borsa e, soprattutto, su quei numeri angosciosi di una parola straniera che tutti hanno imparato ormai a conoscere, lo «spread», annuncio di sventura per la categoria più numerosa tra gli italiani, quella dei possessori di titoli di Stato. Eppure, c’è un decisivo legame tra i due luoghi in cui si svolge lo scenario della politica italiana: il tempo. Il governo sembra aver esaurito il tempo per varare provvedimenti tali da risultare affidabile agli occhi della comunità internazionale e a quelli dei mercati. Napolitano, invece, ha bisogno di tempo per costruire il futuro del dopo Berlusconi. Il rischio, a questo punto, può essere drammatico, perché la realtà di una situazione europea che sembra ormai ingovernabile potrebbe negare proprio il tempo, sia ai tentativi di resistenza alle dimissioni da parte di Berlusconi, sia alla preparazione di un’alternativa politica a questo governo. Il pericolo maggiore, allora, è proprio quello del vuoto di responsabilità collettiva. Uno scenario in cui anche Napolitano rimarrebbe solo, impotente davanti al rifiuto, da parte di tutti, del sacrificio di un interesse personale per la salvezza del bene comune. Un’ipotesi purtroppo da non scartare, se Berlusconi si ostinasse a non voler vedere la realtà, quella di una sua credibilità internazionale ormai compromessa e se le opposizioni si rifiutassero di consentire il varo di quei provvedimenti, dolorosi sì, ma indispensabili per garantire all’Europa la volontà di rispettare le condizioni per restare nel sistema dell’euro. Se questa fuga nell’irresponsabilità avvenisse davvero, nulla si può escludere. Perché adesso non basta più l’esperienza del passato per cercare di prevedere il futuro e tutte le convinzioni sulle quali, per decenni, siamo stati abituati a fondare le nostre sicurezze sono state spazzate via dai cambiamenti di un mondo di cui ancora non conosciamo le nuove regole. Purtroppo, i governatori di questo mondo, quelli della nostra Europa, ma anche quelli fuori dal nostro Continente, non sembrano all’altezza del compito. Come se la malattia italiana, la mediocrità delle ambizioni e la miopia degli interessi, avesse contagiato i cosiddetti «grandi della terra». Speriamo davvero che dal vertice di Cannes ci arrivi una solenne smentita. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9392
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« Risposta #103 inserito:: Novembre 12, 2011, 12:13:24 pm » |
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12/11/2011 Un'opportunità per la politica LUIGI LA SPINA S’ode a destra uno squillo e a sinistra risponde uno squillo: allarme, la democrazia è in pericolo. In questi giorni, mentre Mario Monti si appresta a formare un nuovo governo, dai lati estremi degli schieramenti politici e giornalistici italiani si è levato davvero un coro, come quello di manzoniana memoria, che denuncia il deficit di consenso democratico della soluzione alla crisi che si va profilando. Alcuni, dotati di maggiore vis polemica o di maggiore immaginazione, si sono spinti addirittura a lanciare il grido d’allarme per un presunto «golpe» contro le istituzioni democratiche del nostro Paese. Di fronte a queste compunte e sdegnate preoccupazioni si oppongono, in genere, due rilievi. Il primo riguarda il fatto che qualsiasi governo, di qualsiasi natura, deve trovare l’approvazione del Parlamento e, con ciò, ottiene la qualifica di «governo politico». Il secondo ricorda che i dieci anni passati da Monti come commissario europeo attribuiscono al candidato in pectore di Napolitano (e di tutta la comunità internazionale) una caratura politica indubbia e collaudata. Le due osservazioni, però, non possono mettere a tacere quella preoccupazione, perché essa coglie un punto di assoluta verità ed esprime un timore del tutto fondato. Perché la politica, non solo in Italia, si è dimostrata incapace di governare i meccanismi dell’economia e della finanza internazionale e impotente davanti agli effetti sconvolgenti di quelle dinamiche sulla vita dei cittadini. Per limitarci al nostro Paese, tutti ormai conoscono le ricette per adeguare la nostra struttura economica, sociale, ma anche politica, alle trasformazioni compiute nel mondo, sul piano della competitività e alla luce dello straordinario allargamento dei mercati avvenuto negli ultimi vent’anni. Ma le forze politiche, nello stesso periodo di tempo, hanno dimostrato una patente inadeguatezza culturale e una manifesta debolezza rispetto a quello che avrebbe dovuto essere il loro compito