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Autore Discussione: LUIGI LA SPINA -  (Letto 88525 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Dicembre 03, 2008, 08:33:41 am »

3/12/2008 - I RISCHI DI UNA FRATTURA TRA NORD E SUD
 
Guerre regionali
 
LUIGI LA SPINA

 
In attesa di una riforma federalista che sembra si sia persa negli affanni assillanti della crisi economica, l’Italia potrebbe correre il rischio d’avviarsi verso una specie di guerra regionale. Da quando Chiamparino sul nostro giornale ha lanciato l’appello per una svolta autonomista nel Pd, la cronaca ha registrato sintomi preoccupanti.

Non solo alcuni segretari del Partito democratico, nelle regioni del Sud, hanno subito rialzato il vessillo del meridionalismo offeso da una provocazione nordista. Ma persino Cofferati ha rivendicato le ragioni dell’Oltrepò emiliano, in contrapposizione con un fantomatico partito a egemonia subalpina. Sempre a sinistra, il crescente e travolgente fastidio per il ventennale duello Veltroni-D’Alema ha trovato nella loro «romanità» il pretesto per uscire dai borbottii a mezza bocca ed esprimersi, finalmente, in un pubblico coro. La visita del Presidente della Repubblica a Napoli ha raddrizzato, per fortuna, uno scivolamento polemico, tra neocrociati della questione settentrionale e nostalgici di quella meridionale, foriero solo di pessimi effetti, sia per il Nord sia per il Sud. Napolitano ha ricordato che questo sarà l’ultimo quinquennio per utilizzare i fondi europei per lo sviluppo. Dopo il 2013, le Regioni meridionali non avranno più l’ingente massa di finanziamenti che dal 1956, cioè da più di 50 anni, avrebbe dovuto assicurare il decollo economico del Mezzogiorno. Di fronte a questa prospettiva e ai pessimi risultati ottenuti finora dall’utilizzo di questi soldi, s’impone una profonda autocritica delle classi dirigenti. Diversamente, ha concluso Napolitano, «il Sud è fuorigioco». A una più approfondita riflessione, l’allarme gettato dal Presidente, fondamentale per il futuro delle Regioni meridionali, è importante anche per quelle settentrionali, perché aiuta a capire meglio i motivi del crescente peso dei «partiti territoriali» nell’evoluzione del nostro sistema politico. Spiega, inoltre, le inquietudini delle popolazioni che vivono nel Settentrione, aiuta a dissipare gli equivoci, più o meno strumentali, con i quali è stata accolta la proposta di Chiamparino e mette in guardia rispetto ai possibili risultati di una riforma federalista che andrebbe varata con criteri meno conservatori di quelli finora utilizzati.

Il rischio più grave di «scissione» che corre in questi anni l’Italia non è quello tra i territori del Nord e quelli del Sud e neanche quello tra un Pd del Nord e un Pd romanocentrico, ma tra le preoccupazioni, le speranze, gli atteggiamenti, le sensibilità delle classi dirigenti nazionali, in particolar modo quelle politiche, e quelli dei cittadini. Ecco perché solo dalla credibilità di una buona amministrazione pubblica si può partire per avviare la ricostruzione di un rapporto di fiducia sempre più allentato. In questo senso «il partito territoriale» non mira alla separazione nazionale, ma dovrebbe servire da strumento per collegare più strettamente gli interessi dei governati a quelli dei governanti. Proprio l’acuirsi della crisi economica accentua i timori che le risorse della parte più sviluppata del Paese vadano disperse in una gestione politico-amministrativa centrale che non riesce a restituirle, sotto forma di servizi, al territorio che li ha generati. Così come la solidarietà tra i cittadini di una stessa nazione, nel rispetto costituzionale dell’uguaglianza dei diritti e dei doveri tra gli italiani, non può essere assicurata, come pare, dalla permanenza, addirittura codificata per legge, degli squilibri di efficienza tra Regioni diverse. Quando Napolitano ricorda che i tagli al bilancio pubblico, se fatti in maniera contabilmente proporzionale, perpetuano le ingiustizie e gli errori invece di correggerli, avanza un’obiezione di metodo che vale anche per la futura riforma federale.

