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Autore Discussione: LUIGI LA SPINA -  (Letto 88597 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Marzo 31, 2010, 03:01:48 pm »

31/3/2010

Il Pd nel vicolo cieco

LUIGI LA SPINA

Con un gioco di parole, banale ma efficace, si potrebbe dire che ha colpito, nei risultati del voto per le elezioni regionali, la voglia di protesta degli italiani. Ma il sentimento più vero e importante emerso dal verdetto è un altro: la voglia di proposta. La domanda, anzi, la giusta pretesa degli elettori di essere governati. E governati bene.

La democrazia è fatta di numeri e di sintesi.

Non si possono confondere, perciò, le dimensioni quantitative dei fenomeni, mettendo sullo stesso piano realtà con cifre assolutamente distanti tra loro. Né trascurare la crudele ma imparziale legge che assegna una vittoria senza ombre anche a chi prevale per un voto e una sconfitta senza giustificazioni a chi, per un voto, soccombe.

E’ vero che l’astensione è stata senza precedenti nel nostro Paese e interpretarla come una disaffezione, un’accusa, anche una protesta dei cittadini contro la classe politica è certamente un’interpretazione corretta. Ma non bisogna dimenticare che, dopo una campagna elettorale deprimente e lontana dagli interessi concreti degli elettori, una ancora ampia maggioranza degli italiani è andata a votare per un ente, la Regione, che non è in cima nella graduatoria di affezione popolare. Un fenomeno, quindi, del tutto fisiologico, non drammatico nei numeri e, molto probabilmente, reversibile in votazioni politiche e amministrative più sentite. Altrettanto fisiologica e assolutamente minoritaria è la presenza di un’opposizione irriducibile e contestativa contro il generale nostro sistema dei partiti che, di volta in volta, sceglie l’estremismo movimentista, a targhe alterne, dal «girotondismo» al «grillismo».

Considerate le dimensioni numeriche della protesta che si è manifestata in Italia, è forse più opportuno concentrare l’attenzione sulle intenzioni espresse da coloro che sono andati a votare per i partiti che si contendevano la posta in palio e che, cambiando le loro scelte, hanno connotato il significato dell’elezione. La sintesi è semplice e chiara: la Lega è l’unica vera vincitrice del round elettorale perché ha dimostrato, in questi ultimi anni, di non essere più un movimento di protesta, ma di offrire una vera alternativa di governo, almeno di quello locale e regionale. Il Pdl ha visto ridotto il suo bacino di consensi, nonostante le straordinarie capacità di seduzione elettorale di Berlusconi, perché una parte dei suoi simpatizzanti non è soddisfatta dei risultati del governo in questo inizio di legislatura. Il Pd non può nascondere, dietro la tenuta dei suffragi, l’amara verità: ancora una volta non ha dimostrato di sapere offrire agli italiani una concreta alternativa nazionale di governo all’asse politico, sociale, culturale rappresentato dalla coppia Berlusconi-Bossi.

Le giustificazioni, come l’addebito alla lista di Grillo per la sconfitta della Bresso in Piemonte e le eccezioni, come la vittoria a Venezia di Giorgio Orsoni contro il ministro Brunetta, non possono mascherare la constatazione che il progetto politico del partito democratico è finito in un vicolo cieco: non si può pretendere di offrire agli italiani una proposta di vera alternativa nazionale di governo, se non si riesce a convincere almeno una parte delle grandi regioni del Nord. Se si subisce, nel Lazio, la candidatura della radicale Bonino e non la si porta alla vittoria in una competizione che, per le note vicende, non sembrava impossibile. Se, in Puglia, si perdono le primarie contro il candidato di un altro partito e, poi, si contribuisce a farlo vincere solo per una masochistica e clamorosa divisione del fronte avversario. In queste condizioni, alzare la bandiera della Liguria e della Basilicata, in aggiunta ai tradizionali feudi del centro Italia, per non ammettere la sconfitta è un esercizio di acrobazia dialettica che non può essere concesso neanche a una persona perbene e simpatica come Bersani.

La richiesta di essere governati degli italiani andrà raccolta, perciò, da tre fronti: dalla Lega, che non dovrà deludere quelle attese di serietà, concretezza e moderato buon senso che l’hanno premiata; da Berlusconi, che non dovrà sottovalutare, per il sollievo dello scampato pericolo di una sconfitta, i segni di stanchezza e sconcerto di una parte del suo elettorato; infine, dal Pd al quale, forse, spetta il compito più difficile ma anche più importante per conservare l’equilibrio di una sana democrazia: offrire una vera alternativa di governo all’attuale maggioranza.

È inutile, a questo proposito, che il partito democratico continui a cercare la soluzione cambiando il segretario. Ma è inutile pensare che senza un vero chiarimento possa uscire dalla sua condizione di un partito senza identità, con una classe dirigente invecchiata in un asfissiante logoramento di lotte intestine. Le strade sono solo due. La prima porta il Pd a rappresentare la parte maggiore dell’opposizione nel nostro Paese, con vittorie occasionali e provvisorie, frutto di errori clamorosi degli avversari. La seconda ha l’ambizione di convincere una parte dell’elettorato di Berlusconi e Bossi che l’Italia si può governare in un altro modo.

da lastampa.it
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« Risposta #61 inserito:: Aprile 10, 2010, 09:13:55 am »

10/4/2010

Trasparenza senza eccezioni

LUIGI LA SPINA

La lettera scritta nel 1985 dall’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Joseph Ratzinger, è una ulteriore conferma. A lungo il Vaticano, «per il bene della Chiesa universale», come si legge in quel testo, decise di coprire nel silenzio lo scandalo dei preti pedofili. Ma questo documento dimostra anche che il futuro Benedetto XVI si uniformò a quella linea di riserbo adottata da Giovanni Paolo II per evitare che i nemici della Chiesa strumentalizzassero quelle vicende. L’ultima rivelazione proveniente dagli Stati Uniti colpisce la Santa Sede e il Papa in momento di grave difficoltà. La sofferenza di Benedetto XVI è comprensibilmente acuita da una specie di pena del contrappasso che, in questi giorni, sta crudelmente subendo.

Proprio su di lui che, da quando è salito al soglio pontificio, ha cercato di attuare una svolta di trasparenza e di denuncia pubblica per questi scandali, si abbatte quotidianamente una bufera di attacchi che non sembra aver mai fine. Proprio su di lui, sulle spalle esili un Pontefice anziano e stanco, incombe l’onere di difendere la Chiesa, assumendosi, come un Papa è costretto a fare, anche il carico di responsabilità passate, in circostanze storicamente diverse. Per comprendere, infatti, i motivi della resistenza a denunciare pubblicamente i casi di pedofilia in ambito ecclesiastico all’epoca del pontificato di Papa Giovanni Paolo II, occorre ricordare l’esperienza pastorale in Polonia di Karol Wojtyla. Un Paese dell’Est europeo, allora sotto il dominio di un regime comunista che spesso usava la calunnia a sfondo sessuale contro i sacerdoti per minare il rapporto di fiducia dell’opinione pubblica locale nei confronti della Chiesa.

Ecco perché, in tempi in cui il nemico esterno, l’ateismo comunista, combatteva la presenza cattolica in quelle terre con tutti i mezzi, anche i più spregiudicati, sembrava opportuno cercare di indagare su questi scandali, veri o falsi che fossero, solo all’interno della comunità ecclesiale. Un atteggiamento di prudenza e anche di diffidenza nei confronti delle accuse di quel genere contro i preti che Giovanni Paolo II conservò anche quando fu eletto Papa. Il segnale più forte di un cambiamento verso la trasparenza e la denuncia pubblica fu dato proprio da Benedetto XVI nel suo viaggio negli Stati Uniti avvenuto nell’aprile del 2008. Papa Ratzinger, con un gesto che suscitò perfino un certo sconcerto e qualche critica nell’episcopato americano, volle incontrare le vittime degli abusi sessuali compiuti dai sacerdoti in quel Paese e, con loro, unirsi in preghiera, mano nella mano. L’attuale difficoltà della Chiesa e dello stesso Papa ad uscire dall’assedio di accuse che sembra sommergerli deriva da una reazione difensiva sbagliata.

Costruita su tentativi di minimizzazione o di giustificazioni, assai improbabili, per le mancate denunce nei confronti di chi si è reso colpevole di questi terribili delitti contro i più deboli, i bambini. Intessuta di sconcertanti gaffe comunicative, come se le manifestazioni di pedofilia anche fuori del mondo ecclesiastico riducessero lo scandalo sulla Chiesa. Ecco perché, a questo punto, al Vaticano non resta che una via d’uscita da questa bufera: la consapevolezza e la volontà di dover pagare un prezzo molto pesante per ristabilire un clima di fiducia e di credibilità nei confronti dell’istituzione ecclesiastica. Con una assunzione di responsabilità, alta e forte, per quanto è avvenuto in passato, accompagnata da solenni scuse e richieste di perdono. E la dimostrazione che l’assoluta trasparenza, d’ora in poi, non avrà alcuna eccezione. Per nessuno e in nessuna circostanza.

da lastampa.it
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« Risposta #62 inserito:: Aprile 16, 2010, 03:57:04 pm »

16/4/2010

L'equivoco del territorio

LUIGI LA SPINA

La conquista elettorale del Nord da parte della Lega ha riaperto la partita tra la politica e i «signori delle banche». L’annuncio, questa volta, non è filtrato dalle intercettazioni rivelatrici della speranzosa domanda di Fassino, («Allora, abbiamo una banca?»), come all’epoca della scalata alla Bnl. Ma dalle esplicite e sbrigative intenzioni espresse da Bossi («La gente ci dice prendetevi le banche, e noi lo faremo»).

