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Autore Discussione: LUIGI LA SPINA -  (Letto 88804 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Maggio 30, 2009, 10:06:47 am »

30/5/2009
 
Fiducia, ma niente trucchi
 
 
LUIGI LA SPINA
 
Il tono di Mario Draghi era il solito: asciutto, fattuale, garbato. Lo sfoggio di sintesi arrivava a raggiungere il record di brevità, nella storia delle Considerazioni finali di un governatore: solo 19 pagine. Ma la forma diplomatica non nascondeva una diagnosi della crisi economica italiana nettamente più preoccupata di quella governativa e, soprattutto, una terapia che non accettava «i due tempi» concepiti da Tremonti per affrontarla, sollecitando una urgente e incisiva strategia di scelte riformatrici.

Era davvero un curioso inizio di giornata quello che ieri aspettava il governatore della Banca d’Italia nel suo momento di maggior visibilità mediatica durante tutto l’anno. La lettura delle sue Considerazioni finali, infatti, era stata preceduta, con una tempistica che è difficile immaginare affidata al caso, da un’altra lettura, quella di un’intervista del ministro Tremonti al più importante quotidiano economico-finanziario del nostro Paese, Il Sole-24 Ore.

Una specie di «contro-relazione» anticipata, dunque, con la quale era inevitabile ingaggiare un confronto con il discorso che avrebbe pronunciato il governatore a metà mattinata. Così, al di là delle intenzioni, almeno quelle di Draghi, un felpato duello dialettico si sviluppava in una giornata in cui il ministro dell’Economia rivendicava il diritto esclusivo del governo «a fare la politica economica», pur non ignorando i dati forniti «dai tecnici». Mentre il governatore non si sottraeva al compito di suggerire una linea di maggior interventismo riformatore, di fronte ai rischi di un grave impatto sociale della crisi sull’occupazione.

L’approccio di Draghi nel confronto con l’esecutivo era molto soffice: si ammetteva la particolare difficoltà, rispetto agli altri paesi, di una politica economica che deve limitare l’azione di sostegno alla domanda, perchè il peso del debito pubblico è gravoso. Si riconosceva anche al governo di aver imboccato la strada giusta nelle misure anti-crisi. Ma si contestava, con nettezza, l’opportunità dei «due tempi» nell’azione di rilancio prospettata dal ministro dell’Economia, cioè prima «il pronto soccorso», come lo chiamava Tremonti nell’intervista e, poi, «la fase due, quella della spinta e delle riforme». Il governatore di Bankitalia, invece, sosteneva la necessità di varare subito quelle riforme che possano aggredire il «male oscuro» della nostra economia negli ultimi 15 anni: la bassa crescita.

L’impossibilità di concedere altri rinvii alle indispensabili scelte sull’innalzamento dell’età pensionabile e sull’estensione a tutti i disoccupati di una uniforme protezione sociale è obbligata, perché, quando la congiuntura cambierà, non ci troveremo al punto di prima, ma in una situazione peggiore: «con più debito pubblico» e con un «capitale privato - fisico e umano - depauperato». La strategia economica che il governatore suggerisce al governo, in realtà, punta a sollecitare consensi, almeno così sembra di capire, anche all’interno di quella parte dell’esecutivo che non è del tutto allineata alle tesi di Tremonti. Così, si loda la riforma federalista «nel cruciale passaggio dal criterio della spesa storica a quello dei costi standard». Un importante contributo, riconosce Draghi, al contenimento della spesa e, quindi, a una maggiore flessibilità del bilancio dello Stato. Sulla riforma del welfare, inoltre, c’è un esplicito riconoscimento alle misure di sostegno al reddito per i casi non coperti dalla cassa integrazione indicate dal ministro Sacconi nel «libro bianco».

Tutto il complessivo impianto della linea di politica economica che il governatore ritiene indispensabile per consentire all’Italia non solo di uscire dalle attuali difficoltà, ma di «essere parte attiva della ripresa economica mondiale», non si fonda, come detto, sui «due tempi» di Tremonti, ma su quelli che ha chiamato «due fronti»: misure di riduzione della spesa corrente, da varare «subito, anche se possono avere effetti differiti» e riforme «da lungo tempo attese» per assicurare all’economia ritmi di crescita superiori. Draghi si è riallacciato, in maniera significativa, all’esigenza di «ricostruire la fiducia», lo slogan che Berlusconi ripete con insistenza. Ma la frase si è completata con una precisazione importante: «non con artifici, ma con la paziente, faticosa comprensione dell’accaduto, dei possibili scenari futuri e con l’azione conseguente». Perché «la fiducia non si ricostruisce con la falsa speranza, ma neanche senza speranza». Insomma, un discorso, quello di Draghi, che è stato apprezzato, forse, più a Palazzo Chigi che in via XX Settembre, la sede del ministero dell’Economia. Come lo rivelava, a sera, lo stesso Berlusconi, definendolo, con una certa malizia, «molto berlusconiano».
 
da lastampa.it
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« Risposta #31 inserito:: Giugno 06, 2009, 05:31:25 pm »

6/6/2009
 
Referendum su quattro leader
 
LUIGI LA SPINA
 
Un brivido di nostalgia colpirà, forse, molti italiani domani sera, quando guarderanno la tv per conoscere i risultati del voto: è possibile che tutti i principali leader del nostro teatro politico si possano dichiarare soddisfatti.

E come ai (bei?) tempi della prima Repubblica, si possano proclamare vincitori. Così, la notte dell’elettore sarà agitata da sogni confusi e turbata dai dubbi. In teoria, la partita è relativamente semplice. Oggi e domani si dovrà eleggere il Parlamento Europeo e sono previste parziali elezioni amministrative. In pratica, si tratta di un anomalo e scorretto referendum su almeno quattro leader italiani. Una specie di sondaggio, ma con regole così diverse da quelle che sono stabilite nelle elezioni politiche da rendere abbastanza infondato il test e sostanzialmente abusive le conclusioni che se ne trarranno.

Il «nocciolo» di questa intricata consultazione è, invece, abbastanza chiaro. Si dovrà giudicare se il voto popolare costituirà, per Berlusconi, quel trionfo plebiscitario che, nelle sue intime speranze e nelle sue pubbliche previsioni, lo assolverà dalle accuse, grandi e piccole, che in campagna elettorale gli sono piovute addosso, dentro e fuori le nostre frontiere. Se Franceschini avrà salvato il Pd dal naufragio, ad appena un anno e mezzo dalla nascita di questo partito. Se Bossi avrà così rafforzato la sua presenza nel Nord d’Italia da spostare nel CentroSud il vero baricentro del «Popolo della libertà». Infine, se Di Pietro raccoglierà solo la transeunte onda del voto di protesta, sempre alla ricerca di uno scoglio sul quale raccogliersi, o se la sua trasversale caccia all’elettore smarrito potrà consentirgli di costruire un inedito modello di opposizione diversa.

A queste quattro fondamentali domande è difficile che la notte di domani offra risposte affidabili. Innanzi tutto, per il carattere europeo dell’unica consultazione che si svolge omogeneamente in tutto il territorio nazionale. A meno di clamorose sorprese, lo scarto tra la percentuale degli italiani che sarà andata a votare per queste elezioni e quella che normalmente si registra nelle politiche sarà tale da indebolire un confronto valido. Perché la mobilitazione alle urne degli elettorati, nei vari partiti, è molto diversa secondo la «natura» del voto e, quindi, una ripartizione proporzionale degli astenuti è statisticamente scorretta.

Per complicare i ragionamenti, già abbastanza complicati, che i nostri leader sfoggeranno domani sera per giustificare una vittoria collettiva, ci sono due «varianti». Il primo utile depistaggio per deviare l’attenzione su argomenti più favorevoli all’esito che si auspica è il voto amministrativo. E’ vero che si tratta di un test parziale, ma è anche vero che sono in ballo Province e Comuni cospicui come numero di abitanti e significativi dal punto di vista politico. Dove, peraltro, la vicinanza dei candidati e dei problemi locali rispetto agli elettori acuisce l’interesse per una prevedibile più sollecita corsa alle urne. Basti pensare al verdetto sulla Provincia di Torino, una delle ultime roccaforti del centrosinistra al Nord. O al tentativo di un clamoroso assalto del centrodestra ai presidi «rossi» dell’Italia di mezzo, come il Comune di Firenze. Con la scappatoia, se anche qui non si avessero esiti confortanti, di rinviare la condanna ai ballottaggi, quel traguardo finale che solo tra due settimane consentirà bilanci definitivi.