Le preoccupazioni per il pericolo di una disgregazione regionale del Paese non sono del tutto infondate, anche perché in momenti di difficoltà l’egoismo corporativo e anche quello localistico sono una forte tentazione. Ma non possono essere fugate con retorici appelli all’unità nazionale, con allarmi, peraltro infondati, contro l’ipotesi di scissioni partitiche, con richiami moralistici ai doveri di solidarietà verso i più deboli. Basterebbe, invece, additare un solo esempio a tutta la classe dirigente del Paese, quello della Confindustria siciliana contro la criminalità organizzata. Se ognuno, nel proprio compito, dimostrasse quello stesso senso di responsabilità che solo può legittimare il potere, appunto, di una classe dirigente, non ci sarebbe bisogno di temere alcun rischio per l’Italia di domani.

da lastampa.it
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« Risposta #16 inserito:: Dicembre 14, 2008, 12:18:12 pm »

14/12/2008
 
Il doppio campanello

 
LUIGI LA SPINA


Le notizie sono due e il campanello d’allarme suona per entrambi gli schieramenti politici. La prima riguarda il distacco, in termini quantitativi assolutamente straordinario, tra i cittadini e i rappresentanti in Parlamento. La sorpresa è amara soprattutto per i partiti di governo.

Una sorpresa amara se è vero che, nel Nord-Ovest del Paese, un elettore su quattro ha deciso di non andare più a votare, e questo impressionante dato è equamente distribuito tra gli elettori della maggioranza e quelli dell’opposizione. A otto mesi dal voto, infatti, non solo è comprensibile che i simpatizzanti del centrosinistra non abbiano superato la depressione post-sconfitta. Ma i travagli del gruppo più forte in quella parte politica, il Pd, sono tali che anche il più granitico ottimista non potrebbe negare di sentirsi scoraggiato. Singolare è, invece, che la delusione contagi anche una quota così ampia degli italiani che hanno votato per il centrodestra. Un fenomeno, tra l’altro, che tocca un elettorato, quello del Nord-Ovest, tradizionalmente poco mobile nei suoi orientamenti, meno emotivamente abituato ad alterare le proprie convinzioni secondo le contingenze del momento. Al contrario, per esempio, dell’atteggiamento politico, molto più «ballerino», che si manifesta, da sempre, nelle regioni meridionali.

È probabile che la crisi economica, che finora sembra incominciare a incidere sulle tasche dei cittadini soprattutto nelle aree industriali, alimenti una sfiducia generalizzata. Ma il dato del sondaggio potrebbe anche suggerire una certa insoddisfazione, un sentimento di speranze tradite, per come il governo ha risposto, finora, alle attese di coloro che l’hanno votato. Nella sensazione, insomma, che i provvedimenti per affrontare le emergenze dell’economia non siano tali da rassicurarli.

La seconda notizia, invece, costituisce per la sinistra non un campanello d’allarme, ma un suono di campane a martello, come quello che avvisava i paesani dell’imminente invasione dei nemici. Se anche nella roccaforte «rossa» di Torino e provincia, ormai, il centrodestra è quasi a un solo punto di distanza nelle percentuali di voto espresse dal sondaggio, le preoccupazioni di Veltroni e compagni dovrebbero indurli a risposte meno dilatorie, vaghe e persino sprezzanti rispetto alla cosiddetta «questione settentrionale».

