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Autore Discussione: LUIGI LA SPINA -  (Letto 88870 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Ottobre 20, 2010, 04:55:00 pm »

20/10/2010

Gli alibi sono finiti per tutti

LUIGI LA SPINA


L’ordinanza con la quale il Consiglio di Stato ha sospeso il riconteggio dei voti per le regionali in Piemonte non ha, in teoria, valore di un giudizio definitivo.

Ma, nella sostanza, ha chiuso politicamente un brutto pasticcio giuridico-amministrativo, nato da una serie di errori, di pavidità e di furbizie.

Questa catena di colpe che ha avuto il disastroso effetto di gettare un’ombra di precarietà, per sei mesi, sul governo della Regione nasce dal primo, il più grave, sbaglio: quello di aver ammesso al voto alcune liste piuttosto manifestamente irregolari. Il risicato successo del leghista Roberto Cota ha indotto l’ex presidente Mercedes Bresso, solo dopo l’annunciato verdetto, a contestare l’esito elettorale. Mossa formalmente corretta, ma politicamente discutibile.

Dopo il solito guazzabuglio italiano di ricorsi, sospensive, eccezioni, rinvii e in un crescendo di polemiche, accuse, intimidazioni e, persino, di minacce al ricorso alla piazza, del tutto inaccettabili, si arrivava a una sconcertante sentenza del Tar piemontese. Perché, al di là degli scrupoli formali che l’avevano giustificata, l’esito pratico era quello di dare avvio a un irragionevole, costoso, lungo e, alla fine, inutile riconteggio dei voti «incriminati». Una fatica sprecata perché era chiaro, fin dal primo momento, che ben pochi elettori avevano segnato la croce sia sul contrassegno della lista, sia sul nome del candidato presidente collegato a quella lista. La disposizione che prevede l’automatico abbinamento del consenso, salvo l’espresso diritto al cosiddetto voto disgiunto, era ben nota a tutti i cittadini. Anche perché l’avvertimento del ministero dell’Interno si ripete a ogni elezione amministrativa e non ha mai destato né polemiche né dubbi.

L’ordinanza del Consiglio di Stato, emessa ieri sera, cancella quella decisione di giudici che non hanno voluto assumersi la responsabilità di un verdetto rispondente al dettato evangelico della chiarezza, quella di un «sì» e di un «no». Lascia all’auspicabile buon senso dei ricorrenti contro l’elezione di Cota il compito di sgombrare il campo dei tribunali e di riempire di controproposte efficaci l’azione dell’opposizione. Soprattutto impone al presidente Cota e alla sua giunta di confermare, con i fatti e con i risultati concreti, che la campagna elettorale, e anche quella postelettorale, è davvero finita.

Sulla Sanità, il più importante comparto del bilancio regionale, il governatore leghista ha il difficile compito di dimostrare come si possano fare sensibili tagli alle spese senza diminuire il livello dell’assistenza ai cittadini. Sui problemi dell’economia, deve contribuire fortemente all’aumento dell’attrattività del territorio, per rafforzare gli insediamenti produttivi in Piemonte. Nel settore culturale, deve impedire che la «depressione post-olimpica», per certi versi fisiologica, non si trasformi in una patologica recessione, tale da riportare la regione a un passato di grigiore e di isolamento.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7975&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #76 inserito:: Ottobre 28, 2010, 05:26:44 pm »

28/10/2010

Cartellino giallo al governo

LUIGI LA SPINA

Le cifre possono sembrare modeste: per la Torino-Lione si tratta di un taglio di 9 milioni sui 671 stanziati; per la linea del Brennero la sforbiciata è più consistente, perché riduce il finanziamento di circa un quinto. La punizione dell’Europa per i ritardi e le inadempienze dell’Italia sulle grandi opere del trasporto ferroviario non è tale da compromettere, almeno per ora, la realizzazione dei progetti.

Ma la gravità della mossa attuata dalla Commissione sta nel segnale che ha voluto trasmettere, prefigurando lo spettro di una colossale beffa ai nostri danni: il possibile trasferimento dei soldi promessi al nostro Paese ad altre nazioni europee più pronte ad utilizzarli nei loro territori.

Dopo decenni di sostanziale blocco nella costruzione di importanti infrastrutture, l’Italia ha finalmente l’occasione di inserirsi in una grande rete di sviluppo del trasporto delle merci che dovrebbe aprire l’Europa a una nuova fase del mercato internazionale nell’era della globalizzazione. Con il contributo determinante di fondi Ue, il Nord-Ovest e il Piemonte occidentale, in special modo, potrebbe uscire dall’isolamento commerciale che rischia di strozzare il futuro della sua economia e il Nord-Est potrebbe ritornare al ruolo che, per secoli, ha esercitato, cioè quello di costituire la principale porta di comunicazione con l’Europa orientale.

Purtroppo, l’ipotesi del fallimento di questo aggancio italiano all’ultima carrozza di questo treno in partenza, per usare una metafora che, in questo caso, è molto vicina alla realtà, è tutt’altro che scongiurata, perché sull’Alta velocità Torino-Lione, ma anche sulla linea del Brennero, sembrano concentrarsi simbolicamente i tre fondamentali mali d’Italia: l’impossibilità di progettare opere con un’ottica di medio-lungo periodo, la confusione delle responsabilità decisionali, i tempi delle realizzazioni, drammaticamente in ritardo rispetto alla velocità necessaria nel mondo attuale.

La precarietà e l’instabilità che caratterizzano la vita di tutti i governi, anche quelli che, sulla carta, possono vantare maggioranze parlamentari ampie, riducono costantemente la politica a un raggio d’azione molto limitato, perché i vantaggi, in termini di consenso elettorale, si devono raggiungere immediatamente. Alla tradizionale miopia degli obiettivi si è aggiunta una paralisi decisionale che, negli ultimi anni, ha assunto livelli drammatici e persino farseschi. Alla vigilia di una trasformazione federalista del nostro Stato, di cui sono ancora oscuri quali saranno gli effetti concreti, l’intreccio delle competenze tra Stato, Regioni, Comuni, autorità di controllo, magistratura amministrativa, comitati più o meno spontanei, è tale da costituire un ottimo alibi per evitare l’individuazione delle responsabilità. I poteri di veto, formali o sostanziali, sono talmente estesi e incontrollabili che la fondamentale regola della democrazia, cioè il rispetto della maggioranza, è vanificata. Poiché il boicottaggio sistematico operato da qualsiasi minoranza, sia in forme violente sia in quelle della resistenza passiva, riesce sempre a prevalere.

Corollario inevitabile dei primi due mali è il terzo, quello forse più preoccupante: l’Italia è ormai fuori dal ritmo dei tempi. Il segnale che l’Europa ci ha inviato ieri è, in realtà, un ultimatum proprio su questo tema. Non bastano le dichiarazioni di principio, anche quelle solennemente sancite nelle aule parlamentari, senza l’armonizzazione dei nostri orologi con quelli di tutto il mondo. E’ vero che riusciamo a decidere solo sotto l’urgenza di problemi pressanti, che fatichiamo a decidere e, quindi, lo facciamo poco e male. Ma il peccato più grave è l’intollerabile ritardo che rende inutile e, magari controproducente, anche quel poco che riusciamo a fare.

Alla tradizionale ed emblematica incapacità italiana di realizzare le grandi infrastrutture si aggiunge, infine, l’aggravante di una chiara convenienza, questa sì contingente, della nostra economia in questo momento di crisi. Si parla troppo spesso delle difficoltà delle nostre aziende a esportare i loro prodotti, sia per le ragioni di cambio, sia per quelle dei costi. Ma forse andrebbe rivolta più attenzione alla domanda interna, perché se non ripartono i consumi, la ripresa nel nostro paese sarà sempre precaria ed esposta a troppe variabili internazionali. A questo fine, il volano delle grandi opere potrebbe offrire un grande contributo. Come sarebbe importante garantire ai nostri territori del Nord maggiori vantaggi competitivi per attirare investimenti dall’estero, perché la rapidità del trasporto è un fattore decisivo nell’allocazione degli impianti produttivi.

Ecco perché, se proprio i nostri politici non riescono ad alzare la testa e a guardare al futuro dell’Italia nei prossimi cinquant’anni, la tengano pure abbassata. Purché aprano gli occhi.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8012&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #77 inserito:: Novembre 06, 2010, 03:54:35 pm »

6/11/2010

Governatore e ministro: le vite parallele
   
LUIGI LA SPINA

Qualche volta le occasioni capitano. Ma, più spesso, si scelgono. L’ultima applicazione di questa regola l’ha dimostrata, ieri, il governatore della Banca d’Italia, con la sua lezione magistrale all’università di Ancona. Mario Draghi, infatti, ha approfittato del convegno in onore di Giorgio Fuà, il grande studioso italiano dedicatosi soprattutto ai problemi dello sviluppo, per un discorso che ha superato i tradizionali limiti dell’economia, suggerendo una ampia strategia politica per il futuro dell’Italia.