C’è poi la questione delle preferenze. Il paradosso è che agli italiani sarà consentita questa indicazione dei candidati preferiti proprio nella consultazione dove meno tengono a esercitare tale facoltà. Le circoscrizioni europee, infatti, sono così ampie che, al di là dei capilista, ma non sempre, i nomi sono spesso sconosciuti da un elettore a cui mancano, di fatto, i minimi indizi affidabili per poter fare una scelta che non sia simile a quella che si compie sui numeri del lotto. Ma su questa caratteristica ha puntato Berlusconi per lanciare una sfida «milionaria» ai suoi oppositori «esterni» e competitori «interni». Presentandosi come capolista in tutt’Italia, ha fissato in un numero variabile di suffragi personali, che passano, secondo le dichiarazioni, da cinque a quattro o a tre milioni, la prova schiacciante che la grandissima maggioranza dei concittadini gli tributa fiducia e simpatia in queste travagliate settimane. Ecco perché anche il gioco delle preferenze consentirà, almeno per il presidente del Consiglio, un test sul quale misurarsi.

La confusione aumenterà, infine, perché sull’esempio delle preferenze per il premier, nessuno ha fissato l’asticella per valutare la sconfitta o la vittoria. Né il termine di confronto più significativo, se sia quello omogeneo al tipo di elezione, le ultime europee del 2004, o quello più vicino nel tempo, le politiche dell’anno scorso. Ancor più conveniente potrebbe essere il paragone con i sondaggi. Se si prevede il peggio, basterà proclamarsi soddisfatti per l’«ampio recupero sulle previsioni». Quelle sì, davvero sicure, perché spesso si dichiarano solo dopo che si è conosciuto il risultato.

da lastampa.it
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« Risposta #32 inserito:: Giugno 09, 2009, 10:10:13 am »

9/6/2009
 
Rincorrendo paura e protesta
 
 
LUIGI LA SPINA
 
Paura e protesta. Il risultato complessivo del week-end elettorale tra le europee e la parziale tornata amministrativa ha sostanzialmente fatto emergere questi due sentimenti tra gli italiani. Al di là del giudizio per le provinciali e comunali, che sarà possibile formulare compiutamente solo dopo i ballottaggi, il sistema con il quale si è votato ha agevolato l’espressione libera, senza i condizionamenti di un governo nazionale da eleggere, degli stati d’animo più profondi dei cittadini in questo momento.

Si è radicalizzata, così, la spinta centrifuga verso la Lega, da una parte, e verso Di Pietro, dall’altra, all’interno di una spaccatura così profonda nell’elettorato che non consente travasi di voti tra i due schieramenti. Inoltre, si è accentuato il distacco dell’elettorato dalla politica, con una percentuale di astensioni che non va trascurata con l’alibi di un confronto europeo che ancora ci privilegia. Un fenomeno che, presumibilmente, ha colpito soprattutto i due partiti maggiori, il Pdl e il Pd. Con l’effetto di aumentare la polarizzazione «alle estreme» dei due fronti.

Senza decretare con troppo anticipo il «de profundis» nei confronti della tendenza al bipartitismo nel nostro Paese, un orientamento che dovrà essere verificato con un confronto corretto, cioè con il sistema di voto che vige nelle elezioni politiche, è comunque responsabilità primaria dei due maggiori partiti raccogliere questi sentimenti e dar loro una risposta seria, concreta, urgente. La tentazione più sbagliata, da parte di Pdl e Pd, sarebbe quella di rincorrere la paura e la protesta, ripetendo il clamoroso errore della loro campagna elettorale: aver scosso quell’albero i cui frutti sono caduti nelle mani dei rispettivi partiti concorrenti. Rispondere alla spinta verso la radicalizzazione degli umori negli schieramenti, con una parallela corsa all’esasperazione delle posizioni, nell’illusione di assorbirla, sarebbe uno sbaglio drammatico e controproducente.

Berlusconi deve prendere atto che atteggiarsi a vittima, gridare ai complotti, attaccare i magistrati, i giornali e, persino, accusare la Banca d’Italia di sbagliare i conti, non porta a quel trionfo plebiscitario che sperava. Soprattutto, non deve autoilludersi per poter illudere, dipingendo un quadro dell’Italia irrealistico: la crisi economica, nel nostro Paese, non è passata. Le conseguenze sui consumi e sull’occupazione sono e saranno pesanti. Occorre rispondere alle sollecitazioni delle forze sociali, dalla Confindustria come dalla gran parte dei sindacati, con un programma di riforme che sostenga i redditi delle famiglie e che modifichi un sistema di welfare ingiusto e insufficiente.

Si può anche mascherare una sconfitta, consolandosi per il mancato sfondamento elettorale del premier, ma Franceschini non può davvero pensare che con l’addizione delle attuali opposizioni si possa costruire un’alternativa di governo a Berlusconi. Per il Pd si aprono due grandi problemi: inventare un grande progetto di moderno cambiamento del centrosinistra italiano e accelerare, a tappe forzate, un ricambio di ceto dirigente assolutamente indispensabile. Un partito che viene votato solo da un italiano su quattro non può pensare di coagulare un’alleanza del 51 per cento né con una riedizione dell’alleanza prodiana con la sinistra radicale, né con una intesa con l’Udc di Casini.

L’unico conforto, per i dirigenti del Pd, può venire, invece, dal riconoscimento di aver intuito, prima degli altri partiti progressisti d’Europa, l’esaurimento dell’esperienza socialista, sia nella applicazione socialdemocratica sia in quella radicale. La crisi delle sue varie versioni continentali, da quella laburista a quella francese e tedesca e, da ultimo, anche a quella più nuova, l’iberica zapaterista, salva l’ipotesi ideologica sulla quale è stato immaginato quel partito. A patto che la nuova suggestione ideale sia applicata a una formazione politica che non rappresenti una somma di ex esponenti del passato comunista e democristiano, peraltro divisi e fiaccati da rivalità e odi personali che durano da decenni. Un ceto politico che il suo elettorato non sopporta più.

La lezione di un test elettorale «anomalo» come questo che si è svolto a un anno dal voto per le politiche può essere facilmente metabolizzata, con un po’ di propaganda, con qualche rimescolamento di potere nei due partiti maggiori che serva a trovare qualche capro espiatorio e possa alimentare la speranza di una rivincita. Ma Berlusconi ha un’occasione preziosa per cambiare il suo vecchio spartito. E Franceschini per trovarne uno.
 
da lastampa.it
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« Risposta #33 inserito:: Giugno 14, 2009, 12:11:22 pm »

14/6/2009
 
Quei riti nell'Italia stanca
 
 
LUIGI LA SPINA
 
Che tristezza ascoltare quei vecchi slogan che il tempo ha reso ancor più vuoti, ancor più senza significato, ma non è riuscito a cancellarli per sempre dalla nostra vita.

Che tristezza vedere quei pugni alzati, quel rituale stanco di una violenza politica che non è stata mai capace di fare la rivoluzione, ma che ha potuto procurare tanto dolore e tanto lutto. Quelle bandiere rosse usurpate, quegli insulti, quelle minacce a chi compie solo il proprio dovere. Il contrasto tra la rappresentazione che si è ripetuta a Milano nell’aula di giustizia, dopo la sentenza contro le cosiddette «nuove Br», e la realtà dell’Italia d’oggi è tale, da rendere immediata e inquietante la domanda: perché soltanto nel nostro paese non si riesce a interrompere questa tremenda illusione che arma le menti e le mani di giovani e meno giovani, sempre più isolati, sempre più disperati, cupi replicanti del passato? Come mai un movimento di contestazione mondiale nato alla fine degli Anni 60 ha generato, soltanto da noi, una così lunga scia di violenza terroristica nei due decenni successivi? Una scia sempre più ridotta, ma che è riuscita a scavalcare il nuovo millennio senza minimamente trarre qualche lezione da anni costellati di assurdi assassinii?