La nuova offensiva sfrutta certamente lo spirito dei tempi. Una crisi finanziaria ed economica, senza precedenti nell’ultimo mezzo secolo, ha determinato difficoltà di credito, soprattutto per le piccole e medie aziende e, almeno sul piano internazionale, ha gettato un generico discredito e una generica diffidenza sull’operato dei banchieri. Ecco perché, come era già avvenuto nella precedente legislatura a guida del centrodestra, nel mirino sono tornate le Fondazioni ex bancarie, porte d’ingresso per l’influenza della politica locale e, magari, anche nazionale, nell’era del mercato globale.

Durante la seconda repubblica, questi enti di diritto privato, inventati dalla alchemica fantasia giuridica di Giuliano Amato, sono riusciti a erigere un efficace filtro tra il mondo della politica e quello della società civile, consentendo l’unica vera «rivoluzione» realizzata negli anni seguiti a Tangentopoli: il tramonto del dominio partitico e lottizzatorio su istituti di credito piccoli, per dimensioni, e sostanzialmente estranei al mercato internazionale e alle sue regole. La memoria, anche la più distratta, non può dimenticare le vicende del Banco Ambrosiano, del Banco di Napoli, di quello di Sicilia, della Banca di Roma, della stessa Bnl, istituti infeudati dalla politica e condotti al fallimento o all’orlo del dissesto.

Se il passato non induce alla nostalgia, il presente conforta la constatazione di una ben diversa realtà. Le nostre banche non solo si sono dimostrate competitive sui mercati finanziari, ma hanno manifestato, proprio rispetto alla concorrenza straniera, una solidità invidiabile davanti alle gravi scosse della crisi. Bisogna dar atto alle Fondazioni, maggiori azioniste delle più importanti banche nazionali, di aver esercitato un meritorio ruolo di garanzia dell’autonomia degli amministratori e di aver assicurato il rispetto delle regole del mercato.

L’osservazione che questi istituti debbano preoccuparsi soprattutto della tutela del territorio di cui sono espressione, grimaldello dialettico per aprirle al diretto condizionamento della politica, cela, in realtà, un equivoco. Il tanto celebrato «territorio» deve essere il beneficiario degli utili che le banche forniscono alle fondazioni. Non dev’essere il trampolino della politica per piazzare ai vertici delle banche uomini che assicurino finanziamenti ai loro partiti o ai loro amici di riferimento. Anche perché, quegli utili, prima di distribuirli, vanno realizzati. In un mercato aperto, in cui la credibilità e la fiducia degli investitori internazionali, a partire dai fondi pensione di mezzo mondo, vanno conquistate giorno per giorno e si possono perdere molto in fretta.

A proposito del ruolo delle Fondazioni, in una sfortunata coincidenza di tempi con le dichiarazioni di Bossi, è arrivata, dalla Compagnia di San Paolo, la designazione di Domenico Siniscalco alla presidenza del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo. L’esito dello scontro tra Angelo Benessia ed Enrico Salza sembra destinato a concludersi, quindi, con la vittoria del presidente della Compagnia. All’attuale presidente del consiglio di gestione si rimprovera di non aver difeso sufficientemente, dopo la fusione, il peso di Torino rispetto al più potente partner milanese. Una accusa, fondata o meno che sia, che non può certamente far dimenticare il ruolo esercitato, per tantissimo tempo, da Salza per la promozione e lo sviluppo della capitale subalpina in campo nazionale e internazionale. Ma l’obiettivo di una sua sostituzione non dovrebbe far trascurare, anche in questo caso, il rispetto delle regole e la distinzione dei ruoli nella triangolazione politica-fondazione-banca.

I compiti dell’azionista non sono quelli dell’amministratore e il mestiere del banchiere non può confondersi con quello del funzionario di partito. Tutto ciò non per un ossequio al formalismo o all’ipocrisia. Ma perché è l’unica garanzia che i soldi del cittadino, raccolti allo sportello, siano tutelati dal rischio dell’insolvenza della banca o dello sperpero al finanziamento clientelare. E’ vero che le Fondazioni non possono essere azionisti silenti e passivi e che gli istituti di credito non si possono trasformare in potenze autoreferenziali, senza alcun controllo. Ma il controllo del mercato è sempre preferibile a quello dei politici.

da lastampa.it
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« Risposta #63 inserito:: Aprile 30, 2010, 06:15:42 pm »

30/4/2010

Una brutta figura che si doveva evitare
   
LUIGI LA SPINA

Una sconfitta clamorosa e insensata per tutta la classe dirigente torinese. L’irritato ritiro della disponibilità di Domenico Siniscalco alla sua nomina come presidente del Consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo è stato l’inevitabile sbocco di una vicenda cominciata male e condotta peggio. Con il risultato di un pesante danno per la credibilità di Torino nei confronti del partner milanese della banca, ma anche per l’immagine della città rispetto a tutta la comunità finanziaria nazionale.

Fin dall’inizio, la mancata conferma di Enrico Salza era apparsa più una sorta di punizione dettata da ragioni personalistiche che l’approdo di una scelta anche comprensibile, ma che riconoscesse, comunque, il suo ruolo e il suo apporto per lo sviluppo di Torino negli ultimi decenni. L’esigenza di rafforzare l’influenza torinese rispetto allo strapotere di Milano negli indirizzi della banca poteva anche essere opportuna. L’«operazione riequilibrio» tra i due poli geografici di Intesa Sanpaolo, però, avrebbe richiesto almeno il rispetto di due condizioni.

La prima è quella dell’unità e il sostegno di tutta la classe dirigente torinese su un nome di indiscusso prestigio. La seconda una paziente, silenziosa e accorta politica di alleanze con le forze che avrebbero potuto condizionare la designazione del presidente del Consiglio di gestione. Il modo, invece, con il quale, sia Chiamparino sia Benessia, hanno gestito la candidatura dell’ex ministro Siniscalco è stato, purtroppo, maldestro.

Il sindaco l’ha promossa in maniera negativa, con una ingerenza politica tanto ingenua quanto controproducente. Tra l’altro, in un momento in cui i proclami di Bossi sull’ingresso della Lega nel mondo bancario suscitavano inquietudini e sospetti. Il presidente della Compagnia è riuscito nell’ardua impresa di dividere i membri del comitato di gestione sulla scelta di Siniscalco, di vedersi contrapposto un altro nome come quello del professor Beltratti e, per di più, di assistere al sorpasso, nella conta dei voti, di quest’ultimo rispetto al candidato presidente che lui aveva proposto. Ciliegina finale è stata la dura polemica, a suon di interviste, tra Chiamparino e Guzzetti.

I cocci di questa Waterloo diplomatica, politica, finanziaria, comunicativa saranno difficili da comporre per tutti i protagonisti torinesi della vicenda. Chiamparino, molto isolato nel suo partito, sia a livello nazionale sia a quello torinese, rischia di dilapidare quel capitale di credibilità politica e di autorevolezza personale accumulato negli anni della sua permanenza a palazzo di Città.
Siniscalco subisce una ingiusta umiliazione. Salza, a meno di un sorprendente e clamoroso ripescaggio, appare come la vittima di una altrettanto ingiusta punizione. Beltratti, senza alcuna colpa, teme di essere usato come strumento di una faida politico-accademica.

Benessia, infine, sembra persino sfiduciato dallo sponsor che lo ha promosso alla presidenza della Compagnia, il sindaco Chiamparino.
Dal caso Siniscalco il centrosinistra torinese esce più spaccato di prima, registrando una sconfitta storica rispetto ai poteri milanesi. Non sono davvero le condizioni migliori per riconfermarsi, tra un anno, alla guida della città.

da lastampa.it
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« Risposta #64 inserito:: Maggio 05, 2010, 10:53:50 am »

5/5/2010

Lontano dalla realtà
   
LUIGI LA SPINA

Il maggior rammarico, in queste tristi ore, dell’ex ministro Claudio Scajola dovrebbe essere quello di aver affidato la sua difesa all’avvocato Claudio Scajola. Il legale, forse per inesperienza professionale, forse per arroganza provinciale, ha scavato con pertinacia, in dieci giorni di dichiarazioni inverosimili, un tale fossato di credibilità intorno al suo assistito da costringerlo all’inevitabile sprofondamento politico delle dimissioni.