fondamentale: per dirla come l’ha chiamata Monti, «la riforma dei privilegi e delle rendite nazionali». Quell’Italia corporativa e immobile che ha sconfitto sempre la politica nei suoi timidi e confusi sforzi di cambiamento. I partiti si sono completamente arresi davanti alla forza degli interessi clientelari che rappresentavano. I leader hanno ristretto, sempre di più, la loro visione alle convenienze e ai risarcimenti del presente, rinunciando a qualsiasi ambizione di un progetto futuro. Condannandosi così all’irrilevanza e, appunto, all’impotenza, rispetto alle esigenze di un veloce adeguamento del «sistema Italia» alle sconvolgenti novità delle mutazioni che, nel frattempo, avvenivano sul palcoscenico del mondo. Se questa diagnosi è corretta, la terapia deve ricorrere necessariamente a quell’intervento, più o meno esterno al sistema partitico italiano, che sovente nella storia d’Italia ha permesso, sia il superamento di emergenze economico-sociali drammatiche, sia una modifica, più o meno profonda, della struttura politica e, magari, istituzionale dell’Italia. Per superare il vero e proprio circolo vizioso dell’immobilismo nazionale: l’impossibilità dell’autoriforma della politica. Come si fa davvero a credere che i parlamentari si dimezzino, che i cosiddetti «costi della democrazia» si riducano drasticamente, che si aboliscano privilegi e arroganze di quella che viene comunemente chiamata «la casta» solo con la miracolosa bacchetta magica delle elezioni? Per di più, con una legge elettorale che toglie ai cittadini il diritto di scegliere i loro rappresentanti, consegnando tutto il potere alle segreterie romane? Come si fa a sperare ancora che si possano superare i veti di sindacati e partiti che continuano a privilegiare, nel mercato del lavoro, le garanzie degli iperassistiti, rispetto ai diritti dei giovani e dei precari? O che difendono, come un tabù, quelle pensioni d’anzianità che i mutati andamenti demografici rendono impossibili da sostenere, tanto è vero che costituiscono l’ennesima specialità italiana rispetto ai sistemi previdenziali stranieri. Ecco perché non si tratta di «abolire la politica», o di «sospendere la democrazia», ma di approfittare di una gravissima crisi italiana per avviare un ciclo di politica diversa, capace, proprio per le sue caratteristiche di maggiore libertà rispetto alle esigenze clientelari o semplicemente elettorali, di sconfiggere le «circoscrizioni» che, finora, hanno impedito quei cambiamenti che tutti ormai hanno capito come necessari e urgenti. A questo proposito, è evidente il vantaggio che otterrebbe Monti se riuscisse a contare, nel suo governo, su ministri il più possibile sganciati da esigenze o rappresentanze partitiche. Ma, a pensarci bene, tale distacco avvantaggerebbe anche gli stessi partiti. Non tanto perché eviterebbe le sconvenienze «estetiche» di quelle foto del giuramento davanti a Napolitano, con volti di ex acerrimi nemici costretti agli obbligati sorrisi di una doverosa collaborazione nella nuova squadra ministeriale: l’ipocrisia delle convenienze politiche è sempre più forte di qualsiasi decenza e di qualsiasi coscienza. Quanto perché le impopolari misure che, purtroppo, si preparano nel futuro prossimo degli italiani dovrebbero consigliare una certa lontananza dei protagonisti della nostra politica dai quadretti del «totoministri» che ormai si affacciano da giornali e tv. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9426
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« Risposta #104 inserito:: Novembre 19, 2011, 12:00:41 pm » |
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18/11/2011 Spagna-Italia, le divergenze parallele LUIGI LA SPINA Proprio mentre l’Europa e la sua moneta affrontano la crisi più grave della loro storia, i Paesi della sponda mediterranea, i primi imputati al tribunale dei mercati finanziari, cambiano i loro governi. Dopo la Grecia, in Italia, Mario Monti si appresta a ottenere la fiducia del Parlamento. In Spagna, domenica sera, il candidato del centrodestra iberico, Mariano Rajoy, dovrebbe vincere le elezioni con un successo trionfale: tutti i sondaggi, infatti, assegnano al partito popolare addirittura la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera e prevedono, per il partito socialista, la peggior sconfitta della sua storia. Il confronto tra Italia e Spagna, naturale in questo momento di comune difficoltà, è particolarmente interessante perché analogie e differenze tra la situazione dei due Paesi mettono in evidenza il