Se vogliamo uscire dalle ipocrisie e dagli eufemismi, la situazione del Partito democratico, vista dal Nord, è sintetizzabile in poche righe. In questa zona del Paese, il Pd è visto come un «partito romano», con una base elettorale nel Centro Italia e con una forza clientelare e assistenziale in alcune città del Sud. Un partito dove i litigi tra i dirigenti non svelano contrasti ideali e politici, ma il desiderio di conservare e, possibilmente, aumentare il potere che ciascun capocorrente detiene. Unico motivo per non ammettere due verità dolorose, inaccettabili e contraddittorie. La prima è il fallimento dell’unione tra gli eredi dei filoni più importanti della cultura politica del secondo Novecento italiano, quello comunista e quello cristiano-democratico. La seconda è l’assoluta mancanza di alternative, almeno quelle concrete, per il centrosinistra rispetto alla via intrapresa e, quindi, la costrizione a continuare nell’esperimento, fin qui assai deludente.

Ma l’aspetto più curioso è che la dirigenza nazionale del Pd sembra aver accettato questo stato di fatto e, con una certa rassegnazione, dia per persa, ormai, la partita nel Nord e punti al voto «mobile» del Sud. Nell’ingenua speranza che, come è successo in passato, il suffragio meridionale possa costituire l’ago della bilancia per la vittoria nazionale. Insomma, che un ipotetico asse centro-meridionale riesca a sconfiggere il Settentrione, ormai passato definitivamente al nemico.

Come si possa pensare di candidarsi alla guida del Paese in opposizione alla parte più socialmente, economicamente e culturalmente evoluta, nell’Italia del Duemila, è già un azzardo, incredibile anche per il pensiero politico più spregiudicato e avventuroso. Ma che si possa immaginare di attuare il progetto senza le tradizionali, forti e maggioritarie presenze in alcune grandi città del Nord, da Torino a Genova fino a Venezia, è, poi, del tutto misterioso. Vorrebbe dire trasformare il partito che raccoglieva tradizionalmente la gran parte dei ceti più coinvolti nel processo di trasformazione industriale e, più in generale, economica, dell’Italia nel secolo scorso in un cartello di difesa conservatrice, con una maggioranza di pensionati impauriti e intellettuali arrabbiati.
 
 
da lastampa.it
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« Risposta #17 inserito:: Dicembre 20, 2008, 12:09:17 pm »

20/12/2008
 
Non hanno idea
 
LUIGI LA SPINA
 

C’era molta attesa nel popolo della sinistra per l’esito della direzione Pd. Certo l’impressionante susseguirsi di inchieste contro gli amministratori locali del partito democratico aveva acuito l’interesse per la cosiddetta «questione morale». Ma anche sulla validità della linea politica del segretario, dalla strategia delle alleanze al rinnovamento di programmi e uomini, si aspettava una convinta conferma o una chiara bocciatura. Insomma, si attendeva un segnale di svolta, nella consapevolezza della necessità di decisioni tali da riannodare quel rapporto di fiducia tra classe dirigente del partito e suoi elettori che sembra si stia sfaldando.

Il discorso di Veltroni ha ripreso con efficacia molti dei temi innovativi che avevano favorevolmente colpito nell’esordio della campagna elettorale, al Lingotto di Torino. Il dibattito che ne è seguito è stato non rituale e gli interventi, fra gli altri, di D’Alema e Bersani, da una parte, e di Chiamparino, dall’altra, hanno esposto con franchezza dubbi e anche critiche non ipocrite.

Ma è difficile pensare che il documento finale, votato con un solo voto contrario, costituisca davvero quell’avviso di cambiamento di rotta capace di rassicurare sia i militanti sia i potenziali elettori del Pd.

La delusione per il risultato della lunga giornata di dibattito nel Partito democratico, in sostanza, è costituita dallo scarto tra la drammaticità della situazione del Pd e le scelte concrete varate dal «vertice» dei suoi dirigenti per cercare di ribaltare la crisi in cui si trova. Se i contrasti emersi nella discussione si sono risolti con una sconcertante votazione plebiscitaria, vuol dire che tutti i problemi, in realtà, sono stati rinviati. Da quello della leadership di Veltroni, rafforzata apparentemente nei numeri, ma indebolita dalla severità e, persino, dall’asprezza di alcune pesanti critiche che gli sono arrivate. A quello della concezione del partito cosiddetto «leggero», processata proprio per l’allentamento di quei forti legami con il territorio e la società che lo contraddistinguevano e gli consentivano di superare anche le bufere più insidiose.