L’allontanamento progressivo dell’ex ministro dalla realtà è documentato dal linguaggio, rivelatore infallibile ma anche inesorabile di una sindrome masochistica. Scajola, oltre alle rituali accuse contro il «complotto mediatico», parte già dall’ammissione di conoscere l’architetto Anemone per ragioni d’ufficio. Poi, non riesce a spiegare come mai non sia sorpreso dallo straordinario affare costituito dall’acquisto di una casa a meno della metà del valore di mercato.

Infine, arriva al culmine del tentativo di convincere l’opinione pubblica dell’impossibile: se sapessi - dice - che qualcuno, a mia insaputa, ha pagato una parte della mia abitazione, rescinderei il contratto. Una vera e propria scalata nell’assurdo, dove un acquirente di tale lignaggio non conosce i prezzi delle residenze romane e, in seguito, diventa ministro per lo Sviluppo economico. Dove benefattori misteriosi, tempestivamente scesi dal cielo, donano a due sorelle, non bisognose ma dotate di un cognome allusivo, al di qua e al di là del Tevere, integrazioni risarcitorie per uno sconto eccessivo.

Al di là del «caso Scajola» e del personale grado di responsabilità nella specifica vicenda della sua casa che solo la magistratura avrà il compito di valutare, l’attenzione dovrebbe essere concentrata, però, sull’ormai evidente intreccio corruttore rivelato, prima dalle indagini sulla caserma dei carabinieri a Firenze, poi dalle inchieste sulla Protezione civile e probabilmente confermato da altri possibili futuri coinvolgimenti illustri: il rapporto, chiuso e autoreferenziale, tra imprenditori e settori delicati dell’amministrazione dello Stato.

Si è ormai intuito che, con l’alibi di una riservatezza necessaria per alcuni lavori che riguardano il ministero dell’Interno, della Difesa, della Protezione civile, ma anche di altri dicasteri, si è creato un nucleo solido di interessi convergenti tra costruttori e politici nel quale spariscono i confini tra pubblico e privato. Un ambito, protetto e oscuro, dove ci si può, più o meno legittimamente, sottrarre ai due obblighi fondamentali del mercato. Il primo riguarda la concorrenza, con il corollario che impone la rima obbligata, la trasparenza. Il secondo tocca il sistema dei controlli amministrativi, a partire da quello della Corte dei conti.

E’ all’interno di questo mondo impermeabile a sguardi estranei che si costruisce un sistema e si consolida una mentalità. I magistrati hanno definito questo circolo chiuso di affaristi «una cricca». Il termine è efficace perché ben illumina l’aspetto di consorteria ristretta dei protagonisti e anche la ripetitività di reati compiuti nelle stesse forme. Ma non riesce a spiegare fino in fondo i motivi della peculiare sensazione di impunità e di onnipotenza che inebria costruttori e politici, quel misto di presunzione arrogante e nello stesso tempo ingenua che finisce per travolgere ogni prudenza e ogni limite di opportunità.

Nel tempo, con la consuetudine di frequentazioni amicali, diventa normale, infatti, rivolgersi a chi ristruttura i locali del ministero anche per aggiustare gli infissi di casa propria. Diventa normale chiedere a chi ha vinto l’appalto indetto dal dicastero che si dirige anche l’aiuto per acquistare una casa a prezzo ultrascontato. Diventa normale confessare al telefonino affarucci e affaracci, sicuri di una immunità riservata a imprenditori «speciali». Ma diventa anche normale e persino comprensibile la sorpresa quando la segretezza viene violata e diviene altrettanto comprensibile un atteggiamento altrimenti sconcertante: la pretesa di convincere l’opinione pubblica dell’assolutamente improbabile e il distacco da una realtà che i cittadini comuni conoscono a memoria e che, invece, in quel mondo, è così lontana da giustificare qualsiasi romanzesca versione dei fatti. In attesa di apprendere le prossime rivelazioni, armati di un serio garantismo ma non di una sciocca credulità, è urgente smantellare, al più presto e col massimo rigore, questo intreccio pubblico-privato di affarismo «riservato». Come diceva Bobbio, la democrazia non ama il buio.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7304&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #65 inserito:: Maggio 27, 2010, 04:33:51 pm »

27/5/2010

Federalismo alla prova

LUIGI LA SPINA

E’ vero. L’Europa ha deciso una concertata azione di tutti gli Stati contro l’espansione del debito pubblico per difendere non solo l’euro, ma la credibilità del progetto di unione politica ed economica del nostro continente. Ma il governo ha colto questa opportunità per varare un primo test sugli effetti, in Italia, dell’applicazione del federalismo.

Con una categoria esplicitamente e anche duramente messa nel mirino: i dipendenti pubblici. E con una istituzione messa alla prova: le Regioni.

La conferenza stampa della coppia Berlusconi-Tremonti aveva il dichiarato e obbligato scopo di smentire l’esistenza di contrasti tra il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia. Il tono di ostentata deferenza con il quale Tremonti si rivolgeva al premier, però, non è riuscito a mascherare la realtà. L’impronta della manovra corrisponde perfettamente alle visioni di politica economica e sociale caratteristiche dell’asse forte sul quale, oggi, si regge il quarto governo Berlusconi, quello formato dal ministro dell’Economia e dalla Lega.

Le dimensioni quantitative dei «tagli», o meglio, come pudicamente li ha battezzati Tremonti, dei «risparmi di spesa», non sono clamorose. Sia rispetto a quello che hanno fatto i governi dell’Europa, sia rispetto ai sacrifici che, in un passato abbastanza recente, prima Amato e poi Prodi hanno chiesto agli italiani per salvare lo Stato dal dissesto e per entrare subito nella moneta unica. A questo proposito, è significativo come, anche da parte di ambienti favorevoli alla maggioranza, siano state espresse preoccupazioni sulla sufficienza di questi provvedimenti per convincere i mercati e la speculazione finanziaria. Timori che lo stesso ministro dell’Economia ha cercato di fugare esibendo, con molta enfasi, i pareri favorevoli espressi ieri dalla Commissione europea, dal Fondo monetario e da alcune agenzie di rating.

Quello che caratterizza questa manovra è, invece, il preciso indirizzo sociale e politico, concentrato su una riduzione di spesa della pubblica amministrazione. La «filosofia» dalla quale nascono i provvedimenti parte da due scommesse. La prima presuppone che il costo dell’intervento sia accettabile per una categoria per la quale, finora, la crisi economica non ha avuto sensibili conseguenze. Perché garantita da un posto sicuro e da un salario che ha perlomeno conservato lo stesso potere d’acquisto, visto il basso livello dell’inflazione. La seconda scommessa vuole verificare le conseguenze di un trasferimento di responsabilità alle Regioni, che saranno costrette, se non riusciranno a tagliare i cosiddetti «sprechi», o a ridurre i servizi o ad aumentare le tasse.

Queste prove di federalismo fiscale, però, scontano differenze territoriali enormi che, simbolicamente, si potrebbero riassumere anche con la distribuzione geografica delle Province a rischio, secondo i criteri stabiliti dal governo: quasi tutta concentrata nel Centro-Sud. Nel nostro Mezzogiorno, ma non solo, è molto labile il confine tra l’erogazione di un servizio da parte dell’amministrazione pubblica e l’assistenza, il sostegno contro la disoccupazione, il disagio economico, la precarietà del lavoro. Forme di welfare improprio, certamente, ma che hanno consentito una pace sociale difficile da garantire altrimenti. Anche perché c’è una evidente sfasatura temporale tra gli effetti, immediati, dei tagli alle spese pubbliche e quelli, possibili ma non assicurati, dei provvedimenti previsti per attirare investimenti nel Sud.

Ecco perché le due sfide mettono a repentaglio un consenso elettorale che non tocca la costituente d’interessi di Tremonti e di Bossi. Il ministro dell’Economia, almeno per ora, deve occuparsi principalmente di offrire garanzie sui nostri conti, sia nei confronti dei partner europei, sia nei confronti dei risparmiatori che devono acquistare i nostri titoli di Stato. Impiegati pubblici e territori del Centro-Sud non sono, notoriamente, aree di particolare attenzione da parte della Lega.

Diversa è la condizione di Berlusconi. Al di fuori degli insegnanti e dei magistrati, i pubblici dipendenti costituiscono un bacino elettorale che assicura al Pdl una notevole messe di voti. Così come lo spostamento dei suffragi, dallo schieramento di centrosinistra a quello di centrodestra, è stato determinante per le sorti della competizione nazionale negli ultimi tempi. Non è un caso infatti che, proprio in questi giorni, il presidente del Consiglio stia tentando di riallacciare buoni rapporti sia con Casini sia con Fini, altrettanto interessati alle sorti di quella categoria e di quell’area geografica. L’equilibrio dei governi, come quello degli uomini, non sopporta che una gamba sia troppo più forte dell’altra.

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« Risposta #66 inserito:: Giugno 12, 2010, 05:40:20 pm »

12/6/2010

La cortina fumogena del governo
   
LUIGI LA SPINA


Quando la politica parla troppo di grandi princìpi, puzza di bruciato. Perché i princìpi si cercano di osservare, se ci si riesce. Ma quando si sbandierano, con il contorno di dotte citazioni dei maestri del pensiero liberale, è bene diffidare da quel fumo di ipocrisia che copre l’arrosto: gli interessi.