Con la consueta stringatezza, il governatore è riuscito a condensare in tredici cartelle quasi un programma di governo, di cui l’invito finale, citato per intero, basta a fare capire l’ambizione e la difficoltà della sua proposta: «Dobbiamo tornare a ragionare sulle scelte strategiche collettive, con una visione lunga. Cultura, conoscenza, spirito innovativo sono i volani che proiettano nel futuro. La sfida, oggi e nei prossimi anni, è creare un ambiente istituzionale e normativo, un contesto civile, che coltivino quei valori, al tempo stesso rafforzando la coesione sociale». Il profilo di queste parole, cadute, occasionalmente ma significativamente, in un clima di polemiche dominate da temi che, con un eufemismo, potremmo definire «di minore impegno», fanno pensare che la vera futura partita politica si giocherà, probabilmente, sul campo dell’economia.

Con due protagonisti, Draghi, appunto, e il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che, finora, hanno costruito la loro immagine con certosina sapienza e prudenza. In un duello a distanza che è riuscito in una miracolosa impresa, anzi in due. Quella di tenerli lontani da qualsiasi schizzo di fango proveniente dalle cronache politiche d’oggi, sfruttando con abilità silenzi istituzionali quanto mai opportuni. E quella, forse ancor più difficile, di ingaggiare una tenzone cultural-diplomatica che dura da anni, ma i cui altalenanti andamenti non li hanno, come capita spesso, immiseriti reciprocamente.

La competizione tra via Nazionale, sede della Banca d’Italia, e via XX Settembre, dove è collocato il ministero dell’Economia, è riuscita a svolgersi ben fuori dal ristretto perimetro romano in cui gravitano i due palazzoni. Si è proiettata, infatti, su un palcoscenico mondiale che ha assistito, con divertita ma rispettosa curiosità e, magari, con un pizzico di malizia, al balletto di freddi sorrisi e di gelide battute da parte di due personaggi che, nel frattempo, crescevano nella considerazione internazionale.

Le plutarchiane «vite parallele» di Draghi e di Tremonti si sono fronteggiate anche in una sfida culturale che ha fatto uscire l’economia dal suo tradizionale ambito, fatto di aride cifre e di previsioni statistiche spesso smentite dai fatti. Il governatore, assumendo una carica che l’ha costretto a uscire dagli elitari circuiti finanziari tra i quali era più conosciuto, ha progressivamente allargato il suo sguardo all’interesse per i grandi mutamenti demografici, culturali, sociali, tecnologici avvenuti a cavallo dei due secoli nelle nostre società. Il ministro ha pubblicato una serie di pamphlet filosofico-politici sugli effetti della globalizzazione, culminati, l’anno scorso, con il fortunato saggio «La paura e la speranza» che ha suscitato un acceso dibattito, sia in Italia, sia all’estero

A questa comune propensione di Draghi e di Tremonti all’allargamento delle relative iniziali competenze culturali e professionali verso i campi più vasti dell’intera scienza umana si è unita una bizzarra inversione di ruoli nella pratica quotidiana del loro lavoro. Il governatore, pur non abdicando, naturalmente, ai compiti di severità nel giudizio sul controllo dei conti dello Stato ha sollecitato spesso il ministero dell’Economia e, in generale, il governo nel suo complesso a una maggiore sensibilità e attenzione per i problemi della crescita e della modernizzazione della struttura produttiva italiana. Con una particolare preoccupazione per i giovani, angustiati dalla disoccupazione e della precarietà del lavoro. Appello fondamentale, del resto, anche nella lezione anconetana di ieri.

In questa seconda esperienza ministeriale in via XX Settembre, Tremonti, invece, si è caratterizzato soprattutto come un duro custode della contabilità nazionale, fino al punto di diventare il ministro più inviso e temuto dai suoi colleghi, costretti a dolorosi tagli nei loro budget di spesa. Insomma, Draghi sembra aver invaso i compiti del ministro dell’Economia e dell’Industria (quando non era vacante). Tremonti ha indossato i panni del più arcigno banchiere centrale. Il risultato di questi curiosi intrecci tra due personaggi diversissimi per indole, propensioni culturali, stili di vita, storie professionali e umane li pone, così, in prima fila per la candidatura alla guida del futuro politico della nazione. Per meriti loro, naturalmente. Per demeriti altrui, vista la debolezza della nostra attuale classe politica, anche. Soprattutto perché i tempi di crisi sollecitano un vigoroso e coraggioso piano di riforme economiche. Chissà se sarà proprio dalla scienza che Carlyle definiva «triste» che potrà arrivare ai cittadini italiani, nel prossimo decennio, un po’ di felicità.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8049&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #78 inserito:: Dicembre 05, 2010, 09:15:10 am »

5/12/2010

La soluzione è nelle regole

LUIGI LA SPINA

Per chi guardi la politica italiana con l’interesse del cittadino, ma anche con l’esperienza della memoria, le vicende di questi giorni non suscitano preoccupazioni.

La storia repubblicana del nostro Paese, per limitarci a quella, è segnata da ben altre fasi drammatiche, contrassegnate da morti in manifestazioni di piazza, tentativi più o meno velleitari di colpi di Stato, attentati terroristici culminati con il sequestro e l’omicidio di un grande leader, scandali e dimissioni forzate persino di un inquilino del Quirinale. Quello che più colpisce, invece, è l’estrema confusione. Confusione di ruoli, di regole, di confini, di responsabilità, per cui ogni previsione di quanto possa avvenire domani non è resa difficile dalla pluralità delle soluzioni oggi possibili, ma dalla assoluta imprevedibilità dei percorsi che si apriranno per raggiungerle.

In questo clima, anche l’eccitazione verbale dei protagonisti della nostra vita pubblica, come il ricorso al mussoliniano «me ne frego» del coordinatore Pdl, Denis Verdini, più che segnare la temperatura dello scontro politico o il decadimento dell’educazione civile e democratica pare il sintomo del completo sbandamento delle emozioni, alla mercé di avvenimenti senza più un filo logico.

Del resto, basta un collage solo di alcune immagini che si sono susseguite in queste settimane per giustificare lo smarrimento collettivo. C’è un presidente del Consiglio giudicato dalla diplomazia della nazione più potente del mondo (forse ancora per poco) a rischio per il suo eccessivo attivismo notturno. Un presidente della Camera che viene espulso dal partito di cui è stato cofondatore, che ne vara subito un altro, uscendo dalla maggioranza, ma conservando il suo scranno di terza autorità dello Stato. Un leader del maggior partito d’opposizione che scala i tetti col sigaro in bocca. Un ex capo della polizia, ora al vertice dei servizi segreti, che viene accusato nientemeno di complicità con la mafia.

Ecco perché è sbagliato il solito coro di ammonimenti moralistici che puntualmente seguono la solita escalation di insulti, provocazioni, scontri tra vertici istituzionali che si abbatte sulla politica italiana. Sono inutili gli appelli al dialogo, alla moderazione dei toni, al rispetto dell’antico bon ton. Un po’ perché appaiono noiosi e ipocriti, lamenti di vecchi parrucconi che, in realtà, covano furbizie manovriere ed occulte. Soprattutto non colgono, invece, il vero pericolo di questa fase politica che non è l’asprezza dello scontro, ma la difficoltà di trovare il filo d’Arianna per uscire dal labirinto della confusione generalizzata e dell’inazione governativa. Per arrivare a una soluzione di governo che sia in grado di affrontare, con efficacia, la crisi economica internazionale e i suoi pesanti e ancora incerti effetti in Italia.

Osservare rigidamente e persino ossessivamente le procedure, garantire i confini delle responsabilità, assicurare l’effettiva terzietà di quelle istituzioni a cui la Costituzione riserva proprio il compito di dirimere i conflitti, non rappresentano, oggi, scrupoli formalistici e democraticisti, ma i necessari mezzi per poter individuare un percorso utile. Perché solo partendo dal «come» e dal «chi» potremo arrivare al «che cosa».

Le condizioni per diradare la più grande confusione che abbia mai avvolto la nostra Repubblica sono sostanzialmente tre. Accettare che le scelte del capo dello Stato, qualsiasi esse siano, possano dispiacerci, essere anche considerate sbagliate, ma che non costituiscano una manifestazione di faziosità tale da giustificare incitamenti a rivolte di piazza.

E’ consigliabile, poi, dimenticare la funesta distinzione tra «democrazia formale» e «democrazia sostanziale», fonte giustificativa delle peggiori dittature. A questo proposito, è davvero curiosa, tra l’altro, l’inversione delle parti che sta avvenendo in Italia. Nel nostro Paese, infatti, è la destra che fa propri i vecchi canoni marxisti di disprezzo per le procedure della democrazia liberale e rappresentativa, appellandosi alla supremazia della volontà popolare. Mentre è la sinistra che sfiora il bigottismo formalistico per aggirare i dubbi di chi non vuole ignorare, comunque, un verdetto elettorale.