Non basta rivendicare giustamente l’onestà di tanti amministratori locali del Pd per convincere che il partito possegga davvero gli anticorpi per sconfiggere l’omologazione morale di certi suoi dirigenti al costume di servilismo della politica rispetto al mondo degli affari. Su questo argomento, senza decisioni, urgenti e straordinarie, nei confronti dei responsabili, almeno di mancata vigilanza, non si può pretendere di essere creduti sulla parola e sulle buone volontà. Ma ha ragione D’Alema quando sostiene che la questione morale nel Pd ha tanto peso soprattutto perché è finora fallito l’amalgama tra i due tronconi che hanno dato origine al nuovo partito.

Se dobbiamo riconoscere che è questo il punto di partenza per la diagnosi del male oscuro nel Pd, non si capisce perché, poi, si pretenda di curarlo senza cambiare né il medico né la medicina. La contraddizione è troppo evidente perché non si sospetti che le vecchie liturgie del rinvio e della dissimulazione dei contrasti perdurino ostinatamente anche nelle pretese novità di una forza politica appena nata.

Le alternative sono due e, anche in questo caso, le famigerate «terze vie» non esistono. O Veltroni ha ragione e le difficoltà derivano dalle resistenze che i suoi oppositori interni pongono al rinnovamento del partito e dei suoi quadri dirigenti. Con il risultato che le lotte di corrente paralizzano il partito, incapace di scelte riformiste non ambigue e comprensibili al suo elettorato. E, allora, bisogna riconoscere al segretario il potere di imporre tutti quei cambiamenti che lui giudica necessari, senza veti da parte dei «cacicchi» nazionali e locali.

Oppure bisogna prendere atto che la pretesa di un partito democratico «all’americana», già l’aggettivazione è significativa del problema, nell’Italia d’oggi, non corrisponde alla realtà storica e politica del nostro Paese. Perché impedisce un coerente allineamento con le grandi forze presenti in Europa. Perché finisce, paradossalmente, per inasprire e non risolvere il contrasto tra l’ispirazione laica e quella cattolica, in una continua costrizione o al compromesso o all’afasia. Perché non riesce a rassicurare la grande area moderata degli elettori italiani, diffidente per le troppe ambiguità di un riformismo che non vuole pagare il prezzo di scelte coraggiose. Né conforta quel settore di sinistra della società italiana, cospicuo anche se minoritario, che si sente privo di una rappresentanza politica, magari non sufficiente per governare, ma utile per costituire un’opposizione efficace rispetto a Berlusconi.

In questo caso, è illusorio attendere, dopo il voto dell’Abruzzo, quelle altre conferme negative, nelle prossime elezioni europee, che costringano Veltroni a gettare la spugna. Il problema non è la sorte di un segretario, ma la sopravvivenza del centrosinistra in Italia.

da lastampa.it
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« Risposta #18 inserito:: Dicembre 23, 2008, 11:36:41 am »

23/12/2008
 
Parlar d'altro
 
LUIGI LA SPINA
 

Non c’è davvero da meravigliarsi se, come ha ricordato ieri sulla Stampa Luca Ricolfi, tutti i più recenti sondaggi confermano, anche in sede nazionale, lo straordinario aumento delle astensioni che si è manifestato nell’ultimo voto, quello in Abruzzo. Un fenomeno che colpisce sia i simpatizzanti dell’opposizione sia quelli della maggioranza. Se si riguardano i titoli dei giornali in queste ultime settimane dell’anno, infatti, l’impressione di un clamoroso scollamento tra gli interessi degli italiani e gli argomenti su cui dibatte la classe politica è subito evidente.