La vicenda della legge sulle intercettazioni è, in realtà, abbastanza chiara e l’opinione pubblica, al di là della propaganda, ne ha capito benissimo il significato e, soprattutto, gli obbiettivi. Si possono riassumere in poche parole. Nei mesi scorsi, i giornali hanno documentato, anche attraverso la pubblicazione di conversazioni telefoniche, un clima di corruzione politico-amministrativa estesa e preoccupante. Alcune volte con gravi risvolti penali, altre volte solo con caratteri di malcostume. Ci sono stati certamente episodi in cui la rivelazione di particolari ininfluenti, rispetto alle indagini, ha colpito la sfera della riservatezza delle persone. E ha infangato l’onore dovuto a chiunque sia sottoposto a un’inchiesta, per l’obbligata presunzione d’innocenza fino a giudizio definitivo. Con violazioni della legge in vigore che già proibisce questi comportamenti e che, se fosse osservata, sarebbe assolutamente in grado di tutelare questi fondamentali diritti.

Il governo, sentendo montare l’indignazione dei cittadini per questi scandali che si abbattono sulla classe politica con impressionante frequenza, ha colto il pretesto degli abusi nella pubblicazione delle intercettazioni per varare una nuova legge che, se andrà in vigore, avrà due conseguenze: rendere più difficile, per la magistratura, l’utilizzazione di questo mezzo d’indagine e limitare fortemente il diritto-dovere dei giornalisti di informare i cittadini, per assicurare la garanzia fondamentale in un sistema democratico: il controllo dell’opinione pubblica sull’operato di chi ricopre un incarico pubblico.

Quello che più sorprende è la sottovalutazione degli effetti-boomerang di questa vicenda proprio nell’elettorato di centrodestra. E’ ingenuo pensare che l’elevazione di questa barriera preventiva a tutela degli interessi della classe politica riesca a ridurre il distacco che si sta approfondendo tra la cosiddetta ”casta” e i cittadini. In particolare, quella parte dei ceti moderati e popolari che ha votato per il Pdl e per la Lega è più sensibile alle parole d’ordine di maggior tutela della sicurezza lanciate in campagna elettorale proprio da quei partiti. Non si capisce come possano plaudire alle limitazioni d’indagini, a causa delle maggiori difficoltà per poter intercettare le conversazioni, a cui saranno costretti magistrati e forze dell’ordine. Né come questa legge possa rientrare nelle priorità dei loro interessi quotidiani, che non sembrano particolarmente minacciati da intercettazioni.

E’ abbastanza illusorio, inoltre, che la legge approvata al Senato riesca a evitare la pubblicazione di indiscrezioni sulle indagini in corso. Il rapporto tra magistrati e giornalisti dovrebbe essere improntato alla massima chiarezza sulle conseguenze dei rispettivi comportamenti. Già adesso si sconta un clima di assoluta incertezza tra i cronisti per le disparità di valutazioni tra procura e procura, giustificate magari con ambiguità nell’applicazione di norme che, in realtà, non sono affatto ambigue. In futuro, la confusione delle procedure, le violazioni della legge imposte dalla deontologia professionale, l’apertura incomprimibile del villaggio globale sulle informazioni, tramite i più moderni mezzi di comunicazione, susciteranno una guerra senza regole, a colpi di veri o falsi scoop, con effetti diametralmente opposti a quelli che si vogliono raggiungere.

La contraddizione, poi, tra le esigenze più sentite dai cittadini e le scelte governative sono patenti. Si parla degli eccessivi costi della politica e, poi, non solo i “tagli” agli stipendi sono sostanzialmente simbolici, ma la ventilata abolizione delle province finisce in un ridicolo “nulla di fatto”. Per non parlare della riduzione del numero dei parlamentari, di quella dei consiglieri in tutti gli enti locali. Una delusione che non sarà certamente compensata dalla lettura, in tv, delle retribuzioni di Santoro o della Dandini.

La stravagante agenda dei provvedimenti del governo rischia, infine, di mettere in particolare difficoltà la Lega. Gli elettori di Bossi sono forse i più diffidenti nei confronti delle «esigenze» della classe politica. Eppure, sull’altare della speranza che la manovra di Tremonti non comprometta il sogno del federalismo fiscale, hanno dovuto accettare il dietro-front sull’abolizione delle province. Sollecitato, tra l’altro, dallo stesso Bossi che temeva di perdere qualche amministratore locale della Lega. Hanno constatato l’esiguità dei sacrifici imposti a parlamentari e ministri e udito, proprio per bocca di alcuni loro rappresentanti arrivati nelle stanze del potere locale, la necessità di tagli alle spese di comuni e regioni. Ora, devono assistere al tentativo d’innalzamento di una, sia pure velleitaria, cortina fumogena sui comportamenti di chi li governa. Una serie di bocconi amari davvero faticosi da digerire anche per chi ha stomaco robusto e molta fiducia nell’avvenire.

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« Risposta #67 inserito:: Giugno 27, 2010, 12:34:53 pm »

24/6/2010

Un voto che non va travisato

LUIGI LA SPINA

Alla luce dell’esito del referendum nella fabbrica Fiat di Pomigliano i rischi più gravi sono due: travisare i fatti per non volerne accettare il significato e cercare di non assumersi le responsabilità delle conseguenze.

La realtà, nelle linee fondamentali, è abbastanza chiara. La Fiat vuole riportare in Italia la produzione del modello decisivo per le future sorti del gruppo, la «Panda». Nelle attuali condizioni del mercato automobilistico, voler dimostrare che nel nostro Paese è possibile essere competitivi rispetto alle altre nazioni del mondo è una scommessa al limite dell’azzardo. Se, poi, si considera che questa sfida ha scelto proprio il Sud come terreno di prova, si comprende come ci sia soprattutto la volontà di verificare se il nostro Mezzogiorno debba essere considerato ancora una regione d’Europa non al di fuori dai moderni circuiti dei mercati mondiali.

Insomma, se possa diventare attrattivo per finanziamenti industriali o debba essere definitivamente escluso dall’interesse del capitalismo internazionale. Per poter attuare questo impegno, però, si devono assicurare garanzie che impongono sacrifici, anche duri, rispetto agli attuali modi di lavorare in quella fabbrica.

Di fronte a queste richieste aziendali, magari discutibili e certamente severe, ma che riguardano specifiche situazioni della realtà produttiva in quello stabilimento campano e del contesto sociale che lo circonda, nasce subito una campagna polemica di segno opposto, ma di uguale incongruo significato. Alcuni ministri del governo accolgono le proposte Fiat come l’imposizione di un nuovo modello universale di relazioni industriali, esaltando la fine di un’epoca e, addirittura, lo stravolgimento definitivo del rapporto tra il mondo del lavoro e quello del capitale. Dall’altra parte, la Fiom e i Cobas, appoggiati da un certo radicalismo intellettual-politico, parlano di attacco ai diritti fondamentali della persona e, persino, di un tentativo di colpire la Costituzione.

A questo primo tentativo di confondere i termini del problema, si aggiunge, ora, la tentazione di fuggire rispetto alla presa d’atto dei risultati: un’affluenza alle urne plebiscitaria, una netta maggioranza di «sì», una forte minoranza di «no». La responsabilità non può prescindere dalla chiarezza: alla Fiat spetta il compito di rispettare la volontà dei lavoratori che, per oltre il 60 per cento, si sono detti disponibili all’accordo. Senza ignorare le conseguenze, sulle future condizioni di lavoro nella fabbrica campana, dell’opinione contraria di un terzo dei dipendenti. Il comunicato dell’azienda torinese non sanziona una rottura definitiva e non dichiara l’impossibilità di proseguire la verifica per poter produrre a Pomigliano la «Panda» con l’investimento dei 700 milioni previsti. Ecco perché i sindacati, compresa la Fiom, debbono cogliere la finestra d’opportunità che la Fiat non ha chiuso. Senza sfruttare diversivi polemici per non affrontare, con realismo e coraggio, il tema delle particolari condizioni di lavoro in quella fabbrica.