dubbio profondo e inquietante che li unisce, ma anche le diverse ricette a cui Italia e Spagna pensano per esorcizzarlo. L’angosciosa domanda è identica: la campana dei mercati finanziari ha annunciato la fine di un ciclo, quello della cosiddetta «società del benessere», fondata sull’illusione di una crescita illimitata dei consumi, accoppiata a un «Welfare State» capace di garantire una estesa protezione sociale a tutti i cittadini? La risposta di Italia e Spagna a questo interrogativo sembra molto differente, anche perché deriva da una differente condizione economica dei due Paesi e da un differente sistema politico. A questo proposito, bisognerebbe dissipare il grande equivoco che si va diffondendo nell’opinione pubblica europea, quello che nasce da una troppo superficiale assimilazione della fisionomia delle due nazioni. I problemi della Spagna derivano da quella «bolla immobiliare» che ha consentito la straordinaria crescita economica dell’ultimo decennio, ma la cui rottura ha provocato un tasso di disoccupazione che supera il 21 per cento e ha spinto le banche sull’orlo del dissesto. E’ vero che anche per l’Italia la necessità più urgente è quella di un ritorno alla crescita, perché analoghi sono i decimali inferiori all’uno per cento del Pil. Ma sulle spalle dei nostri cugini iberici grava un debito pubblico che non arriva al 70 per cento del prodotto nazionale, mentre quello dell’Italia è poco meno del doppio. Sul piano delle riforme, poi, la Spagna ha già avviato, nell’ultimo periodo dello sfortunato esito della esperienza politica di Zapatero, una serie di modifiche, sia del mercato del lavoro, consentendo una sua maggiore flessibilità, sia del regime pensionistico, con un congelamento dei trattamenti. E’ sul piano politico, però, che il paragone tra i due Paesi rivela diversità ancora più marcate. In Italia, la crisi economico-finanziaria decreta il fallimento di una «seconda Repubblica» fondata su un’alternanza tra schieramenti caratterizzata da una eccezionale esasperazione polemica e da una assoluta impermeabilità dei rispettivi elettorati. Tanto che solo «un governo di tecnici», fuori dalle appartenenze partitiche, può affrontare l’emergenza di un momento così difficile. In Spagna, la scontata vittoria del centrodestra di Rajoy consentirà a un professionista della macchina politica, digiuno di competenze economiche e privo di qualità carismatiche, di pilotare il suo Paese verso quella sponda di salvezza di cui ancora non si vede, per la verità, il profilo sufficientemente chiaro. La campagna elettorale che, stasera, qui si chiude con due comizi di Rajoy e del candidato socialista, Alfredo Pérez Rubalcaba, a Madrid, ha manifestato, per noi osservatori di italici costumi, caratteristiche davvero sorprendenti. Nell’unico «faccia a faccia» in tv, a parte il confronto polemico, duro, ma solo sul merito delle rispettive proposte per uscire dalla crisi, senza insulti personali, né allusioni a misteriosi complotti, Rubalcaba ha, di fatto, riconosciuto l’avversario come il futuro capo del governo. Dal canto suo, Rajoy, ha sfoderato il sorriso del magnanimo vincitore, tutt’altro che disposto a «non fare prigionieri». Sono le più accurate analisi dei probabili flussi elettorali, tra l’altro, a segnare differenze profonde tra un regime di «alternanza matura», come quello del sistema politico spagnolo e la nostra «alternanza rigida», aggressiva e impermeabile. La maggior parte dei voti uscenti dal Psoe, rispetto alle ultime elezioni, non avranno timori, ora, nel «saltare il fosso» e votare direttamente per il Pp. Così come l’appello al voto utile, ripetuto in questi giorni ossessivamente dai leader del partito socialista, sembra non abbia convinto coloro che si apprestano tranquillamente a ingrossare le esili rappresentanze dei partiti minori. Perché il cosiddetto «cambio», il previsto grande successo dei popolari, non spaventa più di tanto, anche nell’opinione pubblica di centrosinistra. Si ritiene, infatti, che tale risultato sia del tutto inevitabile, in un momento in cui la crisi economica e sociale è destinata a punire chi ha governato negli ultimi anni. Ma un simile esito non viene considerato né catastrofico, né foriero di grandissimi cambiamenti. Il vero problema è un altro: anche qui, è generale l’impressione che la terapia, chiunque governi l’Europa d’oggi, non dia troppo affidamento sulla guarigione del malato. DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9447
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