Dopo quarant’anni, la Francia ritrova un grande leader della rivoluzione sessantottina, Daniel Cohn-Bendit, a capo di un partito ecologista riempito di suffragi elettorali e di speranze democratiche. In Germania rispunta una sinistra radicale, ma non violenta, che unifica la separazione dei due Stati di allora in una contestazione parlamentare dura, ma senza tragiche tentazioni. L’Europa intera ammette il dissenso, coltiva il dubbio sul futuro del mondo globalizzato, conosce la protesta, ma non si attacca più alla barba di Marx e ai dittatori novecenteschi che a lui si sono ispirati.

Il senso di stanchezza, di inutilità, di arretratezza, mentale prima che politica, di quelle parole, di quei gesti suggerisce una ipotesi che non vorremmo ammettere: forse, c’è un legame tra la persistenza, sia pure isolatissima, di questo vecchio estremismo violento nel nostro paese e l’impressione generale di una Italia ferma nel coltivare i suoi vizi, nel ripetere i suoi riti, nell’insistere sulle antiche divisioni. Una collettività intenta più a rimproverarsi le colpe del passato, a scoprire le debolezze attuali dell’avversario che a voler competere con lui sulla sfida del futuro. Il collegamento tra un fenomeno di una limitatissima minoranza e il «male oscuro» di una intera nazione è sicuramente azzardato e sorge più per la suggestione dei sentimenti che per una riflessione analitica. Ma qualche volta, non si sbaglia a riconoscere, come diceva Pascal, che «il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce».

Filosofi a parte, e per di più antichi, forse possiamo alimentare la speranza. Quella che un giorno, un colpo di vento riuscirà a spazzare, insieme, i risentimenti sterili ma pericolosi di chi pensa ancora che la violenza politica produca una rivoluzione e la pigrizia corporativa e conservatrice di gran parte della società italiana d’oggi.

da lastampa.it
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« Risposta #34 inserito:: Giugno 18, 2009, 10:16:05 am »

18/6/2009
 
Quel volto stanco del premier
 
LUIGI LA SPINA
 
C’è una foto che documenta meglio di qualsiasi parola la situazione psicologica nella quale si trova il presidente del Consiglio. Non è una foto scandalistica, rubata in un momento di intimità, ma ritrae Berlusconi in una cerimonia ufficiale e la smorfia amara del suo volto svela, con straordinaria efficacia, la fatica e la difficoltà di dover governare in un clima politico così avvelenato e torbido. È comprensibile il tentativo del premier di sfuggire alle accuse e alle critiche che, con un crescendo impressionante, stanno piovendo su di lui da alcune settimane.

Lanciando l’allarme su un presunto e misterioso complotto che mirerebbe a scalzarlo da una responsabilità che la maggioranza degli italiani hanno democraticamente deciso di affidargli. Ed è altrettanto comprensibile la tentazione dei suoi avversari che accanitamente cercano o di screditare in maniera irreparabile la sua figura morale o di trovare una prova di accusa che regga un processo penale fino a una condanna definitiva.

Né col vittimismo di Berlusconi che pretende un’immunità pregiudiziale, non ammissibile in chi ricopre una così alta carica dello Stato. Né con il moralismo ipocrita di chi finge di sorprendersi dei vizi privati del potere, in qualsiasi regime e in qualsiasi latitudine, e si scandalizza solo quando gli fa comodo. Né col giustizialismo di chi emana sentenze a furor di popolo, peraltro un furore tutto da dimostrare, si potrà spezzare la spirale di inquietante confusione che rischia di produrre il devastante effetto di una sostanziale paralisi del Paese in uno dei momenti più difficili della sua recente storia repubblicana. Paralisi di concentrazione della classe politica sulle vicende personali del premier, paralisi di attenzione dell’opinione pubblica, paralisi di funzionamento della giustizia in un crescente scontro tra poteri dello Stato. Un’impotenza decisionale collettiva che l’Italia, nel mezzo di una crisi economica le cui conseguenze sono tutt’altro che in via di superamento, non si può permettere.

L’imbarazzo di doversi occupare di questioni francamente squallide, tra ricatti economico-politico-sessuali, indurrebbe a trovare una sicuramente efficace via d’uscita imboccando la strada di uno dei tre atteggiamenti descritti precedentemente. Soluzioni che, per i virtuosi della parola, possono contemplare anche l’incredibile, ma praticata, contaminazione fantasiosa di tutti e tre questi vizi della mente. Correndo l’azzardo di volerli evitare, bisogna riconoscere che, al fondo dell’intricata bufera mediatico-giudiziaria che si sta abbattendo su Berlusconi c’è, invece, una constatazione semplice, persino banale: il presidente del Consiglio è inseguito da uno «stile di vita» che ha voluto trasportare, in maniera identica, dall’epoca dei suoi primi successi di bravissimo tycoon televisivo a quella ben più gravosa di premier. Insomma, dal set di «Drive in» alle camere di Palazzo Grazioli e di Villa Certosa, trasformate, proprio da lui, non nelle sue residenze private, ma nelle stanze dove si conducono effettivamente gli affari di Stato.

È certamente vero che la commistione pubblico-privato non solo è stata tollerata da Berlusconi, ma è stata da lui perseguita costantemente, con l’intuito del grande uomo di marketing, come una delle chiavi del suo successo popolare e, quindi, politico. Ed è altrettanto vero che la sua esuberanza viriloide, se vogliamo chiamarla così, ha sempre suscitato la complicità, invidiosa ma ammirata, della maggioranza degli italiani e ha sempre sollevato ondate di simpatica seduzione nella maggioranza delle italiane. Ma l’impressione è che, ora, la benevola tolleranza per questo «stile di vita», di fronte alla particolare situazione economico-sociale in cui si trova il Paese, si stia trasformando in perplessità e distacco.

Il problema politico di Berlusconi, perciò, non sta nella rilevanza penale di certi comportamenti, non sta nel giudizio moralistico di una vita privata che non dovrebbe interessare chi deve valutare solo le sue capacità di governo del Paese. Ma nella difficoltà di evitare che si pensi al varo della legge sulle intercettazioni non come a un freno a certi abusi, ma come a una disperata rincorsa a tappare le fonti dei suoi guai giudiziari. Che si possa sospettare che gli inviti agli imprenditori perché non facciano pubblicità sui giornali «ostili», cioè tutti quelli che non sono pregiudizialmente e sempre a suo favore, non siano innocenti sfoghi di una vittima di Franceschini. Che la sua amicizia con Putin e con Gheddafi non sia un simpatico corteggiamento a due «clienti» difficili e magari un po’ stravaganti, ma trascuri le tendenze antidemocratiche di certi leader mondiali, pur di vagheggiare linee di politiche internazionali alternative rispetto a quelle di Obama.

Ci saranno sempre i fedelissimi berlusconiani che, di fronte a qualsiasi critica nei suoi confronti, gridano all’attentato, al «golpe» antidemocratico contro colui che la maggioranza degli italiani ha eletto premier del Paese. E quelli per cui Berlusconi è un pericoloso dittatore e l’Italia è diventata un regime, come quello di Mussolini. Ma non si capisce perché, di costoro, l’Italia debba restare sempre prigioniera.
 
da lastampa.it
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« Risposta #35 inserito:: Giugno 23, 2009, 02:34:29 pm »

23/6/2009
 
Premiati i candidati pragmatici
 

LUIGI LA SPINA
 
Ci sono i fatti, che contano. Ci sono gli effetti, che possono contare, e ci sono i commenti dei partiti, che contano nulla. Nel complesso turno elettorale di questo tempestoso inizio d’estate, i primi sono abbastanza chiari e, in generale, senza grosse sorprese. Prevedibile il fallimento dei referendum, ma le dimensioni della sconfitta impongono una riforma dell’istituto.

Nei ballottaggi, il centrosinistra ha riportato un buon successo: ha respinto l’assalto alle città-simbolo del «cuore rosso» d’Italia, Bologna e Firenze.
Ha ottenuto una netta vittoria con Emiliano a Bari e con Saitta alla provincia di Torino. Ha prevalso con Zanonato a Padova. Ma, per questo schieramento, il segno politico più significativo è avvenuto alla provincia di Milano, con l’unica vera grande sorpresa: il testa a testa che Penati, indietro di dieci punti al primo turno, ha imposto a Podestà. Il recupero del centrosinistra, rispetto alla sconfitta nelle amministrative di 15 giorni fa, si è poi confermato in alcuni importanti centri del Piemonte, come Alessandria, Alba, Bra e Saluzzo.