Utile, infine, è ricordare come l’alternarsi delle maggioranze, la loro scomposizione e ricomposizione, il cambio di governi, le decisioni dei parlamentari, anche quelle per un solo voto, non determinano crisi irreversibili, strappi d’epoca, colpi di Stato, rischi per la democrazia. Ma indicano, anzi, che la nostra democrazia funziona, è solida e manifesta la sua normale fisiologia. Le tragedie, in Italia, sono altre

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« Risposta #79 inserito:: Dicembre 22, 2010, 03:35:26 pm »

22/12/2010

Tanto rumore forse per nulla


LUIGI LA SPINA

Sul teatro della vita pubblica italiana va in scena, oggi, una commedia assurda. Assurda e azzardata, perché la rappresentazione potrebbe anche trasformarsi in tragedia, ma come quelle di Beckett, non certo di Eschilo. Appelli delle più alte istituzioni dello Stato alla calma. Minacce di repressioni inesorabili. Inviti ai padri perché tengano a casa i figli. I palazzi della politica isolati. Annunci di guerriglie urbane fantasiose, guidate da un’immaginazione che non va più al potere, come sognavano i ribelli del ’68, ma si rifugia nei vicoli di Roma. Insomma, sembra di essere, stamane, alla vigilia della «madre di tutte le battaglie», alla fine della quale la vittoria della Gelmini aprirà il baratro nell’università del nostro Paese o la sua sconfitta sarà la salvezza per il futuro dei nostri giovani.

Come spesso capita nell’Italia d’oggi, questo clima di eccitazione guerresca è del tutto sproporzionato rispetto alla realtà. Perché tra le parole e i fatti non c’è nessun rapporto logico e lo scontro, pacifico come speriamo, cruento come temiamo, alla fine, sarà abbastanza inutile.

Il motivo, nella sua banalità è desolatamente semplice. La riforma Gelmini, che dovrebbe essere approvata stasera al Senato in via definitiva, è piena di buone intenzioni, propone una ventata di meritocrazia assolutamente necessaria, suggerisce alcuni provvedimenti utili per ostacolare il familismo d’ateneo, ma ha un difetto fondamentale: non prevede maggiori finanziamenti per l’istruzione e la formazione dei giovani italiani. E senza soldi, non c’è riforma che tenga, buona o cattiva che sia.

Ecco perché non vale la pena, per gli avversari della Gelmini, evocare scenari apocalittici. Non sarà l’ingresso di tre non docenti nei consigli d’amministrazione, una minoranza certo non decisiva, ad asservire la ricerca scientifica e la cultura italiana ai biechi interessi del capitalismo e alle spietate leggi del mercato. D’altronde, chi conosce, almeno un po’, gli usi e costumi dell’università di casa nostra sa benissimo che la stragrande maggioranza dei professori non correrà alcun rischio di vedersi decurtato lo stipendio, oltre la misura già decisa da Tremonti, perché quasi tutti saranno giudicati meritevoli del massimo premio. Sa benissimo che nessuno avrà il coraggio di sbattere fuori dall’università ricercatori ai limiti dei quarant’anni che, per oltre dieci anni, avranno permesso di fare esami, tenere lezioni, discutere tesi. Siccome siamo in Italia e non in America, il mercato del lavoro non è in grado di assorbirli e quindi resteranno, meritevoli o no, dove già sono.

Anche i tifosi del governo, però, dovrebbero mettere la sordina alle loro trombe. Come quelle di Berlinguer e della Moratti, le modifiche introdotte dalla Gelmini, senza adeguate risorse, rischiano di cambiare ben poco, nella sostanza, la vita quotidiana nelle aule. Con l’effetto inevitabile di aumentare l’accavallamento delle norme, della burocrazia, della confusione amministrativa e culturale, senza poter portare a quella rivoluzione d’efficienza, a quell’incremento di produttività scientifica e di competitività internazionale che tutti auspicano. La buona volontà del ministro Gelmini, come quella dei suoi predecessori, non si può discutere. Ma la vera rivoluzione, in questo settore, avverrà solo quando ci si renderà conto che l’Italia deve stanziare per l’università e la ricerca almeno le stesse risorse dei Paesi europei a noi più vicini, come la Francia.

Non vale la pena, perciò, assediare il Parlamento, sfoderare caschi e bastoni, lucidare i manganelli, minacciare galere e preparare le molotov. Ma non vale neanche la pena che i politici salgano sui tetti, invochino arresti preventivi, censurino padri che non chiudano a chiave le stanze dei figli. Bisognerebbe che si limitassero a fare i buoni parlamentari e non i protagonisti di una commedia che sta diventando pericolosa. Ascoltino le obiezioni, discutano gli emendamenti, approvino pure la legge, se non ritengono si possa fare di meglio. Dopo, però, si convincano ad aprire i rubinetti del finanziamento. Altrimenti, sarà meglio riporre nei cassetti i sogni rivoluzionari e tornare alla amministrazione accademica del buon senso, quella che misurava le risorse con le riforme possibili. Può sembrare paradossale, ma un giorno qualcuno potrebbe persino rimpiangere la faccia larga e sorridente di una democristiana d’altri tempi: la ministra Franca Falcucci.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8224&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #80 inserito:: Gennaio 15, 2011, 11:21:58 am »

15/1/2011

L'eredità che resta all'Italia

LUIGI LA SPINA

Conclusa la votazione sul futuro di Mirafiori e in attesa di conoscerne il verdetto, si può osservare che l’altissima affluenza alle urne ha testimoniato la profonda consapevolezza dell’importanza di questa scelta per i destini individuali e concreti sia dei 5500 lavoratori direttamente interessati, sia per tutti coloro che, fuori da quei cancelli, sanno che anche la loro sorte è legata allo sviluppo produttivo di quella fabbrica. Ma costituisce anche il segnale di come sia stato compreso pure il valore simbolico che ha ormai assunto questo risultato, caricato inoltre, nei giorni scorsi, da una discussione a volte troppo astratta, con toni esasperati e inquinati da pregiudizi ideologici e polemiche strumentali.

Era forse inevitabile, del resto, una reazione così accesa alla proposta Fiat per Mirafiori perché non si può sottovalutare la sua forte carica innovativa, anche oltre gli stretti confini delle relazioni industriali, almeno per due motivi: la chiarezza con la quale si sono poste le condizioni all’Italia di un mercato globalizzato e altamente competitivo, quale quello dell’auto, e l’impossibilità di risolvere il confronto con le vecchie liturgie politico-concertative di un consenso da raggiungere ad ogni costo. Semplicemente perché quel possibile costo rischia di escludere il progetto dalle compatibilità del mercato. In un Paese dove i settori protetti da corporazioni agguerrite e non esposti a una concorrenza aperta e mondiale sono la maggioranza, il solo aver presentato, senza ipocrisie e senza possibilità di dilazioni a tempi infiniti, tali problemi ha avuto perciò un effetto dirompente.

La speranza è quella che il risultato del voto confermi le prospettive di un forte sviluppo dell’attività nello stabilimento di Mirafiori, condizione essenziale pure per il lavoro nell’indotto, ma anche per il futuro economico e sociale di tutto il territorio torinese. Ma, da domani, qualunque sia il verdetto e la sua proporzione tra i «sì» e i «no», è necessario che si allarghi il carico di responsabilità che si è abbattuto, ingiustamente, solo su 5 mila e 500 persone. Sì, perché è parso che solo da loro, dal loro comprensibile e comunque difficile travaglio di coscienza, dipenda tutto il futuro della manifattura italiana e, magari, dell’intero settore dell’industria nazionale.

Le questioni che hanno determinato il voto a Mirafiori, infatti, coinvolgono i destini, le condizioni di vita di milioni di nostri cittadini e la posizione dell’Italia nella competizione mondiale dei prossimi decenni. Tocca al governo porle al centro della sua attività, al Parlamento farne il tema dominante del dibattito politico. Così come le forze sociali organizzate, a partire dalla Confindustria e dai sindacati, non possono certo assumere la posizione di «tifosi», più o meno accesi, delle parti in causa. Perché i vecchi rifugi corporativi e assistenziali non reggono più le novità di economie e di società in cui le regole sono profondamente cambiate.

E’ vero che, in una democrazia, le condizioni del lavoro non possono essere solo sottoposte ai voleri del mercato, ma le tutele dei diritti, proprio in una democrazia, non possono essere difese solo per alcune categorie e trascurate per altre. Onestà intellettuale dovrebbe costringere a non ignorare l’ingiustizia che si compie nei confronti di tanti giovani disoccupati, di tanti lavoratori precari, costretti a una flessibilità esasperata e di cui non si vede mai la fine, che non sono difesi da nessun sindacato e la cui voce non ha mai alcun megafono per essere ascoltata.