Ma come? Ancora ieri l’Istat segnalava in modo molto significativo le difficoltà economiche della grande maggioranza delle famiglie nel nostro paese e la discussione pubblica si concentrava prima sulla divisione delle carriere per i magistrati, poi sulla trasformazione federalista dello Stato e, ora, dulcis in fundo, addirittura sull’elezione diretta del capo dello Stato.

In tutto il mondo, dagli Stati Uniti alla Francia, ma anche dalle potenze petrolifere del Medio Oriente alla star dell’ultimo miracolo economico internazionale, la Cina, i governanti, senza distinzioni di ruolo rispetto al potere, si affannano e si dividono solo sulle misure più opportune per alleviare i disagi e le paure dei loro governati. Da noi, tv e giornali sono costretti ogni giorno ad ospitare annunci, dispute, sconfessioni e retromarce su ipotetiche riforme che o soddisfano solo interessi di parte o riguardano tempi lontani o, e questo è il caso peggiore, servono a creare polveroni per distogliere l’attenzione dai problemi più gravi e urgenti.

Ad un ipotetico ospite straniero, il calendario della nostra politica potrebbe apparire davvero surreale. Cominciamo dal federalismo. Sia i fautori di tale assetto dello Stato sia gli oppositori, quando non sono costretti dal gioco delle reciproche parti, convengono su un punto: è possibile che, se ben costruita, la riforma regionalista possa, in futuro, ridurre le spese del bilancio pubblico; ma è sicuro che, per i primi tempi, i costi dell’operazione siano molto forti. Ora, proprio in un periodo di crisi finanziaria ed economica che, purtroppo, si prevede piuttosto lungo, pensiamo di varare un provvedimento del genere? Solo per permettere alla Lega di sventolare la bandiera del successo e per non infliggere a Bossi un’umiliazione che potrebbe mettere a rischio la tenuta del governo e della sua maggioranza.

Passiamo alla riforma della giustizia. Tutti gli italiani sanno che i mali più gravi riguardano la lentezza dei processi, specie quelli civili, la garanzia di un ugual trattamento davanti alla legge, la certezza di dover scontare la pena, quando arriva finalmente la sentenza definitiva. Invece si discute di separazione delle carriere, della ripartizione dei compiti, nelle inchieste, tra polizia e magistratura e di vietare le intercettazioni, se non in caso di mafia o terrorismo. Su quest’ultima proposta, poi, si abbatte anche la beffa di una coincidenza temporale che rende la situazione ancor più paradossale. Tutti gli scandali che riguardano il malcostume di assessori comunali e regionali sono fondati su questo strumento di indagine. Come evitare che questa intenzione alimenti, tra i governati, il sospetto di un interesse di categoria, quella dei loro governanti, compresi quelli dell’opposizione?

L’ultima bizzarria dell’agenda politica riguarda il presidenzialismo. Anche qui, non si tratta di discutere sul merito del progetto. Ci sono fior di democrazie che prevedono l’elezione popolare del capo dello Stato e ci sono tanti dittatori eletti, invece, dai Parlamenti. Ma la meraviglia riguarda l’opportunità, il significato di una tale discussione, oggi. Quando una tale riforma costituzionale richiederebbe un impossibile grande accordo tra la quasi unanimità delle forze politiche. Quando se ne potrebbe parlare solo tra quattro anni, alla fine della legislatura e alla scadenza dell’attuale presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Quando questo problema, soprattutto, è nascosto, se c’è, proprio al fondo dei cuori e delle menti degli italiani, in tutt’altre faccende affaccendati.