Gli effetti, naturalmente, sono meno evidenti e, soprattutto, si potranno valutare con tempi più lunghi. Non ci saranno conseguenze sconvolgenti, né per il governo, né per gli equilibri nei partiti. Questo non vuol dire, però, che l’esito di questi ballottaggi non abbia dato almeno due indicazioni che valgono in campo nazionale. Il calo dei consensi per Berlusconi, già rivelatosi due settimane fa, sembra essersi rafforzato dopo le ultime rivelazioni scandalistiche. Così è certamente mancato quel traino personale del presidente del Consiglio su cui contavano molti candidati del Pdl, da Podestà alla Porchietto. Per non parlare delle secche sconfitte dei suoi rappresentanti a Firenze, Bologna e Bari. Non è ancora detto che l’oscuramento del carisma elettorale del premier sia destinato a proseguire o sia solo caratteristico di una fase di questa legislatura, ma il segnale, confermato e rafforzato al secondo turno, non è da sottovalutare.

Il secondo aspetto interessante di questo voto riguarda, invece, il Pd. I dirigenti nazionali di questo partito farebbero bene a non trascurare il significato dell’affermazione di alcuni amministratori Pd in importanti città e province dell’Italia settentrionale. Se il maggior partito della sinistra italiana non è stato spazzato via dal Nord del Paese, è dovuto alla presentazione di candidati locali pragmatici, vicini ai problemi delle loro popolazioni, con programmi che non esitano a raccogliere i timori sulla sicurezza e sull’occupazione, senza paura di essere accusati di criptoleghismo. È il caso di Penati che ha sfiorato la clamorosa vittoria alla provincia di Milano o di Saitta, che alla provincia di Torino ha seguito le orme del sindaco Chiamparino. Oppure di Zanonato a Padova.

Questi leader hanno dimostrato, come in passato Dallai a Trento, che su tale piattaforma, moderata e concreta, il Pd, anche in una zona difficile come il Settentrione, può portare il centrosinistra a vincere o, almeno, a mostrarsi competitivo. Non si tratta di pensare a un cosiddetto «partito democratico del Nord», ma è sempre più colpevole la sostanziale indifferenza, o vera e propria sufficienza, con cui questa lezione politica ed elettorale viene accolta al vertice romano del partito.

Restano, infine, i commenti dei leader. Tutti abbastanza inutili. Franceschini pronostica addirittura «l’inizio del declino elettorale della destra italiana». Profezia perlomeno azzardata e frettolosa, dopo il brodino che l’ammalato Pd è riuscito a ingurgitare in questi ballottaggi. Il portavoce del Pdl, Capezzone, si è spinto a parlare di «straordinario successo». La Lega si è sbrigativamente annessa quell’80% di italiani che non ha votato per i referendum. Gli altri hanno vinto, pure loro, tutti. Tranne il povero Segni, anche perché sarebbe stato molto difficile non ammettere la durissima sconfitta. Farebbero meglio a sfoggiare meno ottimismo e a preoccuparsi un po’ di più del crescente e davvero inquietante assenteismo degli italiani alle urne.
 
da lastampa.it
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« Risposta #36 inserito:: Luglio 03, 2009, 10:17:06 am »

3/7/2009
 
Il giudice non va a cena con Richelieu
 
LUIGI LA SPINA
 
C’era una volta un magistrato francese. Si chiamava Pierre de Fermat ed era nato nel 1601. Si occupava di cause civili, banali questioni di diritti sulle acque. Le virtuose e rigide regole della Francia di quei tempi gli impedivano, nel tempo libero, di frequentare la società cittadina, perché il cardinale Richelieu voleva che i funzionari pubblici non potessero essere influenzati, nei loro giudizi, da amicizie e, persino, da semplici conoscenze. Ecco perché, la sera, restava a casa e, indossando, come il nostro Machiavelli, abiti adatti allo studio, si dedicava alla matematica.

Divenne, così, uno scienziato straordinario, scambiando anche corrispondenze con i «grandi» del suo tempo, da Cartesio a Pascal. Ma la sua larga fama resta legata al cosiddetto «ultimo teorema di Fermat», una dimostrazione che non poté scrivere, perché «non può essere contenuta nel margine troppo stretto della pagina».

Peccato che i due rappresentanti della più alta magistratura del nostro Stato, la Corte Costituzionale, Luigi Mazzella e Paolo Napolitano, accusati di frequentare, la sera, presidenti del Consiglio e ministri, non abbiano seguito l’esempio del loro ben più umile collega del tribunale civile di Tolosa. Forse, avremmo due scienziati in più. Sicuramente, due giudici discussi in meno.
 
 
da lastampa.it
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« Risposta #37 inserito:: Luglio 11, 2009, 09:18:33 am »

11/7/2009
 
Il Premier usi sempre lo stile G8
 
LUIGI LA SPINA
 
I risultati dei vertici internazionali si misurano solo sul tempo. Quando si possono verificare il rispetto dei solenni impegni assunti e la percentuale delle promesse davvero realizzate. I leader del mondo, alla fine, si dichiarano sempre molto soddisfatti e alcuni si spingono ad aggiungere, all’inevitabile «successo», persino l’azzardato aggettivo «storico». Per un solo protagonista del G8 dell’Aquila, invece, si può non aspettare per formulare un giudizio: per Berlusconi, si può già dire che è stato un successo.

Non è necessario possedere una memoria mirandolesca per ricordare il clima politico-psicologico della vigilia: gli avversari del premier che preconizzavano disastri organizzativi, gaffe protocollari, sorprese mediatiche e giudiziarie; i giornali stranieri, soprattutto quelli inglesi, che arrivavano addirittura ad annunciare l’espulsione dell’Italia dal «club dei grandi»; l’ansia e i timori che avvolgevano sia Palazzo Grazioli, l’abitazione romana di Berlusconi, sia Palazzo Chigi, la sede ufficiale del governo, trasformandoli in fortini assediati. Le attese dei profeti di sventura sono state deluse e si può concludere che il presidente del Consiglio sembra aver «scavalcato la collina».

Può sembrare un paradosso, ma Berlusconi è stato aiutato a costruire il suo personale successo proprio dal quel clima di foschi presagi. Perché l’hanno costretto a contenere la sua esuberanza caratteriale, la sua smania di protagonismo, la sua vocazione irresistibile al siparietto mediatico, nelle rigide regole delle consuetudini diplomatiche. Così, con immaginabili sforzi di autocontrollo, il nostro premier è apparso un padrone di casa impeccabile. Ma quelle malevole attese hanno influito anche sugli altri protagonisti del vertice, i quali, già ben attenti a esibire premura e commozione per la tragedia della terra che li ospitava, hanno indubbiamente agevolato il compito di Berlusconi. Cointeressati al successo dell’evento, hanno contribuito a mostrare non solo rispetto per il padrone di casa, ma anche a mantenere un atteggiamento rigoroso e concreto. In questo modo, si potrà discutere se l’intesa sul clima, con la posizione distante della Cina, ad esempio, sia stata davvero promettente. Ma è indiscutibile la serietà e la franchezza di un confronto approfondito sui principali problemi della nostra Terra.

Il contributo maggiore al successo di Berlusconi, anche questo può sembrare un paradosso, è venuto proprio da Obama. Alla vigilia, erano corse voci di una amministrazione americana democratica irritata con Berlusconi. Indiscrezioni che parlavano di sospetti Usa per la troppo esibita amicizia del nostro premier con Putin e di un certo fastidio per le tentazioni mediatrici di Berlusconi tra le grandi potenze. Altri superinformati retroscenisti raccontavano addirittura di una atmosfera di crescente ostilità verso la politica petrolifera dell’Eni, troppo aggressiva e spregiudicata, rievocando persino i tempi di Mattei.

Il vero unico superprotagonista del G8 dell’Aquila, il presidente americano, invece, voleva evidentemente dimostrare la sua capacità di guidare al successo l’evento, imponendo al mondo la sua agenda dei problemi e respingendo le prime critiche internazionali che incominciano a dubitare dell’efficacia concreta della sua politica estera. Berlusconi ha subito compreso il valore decisivo di quella alleanza di interessi che si stava realizzando al vertice e si è dimostrato fortemente riconoscente. Fino a dare l’impressione di aver rinnegato, soprattutto sui temi dell’ambiente, il suo storico allineamento con Bush. Impressione così evidente che gli ha suggerito, nella conferenza stampa finale, di confermare la sua amicizia con l’ex presidente americano, ma da affiancarla con il grandissimo elogio di un Obama «che non sbaglia una mossa».