Dal confronto negoziale non può estraniarsi, infine, come semplice spettatore o, peggio, come tifoso, uno degli interlocutori di una partita il cui risultato sarà determinante per l’Italia, la politica. Se la produttività del nostro sistema industriale è la vera e profonda causa del mancato nostro sviluppo negli ultimi quindici anni, la vicenda di Pomigliano tocca la responsabilità dell’intera classe dirigente del Paese. È giusto che ognuno faccia la sua parte, senza pressioni indebite. Ma il tentativo di passare agli altri il cerino acceso, per evitare di bruciarsi, è fin troppo evidente

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« Risposta #68 inserito:: Luglio 17, 2010, 11:02:46 am »

17/7/2010

I giudici e il peso del rinvio
   
LUIGI LA SPINA

Le sentenze dei magistrati si rispettano, ma si possono commentare. La decisione dei giudici amministrativi sulle elezioni regionali in Piemonte ha innescato, per la felicità dei giuristi, una ridda di interpretazioni e di pareri contrastanti. Per il comune cittadino, invece, la reazione, di sorpresa e di sconcerto, è stata abbastanza comune. Di fronte a due litiganti, ci si aspetta un verdetto che dia ragione o all’uno o all’altro. Al contrario, davanti a due strade, i giudici del Tar ne hanno individuato non solo una terza, persino una quarta e una quinta. Dalla giustizia si chiede la riduzione delle tesi contrastanti in una sola verità. Come si può non esprimere un sentimento di perplessità, quando da una camera di consiglio nasce una moltiplicazione delle ipotesi? A tutela del lettore, e magari anche dell’autore, è bene evitare di scendere in dettagli giuridico-amministrativi che, una volta e chissà perché, si attribuivano alle propensioni contorte di menti bizantine. Ma con qualche azzardo, il mestiere impone di tentare una semplificazione.

Contro la vittoria del leghista Cota, alla Regione Piemonte, erano stati presentati ricorsi per quattro liste a lui collegate. Respinto quello sui «Verdi-Verdi», i giudici hanno sospeso la decisione per la lista «Pensionati per Cota», in attesa del processo penale. Hanno ordinato, invece, il riconteggio dei voti per due liste, «Consumatori» e «Al centro con Scanderebech», considerandole presentate in modo irregolare. Il buon senso del cittadino, benché già un po’ provato, potrebbe a questo punto sentirsi meglio, nell’ipotesi che tutto si possa risolvere con una, sia pure faticosa, operazione aritmetica: se Cota risulta vincitore anche senza i voti delle due liste, ma con quelli espressi alla sua persona, quale candidato collegato alle liste incriminate, il verdetto viene confermato; altrimenti avrà vinto la sua competitrice, Mercedes Bresso. Troppo facile: la legge prevede che basti la croce su una lista, per contare quel voto anche per il candidato presidente di quella coalizione elettorale. Poiché non è ammessa ignoranza, se non c’è una esplicita volontà di dare il cosiddetto voto disgiunto, le intenzioni del cittadino devono essere rispettate anche in questo caso.

Ancora troppo facile: la presentazione di liste irregolari, hanno sentenziato i giudici, altera la composizione dell’intero consiglio regionale. Allora, penserebbe il sempre sbalordito cittadino, quei magistrati hanno deciso di far tornare i piemontesi alle urne? No. Non è detto: tutto è demandato a una prossima udienza e a un futuro di ricorsi, appelli, sospensive, rinvii... E’ vero che il sospetto è l’anticamera del peccato, ma, come ricorda uno che di peccati e di sospetti se ne intende, Giulio Andreotti, molte volte ci si azzecca. Non sarà che i nostri giudici abbiano voluto evitare di prendersi la responsabilità di una scelta chiara, di accollarsi il peso di un verdetto che avrebbe indignato sicuramente il cinquanta per cento degli elettori? Una domanda forse maliziosa, ma che rivela anche l’illusione di potersi sottrarre all’ingrato compito: quella responsabilità, infatti, cacciata dalla finestra, rientra dalla porta. E’ la responsabilità di provocare, in un momento già difficile, una confusa situazione di ingovernabilità, di impotenza decisionale, di polemica e di tensione politica intollerabile. E queste conseguenze sono più gravi di quelle che avrebbe suscitato una scelta netta e comprensibile a tutti.

Si parla spesso di una magistratura messa sotto accusa dalla politica per motivi strumentali. Molti giudici si lamentano del mancato rispetto nei loro confronti. Ma, in alcuni casi, sono i magistrati stessi a intaccare la loro credibilità e la loro autorevolezza. Quando, come ha efficacemente scritto sulla Stampa di ieri il professor Carlo Federico Grosso, adottano comportamenti che ledono la loro immagine di imparzialità. Ma anche quando non sentono l’urgenza e il dovere di assumersi la loro «coscienza di responsabilità».

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« Risposta #69 inserito:: Luglio 23, 2010, 11:12:52 am »

22/7/2010 (8:6)  - INCHIESTA

I cattolici e il sogno del terzo polo

Perchè i cristiani, maggioranza in Parlamento, temono l'emarginazione politica

LUIGI LA SPINA
CITTA' DEL VATICANO

Un governo di «larghe intese» non c’è ancora e, forse, non ci sarà mai. Ma una larga intesa c’è già: quella di tutti i cattolici in politica, di destra come di sinistra, che ritengono di non contare nulla. Non si tratta di evangelica modestia. Anzi, di laicissima rabbia. Certo, più contenuta e magari dissimulata nel partito di Berlusconi, perchè il potere lenisce molte amarezze. Più esplicita nell’opposizione targata pd, dove gli ex popolari sono esasperati. Ma anche nell’udc, partito dichiaratamente cattolico, la sensazione dell’irrilevanza è netta.

Al di là delle beghe di partito, il rimprovero che viene rivolto al leader, Pier Luigi Bersani, è quello di non aver capito quello che ha ben compreso, in America, Obama. Nelle democrazie moderne, di questi tempi, si vince puntando sulle cosiddette «minoranze significative». E lo sono, negli Stati Uniti, come in Italia ormai, i cattolici. E’ possibile che l’attuale viaggio di Bersani negli Usa porti consiglio al leader dei democratici italiani, ma i cattolici che stanno con lui ci sperano poco. A destra, poi, la strumentalità clericale con la quale Forza Italia usa il cattolicesimo è evidente. Con un corollario di degenerazioni affaristiche che, nel «caso Balducci», gentiluomo di Sua Santità, e nel «caso Sepe», gestore discusso delle case di Propaganda fide, hanno avuto i più recenti esempi.

Ma il problema, per la Chiesa e per i cattolici italiani, non sono tanto i rischi di corruzione politico-clientelare. Anche i preti sono uomini e le tentazioni non li hanno risparmiati in passato e non li risparmieranno in futuro. Del resto, c’è una battuta in circolazione al Vaticano così bella che viene citata da tutti e così cattiva per cui nessuno se ne attribuisce la paternità: «Quando i vescovi hanno da fare col denaro o sono imbroglioni o sono imbrogliati». Il pericolo più grave è quello di perdere l’identità e l’influenza nella società italiana, se non attraverso umilianti scambi di favori, peraltro a un prezzo sempre più alto, con il governante di turno.

E’ un rischio che l’ex presidente dei vescovi italiani, il cardinale Camillo Ruini, dopo la scomparsa della dc, aveva intuito con molta lucidità e preveggenza, cercando di evitarlo attraverso il progetto della cosiddetta «inculturazione della fede». Ma i risultati del suo sforzo, alla luce della realtà in questo primo decennio del nuovo secolo, non paiono aver corrisposto alle attese.

La condizione di difficoltà dei cattolici in politica viene spiegata molto bene dall’ex segretario di Dossetti e attuale deputato pd, Pierluigi Castagnetti: «L’afasia dei cattolici e la crisi della Chiesa sono assolutamente collegate. Una volta, all’epoca della Costituente, personalità di giovani brillanti e di grande cultura, come Mortati, Moro, Dossetti alimentavano coloro che facevano politica e si sforzavano di tradurre in pratica le loro idee. Così, anche per la generazione successiva, basti pensare ad Andreatta in economia, a Elia nel diritto, ad Ardigò nella sociologia, a Scoppola nella storia. Ora, dietro di noi, manca il lievito di quel pensiero. Ruini, temendo la sorte che hanno fatto la chiesa e i cattolici francesi dopo la scomparsa del Mrp, alla fine degli anni Sessanta, ha esposto direttamente la Chiesa in politica. I risultati sono stati buoni nella trattativa con lo Stato, ma a costo di rinunciare alla visione politico-profetica».

Ecco perchè i cattolici, soprattutto quelli impegnati in politica, guardano alle mosse del vertice vaticano come il possibile punto di partenza di una loro «nuova stagione», come l’ha chiamata il successore di Ruini alla Cei, il cardinale Angelo Bagnasco. A questo proposito, dopo il clamore suscitato dalla presenza del segretario di Stato, Tarcisio Bertone, alla cena in casa Vespa, non è sfuggito il significato di una ampia e ambiziosa intervista di Bagnasco comparsa, qualche giorni fa, proprio sull’Osservatore romano. Il segnale di una avvenuta ricomposizione delle lacerazioni tra Vaticano e Conferenza episcopale italiana, dopo la bufera del «caso Boffo», forse non è ancora sufficiente per prevedere il raggiungimento di un compromesso sui rispettivi ruoli nel rapporto con la politica e la società del nostro paese. Ma certo ha ragione Gianfranco Brunelli, sul Regno, quando osserva che «per uscire da una subalternità pacificata della Chiesa verso ogni governo» è necessario un nuovo equilibrio tra Segreteria di Stato e Cei, tale da poter inaugurare davvero «una nuova stagione dell’autonomia dei laici e del laicato».