L’assoluta virtualità di un dibattito politico sempre più estraneo alla vita concreta dei cittadini produce, infine, conseguenze molto negative anche sulla stessa classe politica. La crisi economica, in tutto il mondo, costringe i governanti a unirsi nello sforzo di fronteggiarla. Persino i due attuali presidenti degli Stati Uniti, quello in carica e quello che entrerà alla Casa Bianca tra pochi giorni, due leader assolutamente agli antipodi come Bush e Obama, sembrano essere riusciti a concordare una strategia anticiclica. In Italia tutte le riforme allo studio hanno un effetto comune, di questi tempi, assai pernicioso: quello di dividere invece di unire. Insomma, a parlar d’altro non solo si spreca il fiato, ma ci si fa del male.
 
da lastampa.it
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« Risposta #19 inserito:: Febbraio 07, 2009, 03:46:55 pm »

7/2/2009
 
L'uso politico di una tragedia
 
 
LUIGI LA SPINA
 

Lo strapotere della Chiesa lo scivolone del Quirinale il pugno del Cavaliere.

In un momento in cui ogni coscienza si sente dilaniata da una scelta ugualmente terribile e iniqua, in una questione in cui nessuno si può arrogare il monopolio della giustizia e della verità perché è il dubbio che ci tormenta, c’è una sensazione che addolora di più e acuisce tristezza e pena: la consapevolezza che il grave conflitto politico e istituzionale che si è aperto ieri si gioca sulla pelle di una ragazza. Anzi, sul corpo di una ex ragazza divenuta donna nella lunghissima attesa della morte.

Se guardiamo l’incalzare febbrile delle vicende che, in queste ore, si sono susseguite fuori da quella porta che, fortunatamente, ancora separa Eluana dai politici, dai giudici, dai preti, dai dimostranti, dagli schermi tv, si possono cogliere almeno tre impressioni fondamentali: la volontà della Chiesa cattolica, meglio del Vaticano, di dimostrare la forza del suo potere sulla classe politica italiana; la mossa irrituale, comprensibile ma forse sbagliata nella valutazione delle conseguenze, da parte del presidente Napolitano, quando ha spedito la lettera con il preventivo «no» al decreto; il pugno di Berlusconi, con un duplice obbiettivo, di mettere in difficoltà il Presidente della Repubblica e di dimostrare la necessità di una riforma costituzionale che rafforzi i poteri del premier.

Per i laici è solo una coincidenza, per i credenti un segno provvidenziale. Per tutti, è comunque curioso che proprio nei giorni in cui si celebrano l’ottantesimo anniversario dei Patti Lateranensi tra Stato e Chiesa e il quarto di secolo della revisione di quegli accordi, allo scontro tra istituzioni italiane si affianchi il rischio di una dura polemica tra Santa Sede e presidenza della Repubblica. Con ministri vaticani che criticano pesantemente Napolitano.

Nell’augurio che non si apra nella società italiana una «guerra di religione» di cui non si sente davvero il bisogno, né se ne comprende la giustificazione, è interessante notare come, sul caso Eluana, sia stata la Santa Sede a esprimere i toni più forti ed esasperati, sia nella polemica pubblica sia col protagonismo indiscusso del Segretario di Stato, cardinal Bertone, nel dialogo con i leader della nostra scena politica. Questo corrisponde alla prevalenza, ormai evidente nel pontificato di Benedetto XVI, degli aspetti teologici su quelli diplomatici. Un carattere che tende a sottovalutare il ruolo anche di capo di Stato che il Pontefice riveste e, quindi, delle pesanti conseguenze che certe parole e certe accuse possono avere sul rapporto tra Vaticano e presidente di uno Stato laico. Uno Stato che rivendica, o dovrebbe rivendicare, la piena autonomia delle sue scelte contro ogni tipo di ingerenze esterne, sia spirituali che temporali.

Sarebbe un errore, però, scambiare l’indubbio segnale di forza dimostrato dal Vaticano sulla classe politica italiana, con un’accresciuta influenza della Chiesa nella nostra società. Forse alla debolezza dei partiti e delle leadership si affianca, parallelamente, il timore dei vertici vaticani di un crescente distacco tra i sentimenti e i costumi degli italiani e la Chiesa. Un rischio che si cerca di esorcizzare più con fredde dimostrazioni di potere e di autorità che con manifestazioni di vicinanza pastorale ed affettiva ai problemi concreti della nostra popolazione.