Oltre al compiacimento per un successo che si riflette sull’immagine dell’Italia nel mondo e, quindi, dovrebbe essere comune a tutti, amici e nemici di Berlusconi, l’esito del G8, sotto l’aspetto «domestico», potrebbe portare anche qualche maggiore speranza. Se il nostro premier riuscirà a mantenere quella linea di compostezza ed efficacia esibita davanti ai leader del pianeta anche in politica interna, i vantaggi potrebbero essere molteplici. Si potrebbe discutere di più di provvedimenti per superare la crisi e meno di serate intime in belle (?) compagnie. Si potrebbe metter mano a modifiche di leggi che vanno corrette, da quella sulla sicurezza a quella sulle intercettazioni telefoniche. I patiti del gossip si divertiranno di meno. Tutti gli altri ne avranno maggiori conforti.

da lastampa.it
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« Risposta #38 inserito:: Luglio 14, 2009, 07:52:31 pm »

1/7/2009
 
Il dribbling di Chiamparino
 
LUIGI LA SPINA
 
Non devono essere state davvero facili le ultime notti a casa Chiamparino. Proprio per un personaggio come lui, schivo e un po’ timido, non abituato a saltare da una tv all’altra nella solita compagnia di giro tra politica e spettacolo, la lusinga di una improvvisa popolarità nazionale deve essere stata forte. Come dev’essere stata forte la tentazione di accettare gli inviti a «salvare la patria», a salvare un partito in cui ha passato gran parte della sua carriera politica, a correre «da mediano», come dice la canzone di Vasco. Sì, quel sogno che tutti gli oscuri faticatori del centro campo, quello del pallone come quello della vita, fanno spesso. Quando, di colpo, nella disperazione generale, a due minuti dalla fine della partita, tutti si rivolgono a lui, il vecchio spaccapolmoni, e lui dribbla l’intera squadra avversaria e fa il gol che regala quella vittoria che sembrava impossibile.

Invece Sergio Chiamparino ha detto no, e ha fatto bene, molto bene. Perché ha capito che non poteva risolvere la contraddizione tra i motivi che spingevano moltissimi militanti, elettori e simpatizzanti del centrosinistra a chiedergli di candidarsi per la segreteria nazionale e il tradimento di quei motivi a cui sarebbe stato inevitabilmente costretto. La popolarità del sindaco di Torino, infatti, deriva dal suo rapporto con il territorio. Un legame molto stretto, quasi un patto con gli elettori che gli ha permesso, finora, di superare un confronto non facile con la sua maggioranza in consiglio comunale, ma anche con il suo partito. E’ stato proprio il successo nel ruolo di amministratore, riconosciuto in tutt’Italia, a motivare l’ipotesi di un suo trasferimento ad amministrare un partito che pare privo di una identità chiara e afflitto da una eterna e insopportabile lotta fratricida tra i principali capo-clan. Vista l’impossibilità di conciliare i due ruoli, Chiamparino avrebbe dovuto, con ben due anni d’anticipo, rompere quel patto di lealtà con i suoi elettori e con la sua città.

Le buone ragioni della coerenza morale e di un costume non abituale nella nostra classe dirigente non escludono, naturalmente, i calcoli su una candidatura dagli esiti assai incerti. Perché di gesti «eroici» non ha bisogno la politica e la serietà del personaggio non si deve necessariamente coniugare con l’ingenuità. Anche perché Chiamparino è un uomo di partito e conosce bene le regole dei partiti e del suo in particolare. Se il sindaco di Torino avesse voluto diventare il leader di una corrente tra i «democratici» avrebbe potuto pensare di raccogliere una percentuale di sostenitori tra gli iscritti, tra il 10 e il 20 per cento, per esempio, e poi contrattare con i due sfidanti un appoggio che sarebbe potuto diventare determinante. Ma vista la sua intenzione di pensare a una candidatura non per giochi tattici, ma nell’eventualità di una sua possibile vittoria, sull’onda di un rinnovamento chiesto soprattutto dalla base, l’ipotesi era tanto ambiziosa quanto irrealistica: dietro Franceschini e Bersani si stanno distribuendo le forze poderose di quei controllori di tessere che non sembrano lasciar spazio a candidature seriamente presentate per poter prevalere.

Queste considerazioni non oscurano però il valore del «no» di Chiamparino. Perché i rischi di restare ancora per due anni sulla poltrona di sindaco di Torino sono altrettanto gravi come quelli di abbandonarla precocemente. La sua popolarità gli ha inviso la grande maggioranza della classe politica locale, compresa quella del suo partito. L’attuazione del programma per l’ultimo periodo del secondo mandato, perciò, sarà molto faticosa e si potrebbe offuscare la sua immagine di sindaco di grande successo. Alla fine, Chiamparino potrebbe anche pentirsi del suo «no». Ecco perché, ora, ha fatto bene a dirlo.

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« Risposta #39 inserito:: Luglio 30, 2009, 09:16:49 am »

30/7/2009
 
Federalismo all'italiana un paradosso
 
 
 
 
 
LUIGI LA SPINA
 
Dicono che bisogna essere ottimisti a tutti i costi. Allora, prendiamo la situazione dall’unico effetto positivo. La polemica sull’identità italiana, esplosa per le tentazioni sul «partito del Sud», per le provocazioni leghiste sulla scuola, per le esitazioni sui finanziamenti per i 150 anni dell’unità d’Italia, hanno finalmente fatto uscire dall’ipocrisia, dalla reticenza, dall’ambiguità una questione fondamentale per il nostro Paese: come sia difficile e pieno di rischi l’esperimento di costruire uno Stato federale con un processo contrario a quello normale. Cioè, non per aggregazione, ma per disaggregazione.

Tranne qualche rara eccezione, infatti, il riconoscimento di comuni interessi o il desiderio di rafforzare le difese contro un nemico lontano hanno indotto Stati o regioni a stringersi in un patto federale. Così è stata, in Europa, l’esperienza della Germania o della Svizzera. Così si è costituito il maggiore Stato federale del mondo, gli Stati Uniti d’America.

Molto raramente la strada è stata percorsa al contrario. Si potrebbe citare, forse, l’esempio della Spagna post-franchista, se il paragone con l’Italia non fosse inficiato, tra l’altro, da una differenza fondamentale: il paese iberico è stato unificato alla fine del XV secolo in un impero tra i più potenti del mondo, il nostro festeggia, appunto, solo i 150 di vita.

Così, questo arduo passaggio da uno stato centralista a una struttura federale è ulteriormente complicato dall’evidente fragilità di una coscienza nazionale illanguidita nella popolazione e sostanzialmente assente nella classe politica a cui è toccato in sorte di condurre questa trasformazione. Tramontati i partiti di ispirazione risorgimentale, già sopravvissuti stentatamente dopo la seconda guerra mondiale in una posizione di estrema minoranza, si sono estinti anche quelli che avevano costruito l’Italia repubblicana: i democristiani, i comunisti, i socialisti. Gli eredi, in realtà, non sentono la costituzione dell’Italia come elemento fondante della loro ragione sociale: il partito di Berlusconi ne ha utilizzato il nome soprattutto per l’effetto di aggregazione emotiva dei suoi militanti, da tifo calcistico. Il Pd sventola il tricolore perché è l’unica bandiera che unifica quella rossa, ormai impresentabile, e quella scudocrociata, ormai dimenticata.

La realtà italiana d’oggi, nel processo federalista, può essere riassunta molto semplicemente: la sinistra si è sostanzialmente messa fuori gioco, attraverso una lotta intestina per la leadership che la sta emarginando da qualsiasi vera e sensibile influenza sulla politica nazionale. Sulla scena, allora, conduce la danza la Lega, con una abile strategia di avanzate provocatorie e di ritirate opportunistiche. Il Pdl reagisce debolmente all’azione leghista, con il rischio di una spaccatura interna tra nord e sud che la mediazione di Berlusconi fatica sempre di più a mascherare.