Tradotta in concreto, la prospettiva a cui tutti guardano, con speranza o con scetticismo, è l’eventualità della costituzione di un «terzo polo» della politica italiana, dichiaratamente cattolico. Una ipotesi certamente suggestiva, ma di dubbia praticabilità, anche perchè dovrebbe coagulare personalità carismatiche e in grado di ottenere un consistente tributo elettorale da parte degli italiani. I vescovi, infatti, sono divisi, perplessi e aspettano anche dalla loro nuova guida, il cardinale Bagnasco, un segnale che autorizzi, nelle parrocchie delle loro diocesi, una mobilitazione in favore di tale tentativo.

Visto che il grande partito cattolico, la dc, non esiste più e che il fantomatico «terzo polo» chissà se mai nascerà, dove si dovrebbe allevare la nuova classe dirigente cattolica pronta a impegnarsi in politica, se non all’ombra delle sacrestie? Del resto, anche i movimenti con adepti più numerosi, dall’Azione cattolica a Cl, ai focolarini non sembrano vivere la stagione culturale più brillante ed espressiva di grandi personalità. E le comunità più piccole, da quella di Sant’Egidio a quella di Bose, svolgono compiti importanti, ma in ambiti troppo ristretti per un compito così impegnativo.

E’ significativo di questa situazione, del resto, come negli ultimi tempi sia stato proprio l’ateo-devoto Giuliano Ferrara, sul suo Foglio, a far emergere un pensiero cattolico alternativo, discutibile ma interessante, rispetto a quello tradizionale, di ispirazione progressista, che ha nella bolognese rivista Il Regno forse la sua roccaforte più importante. I cattolici dovranno guardare ai laici, più o meno devoti, per alzare la testa e muoversi alla riscossa?

I paradossi restano, naturalmente, solo paradossi. Lo ricorda, con paragoni biblici, il filosofo e politico Rocco Buttiglione: «I cattolici devono smetterla di pensare a un nuovo Ciro il Grande che li libererà, come fece il re persiano con gli ebrei. Ci vuole un eroe che venga dalle nostre file, come Giuda Maccabeo, che si ribellò contro l’oppressione siriana». Ma Berlusconi, di Ciro il Grande ha sicuramente le ambizioni, forse non le sue virtù. E di eroi cattolici, non se ne vedono comparire all’orizzonte.

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201007articoli/56935girata.asp
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« Risposta #70 inserito:: Luglio 23, 2010, 11:17:30 am »

23/7/2010

Un paese senza politica industriale

LUIGI LA SPINA

L’esercizio è semplice, ma l’effetto è impressionante. Basta accostare due notizie, registrate da tutti i giornali negli ultimi giorni. La prima, in ordine di tempo, si riferisce al rapporto Svimez 2010 sull’economia del nostro Mezzogiorno, dove si segnala addirittura il rischio di «una estinzione» dell’industria nel Sud. La seconda, di ieri, riporta le dichiarazioni dell’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, nelle quali si annunciano, da Detroit, il passo decisivo e obbligato dell’azienda sulla via dell’internazionalizzazione e la scelta di spostare in Serbia la costruzione della nuova monovolume, in un primo momento prevista a Mirafiori.

Il drammatico allarme del più importante istituto di analisi economico-sociale sulla condizione delle nostre regioni meridionali e la cruda chiarezza con cui Marchionne esprime scetticismo sulle garanzie che negli stabilimenti italiani si possano ottenere per attuare progetti di investimento così impegnativi hanno suscitato nella classe politica e in quella sindacale del nostro Paese reazioni sconcertanti. Da una parte, deprecazioni generiche all’insegna di un meridionalismo sempre più vecchio e senza idee.

Dall’altra, minacce, barricadiere nei toni e vane nella sostanza, contro le regole della competitività e dei mercati internazionali e proposte di liturgici tavoli di discussione.

La debolezza di queste risposte al significato complessivo delle due notizie è sconfortante, per almeno due ragioni. La sproporzione rispetto al pericolo di un forte declino dell’industrializzazione italiana e, quindi, di una sostanziale emarginazione di quella che figura ancora come settima potenza dell’economia mondiale dal futuro vertice dei Paesi più sviluppati del ventunesimo secolo. La sorpresa per due annunci che non sono affatto «due fulmini a ciel sereno», ma sono gli esiti, purtroppo largamenti previsti, di fenomeni che, in Italia, si manifestano non da anni, ma da decenni.

E’ da decenni, infatti, che i governi che si sono succeduti a Palazzo Chigi non hanno avvertito la gravità della crisi e che, perciò, non hanno lanciato un vero piano straordinario di politica industriale. L’unico progetto con il quale, concentrando tutte le risorse del Paese, si possa sperare di restare a far parte dell’élite economica del mondo. L’unico modo, al di là di astratti, confusi e velleitari piani di riconversione delle vocazioni fondamentali dell’Italia, con il quale si possa assicurare il futuro ai nostri giovani.

Nel recente e non solo recente passato i governi hanno diviso la questione industriale in Italia, separando, di fatto, l’attenzione e le terapie tra la condizione del Nord e quella del Sud. Nel Settentrione, si è pensato di compensare le difficoltà delle grandi aziende per competere sui mercati internazionali con il modello della piccola manifattura che si è sviluppato nel Nord-Est. Un sistema fondato su presupposti economici, sociali, finanziari che non poteva reggere davanti alla crisi dei mercati esteri e alla concorrenza delle condizioni di lavoro nei Paesi meno evoluti.

Per il Mezzogiorno si è oscillato, invece, tra due convinzioni, in realtà senza applicare nessuna delle due con la minima coerenza. Alcuni hanno teorizzato che la migliore scelta fosse quella di non fare nulla. I risparmi ottenuti, rispetto alle onerose politiche di incentivi e di assistenza, avrebbero potuto consentire al Nord una più rapida crescita e, quindi, trainare anche il Sud verso un progresso economico più sano e più indipendente. Altri hanno invocato, invece, una specie di ritorno al passato, alla «gloriosa» epoca della Cassa del Mezzogiorno e dell’Iri, al massiccio intervento dello Stato. I risultati dell’intreccio casuale di queste due linee di politica economica sono evidenti: mentre in altre zone depresse d’Europa, come l’Irlanda, il Sud della Spagna, l’Est della Germania, le distanze con le regioni più sviluppate si sono accorciate o addirittura annullate, il nostro Mezzogiorno è nella condizione tragica denunciata, appunto, dall’ultimo rapporto Svimez. Un piano straordinario di politica industriale dovrebbe puntare sulle tre emergenze che impediscono all’Italia di essere un Paese attrattivo per gli investitori stranieri: una giustizia civile meno insopportabilmente lunga, una burocrazia meno asfissiante, una legislazione del lavoro più moderna. Il ministro Tremonti, a parte la balzana idea di modificare l’articolo 41 della Costituzione, ha avanzato, per la verità, alcune proposte interessanti in merito, individuando il vero motivo per cui sia le famose «lenzuolate» di Bersani, sia il tanto propagandato «piano casa» di Berlusconi si siano risolti in un sostanziale fallimento: «gli interessi di settori riescono a bloccare tutto», ha ammesso.

Ecco perché solo una eccezionale mobilitazione bipartisan, provocata dalla consapevolezza del rischio che corre l’Italia in questo momento, potrebbe sconfiggere le resistenze corporative. Non c’è bisogno di calcare i toni dell’allarme sul futuro dell’industria nel nostro Paese, perché la situazione è persino troppo evidente. Né di eccedere in pessimismo, perché il nostro futuro non è scontato. E neanche di esibire qualche gesto simbolico. Ma se, a quasi tre mesi di distanza dalle dimissioni di Scajola, si trovasse anche un ministro dell’Industria non sarebbe male.

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« Risposta #71 inserito:: Settembre 03, 2010, 08:59:23 am »

3/9/2010

Il solco tra il dire e il fare

LUIGI LA SPINA

Fare il ministro della Pubblica Istruzione, oggi in Italia, è uno dei mestieri più difficili e, nello stesso tempo, più determinanti per il nostro Paese. Si è destinati a guidare una struttura elefantiaca, dove convivono eccellenze professionali sorprendenti assieme a sacche di inefficienze, mediocrità, menefreghismo irriducibili. Un mondo, quello della scuola, condizionato da un sindacalismo corporativo che, associato al clientelismo politico, ha costruito nei decenni uno pseudowelfare assistenziale responsabile di illusioni e di strumentalizzazione per migliaia di giovani, vittime di un precariato quasi perenne. D’altra parte, a quel ministro è affidata una missione assai impegnativa: garantire il futuro occupazionale ai nostri figli, farne dei cittadini consapevoli del nostro Stato e selezionare la classe dirigente dei prossimi anni.

Il compito, già molto arduo, è stato reso, per l’attuale ministro del governo Berlusconi, ancor più difficile dalle ristrettezze del bilancio pubblico, sul quale l’occhiuta vigilanza del collega Tremonti non permette eccezioni.

Mariastella Gelmini, come ha ribadito nella conferenza stampa di presentazione del nuovo anno scolastico, ha scelto, in queste condizioni, una strategia sostanzialmente mediatica, affidata a una serie di annunci-intenzione, fondati su un messaggio semplice ma efficace: occorre ripristinare, nelle aule italiane, un clima di serietà e di rigore meritocratico. Sia nei confronti degli studenti, sia nei riguardi del corpo insegnante.