Ecco perché il futuro dell’industria italiana, ma pure dell’economia italiana, non può dipendere e non si può caricare sulle spalle di coloro che hanno votato a Mirafiori. Anche perché è legato alle condizioni generali del cosiddetto «sistema paese»: lo sviluppo delle infrastrutture, le semplificazioni normative e burocratiche necessarie per alleviare il carico di adempimenti per chi vuole avviare una attività, la struttura di una imposizione fiscale squilibrata e non favorevole al lavoro, una riforma del Welfare che dia anche un po’ di serenità a quelle categorie che oggi ne sono ancora escluse. Infine, forse la condizione più importante: una scuola e una università che riprendano la funzione fondamentale in una democrazia. Quella di una formazione educativa e professionale che favorisca una mobilità sociale ormai negata, di fatto, nell’Italia d’oggi e che, insieme, metta i nostri giovani nelle condizioni di trovare un lavoro dignitoso.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8297&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #81 inserito:: Gennaio 20, 2011, 06:20:29 pm »

20/1/2011

Il suo destino non è quello del Paese

LUIGI LA SPINA

Il videomessaggio con il quale il presidente del Consiglio ha comunicato agli italiani la decisione di non presentarsi alla procura di Milano e la volontà di varare una legge per punire quei pm che lo accusano annuncia, purtroppo, una linea di difesa inquietante. Destinata ad aggravare sia lo stato di turbamento del Paese, sia l’immagine di discredito internazionale che, in questi giorni, si sta riversando sull’Italia.

Berlusconi ha lanciato un appello drammatico alla maggioranza che lo ha eletto perché, in maniera compatta, unisca il destino della nazione al suo destino personale. Senza comprendere che l’istituzione che presiede, il governo della Repubblica, deve rappresentare non solo coloro che l’hanno votato, ma tutti gli italiani. Ecco perché la sua sfida alla magistratura, in nome del consenso popolare, rischia di aver gravi conseguenze sull’ordinamento e sull’equilibrio dei poteri dello Stato, fondamenti della nostra democrazia.

Il presidente del Consiglio ha diritto, come tutti i cittadini, di veder rispettata la presunzione d’innocenza davanti alle infamanti accuse che la procura di Milano gli ha rivolto. Un principio costituzionale di elementare civiltà giuridica, ma che ha come corrispettivo naturale lo stesso rispetto sia verso il magistrato che lo indaga, sia verso i cittadini italiani che hanno diritto di conoscere la sua versione dei fatti contestati. Anche perché non sarà la procura di Milano a considerare la fondatezza della sua difesa, ma i giudici di un tribunale che, in passato, ha dimostrato indipendenza di valutazione rispetto alle richieste del pm. Né sarà la procura di Milano a decidere sulle questioni di competenza territoriale e funzionale avanzate dai suoi avvocati.

Fa parte, poi, di una strategia difensiva puramente mediatica, utile ad aumentare la confusione polemica, ma dalla logica avventurosa, l’invocazione alla cosiddetta privacy. Per due elementari ragioni: le indagini, innanzi tutto, sono nate dal sospetto di gravi reati e, quindi, la verifica di tali ipotesi non si può fermare davanti a quei limiti. La valutazione delle conseguenze, se questa obiezione venisse accolta, nelle inchieste sui comuni cittadini potrebbe equivalere alla dichiarazione di una sostanziale impunità estesa a tutti gli italiani.

Ma la seconda ragione dell’insostenibilità della tesi che in questi giorni viene ripetuta dai fan di Berlusconi, senza un minimo di riflessione, riguarda proprio il fatto che il presidente del Consiglio non è, appunto, un comune cittadino italiano, ma rappresenta una delle più alte cariche dello Stato. La nostra Costituzione, come quelle di tutti i Paesi non retti da una dittatura, impone una trasparenza, una dignità di comportamenti, anche personali, che non sono richiesti a coloro che non hanno i doveri dell’uomo pubblico.

Al di là della fondatezza delle accuse, della solidità delle prove raccolte, delle competenze delle procure, il presidente del Consiglio dovrebbe rendersi conto che l’unico modo per arginare il mare, montante e inquietante, dei giudizi sprezzanti che si sta abbattendo, da parte dell’opinione pubblica internazionale, sul nostro Paese è fornire ai magistrati una versione, credibile e accettabile, di quanto avvenuto sia nelle sue ville private, sia nella famosa notte alla questura di Milano. Se davvero non ha nulla da farsi perdonare, né sul piano penale né su quello morale, non si capisce perché impedisca a se stesso, con formalismi giuridici discutibili, di convincere gli italiani, anche quelli che non sono suoi tifosi, di poter credere alla sua innocenza.

E’ arrivato il momento che anche Berlusconi, dopo quasi vent’anni, possa distinguere la sorte della sua fortuna di imprenditore, di politico, persino di uomo di grande successo mediatico e di sicuro carisma personale, da quella del suo Paese. Lui, nonostante una notevole considerazione di sé, non si può paragonare a Sansone e gli italiani non possono fare la fine dei filistei.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8314&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #82 inserito:: Febbraio 04, 2011, 06:00:19 pm »

4/2/2011

Le riforme sono impossibili in questo clima


LUIGI LA SPINA

La coincidenza temporale è stata significativa. I due voti con cui ieri il Parlamento, prima, ha negato l’approvazione del decreto sul federalismo e, poi, ha respinto la richiesta di perquisire l’ufficio di uno dei tesorieri di Berlusconi hanno illuminato, con la massima chiarezza, la situazione in cui si trova la politica italiana. Da un lato, una fondamentale riforma, destinata a modificare radicalmente la struttura istituzionale del nostro Paese, a incidere sulle condizioni di vita degli italiani e sulle loro finanze, parte, se davvero riuscirà a partire, male, senza l’ampio consenso che sarebbe stato necessario. Dall’altro, i ripetuti tentativi dell’opposizione di sconfiggere, in aula alla Camera, la maggioranza si scontrano puntualmente con numeri risicati, sì, ma compatti e persino leggermente in aumento.

Quella coincidenza, peraltro, non è solo temporale, ma politica. Dimostra, infatti, come siano indissolubilmente intrecciate questioni legate al futuro dell’Italia, al suo sviluppo economico, alla sua coesione sociale e nazionale, e problemi legati alla figura del suo premier, Silvio Berlusconi.

Perché i rappresentanti della Lega e del Pdl, alla cosiddetta «Bicameralina» che doveva approvare il parere sul federalismo, hanno disperatamente cercato di modificare il testo proposto dal governo, pur di ottenere l’assenso di qualche parlamentare dello schieramento avverso. Senza troppo badare alla coerenza dell’intento federalista e alle conseguenze degli emendamenti proposti dall’opposizione. Con il risultato, del resto, di non raggiungere l’obiettivo sperato. Mentre il leader del Pd, Bersani, ha dichiarato, senza troppi giri di parole, la sua disponibilità ad approvare il federalismo se il presidente del Consiglio si dimettesse.

E’ vero che la condizione di precarietà e di confusione in cui versano il Parlamento e il Paese è dovuta anche a errori tattici evidenti nella strategia delle forze che sostengono il governo. Se il cosiddetto «lodo Alfano» fosse stato proposto in forme più accettabili e con legge costituzionale, forse Berlusconi, oggi, sarebbe già protetto dalle conseguenze delle sue vicende giudiziarie. E se, per il federalismo, non si fosse ricorso alla costituzione di una commissione «Bicamerale», nome che evoca già infausti ricordi di analoghi fallimenti, la strada di questa riforma sarebbe stata più agevole.

A questo punto, Bossi ha tutto l’interesse a rivendicare, nei confronti dei suoi elettori, una mezza vittoria invece che a dover ammettere una mezza sconfitta. Così si spiega la sua insistenza, ieri sera, nel chiedere a Berlusconi il varo immediato di un decreto legislativo sul federalismo, nonostante le perplessità politiche del Quirinale e quelle giuridico-parlamentari di alcuni costituzionalisti. Così si capisce come i margini di trattativa con la Lega del presidente del Consiglio, se vuole salvare il suo governo, siano ridottissimi e possano arrivare anche all’azzardato tentativo di cambiare la composizione di quella «Bicameralina», con le ovvie conseguenze di inasprire i già tesi rapporti tra i presidenti delle due Camere.

Al di là del pallottoliere in Parlamento, degli errori strategici e delle furbizie tattiche, dei rapporti tra Berlusconi e i magistrati, la domanda fondamentale, però, è un’altra: in questo clima politico e sociale si può davvero discutere delle virtù e dei difetti del federalismo, valutare le conseguenze sul carico fiscale che graverà sui cittadini, giudicare se sia davvero a rischio la solidarietà nazionale o se questi timori siano solo spettri strumentali per avversarlo? Quando una riforma di tale portata può dipendere dalle confessioni di una ragazza ospite a villa Macherio o da uno scambio indebito tra la sua approvazione e la scomparsa di Berlusconi dalla presidenza del Consiglio.