Il partito di Bossi, con una certa lucidità strategica, bisogna ammetterlo, punta a scardinare i capisaldi fondamentali sui quali, nei fatti, è stata costruito lo Stato italiano in questi 150 anni di esistenza: l’esercito, la scuola pubblica, la lingua. Tutti sanno, per esperienza o per un minimo di conoscenza storica, che quel poco o tanto di coscienza nazionale esistente nel nostro paese è stato ottenuto dalla leva militare obbligatoria, dalla riforma crociana e gentiliana dell’istruzione e dalla Tv. La prima ha ibridato, per la prima volta nel secolo scorso, i nostri giovani su tutto il territorio. La seconda ha unito le culture localistiche in una retorica unitaria. La terza è stata capace di estendere l’italiano alla grande maggioranza dei cittadini.

Non è casuale, allora, che le offensive leghiste si concentrino su questi tre campi. Con la negazione di un ruolo internazionale del nostro esercito, con il tentativo di regionalizzare la scuola, con il desiderio di imporre, nella tv pubblica, una riscrittura della storia in chiave antiunitaria.

Quello che più colpisce, di fronte allafiacca reazione, è la confusione intellettuale, l’incertezza morale e politica di chi, almeno a parole, dice di non condividere questo piano disgregativo. Dopo la proposta leghista di un ritiro delle nostre truppe dall’Afghanistan, anche l’accenno di Berlusconi alla necessità di una exit strategy, se non afferma una ovvietà, può essere considerato un sintomo di questo atteggiamento difensivo e sostanzialmente cedevole. Ma l’ultimo esempio, quello più clamoroso, è la risposta della Gelmini sull’emendamento leghista proposto in commissione sulla scuola. Esclusa, per fortuna, la follia del test di dialetto per gli insegnanti, il ministro si dichiara, però, sostanzialmente favorevole a una specie di regionalizzazione dei professori. Il responsabile dell’istruzione pubblica dovrebbe apprezzare, invece, il valore di uno scambio culturale e umano tra allievo e docente provenienti da parti diverse del nostro Paese. Anzi, se non ci fossero evidenti problemi economici e familiari, andrebbe scoraggiata e non incentivata l’assimilazione regionalistica di chi sta sulla cattedra e di chi sta sotto. In tempi di crescente immigrazione multietnica, è davvero deprimente dover parlare ancora di accenti diversi nel pronunciare la nostra lingua. Perché nella scuola italiana, come sappiamo tutti, il problema è la qualità degli insegnanti, non il loro luogo di nascita.
 
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« Risposta #40 inserito:: Agosto 20, 2009, 10:36:45 pm »

20/8/2009
 
I pericoli che teme Napolitano
 
LUIGI LA SPINA
 
Lo «spirito del tempo» sembra concentrare sulle celebrazioni per i centocinquant’anni dell’unità d’Italia un’attenzione politica in apparenza sproporzionata. Sul piano emotivo, le ricorrenze possono suscitare, del tutto legittimamente, sentimenti di fervore o di perplessa freddezza. Anche sul piano più concreto, quello delle opere previste per questo appuntamento, pur riguardando interventi significativi in varie città italiane, il programma dei lavori non sembra tale da provocare un determinante scontro di interessi economici.

Eppure, il crescendo di polemiche su questo evento, culminato ieri con il colloquio concesso alla Stampa dal presidente della Repubblica nel quale si sollecita il governo a rispettare gli impegni assunti, dimostra come un complesso di circostanze abbia contribuito a trasformare una scadenza cerimoniale in un segnale illuminante, sia per gli equilibri della nostra politica sia per il futuro del nostro Stato.

Non è stata la campagna d’estate della Lega contro alcuni simboli dell’unità italiana, dalla lingua nazionale all’inno di Mameli, ad allarmare Napolitano. Il partito di Bossi conduce da sempre una lotta ai confini tra il separatismo e il regionalismo, che raccoglie, nel Nord, un favore popolare cospicuo ma largamente minoritario, comunque, tra i cittadini della penisola. Possono piacere o meno i toni provocatori e qualche volta folcloristici con cui i vari leader della Lega conducono la loro battaglia, ma, se non violano le regole del codice, la Costituzione garantisce a tutti una libertà di espressione che deve essere rispettata.

Il problema è un altro. E’ quello dell’atteggiamento ufficiale di un governo che invece è sostenuto da un’ampia maggioranza in Parlamento e nel Paese. Il presidente della Repubblica, a cui, ricordiamolo, è affidato il ruolo di garante dell’unità nazionale, pretende, non tanto con le solite rassicurazioni verbali quanto con la verifica puntuale del programma e dell’avvenuto stanziamento finanziario per attuarlo, un chiarimento sulla questione. Non si tratta di sapere se la politica governativa sostenga la resurrezione del dialetto o si schieri per l’inno di Mameli o per il «Va’ pensiero». Si tratta di sapere se, nella sua responsabilità collegiale, il quarto ministero Berlusconi intenda contrastare quel clima di disgregazione nazionale che, in futuro, potrebbe davvero mettere a rischio il nostro Stato unitario.

Il vero pericolo, a questo proposito, non è costituito dalle proposte di implicito separatismo avanzate della Lega con intermittente sapienza comunicativa. E’ costituito dagli effetti sul bilancio dello Stato, potenzialmente esplosivi e comunque a tutt’oggi sconosciuti, che saranno determinati dall’applicazione della legge sul federalismo approvata nella primavera scorsa. Se i costi della riforma, come alcuni sospettano, non ridurranno le spese dello Stato, ma, almeno nei primi anni, li aumenteranno, proprio questo clima di insufficiente unità nazionale potrebbe alimentare una corsa all’egoismo regionalistico. Con un tale coro popolare di proteste comparative tra le varie parti d’Italia, cavalcato sicuramente dalle classi dirigenti locali per scopi elettoralistici, da minare qualsiasi resistenza a una effettiva divisione della nostra Repubblica. Ecco perché la celebrazione di un semplice anniversario è diventata la cartina di tornasole sia del «peso» effettivo della Lega nella politica del governo sia dei destini di una nazione troppo giovane e fragile per essere sicura di arrivare all’età adulta.
 
da lastampa.it
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« Risposta #41 inserito:: Agosto 23, 2009, 10:54:51 am »

23/8/2009
 
Così il Pd ha perso la voce

 
LUIGI LA SPINA
 
Un assordante silenzio. L’esempio più scolastico di un ossimoro potrebbe davvero definire l’afasia politica che ha caratterizzato l’agosto del principale partito d’opposizione. Sia sulle grandi questioni internazionali, come la difficile situazione in Afghanistan e in Iraq, sia sul dibattito in vista delle prospettive autunnali della nostra economia, fino ad arrivare alle baruffe estive sull’Inno di Mameli o sui dialetti, il Pd si è distinto per una assoluta mancanza di reazioni. Un riserbo insolito per le abitudini della politica italiana, dove l’esternazione prevale sempre sulla meditazione.

Le uniche voci che si sono udite da quelle parti, ascoltate peraltro senza suscitare particolari emozioni, sono state raccolte in alcune interviste ai due contendenti favoriti per la futura segreteria del Pd, Bersani e Franceschini, impegnati in qualche stanca polemica interna.

Poiché l’auto-oscuramente dialettico agostano sarà forzatamente interrotto dall’avvenuta apertura della festa nazionale di quel partito, a Genova, c’è da sperare che la lunga pausa, dedita evidentemente a una profonda riflessione, sia servita affinché i leader Pd ci rivelino finalmente una organica, concreta e innovativa proposta di governo del nostro Paese. Tutti gli italiani, sia quelli che hanno votato per Berlusconi, sia quelli che non l’hanno fatto, vorrebbero confrontare le ricette finora attuate dall’esecutivo con quelle suggerite dal maggior partito dell’opposizione. Senza dover solo ascoltare battute, più o meno divertenti, sulla vita privata del presidente del Consiglio o critiche alle misure governative prive, però, di una esposizione delle ipotesi alternative basate su realistici e sostenibili conti di spesa.
L’improvviso mutismo dei dirigenti democratici è apparso l’inevitabile risultato di una delusione largamente scontata e da loro del tutto prevista: quella seguita all’annunciato fallimento della campagna per far dimettere Berlusconi a causa del sue vicende sessual-matrimoniali. Una sindrome tipica di frustrazione, umana prima che politica, che colpisce inevitabilmente chi è stato costretto a partecipare a una battaglia, sapendo già che l’esito sarà infausto.