L’immagine di durezza, di intransigenza che la Gelmini ha diffuso in questi anni di guida al ministero di viale Trastevere è stata persino volutamente inasprita dai due principali nuovi suoi annunci, quello sulla bocciatura di chi colleziona più di 50 giorni di assenza e quello sulla chiusura a qualsiasi trattativa per l’assunzione dei precari. E’ evidente la sua volontà di farsi sostenere dalla maggioranza dell’opinione pubblica, favorevole a un ritorno della severità negli studi, per sconfiggere le resistenze della burocrazia e, soprattutto, dei sindacati scolastici.

Le strategie dei politici, come quelle degli amministratori delle aziende, un paragone che non dovrebbe dispiacere al ministro Gelmini, si giudicano, però, non dalle intenzioni, ma dai risultati. Soprattutto dal confronto non dal mondo come dovrebbe essere, ma da quello che realmente esiste. Nell’attuale situazione della scuola italiana, il rischio della sua strategia è evidente: l’esasperazione, quasi provocatoria, delle diagnosi e delle terapie sui mali dell’istruzione pubblica, in molti casi fondate, potrebbero portare a tali reazioni da suscitare effetti opposti a quelli che si vorrebbero suscitare. La Gelmini si potrebbe trovare davanti a un vero «muro di gomma», fatto di pervicace boicottaggio e di resistenza passiva di chi dovrebbe attuare quelle direttive, tale da vanificare qualsiasi volontà riformatrice.

Il sistema della scuola italiana è molto più complicato di quanto la Gelmini faccia finta di credere ed è difficile si possa smuovere senza la collaborazione e il consenso della grande maggioranza di coloro che ne fanno parte. E’ vero che il ministro deve disinnescare una «bomba precari», la cui miccia è stata accesa da predecessori irresponsabili e da gravi complicità sindacal-politiche, ma non può ignorare la condizione drammatica di tanti giovani ed ex giovani destinati a una sicura disoccupazione. Con l’aggravante di accuse generalizzate e ingiuste sulla loro militanza politica. Prima di tutto assolutamente presunta e, poi, eventualmente, del tutto legittima in un Paese democratico.

Così come è evidente che bisogna frequentare con costanza l’aula scolastica. Ma le eccezioni alla regola dei 50 giorni di assenza, peraltro già ammesse dal suo ministero, rendono abbastanza irrilevante un annuncio la cui concreta attuazione si affida al solito buon senso del collegio degli insegnanti. Siamo tutti d’accordo, naturalmente, sulla meritocrazia, come condizione essenziale per una selezione che non sia fondata sull’iniziale livello della condizione sociale degli alunni. Ma il confine con il darwinismo scolastico si misura su una condizione essenziale: che al mondo dell’istruzione siano concesse maggiori risorse di quelle che, finora, sono state riservate a questo settore.

Ed è del tutto inutile parlare continuamente di quanto sia importante l’investimento sul futuro dei nostri giovani, sulla formazione e sulla ricerca, se poi, a questi buoni propositi, non seguono stanziamenti adeguati. Purtroppo, il confronto con i maggiori Paesi del mondo, in questo campo, boccia l’Italia, anche quella che, nelle nostre aule, non fa più di 50 giorni di assenza.

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« Risposta #72 inserito:: Settembre 21, 2010, 05:15:55 pm »

18/9/2010

La febbre delle riforme sbagliate
   
LUIGI LA SPINA


L’invito, del tutto condivisibile, arriva anche da personalità molto autorevoli, come il presidente della Repubblica: basta con le polemiche a suon di pettegolezzi e di insulti, discutiamo e variamo finalmente le grandi riforme necessarie per l’avvenire del nostro Paese. L’intento è lodevole, ma il riformismo, di per sé, non garantisce un buon risultato. Anche se la diagnosi del male che si vuol curare è giusta, ci sono terapie inefficaci e addirittura medicine che aggravano il male, con effetti opposti a quelli che si volevano ottenere. Come ha scritto, qualche giorno fa, Bill Emmott sulla Stampa, pure copiare la formula vincente all’estero non assicura all’Italia lo stesso successo.

L’esempio più efficace e clamoroso di questo cattivo riformismo si trova nel settore dove, negli ultimi tempi, più si è rovesciata la furia di cambiamento dei vari governi, di entrambi gli schieramenti: l’università. Una specie di campo di esercitazione per la volontà dei vari ministri che si sono succeduti su quella poltrona di iscrivere il loro nome nella storia delle «svolte epocali» di questa istituzione. Con il risultato di rischiare di essere ricordati come i volenterosi ma maldestri becchini del futuro di tanti giovani italiani. Per poter giudicare gli effetti di una riforma, però, ci vuole soprattutto pazienza, perché solo dopo un congruo periodo di tempo si possono confrontare i traguardi sperati con i risultati ottenuti. Così, per l’università, l’esercizio si può tentare per quella riforma, davvero «epocale», che, circa 10 anni fa, varò, negli atenei italiani, il famoso «tre più due» al posto dei canonici quattro anni per arrivare alla laurea, com’era stabilito nella maggior parte delle nostre facoltà. Ricordiamo le finalità di quella legge, invocata, tra gli altri, anche da Confindustria e sindacati come la terapia giusta per combattere i tre gravi mali della formazione universitaria in Italia: il ritardo con il quale i giovani si inserivano nel mondo del lavoro, la quantità di abbandoni degli studi prima di arrivare alla laurea, cioè la cosiddetta «mortalità universitaria», l’alto costo per lo Stato di ogni studente parcheggiato in quelle aule. La soluzione del problema era semplice: bastava copiare la struttura della formazione accademica europea fondata su lauree brevi di tre anni, lauree magistrali di altri due e, poi, il dottorato di ricerca.

Ebbene, dopo quasi 10 anni, chiunque frequenti un ateneo, per qualsiasi ragione e in qualsiasi ruolo, dovrà riconoscere che quella legge non solo non ha curato quei mali, ma li ha aggravati. Il mondo del lavoro rifiuta la laurea triennale, a cominciare dallo stesso Stato che per gli insegnanti, ad esempio, richiede quelle magistrali. Per non parlare degli ordini professionali, come quello degli ingegneri, degli architetti, degli avvocati. Così, la stragrande maggioranza degli studenti prosegue gli studi dopo i tre anni, con il risultato concreto di allungare e non di diminuire il loro inserimento nel mondo del lavoro. Per non parlare della sorte dei «dottori di ricerca», assorbiti in minima parte dagli atenei e universalmente osteggiati e non assunti dalle aziende.

A questa disgraziata «eterogenesi dei fini», si aggiunge un paradosso che tutti i docenti dei nostri atenei possono confermare. Trascorrere un anno di più, al minimo, nelle aule di giurisprudenza, matematica, lettere o economia non garantisce affatto una migliore preparazione. Anzi, nella grande maggioranza dei casi, il livello culturale dei laureati è peggiorato negli ultimi dieci anni. L’alta quota di «mortalità universitaria», poi, è rimasta costante o è cresciuta, per cui le distanze, rispetto ai Paesi dell’Occidente con i quali ci dobbiamo confrontare, restano umilianti. Il fenomeno del parcheggio di studenti fuori corso da anni si è aggravato, perché la poca spendibilità della laurea triennale ha spinto a un affollamento, di iscrizioni se non di frequenze, verso quella magistrale di allievi poco motivati o non meritevoli, per varie ragioni, di conseguirla. Con l’effetto di mantenere troppo alto e del tutto sproporzionato ai risultati il costo pro-capite dello studente per lo Stato. Dal momento che, come si sa, solo una parte di quel costo viene pagata dalle rette, mentre il resto è a carico della fiscalità generale.

Questo pessimo bilancio della più importante riforma che si sia abbattuta sugli atenei italiani, però, sembra non insegnare nulla ai successori di quelli sciagurati padri portatori di questa insana febbre riformistica che, come un contagioso focolaio di pericolosi germi, infetta inesorabilmente i ministri competenti (?!). Con entusiasmo assolutamente bipartisan, consigliati da esperti disposti, con la massima disinvoltura, a mettere i frutti delle loro fantasie a disposizione di entrambi gli schieramenti politici, i responsabili di quel dicastero non hanno pace. Ogni due, tre anni sfornano una riforma che rivoluziona la precedente. Senza aspettare che il tempo faccia capire gli effetti delle loro mosse. Non li spaventano proteste, critiche, perplessità. Verrebbe voglia davvero di rivolgere un appello controcorrente: ministri, faticate un po’ di meno e pensate un po’ di più.