Non è solo il federalismo, e già basterebbe, a essere condizionato impropriamente dalla situazione politico-parlamentar-mediatica nel nostro Paese. L’ipotesi delle elezioni stravolge il significato di altri importanti provvedimenti, quelli sull’economia. Così, la proposta di una patrimoniale per ridurre il debito pubblico, maldestramente e masochisticamente avanzata da alcuni rappresentanti della sinistra, finisce per fornire un formidabile assist alla propaganda pre-elettorale di Berlusconi. Un aiuto, peraltro, di cui la bravura mediatica del premier non avrebbe bisogno, essendo largamente sufficiente per prevalere in qualsiasi dibattito televisivo. Ma anche le nuove proposte del presidente del Consiglio, sul tema dell’economia, vengono del tutto subordinate all’eventualità di un imminente voto. Sia per le sbrigative reazioni dei suoi oppositori, sia per l’evidente velleità di chi, in un periodo del genere, pensa che la principale preoccupazione di imprenditori, lavoratori e cittadini italiani sia la modifica dell’articolo 41 della Costituzione. Tra poco più di un mese si celebrerà la festa per i 150 anni dell’unità italiana. Davvero si poteva sperare in un clima migliore.

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« Risposta #83 inserito:: Febbraio 17, 2011, 12:26:09 pm »

17/2/2011

Le elezioni sono il male minore

LUIGI LA SPINA

Un futuro da brivido. E’ quello che aspetta l’Italia nei prossimi mesi sull’asse Milano-Roma. Da una parte, al tribunale di Milano, un processo a Silvio Berlusconi che rischia di essere tutt’altro che breve e sicuramente pieno di ostacoli, come ha spiegato, ieri su «La Stampa», Carlo Federico Grosso. Con imbarazzanti e imbarazzate sfilate di giovani testimoni, al bivio tra la difesa personale e quella del premier. Un rito, destinato a una via crucis dilatoria, tra eccezioni di incompetenza, appelli al legittimo impedimento, richieste di annullamento di atti, e stretto tra le contemporanee udienze di altri tre procedimenti, sempre a carico del presidente del Consiglio.

Dall’altra parte, nelle aule del Parlamento, un governo che, con una risicatissima maggioranza, cercherà di far approvare riforme fondamentali, come quella sul federalismo o quella sulla giustizia, che richiederebbero un larghissimo consenso. Sia per superare gli ostacoli di una opposizione disposta a tutto pur di non farle passare, sia per evitare, come già successo, che l’arma del referendum vanifichi il risultato di tanti sforzi. Se questo è il cupo profilo che si staglia sul nostro orizzonte, aggravato probabilmente da un conflitto istituzionale tra poteri e ordini dello Stato quale non si è mai verificato nella storia della nostra Repubblica, l’augurio non può essere quello che il meglio prevalga sul peggio, ma solamente che, tra i mali, vinca almeno il male minore.

Da molte settimane, ormai, l’interrogativo dominante è uno solo: saranno le elezioni anticipate a far uscire il Paese, in qualche modo, da questa drammatica situazione? L’ipotesi viene caldeggiata o osteggiata, alternativamente, solo per le opposte convenienze elettorali. In una prima fase, l’aveva minacciata il presidente del Consiglio, per convincere i «responsabili» a evitare il rischio di non essere più eletti nel prossimo Parlamento e per chiudere la porta a eventuali successori a Palazzo Chigi nel corso della legislatura. L’opposizione, invece, avrebbe preferito evitare la prova del voto, per avere il tempo di organizzare un’offerta elettorale agli italiani più convincente dell’attuale.

Negli ultimi giorni, le parti si sono invertite. I sondaggi sui consensi a Berlusconi non sembrano troppo rassicuranti per il presidente del Consiglio. Ma le travagliate vicende del neonato partito di Fini, con lo sfilacciamento dei suoi parlamentari, impediscono di pensare che un altro governo riesca a essere sostenuto da una maggioranza diversa. In più, il sorprendente successo delle manifestazioni delle donne ha indotto a sospettare, forse con troppo semplicismo e con forzature magari arbitrarie, che sia mutato il clima psicologico e morale dei cittadini italiani davanti ai costumi pubblici e privati del Cavaliere.

Questa improvvisa inversione tra speranze e paure ha rovesciato ipocriticamente le tesi. Berlusconi, da sempre fautore del consenso popolare come unica patente di legittimità a governare, da sempre fustigatore degli intrighi romani, delle trasmigrazioni di deputati e senatori da un partito all’altro è diventato il più rigoroso difensore della, una volta negletta, «centralità del Parlamento». Scrupoloso e legalistico cultore della «libertà di mandato» che la Costituzione prevede per i rappresentanti del popolo nelle aule di Montecitorio e di Palazzo Madama. Senza considerare che, proprio dal punto di vista politico, lo schieramento vittorioso quasi tre anni fa era del tutto diverso dall’attuale, perché comprendeva un partito che aveva in Fini addirittura il cofondatore.

L’opposizione, invece, galvanizzata, forse con troppo entusiasmo, dai verbali delle intercettazioni, dalle piazze, dai numeri dei sondaggi pensa sia questo il momento della spallata elettorale al premier. Nella convinzione, probabilmente fondata, che Berlusconi non sia minimamente disposto a lasciare la poltrona di Palazzo Chigi a un suo erede, Tremonti, Alfano o Letta che sia. E nella speranza, altrettanto probabilmente fondata, che, alla fine, sia Bossi l’unico possibile becchino di questo governo.

Come si è visto, i sofismi dialettici, le ipocrisie ideologiche possono giustificare l’inosservanza di qualunque scrupolo costituzionale, di qualunque coerenza politica e, persino, di qualunque regola della logica. L’anomalia italiana, rispetto alle democrazie occidentali più evolute, è tale, poi, da rendere del tutto inutile un confronto internazionale per trovare una via d’uscita. E’ vero che, all’estero, un primo ministro che si trovasse investito da accuse quali vengono rivolte a Berlusconi si sarebbe subito dimesso e presentato ai giudici per dimostrare, con la massima rapidità, la sua innocenza. Ma, in Francia, in Germania o in Inghilterra il detentore di un così grande potere mediatico e plutocratico non sarebbe mai arrivato a presiedere un governo e, quindi, quelle magistrature non sarebbero state messe nelle condizioni di dirimere una legittimità politica, come, di fatto, è avvenuto nel nostro Paese.

E’ vero, infine, che le elementari regole di un ordinamento liberale non affidano al popolo e alla sua maggioranza elettorale il verdetto su un caso giudiziario. Ma, nella realistica valutazione delle convenienze, questa volta degli italiani, il voto anticipato non può risolversi come il male minore?

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« Risposta #84 inserito:: Febbraio 28, 2011, 03:34:22 pm »

28/2/2011

L'esperienza vince se il futuro è incerto

LUIGI LA SPINA


La legge delle primarie nel centrosinistra non ha fatto eccezioni neanche a Torino, ma la sorpresa, questa volta, non è venuta dalla scelta per la candidatura a sindaco, ma dalla grandissima partecipazione al voto, un vero record di affluenza.

Il favorito, Piero Fassino, ha ottenuto così un grande successo, con circa il doppio dei consensi raggiunti dal più giovane compagno di partito, Davide Gariglio. La vittoria dell’ex ministro ed ex segretario Ds premia il coraggio di aver accettato, dopo una lunga e prestigiosa carriera di leader nazionale, di tornare nella sua città per rimettersi in gioco nella lotteria delle primarie, una gara fratricida e insidiosa. Dal punto di vista nazionale, invece, conforta le speranze del partito di Bersani che vede non solo il candidato prescelto per la successione a Chiamparino trionfare nettamente, ma soprattutto essere eletto con un amplissimo consenso popolare. Un segnale positivo che, dopo le delusioni di Bari, Firenze e Milano pare confermare, per il Pd, i sintomi di ripresa che i sondaggi indicano nelle ultime settimane.

La straordinaria partecipazione alle primarie torinesi sembra possa spiegarsi attraverso due motivazioni fondamentali. La febbre di mobilitazione che percorre le file dei simpatizzanti per il centrosinistra, rivelata pure dall’imprevisto successo della recente manifestazione delle donne in difesa della loro dignità. Ma anche il riconoscimento di una competizione vera, nella quale non si chiedeva solo l’ubbidienza a una scelta fatta dal vertice Pd, ma si affidava agli elettori il diritto di decidere tra due alternative, se non di programmi, almeno di personalità e di prospettive. Merito anche del principale sfidante di Fassino, Davide Gariglio, che ha saputo giocare la sua partita, con notevole vivacità polemica e senza timori reverenziali per il competitore più titolato.

La risposta degli oltre cinquantamila elettori che sono andati alle urne è stata chiara e significativa: in un momento di incertezza per la città, alle prese con molti problemi, soprattutto di natura economico-sociale, la preferenza è andata a chi ha offerto le maggiori garanzie, per esperienza politica e affidabilità personale, di saper affrontare un futuro che si annuncia difficile. Forte della sua profonda conoscenza della città e dei solidi legami sia con il mondo operaio, che conosce molto bene, sia con quello imprenditoriale, con cui vanta un rapporto di rispetto e di stima, Fassino può sperare, se riuscirà a vincere anche il confronto con l’avversario del centrodestra, di restituire la fiducia ai torinesi. Quello slancio che Torino, dopo le Olimpiadi, sembra aver un po’ perso e che, forse, le celebrazioni per i 150 anni dell’unità nazionale potrebbero contribuire a recuperare.