A questo punto, il rischio più grave per quel partito è che l’avvicinarsi della data del congresso finisca per accentuare il fenomeno di introversione politica del Pd. Una sindrome solipsistica che, comprensibile nella prima fase di ricerca dei motivi della sconfitta elettorale, non solo si è trascinata per un tempo insopportabilmente lungo, ma, di fatto, ha spento il collegamento tra il partito e la sua base elettorale.

In una democrazia regolarmente funzionante, infatti, occorre sia che l’opposizione sappia influire sull’operato della maggioranza, sia che non lasci quella parte di elettorato che non ha aderito alle proposte governative senza una salda rappresentanza politica.

Tra gli altri, si possono citare due clamorosi esempi di allentamento del legame che il Pd ha sempre avuto con categorie sociali e professionali vicine al partito. Il primo caso si è manifestato con la vicenda degli operai milanesi della Innse saliti per giorni su una gru, pur di difendere il posto di lavoro in pericolo per la minacciata chiusura dell’attività nella fabbrica dove lavorano. In altri tempi, la solidarietà del partito alla loro lotta si sarebbe manifestata con la tradizione di vigore e di clamore che tutti ricordiamo. In questa occasione, invece, l’appoggio è stato molto flebile e la voce del Pd si è confusa nel generico coro di auspici che veniva dalla classe politica locale.

L’altro clamoroso esempio, a questo proposito, è venuto dalla fiacca, generica e imbarazzata reazione del Pd alle iniziative del ministro Gelmini sulla scuola. Maestri e professori, notoriamente, costituiscono, o costituivano, una delle riserve privilegiate per i consensi al maggior partito dell’opposizione italiana. Ebbene, il Pd, diviso tra la consapevolezza della insostenibilità dell’andazzo corrente nelle aule del nostro Paese e l’impossibilità di ammettere la corresponsabilità per una egemonia culturale e politica in quel settore che ha prodotto risultati così negativi, non ha saputo opporre alle riforme governative alcun progetto credibile e organico di serio cambiamento. Limitandosi ad opporsi ritualmente alle proposte della Gelmini e lasciando sostanzialmente soli quegli insegnanti che pur fanno riferimento al partito.

Sono giuste le preoccupazioni di chi lamenta un panorama politico esclusivamente monopolizzato dal duello interno tra Lega e Partito della libertà e da un orizzonte culturale limitato al contrastato rapporto tra il governo e il Vaticano. Ma anche la «solitudine» di importanti ceti sociali del nostro Paese che non si sentono più difesi dai loro tradizionali rappresentanti nella classe politica nazionale consegna al futuro della nostra democrazia molte inquietudini.

da lastampa.it
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« Risposta #42 inserito:: Settembre 04, 2009, 07:49:19 pm »

4/9/2009

Una sconfitta per tutti
   
LUIGI LA SPINA


Le dimissioni del direttore di Avvenire, Dino Boffo, segnano, almeno in apparenza, una grande vittoria per il presidente del Consiglio e una dura sconfitta per la Chiesa italiana. Berlusconi, indignato per non essere stato difeso da una gerarchia cattolica alla quale, in questi anni, è convinto di aver concesso molto, ha voluto dare un avvertimento. Ha voluto dimostrare all’opinione pubblica e, in particolare, alla stampa non amica che neanche la potenza di uno Stato come il Vaticano e l’autorità morale e spirituale del cattolicesimo nel nostro Paese riescono a resistere a un attacco contro un direttore di un giornale che si era permesso qualche, peraltro prudente, critica su certi suoi comportamenti privati.

Se il messaggio fondamentale che arriva agli italiani, in queste ore, è sintetizzabile così, la realtà di questo scontro tra il presidente del Consiglio e la Chiesa è certamente più complessa e gli effetti di questa vicenda meno prevedibili. Boffo ha deciso di presentare irrevocabilmente le sue dimissioni quando è stato fin troppo chiaro che la difesa d’ufficio della Segreteria di Stato lo lasciava, di fatto, in un sostanziale isolamento. Al di là del merito nella questione giudiziaria che lo riguardava, la sua debolezza era determinata dall’essere l’ultimo fedelissimo di Ruini ancora in una posizione di spicco nel potere della Chiesa italiana.

Il paradosso della sorte di Boffo è determinato dal fatto che la linea editoriale dell’Avvenire, dettata in questi anni dall’ex presidente della Conferenza episcopale italiana e attuata da lui con una fedeltà assoluta, è stata di sostanziale appoggio al centro-destra. Né si può dire che la Segreteria di Stato abbia una posizione diversa da quella che Ruini aveva impostato e qualche volta imposto ai vescovi del nostro Paese. Anche il cardinal Bertone, sia pure in modi caratterialmente diversi, ritiene, in effetti, Berlusconi l’interlocutore più utile per ottenere dal Parlamento leggi che tengano conto il più possibile delle richieste del mondo cattolico. In una concezione contrattualistica, di Realpolitik se vogliamo chiamarla così, che rischia una difficile coesistenza con l’irrinunciabile dovere ecclesiale di predicare la difesa della morale pubblica e privata.

Il caso Boffo, quindi, per il Vaticano, rappresenta non solo una sconfitta d’immagine, tra l’impossibilità e la non volontà di difendere il direttore del quotidiano dei vescovi italiani, sia pure non da tutti amato. Ma costringe a prendere atto di come sia sempre più difficile gestire quel compromesso tra negoziazione politica con Berlusconi e autorevolezza, credibilità ed efficacia nella guida spirituale degli italiani.

Lo sconcerto tra i fedeli cattolici per quest’ultima vicenda, infatti, determinerà una difficilissima prova per il nuovo direttore di Avvenire. Chi prenderà il posto di Boffo potrà dimostrarsi ancor meno critico di lui nei confronti dei discutibili comportamenti privati del presidente del Consiglio? Dimostrerebbe troppo platealmente la soggezione che il Vaticano e tutta la gerarchia italiana sono costretti a subire, pur di ottenere provvedimenti parlamentari graditi.

Anche se è largamente prevedibile, ora, una tregua tra Chiesa e presidenza del Consiglio, è indubbio che quanto avvenuto lascerà un’impronta forte e duratura nel mondo del cattolicesimo italiano, già scosso da molti dubbi sulla praticabilità di quella che si potrebbe definire «la linea Ruini senza Ruini». Ma anche per Berlusconi la vittoria di oggi potrebbe complicare e non semplificare la sua azione governativa. Troppo sproporzionato appare l’attacco di un presidente del Consiglio, dotato peraltro di una straordinaria forza mediatica attraverso il suo potere nelle tv e nei giornali, contro un direttore di un quotidiano cattolico non pregiudizialmente ostile, per non suscitare allarme nell’opinione pubblica e nella classe politica.

L’impressione è quella di un Berlusconi così esasperato per le accuse ricevute a proposito della sua vita privata, da dare ascolto più alle sue reazioni emozionali e agli incitamenti vendicativi dei suoi consiglieri ultrà che a una ragionevole linea di controllata difesa. Le dimostrazioni di forza, quando si abbattono su vittime che al confronto appaiono troppo deboli, non sono sintomi di sicurezza, ma tradiscono, al contrario, un segno di difficoltà.

da lastampa.it
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« Risposta #43 inserito:: Settembre 16, 2009, 03:43:29 pm »

16/9/2009

Una felice occasione sprecata
   
LUIGI LA SPINA


Peccato. La cerimonia di consegna del primo centinaio di abitazioni ai terremotati d’Abruzzo doveva costituire un segnale di unità e di solidarietà nazionale nei confronti di chi è stato vittima di una grande tragedia. Una manifestazione, insieme, di immediato conforto e di speranza nell’avvenire. Nella possibilità di riprendere il filo di un’esistenza normale, anche per chi ha perso tutto e può contare solo sull’affetto e sulla generosità degli altri. Nella constatazione di come sia stato immediato e cospicuo il contributo di tutti gli italiani, affinché gli abruzzesi coinvolti nel disastro potessero non dimenticare il passato, ma aver il coraggio di voltarsi e guardare anche al futuro. Nel compiacimento per l’efficienza e l’abnegazione di tutti coloro che, a vario titolo, hanno contribuito ad alleviare il più possibile le sofferenze e i lutti, ma anche i disagi e i problemi di una quotidianità difficile.