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« Risposta #73 inserito:: Settembre 22, 2010, 05:04:36 pm »

22/9/2010

Il pericolo del ritorno al passato

LUIGI LA SPINA


Ci sono motivi contingenti. Ci sono evidenti pretesti. Ci sono persino questioni caratteriali. Ma sarebbe davvero miope e provinciale non alzare lo sguardo sul preoccupante segnale che la cacciata di Alessandro Profumo manda alla comunità economica e politica internazionale. Un segnale che supera la sorte personale di un manager e sul quale, invece, va concentrata l’attenzione, perché svela, con il massimo clamore mediatico, il rischio di una involuzione del sistema finanziario nel nostro Paese.

L’ex amministratore delegato di Unicredit ha pagato certamente anche una serie di errori che, negli ultimi anni, hanno offuscato, ma non possono far dimenticare, il fondamentale successo della sua carriera: essere riuscito a costruire, nei quindici anni del suo mandato in piazza Cordusio, la seconda banca europea, l’unico istituto di credito italiano con una vera, grande apertura sullo scenario del mondo. Una posizione brillante, ma anche scomoda, perché esposta più di altre banche ai contraccolpi della crisi internazionale. Ma una vocazione alla quale non si deve rinunciare, per non tornare a rinchiudersi nel vecchio orizzonte dei confini nazionali.

Quello preferito dalla politica per esercitare quell’influenza e quel sostanziale controllo, di cui la nostra memoria ancora non può dimenticare i nefasti effetti su tutto il sistema economico negli ultimi decenni del secolo scorso.

Profumo si è servito, con grande abilità e con indubbia spregiudicatezza, di una serie di circostanze irripetibili: la necessità di una crescita dimensionale del sistema creditizio italiano, la debolezza del potere politico nella fase di transizione dopo la cosiddetta prima Repubblica, lo scudo delle neonate fondazioni azioniste, così come furono concepite da Amato e da Ciampi, i padri di questi strani istituti, ircocervi di natura mista, pubblica e privata. Così ha potuto disporre di un potere assoluto, per certi versi anche incontrollato, trasformando la sua banca in una specie di public company.

Questo mutamento dell’identità del suo istituto, se, da un lato, gli ha concesso la massima libertà decisionale, dall’altro, l’ha costretto a subire la regola di tutte le public company. Fin quando gli azionisti ricevono ghiotti dividendi, si accontentano di staccare l’assegno e di ringraziare l’amministratore delegato; quando i profitti mancano e sono costretti a rimpinguare i patrimoni traballanti, il licenziamento è un provvedimento annunciato. Ancora una volta, il rischio di questo tipo di capitalismo finanziario si è dimostrato con tutta la sua evidenza, perché è difficile sostenere obiettivi di medio-lungo periodo, se chi gestisce l’azienda si deve solo preoccupare dei risultati nel bilancio dell’anno. Il venir meno di quello scudo delle fondazioni azioniste, preoccupate dalla riduzione delle risorse da distribuire sul territorio e incalzate da una classe politica che è tornata a reclamare il suo potere di clientela e di gestione occulta delle banche, ha segnato la fine non solo della carriera di un manager, ma di una intera fase del sistema finanziario nel nostro Paese. Profumo ha certamente compreso il significato di questo cambiamento del quadro nel quale era abituato a muoversi, ma non è riuscito a sapersi proporre come gestore anche per il «dopo Profumo». D’altronde, gli uomini migliori sono quelli che sanno far bene una cosa e non esistono quelli sanno fare anche l’altra.

Non bisogna dar troppa importanza alle logomachie dei partiti, alle loro polemiche strumentali, alle battute tronfie e arroganti di chi cerca di vendersi come vincitore di battaglie in cui ha fatto solo la parte della comparsa. Né vale soppesare le alleanze mutevoli e sorprendenti di alcuni potenti personaggi dell’establishment nazionale, come il ministro Tremonti, difensore imprevedibile di un Profumo azzoppato. Perché quello che davvero conterà sarà la sorte delle fondazioni ex bancarie nel prossimo futuro. Dipenderà dai loro gruppi dirigenti se riusciranno a conservare quella autonomia dai condizionamenti politici che ha consentito sia lo sviluppo dei nostri istituti sul mercato internazionale del credito, sia una gestione che ha potuto evitare i fallimenti che sono avvenuti in tanti Paesi occidentali durante la fase più acuta della crisi finanziaria. Dipenderà da loro se garantiranno ai manager delle loro aziende quella prospettiva, lunga sul piano temporale e ampia su quello internazionale, che non trasforma l’azionista in un raider di Borsa.

Le preoccupazioni sono fondate, ma sbaglierebbe chi sopravvalutasse le tentazioni dei politici, tanto abili a vendere un potere che, almeno finora, non è riuscito a espugnare più di tanto le roccaforti delle fondazioni. Una indicazione importante, invece, verrà proprio dalla scelta del successore di Profumo all’Unicredit. L’autorevolezza e l’indipendenza del nuovo manager costituirà un significativo avviso sui caratteri della nuova strada che si appresta a percorrere il sistema creditizio del nostro Paese. Purché la nuova strada non assomigli troppo a quella vecchia.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7860&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #74 inserito:: Ottobre 08, 2010, 01:01:08 pm »

8/10/2010

Democrazia malata

LUIGI LA SPINA

Il caso «Marcegaglia-il Giornale» segna un’altra tappa sulla via di un inquietante imbarbarimento della vita pubblica italiana.

Da una parte, c’è un’inchiesta, condotta col solito metodo delle intercettazioni a strascico, che porta a un controllo delle conversazioni dell’intera direzione di un quotidiano, a perquisizioni in ufficio, in casa e, perfino, intime, di giornalisti a cui dovrebbe essere garantita la riservatezza delle fonti e la libertà di inchiesta.

Dall’altra, la stessa libertà professionale a cui giustamente si appellano i vertici del «Giornale» dovrebbe essere tutelata nei confronti della presidente della Confindustria, la quale confessa di essersi sentita minacciata dagli avvertimenti ricevuti. In mezzo, una pubblica opinione sconcertata per il sospetto che il ricatto, il dossieraggio mirato ipotechi pesantemente le sorti della nostra politica e la condotta, sia dei nostri leader di partito, sia dei rappresentanti delle principali forze sociali del Paese.

Le perplessità sulla robustezza dell’impianto accusatorio e sul modo con il quale si è giunti a giustificare una perquisizione così spettacolare nascono, purtroppo, per due ordini di considerazioni. Il primo riguarda la sorte di molte altre inchieste sui cosiddetti vip della vita pubblica italiana promosse dal pm Henry John Woodcock e concluse, compresa quella che riguardava infamanti accuse contro Vittorio Emanuele, con proscioglimenti senza neanche arrivare a un rinvio a giudizio. Con grave e ingiustificato danno per la credibilità di un’intera categoria di procuratori della Repubblica e fornendo insperate armi propagandistiche al vittimismo giudiziario del capo del governo e dello schieramento di centrodestra.

La seconda considerazione riguarda, ancora una volta, un sistema di intercettazioni telefoniche che, partendo da una vicenda specifica, può allargare il controllo della magistratura sulle conversazioni telefoniche dei cittadini praticamente senza limiti, né di tempo, né di argomento, né di interlocutore. Una prassi investigativa che, quando coinvolge la professione giornalistica, rischia di ledere sia il diritto alla riservatezza di coloro che vengono intercettati, sia la libertà di informare l’opinione pubblica senza censure preventive. Non si può invocare il rispetto dei principi fondamentali della nostra Costituzione, però, senza pretendere il pari rispetto per la libertà di giudizio e di azione politica dei principali protagonisti della nostra vita pubblica.

Altrimenti, apparirebbe una farisaica difesa corporativa che, con una falsa ingenuità, fa finta di non cogliere il rischio di un grave inquinamento della lotta politica. La coincidenza tra le critiche a Berlusconi e al suo governo e l’avvio immediato di campagne accusatorie, da parte dei giornali più schierati col centrodestra, indirizzate contro chi ha avuto l’ardire di non condividere l’opinione del presidente del Consiglio o l’operato del suo esecutivo è troppo puntuale e ripetuta per non alimentare un grave timore. Un grave timore confermato, del resto, dalle parole rese dalla Marcegaglia al procuratore di Napoli, a proposito della minaccia alla sua libertà di giudizio e di espressione pubblica.Questa preoccupazione è ancora più giustificata se si considerano, poi, i protagonisti e il tenore delle critiche che hanno suscitato tali campagne. L’ex direttore dell’«Avvenire», un giornale certamente non schierato a sinistra, Dino Boffo, aveva risposto ad alcune lettere di lettori con toni assolutamente moderati e con considerazioni del tutto legittime. Così come del tutto ragionevoli e condivisibili sono gli inviti al governo della Marcegaglia, altro personaggio non etichettabile certo come un pericoloso estremista antiberlusconiano, a un’azione più concentrata a risolvere i veri problemi degli italiani, senza perdersi in liti personalistiche tra fondatori dello stesso partito.

Se il confronto politico e delle idee, in Italia, si esercita con i fumogeni contro le persone e con gli assalti alle sedi di coloro che hanno un’opinione diversa o cercando di intimidire, preventivamente o immediatamente dopo, chi osa criticare il governo o il suo leader vuol dire che la nostra democrazia è davvero malata.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7931&ID_sezione=&sezione=
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