Il vincitore delle primarie del centrosinistra, se sarà anche il nuovo sindaco, avrà anche un altro compito arduo. Quello di esprimere la continuità dell’esperienza di Chiamparino, giudicata positivamente dalla larga maggioranza dei torinesi, ma con la consapevolezza che il “cambio di stagione” è inevitabile. Anzi, che proprio lui, per la lunga e importante carriera politica alle sue spalle, è l’uomo più adatto e disponibile a imboccare la via dell’inevitabile rinnovamento La vittoria di Fassino, è inutile nasconderlo, aggrava, infine, le difficoltà del centrodestra torinese, peraltro già sfavorito in partenza, per il divario di voti che in città lo divide tradizionalmente dagli avversari. Contro di lui, l’attuale opposizione ha due strade: quella di ricercare, magari anche nella società civile, un nome di altrettanto prestigio, notorietà e competenza politico-amministrativa. Oppure, giocare, con spregiudicatezza, la carta del passaggio generazionale, puntando su uomini o donne giovani, che rappresentino una alternativa radicale, non solo di programmi, ma anche di immagine, per le scelte dei torinesi. In ogni caso, una strada, da oggi, ancor più impervia.

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« Risposta #85 inserito:: Marzo 11, 2011, 04:33:28 pm »

11/3/2011

La rivincita della politica sui giudici

LUIGI LA SPINA

Di simboli vive anche la politica. In tutto il mondo, ma soprattutto in Italia, dove la realtà sfuma spesso nella rappresentazione e le parole sono gli strumenti di una recita. I modi, i tempi, le circostanze con i quali è stata presentata ed è stata accolta l’«epocale» riforma della giustizia ne sono un ulteriore e chiarissimo esempio.

Simbolica è la vistosità del cerotto sulla guancia esibito da un presidente del Consiglio ferito, come l’apparizione dei disuguali piatti di una bilancia da equilibrare. Simbolica è la decisione di avviare un così grande cambiamento nella giustizia del nostro Paese, proprio quando Berlusconi è in procinto di affrontare una raffica di udienze in processi di grande impatto mediatico. Simbolica è, soprattutto, la scelta di procedere con una riforma costituzionale. Una via che alla radicalità del mutamento, addirittura intrepido sfidante di un tabù sacrale, quello della carta fondativa della nostra Repubblica, associa previsioni di scadenze attuative lunghe e molto incerte. Legate, molto probabilmente, alla suprema prova finale, quella di un referendum popolare.

Nonostante le prudenze dialettiche del ministro Alfano, tutte tese a dimostrare come le intenzioni governative siano esclusivamente dedicate agli interessi del cittadino comune, la simbolica squilla della «rivincita» da parte della classe politica nei confronti della magistratura è suonata nelle parole del premier. Come al solito, incapace, ma anche indisponibile, a frenare, con soverchie diplomazie verbali, la sincerità dei suoi propositi. Così, Berlusconi ha affermato che se questa riforma fosse stata già in vigore «non ci sarebbe stata Tangentopoli e l’annullamento di una classe di governo nel ’92-’93».

E’, innanzi tutto, abbastanza paradossale che il presidente del Consiglio non sia riconoscente a quel crollo della prima Repubblica che aprì la porta alla sua grande affermazione politica, lanciata proprio all’insegna di un vasto rinnovamento, non solo della classe dirigente del nostro Paese, ma delle procedure e dei costumi di quell’epoca. Come testimoniano, peraltro, le sue parole nel discorso d’insediamento del suo primo ministero, il 16 maggio 1994: «Il governo s’impegna a non mettere mai in discussione l’indipendenza dei magistrati. Questo governo è schierato dalla parte dell’opera di moralizzazione della vita pubblica intrapresa da valenti magistrati».

L’appello di Berlusconi a tutta la classe politica, anche a quella dell’opposizione, per l’affermazione del suo primato sugli altri poteri dello Stato e per la salvaguardia del suo incontrollabile esercizio di comando, al di là della concreta realizzabilità, è, poi, evidente in tante parti della riforma proposta al Parlamento. Ci sono indubbiamente ragioni che possono giustificare i sostenitori della separazione della carriere, per evitare indebite influenze della magistratura inquirente su quella giudicante. Come si può avanzare l’opportunità di ridurre le tentazioni corporative del Csm nel giudicare i colleghi colpevoli di faziosità, di corruzione o, più banalmente, di incapacità e di negligenza professionale. Ma il sintomo più evidente di questa voglia di rivincita della politica sulla magistratura è suggerito dalla formulazione della cosiddetta «obbligatorietà dell’azione penale».

La norma attuale, infatti, se, dal punto di vista formale, costringe i pm a indagini su tutte le ipotesi di reato, in pratica, lascia ai procuratori l’assoluta discrezionalità nello scegliere le priorità d’intervento. Con la riforma proposta dal ministro Alfano sarebbe invece il Parlamento e, cioè, la maggioranza che sostiene il governo, a stabilire le inchieste da privilegiare. Anche in questo caso, la riforma non si cura tanto di prescrivere come sia possibile e quanto sia possibile applicare tale criterio nella concretezza della vita reale, quella che si svolge nelle caserme della polizia, dei carabinieri e nei palazzi di giustizia. Si limita a rivendicare il diritto di supremazia della politica e il potere di escludere, nella sostanza, l’intervento di altri organi dello Stato nei campi di suo interesse.

E’ questa la sirena più tentatrice per le orecchie dei parlamentari, pure quelli di una opposizione che, oggi, non governa, ma che, domani, può sperare di portare un suo leader alla guida di Palazzo Chigi. E, quindi, di poter temere le insidie di una troppo occhiuta e, magari, un po’ accanita facoltà di controllo e di sanzione da parte della magistratura.

Chissà se Bersani, novello Odisseo, riuscirà, legandosi al suo banco della Camera, a resistere alla malìa di quei demoni del mare.

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« Risposta #86 inserito:: Marzo 31, 2011, 05:59:55 pm »

31/3/2011

Spettacolo al di sotto della decenza

LUIGI LA SPINA

Faceva impressione, ieri sera su tutti gli schermi delle tv italiane, vedere il ministro della Difesa urlare in aula e insultare il presidente della Camera per le contestazioni sul «processo breve».

Un ministro del Paese più coinvolto nelle conseguenze delle rivoluzioni che sconvolgono l’altra sponda del nostro Mediterraneo. Una questione lontanissima dalle gravi preoccupazioni che assillano gli italiani in questo momento e che, tra l’altro, dovrebbero assillare anche i suoi pensieri e le sue azioni. Lo spettacolo si completava con il collega ministro degli Esteri che lo affiancava sul banco del governo, sbalordito e imbarazzato testimone di una scena impensabile e inaudita in qualsiasi Parlamento di una democrazia occidentale. Uno Stato che sta partecipando, in questi giorni, a una operazione militare di guerra, anche se vogliamo chiamarla in altro modo, e che deve affrontare un’emergenza umanitaria drammatica.

Così come faceva impressione vedere il presidente del Consiglio offrire agli abitanti di Lampedusa, comprensibilmente esasperati da una situazione sconvolgente, una escalation di promesse strabilianti, culminate con la candidatura al Nobel della pace e garantite da un impegno che, preso da Berlusconi, ha un valore assoluto: l’acquisto di una villa sull’isola. Perché, in quelle stesse ore, a Roma, i suoi deputati e il suo ministro della Giustizia preparavano un blitz procedurale per assicurare un cammino parlamentare, appunto, brevissimo a quel «processo breve». Una legge che, se fosse approvata in tempi rapidi, lo salverebbe da un’eventuale condanna al processo Mills.

Faceva pure impressione, sempre ieri sera, l’evidente difficoltà dell’altro partner di governo, quello determinante in questa fase della vita politica, la Lega. Da una parte, costretta a dimostrare di saper gestire, in prima persona col suo ministro Maroni, una situazione molto intricata e difficile, quella dell’immigrazione dai Paesi mediterranei, dove non bastano le sbrigative battute in dialetto di Bossi a risolvere problemi di portata epocale. Dall’altra, obbligata a sostenere Berlusconi nelle sue vicende processuali, con provvedimenti di legge che rischiano di incidere gravemente sui consensi di elettori molto sensibili al rischio di generalizzate clemenze giudiziarie. Due fronti che, con una coincidenza simbolica, vanno a colpire proprio un motivo fondante di quel partito, la tutela della sicurezza, scudo delle paure più profonde degli italiani.

Per completare lo scenario ieri spalancato davanti all’opinione pubblica nazionale, e ancor più internazionale, la visione di un Parlamento assediato da una contestazione accesissima, a cui, inspiegabilmente e singolarmente, è stato permesso di arrivare sulla soglia del portone. Testimonianza di un clima esasperato e di una spaccatura emotiva tra i cittadini italiani rischiosa, soprattutto in un momento in cui il nostro Paese deve superare prove molto ardue.