Peccato. L’occasione forniva anche una simbolica e concreta testimonianza di questi sentimenti, perché quelle casette sono state costruite con il contributo di una provincia del Nord d’Italia, tra le più belle e civili, il Trentino e con il finanziamento di tanti cittadini di ogni regione affidati alla Croce Rossa. Insomma, poteva essere davvero una bella giornata. Come quelle che, in tanti Paesi del mondo retti da mature democrazie, celebrano la volontà comune di risorgere dopo un dramma collettivo profondo e affermano la necessità che, di fronte a tali grandi tragedie, le divisioni politiche non turbino minimamente lo sforzo di unità nazionale per affrontarle e poterle superare.

Peccato, perché nulla di tutto questo è avvenuto, ieri, in Italia. La sola elencazione dei fatti che si sono susseguiti in questi giorni dimostra come non si possa immaginare un clima politico così contrastante con quello nel quale avrebbe dovuto svolgersi la cerimonia in Abruzzo. Il presidente del Consiglio, segnato evidentemente da una campagna di critiche sui suoi comportamenti privati, ha voluto trasformare la consegna delle prime case ai terremotati in una passerella trionfalistica personale. Una dimostrazione di efficienza del suo governo, per smentire, con i fatti, le accuse a lui e al suo ministero. Dimostrazione, peraltro, inutile, perché da tutti sono state riconosciute l’energia e la prontezza con le quali le autorità responsabili sono intervenute dopo il tremendo sisma dell’Aquila. Dando atto allo stesso Berlusconi di un comportamento serio e di una presenza assidua in quelle terre per coordinare gli aiuti ed affrettare i tempi della ricostruzione.

La volontà di uno sfruttamento mediatico della cerimonia è stata confermata, poi, dalle modifiche ai palinsesti televisivi, con lo spostamento in prima serata del programma di Vespa, con il rinvio di Ballarò e con la soppressione della puntata di Matrix sulla libertà d’informazione. Vicende che hanno suscitato un seguito di ovvie e feroci polemiche, dal momento che il presidente del Consiglio possiede il maggior gruppo italiano di tv privata ed esercita una notevole influenza su quella pubblica, come, del resto, è sempre avvenuto per chi siede a Palazzo Chigi.

Nel frattempo, si incrociano nel cielo della politica italiana e della stampa nazionale le querele e le minacce di querele. Non solo tra il capo del governo e i giornali a lui ostili, ma, fatto del tutto straordinario, tra il presidente della Camera, cofondatore del partito fulcro della maggioranza, e il quotidiano di proprietà della famiglia Berlusconi. In un crescendo di insinuazioni, di dossier, di inchieste giudiziarie su uomini della politica e del Parlamento che svariano, con identica disinvoltura di commenti e di giudizi, da fatti gravissimi come le stragi di mafia del 1992 e ’93 a questioni di moralità personale, come tradimenti coniugali o sfrenatezze sessuali, forse solo presunte oppure vantate.

Il contrasto tra questo clima di veleni e quello nel quale si sarebbe dovuta svolgere la giornata di ieri non deve suggerire né patetici inviti alla tregua, tanto facili quanto inutili; né pilateschi giudizi di uguali responsabilità tra le parti guerreggianti. Basterebbe limitarsi a sollecitare una riflessione sulle convenienze di una strana partita. Una partita dove non è immaginabile un trionfatore, ma sono previsti parecchi sconfitti. Perché, in politica, la paura di perdere fornisce migliori consigli della voglia di vincere.

da lastampa.it
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« Risposta #44 inserito:: Ottobre 16, 2009, 12:27:08 pm »

16/10/2009

La forza della storia
   
LUIGI LA SPINA


La testimonianza, accorata e persino spietata, di un lungo e sofferto cammino, costellato di errori, ritardi, macchiato da colpe, anche gravi. Ma con l’orgoglio di averlo compiuto per intero, scontando, con una critica severa su di sé e sulla propria parte, la piena legittimazione a esercitare un ruolo di garanzia per tutti gli italiani. È questo il senso più profondo di un discorso, quello pronunciato ieri mattina dal Presidente della Repubblica a Torino, in cui uno dei leader della sinistra comunista italiana nella seconda metà del secolo scorso confessa di aver capito il valore delle forme della democrazia liberale, per lungo tempo sottovalutate, e si impegna a difenderle «con serenità e fermezza».

Non ha tradito davvero le attese la risposta di Giorgio Napolitano, pacata ma non ipocrita, agli attacchi del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi sulla sua figura di «uomo di parte».

Ma quello che più ha colpito coloro che hanno partecipato alla cerimonia in occasione del centenario della nascita di Norberto Bobbio è, da un lato, il tono commosso della sua rivendicazione autobiografica, dall’altro, il richiamo ai valori della politica, intesa come esercizio che riesce a trasformare un uomo di fazione in un uomo delle istituzioni. Un mutamento che è consentito, è parso di capire, solo a chi non nasconde la propria storia, le proprie origini culturali e ideologiche, ma, quando è chiamato a rappresentare una importante carica pubblica, sa trascenderle ed esercitare quel «potere neutro» che è indispensabile per far funzionare una democrazia, come la consideriamo in Occidente.

È stato proprio il filosofo torinese, così come ha raccontato il presidente della Repubblica, ad adoperare, nel confronto con i comunisti del secolo scorso, quella «pedagogia del dubbio» che ha fatto comprendere come la garanzia dei diritti di libertà, con la divisione dei poteri, la distinzione tra organi della Repubblica al servizio del principio di imparzialità, non fossero «forme borghesi» dello Stato, in contrapposizione con una fantomatica «democrazia sostanziale» che poteva anche contraddirle o trascurarle. Ma fossero il fondamento della convivenza civile.

Una proclamazione di principi che certamente non si limita a un riconoscimento di un errore del passato, ma assume una precisa condanna delle attuali tentazioni populiste presenti nel centrodestra italiano, esaltatrici di una specie di «democrazia diretta», fondata solo sull’investitura elettorale del leader. Una forma di Stato che rischia di trasformare il Parlamento in una camera di registrazione ed approvazione di testi redatti, magari, in qualche studio professionale e, comunque, mal sopporta le lungaggini, gli ostacoli, procedurali e di merito, che autorità «terze» frappongono all’azione dell’esecutivo. Se la forma dell’equilibrio dei poteri è, invece, la sostanza della democrazia, questo non vuol dire che la Costituzione sia un tabù. L’appello del Capo dello Stato alla sinistra perché non si chiuda alle proposte di una riforma della seconda parte del nostra carta fondamentale non è stato meno netto delle sue critiche a chi, a destra, non rispetta gli istituti di garanzia. E anche in questo caso, Napolitano si è appoggiato al ricordo delle battaglie di Bobbio in favore di riforme elettorali e costituzionali.

Una lunga citazione del filosofo torinese è servita pure al Presidente della Repubblica per esprimere un giudizio che, con l’aria che tira, può sembrare controcorrente: «Sono convinto che molti italiani, al di là delle loro diverse, libere scelte elettorali... avvertano la necessità» del «senso della misura, del rispetto delle istituzioni e del confronto costruttivo».

Si sta diffondendo, infatti, un’impressione fallace, tratta dai successi di ascolto delle trasmissioni politiche in tv più urlate o dalle fiammate di vendita dei giornali più schierati. Quella che i cittadini italiani siano favorevoli a quel clima di «guerra civile delle parole» che vuole trasformarli in tifosi assatanati, obbligatoriamente arruolati nell’una o nell’altra fazione e disposti a «non fare prigionieri» pur di far vincere la loro parte. In una battaglia senza fine che vedrebbe, invece, solo una minoranza di cittadini, tremebondi parrucconi legati ad antiche forme di galateo politico, preoccupati per il rischio di compromettere non solo le possibilità di ripresa della nostra economia, ma le caratteristiche fondamentali della nostra democrazia.

Napolitano, ieri a Torino, ha avuto il merito di confutare questa superficiale convinzione, dimostrando che l’espressione ferma e serena delle proprie convinzioni, in difesa delle garanzie di uno Stato democratico e pluralista può costituire la risposta migliore e più efficace a chi avesse la tentazione di scavalcarle.

da lastampa.it
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