È vero, infatti, che l’Europa, sul problema degli immigrati maghrebini, pare sorda ai giustificati appelli alla solidarietà comunitaria che arrivano dalle nostre autorità di governo. Ed è anche vero che il modo con il quale i principali leader del mondo trattano i rappresentanti italiani ai vertici internazionali sembra oscillare tra la trascuratezza e il paternalismo. Proprio su una questione, quella della crisi libica, in cui il nostro Paese è il più coinvolto, sia per gli interessi economici e geopolitici, sia per i risvolti demografici, sia per le nostre antiche responsabilità storiche.

La forza negoziale dell’Italia, però, sarebbe ben diversa se la credibilità della nostra classe dirigente, in queste e in altre circostanze, non fosse molto indebolita da un costume politico così al di sotto dei minimi standard di decenza pubblica. Perché l’autorità nei confronti degli altri Paesi del mondo si conquista con l’autorevolezza raggiunta nel nostro.

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« Risposta #87 inserito:: Aprile 09, 2011, 02:55:34 pm »

9/4/2011

Un governo sempre in difesa

LUIGI LA SPINA

Da mesi, ormai, c’è una sola domanda che domina le chiacchiere degli italiani, sia quelli che la politica la osservano da lontano, magari con distacco e sfiducia, sia i tifosi dell’uno o dell’altro schieramento, smaniosi più di vedere nella polvere l’avversario che al potere la propria parte: questo governo Berlusconi arriverà fino alla fine della legislatura?

La risposta sembra variare di giorno in giorno, come gli indici di Borsa, in un’altalena legata ad altre domande, al contrario, del tutto contingenti. Dipenderà, si dice, dal raggiungimento o no della ormai famosa «quota 330», il margine di deputati della maggioranza che il presidente del Consiglio ritiene possa garantire una navigazione parlamentare meno affannosa per i provvedimenti del suo ministero. Dipenderà, si dice ancora, dall’andamento dei suoi processi, un fronte sul quale si svolge una battaglia pornoleguleia del tutto imprevedibile. Oppure, si dice infine, dipenderà dagli umori tellurici di Bossi, scossi tra gli impegni di Stato del suo ministro Maroni e i brontolii di sondaggi, non più così confortanti, sulle opinioni dei suoi elettori. La domanda che, invece, sarebbe più opportuno farsi è diversa: altri due anni di questo governo per fare che cosa?

Certo, al potere si devono anche fronteggiare le emergenze. E di emergenze, a partire da quella immigratoria dopo lo scoppio del cosiddetto «risorgimento arabo», ne abbiamo sotto gli occhi una davvero tragica, dal punto di vista umano, e complicata, da quello politico. È vero che la gestione dell’esistente, quando è difficile come nel nostro mondo globalizzato, è già un incarico impegnativo. Ma l’ordinaria amministrazione, di regola, è compito affidato ai ministri di un governo dimissionario, per assicurare consegne non traumatiche ai colleghi che prenderanno il loro posto. Ma non tra due anni.

Su tutti i principali temi, la posizione governativa sembra ormai contrassegnata da un atteggiamento difensivo e attendista. In politica estera, come ha dimostrato il caso Libia, l’Italia non ha seguito l’interventismo francese, né il neutralismo tedesco. Ha oscillato tra la condivisione per i dispiaceri di Gheddafi e un tardivo e, forse, ormai inutile riconoscimento diplomatico dei ribelli cirenaici.

In campo economico, il ministro Tremonti ha difeso strenuamente e meritoriamente i conti pubblici, ma, di fronte al perdurare della crisi occupazionale e all’affacciarsi del rischio inflazione, i provvedimenti per lo sviluppo e i progetti di riforma fiscale sembrano ormai rinviati a un futuro che scavalca questa legislatura. Il male profondo, il vero difetto della struttura industriale del nostro Paese, quello che, da circa vent’anni, rallenta drammaticamente la crescita, rispetto alle altre nazioni europee, è, per unanime convinzione, la ridotta dimensione delle imprese. Se questa malattia italiana, ormai cronica e sempre più grave, non viene affrontata con terapie d’urto, per difendere le nostre aziende dalle mire straniere non restano che tardivi provvedimenti difensivi o protezionistici. Di discutibile legittimità e di incerta efficacia.

Ecco perché l’unico impegno governativo per i prossimi due anni pare riservato a quella «epocale» riforma della giustizia che il ministro Alfano ha annunciato, con una solennità forse sproporzionata, e che, ancora ieri, Berlusconi ha invocato per ripristinare «la vera democrazia» in Italia. Peccato che ai provvedimenti superlativi del premier, ormai incline a un crescendo di promesse stupefacenti che non pare aver più freni, seguano iniziative ben più modeste e circoscritte, per lo più, alla personale difesa dagli esiti dei suoi processi. Si capisce, però, perché il presidente del Consiglio riservi sostanzialmente l’ultima parte della legislatura all’offensiva contro i magistrati. Le accuse che lo assillano e le conseguenti sue azioni difensive, nelle aule giudiziarie e in Parlamento, sono l’unica vera garanzia della sopravvivenza del suo governo fino alla fine della legislatura. Costituiscono la migliore blindatura della sua maggioranza. Perché costringono il suo partito, il Pdl, a quella obbligata unità in sua difesa che, altrimenti, si sarebbe disgregata, già da tempo, nella dura lotta alla successione o, meglio, alla spartizione del suo capitale politico ed elettorale. Perché impediscono alla Lega di cedere ai sotterranei, ma tutt’altro che rimossi, impulsi secessionistici, indotti a mascherarsi nel progetto federalista. Perché soffocano qualsiasi ipotesi di una politica alternativa affidata allo schieramento a lui avverso.

Il centrosinistra, ma anche i centristi del Terzo polo, infatti, finché Berlusconi sarà all’offensiva contro i magistrati che lo accusano, dovranno, per necessità, essere forzati a concentrare la loro azione su questo tema. Ancora una volta è il Cavaliere, così, a imporre l’agenda della discussione pubblica. Quella a lui preferita, perché evita il confronto sui temi più importanti dell’attività governativa e, soprattutto, riesce a spostare l’unità dello schieramento avverso dal campo politico a quello giudiziario. Dove si può vincere nella propaganda tv, ma si è sicuramente perdenti in Parlamento. Finché sarà quello il terreno dello scontro, la domanda sulla durata del governo avrà una facile risposta. Così come sarà facile prevedere, purtroppo, quale sorte avranno le riforme che veramente gli italiani aspettano nei prossimi due anni.

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« Risposta #88 inserito:: Aprile 17, 2011, 05:11:59 pm »

17/4/2011

Non è stato un processo al capitalismo

LUIGI LA SPINA

La sentenza con la quale i giudici di Torino hanno condannato l’ex ad della Thyssen-Krupp Italia, Harald Espenhahn, a 16 anni e mezzo per “omicidio volontario con dolo eventuale” ha scosso la sensibilità di tutti.

Proprio per coglierne i molteplici significati, al verdetto sono stati aggiunti vari aggettivi, definendolo, da una parte, «storico» ed «esemplare», dall’altra, «mediatico» e «politico». Attributi che riconoscono, nella giustificata emotività delle reazioni immediate, l’importanza della decisione, ma che andrebbero analizzati meglio, proprio per evitare di distorcere il valore di quella sentenza, con valutazioni generiche e strumentali.

È certamente la prima volta, almeno in un processo di tale risonanza pubblica, che sia stato riconosciuto «il dolo eventuale» per una morte sul lavoro. Da questo punto di vista, può essere adatta l’iperbole epocale, pur considerando che si tratta di un giudizio su uno specifico caso e, quindi, non estensibile ad altre vicende simili. Al di là del ricorso alla storia, però, sarebbe meglio mettere in luce le conseguenze positive dell’azione della magistratura torinese nella tragedia dell’acciaieria. Innanzi tutto, la dimostrazione che la giustizia, anche in Italia, può concludere, in tempi ragionevolmente brevi, un’inchiesta, pure molto complessa, e tagliare il traguardo del verdetto. Con l’impegno di tutti, come era stato solennemente promesso nei giorni dello sgomento cittadino, e con l’efficacia di metodi d’indagine innovativi e approfonditi.

In un momento in cui la magistratura italiana si trova esposta a una raffica di accuse e a una pervicace volontà di delegittimazione, il segnale che arriva da questa sentenza è importante, perché rinsalda la fiducia dei cittadini, sia sulla verità di quella scritta che compare in tutti i tribunali, «la legge è uguale per tutti», sia sulla possibilità concreta che le vittime di grandi e piccoli delitti riescano a ottenere la doverosa e pronta tutela dello Stato.

In questo senso, può essere giustificato anche l’aggettivo «esemplare», se lo si consideri come ammonimento a una profonda riflessione collettiva sul valore di quella condizione umana che non dev’essere mai subordinata ad altri interessi, economici, geografici, politici, religiosi. Riflessione utilissima e quanto mai attuale, perché si deve applicare con un’attenzione rigorosa al suo rispetto nel mondo del lavoro, ma anche nelle vicende drammatiche dell’emigrazione o nelle tragiche persecuzioni di tanti cristiani in varie regioni del mondo. Più cautela va usata, invece, se questa rivendicazione di esemplarità potesse giustificare una sproporzione tra pena e delitto, come se le esigenze di un solenne e generico avvertimento pubblico sulla gravità di certi comportamenti autorizzassero a sacrificare il capro espiatorio di turno.

Altrettanta attenzione dev’essere rivolta ai commenti di chi spiega la sentenza con il clima di emotività generato dalla cosiddetta «pressione mediatica» esercitata sui giudici da stampa e tv. È indubbio che il rogo della Thyssen abbia sconvolto i sentimenti dell’opinione pubblica e, in particolare, quelli della città di Torino. La costituzione di parte civile delle istituzioni locali e il riconoscimento del loro diritto, sanzionato dal verdetto, rispecchiano appieno il valore della solidarietà e dell’affetto per i familiari delle vittime espresso in quei giorni dall’intera comunità, nazionale e cittadina. Per comprendere la profondità di quel dolore collettivo, basti ricordare, poi, il significato, anche simbolico, che l’industria e la fabbrica hanno nella storia e nella memoria di Torino.

È giusto, perciò, che angosce e lacrime siano entrati, con la forza delle immagini di carni straziate dalle fiamme, in quell’aula. Ma è altrettanto giusto ritenere che i giudici abbiano trovato convincenti le prove sulla responsabilità dell’imputato nel non applicare le norme di sicurezza che, pure, la casa madre tedesca gli suggeriva, attraverso un cospicuo stanziamento di spesa. Intervento negato, con la scusa di una prossima chiusura dello stabilimento. Saranno anche i giudici di secondo grado a valutare la saldezza di quelle prove, ma l’argomentazione dell’accusa per chiedere la condanna induce a non autorizzare sospetti di una volontà «politica», di una giustizia moralizzatrice e purificatoria.

Era proprio un grande giurista piemontese, storico collaboratore del nostro giornale, Alessandro Galante Garrone, infatti, a diffidare della validità di atteggiamenti generici e strumentali. In un editoriale sulla «Stampa» del 13 giugno 1964, a proposito dell’inchiesta sui presunti reati amministrativi del segretario del Cnen, Felice Ippolito, scriveva parole che è utile ricordare: «Si è parlato, immaginosamente, di bisturi, o di spada tagliente, o magari di scopa vigorosa. Alla radice di queste propensioni, c’è un genuino impulso di rivolta morale; ma c’è anche qualcosa di vagamente inquietante, una visione apocalittica delle cose, una concitazione emotiva che può farci perdere di vista i principi essenziali».

Proprio alla luce di questo alto avvertimento morale, prima ancora che giuridico, è opportuno stigmatizzare altre reazioni che, nella concitazione dei commenti, hanno voluto piegare il verdetto a interpretazioni faziose. Il processo Thyssen non è stato il processo al capitalismo tedesco, attento alla difesa dei lavoratori in Germania e negligente quando si tratta degli operai italiani. La sentenza ha condannato un comportamento specifico di un dirigente. I passaporti del colpevole e quelli delle vittime non devono influenzare i giudizi e, soprattutto, i pregiudizi. Perché la morte degli uomini e la loro coscienza morale non hanno confini.

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« Risposta #89 inserito:: Maggio 20, 2011, 08:53:55 am »

18/5/2011

Sulla Lega la rivincita del tricolore

LUIGI LA SPINA

Il carisma è un dono di Dio, come dice l’etimologia greca della parola. Come tale, può essere concesso senza un perché. Ma pure senza un perché può essere ritirato. E quando non c’è più, si interrompe improvvisamente quello straordinario dialogo diretto con i suoi adepti che trasforma un capo politico in un leader, appunto, carismatico. Sembra questo il caso delle due uniche personalità della politica italiana che abbiano, o abbiano avuto, questo dono.

Si tratta dei fondatori dei due partiti personali della seconda Repubblica, Silvio Berlusconi e Umberto Bossi. Quello che colpisce, tra i vari significati del voto di domenica e lunedì, è proprio la mancata risposta, per la prima volta, del popolo, del loro popolo all’appello dei due leader del centrodestra. Come se quella eccezionale, quasi rabdomantica capacità di intuire, rappresentare ed esaudire i desideri degli elettori-fan si fosse misteriosamente appannata. Un segnale grave, proprio perché a un capo politico è concesso di commettere errori, ma un leader carismatico non può perdere la vera legittimazione del suo potere: la garanzia di un contatto permanente con i sentimenti dei suoi fedeli.

Il presidente del Consiglio ha tentato a Milano di replicare la mossa già tante volte riuscita in altre simili circostanze, quella di far passare attraverso il lavacro della sua persona, questa volta il malessere degli elettori milanesi per l’operato della Moratti e di riscattare il disagio per i risultati del suo governo con l’appello alla solidarietà contro i magistrati. Ma l’operazione mediatico-politica è incappata nell’improvvisa sordità del corpo moderato cittadino. Un atteggiamento sorprendente, anche perché il rifiuto all’appello berlusconiano non si è tradotto in un rafforzamento della Lega, né del «Terzo polo» e neppure si è rifugiato nel tradizionale serbatoio della protesta: l’astensione dal voto. Un «mistero di Milano» che sarà probabilmente svelato da un’accurata analisi dei flussi elettorali in quella città e che potrà risultare, comunque, meno indecifrabile solo tra quindici giorni, al ballottaggio.

Quella bacchetta magica in grado di individuare subito la vena sotterranea degli umori della propria gente sembra essersi spezzata anche nelle mani dell’altro leader carismatico del centrodestra, Umberto Bossi. Il caso del leader della Lega è, forse, ancor più interessante di quello del presidente del Consiglio. Innanzi tutto perché è più sorprendente: mentre le difficoltà per Berlusconi erano già state segnalate dai sondaggi, si pensava che l’alleato di governo potesse ereditare una cospicua parte della delusione moderata. C’è, poi, la sensazione che la perdita di sintonia tra le scelte di Bossi e i sentimenti del popolo leghista stia durando da oltre un anno, con prove ripetute ed evidenti, anche se finora mascherate dalla sua «dittatura» nelle espressioni ufficiali dei suoi colonnelli.

Il riassunto di questa progressiva incomunicabilità tra il fondatore del partito e i suoi sostenitori è facile ed eloquente. Cominciamo dal motivo unificante e principale del desiderio collettivo nella base leghista, l’abbassamento delle imposte. Su questo argomento si è diffuso il timore che il modo con il quale si sta impiantando il federalismo fiscale, almeno in un primo momento, aumenti la tassazione invece di diminuirla. Bisogna segnalare, inoltre, il dilagante malumore per l’obbligo di difendere Berlusconi dai suoi guai giudiziari, in un campo, quello della morale pubblica e privata, che non trova, nelle sensibilità sostanzialmente conservatrici di quegli elettori, troppa indulgenza.

I veri bocconi amari, però, sono venuti da alcune scelte di Berlusconi, avallate da Bossi. Il più indigeribile è il passaggio del ministero dell’Agricoltura, indispensabile tutore degli allevatori padani, prima dal leghista Zaia al berlusconiano Galan e, poi, addirittura a un siciliano, peraltro molto discusso, come Saverio Romano. Con il contorno di scelte altrettanto meridionalistiche tra i sottosegretari, per recuperare l’appoggio dei deputati cosiddetti «responsabili», stretti intorno al loro leader mediatico e simbolico, Salvatore Scilipoti.

Decisioni concrete che si sono affiancate a un altro clamoroso cortocircuito tra Bossi e suoi elettori, quello avvenuto in occasione delle celebrazioni per i 150 anni dell’unità italiana. I dirigenti della Lega hanno cercato di boicottare e, comunque, di sminuire il valore della festa, non intuendo che il clima generale del Paese, compreso quello della maggioranza degli abitanti anche del Nord, non era affatto disposto a seguirli in una posizione che è apparsa meschina, provinciale, venata da un antipatriottismo ingiustificato. Il coro di fischi che puntualmente si è levato di fronte a tale atteggiamento si è ritrovato nei risultati elettorali. Sintomatico quello di Novara, patria del tandem Cota-Giordano che guida la Regione in Piemonte. Mauro Franzinelli, fedelissimo della coppia più forte nella Lega del Nord Ovest, non è stato eletto al primo turno in una città dove il precedente sindaco di quel partito aveva superato, cinque anni fa, il 60% dei suffragi. I consensi della lista di Bossi, inoltre, hanno seguito lo stesso destino, calando dal 22 al 19 per cento.

Non bisogna, quando si parla di carisma, fare mai previsioni per il futuro. Quel «dono di Dio» è tanto forte, quanto labile. E’ possibile che Berlusconi e Bossi, come l’hanno improvvisamente perso, così improvvisamente lo ritrovino. Ma devono fare in fretta, perché il canale di comunicazione tra loro e il loro popolo potrebbe non riaprirsi più.

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