Nell’ex residenza dei Papi, al Quirinale, si è vissuta una giornata di altrettanta tensione. È stato evidente il tentativo compiuto da Napolitano di avvertire pubblicamente Berlusconi di quella responsabilità di uno scontro istituzionale che si sarebbe assunta varando il decreto per Eluana. Nel timore di dover esprimere un «no» che lo avrebbe esposto all’accusa di aver voluto firmare una sentenza di morte. Ma il parere preventivo, arrivato proprio durante un consiglio dei ministri che stava decidendo sulla questione, può apparire lesivo di quella piena autonomia e responsabilità che la Costituzione riserva al governo in questi casi.

Nella partita a scacchi tra organi dello Stato che si è svolta ieri resta da notare la determinazione del presidente del Consiglio nell’imboccare consapevolmente la via dello scontro col Quirinale. Non tanto e non solo per piegarsi alle volontà del Vaticano, assumendo il ruolo di difensore della fede e della morale cattolica nella politica italiana, in una versione confessionale dell’eredità democristiana. Quanto per assestare, in modo clamoroso, un colpo al prestigio e al ruolo del Capo dello Stato e a chi, come Fini, ne segue troppo pedissequamente i consigli. Sfogando un risentimento che Berlusconi cova da tempo nei confronti di Napolitano e che, finora, si era acconciato a mimetizzare nella diplomazia istituzionale molto a malincuore. Nella speranza, inoltre, di dimostrare quanto sia necessario un riequilibrio dei poteri a favore della presidenza del Consiglio, manifestatasi così impotente in una questione così delicata. Sarà difficile che una riforma costituzionale quale Berlusconi vagheggia sia realizzabile, almeno in tempi ragionevolmente brevi. Ma in politica, soprattutto in quella italiana, non sempre servono i risultati. Bastano le intenzioni.
 
 da lastampa.it
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« Risposta #20 inserito:: Febbraio 19, 2009, 12:05:55 pm »

19/2/2009
 
Un destino di minoranza
 
LUIGI LA SPINA
 

I medici pietosi che si affannano accanto al moribondo Partito democratico, dopo l’ennesimo disastro elettorale e le dimissioni di Veltroni, si dividono sostanzialmente in due scuole: i leaderisti e i politicisti. Formulano due diagnosi diverse e suggeriscono due terapie diverse. I primi, sedotti dalla moda presidenzialista, formula vincente della politica nel nuovo secolo, sostengono che il male del Pd è stata l’inadeguatezza del leader, prigioniero dei cacicchi che lo circondavano. Ritengono che, come in tutte le democrazie moderne, il candidato premier, dopo la sconfitta, avrebbe dovuto dimettersi subito e che il ricambio del segretario e il rinnovamento della classe dirigente del partito sia la vera ricetta per guarire il malato. Insomma, facce nuove, con un’età più verde e con il volto meno segnato dalle ferite di antiche battaglie.

I secondi, più sensibili alla lezione dei numeri e della storia, anche recente, nel nostro Paese, pensano invece che si debba innanzitutto ricostruire un solido partito socialdemocratico che arrivi, da solo, almeno al 30-35% dei consensi.

Giunti a quella soglia si vedrà come ristabilire un’alleanza con tutte le sinistre per sperare di giungere al fatidico 51%. Così i leaderisti si entusiasmano di fronte a ogni fuoco fatuo che si accende nel cimitero della sinistra italiana, in una patetica galleria di improbabili nuove star della politica. E i politicisti affidano al bravo e simpatico Bersani, che non meriterebbe una sorte così ingrata, il compito sul quale si è già immolato il povero Fassino.

L’impressione è che i medici pietosi, come dice il proverbio, servano solo ad allungare l’agonia del malato. Le loro terapie saranno forse necessarie, ma sicuramente non sono sufficienti, perché le loro diagnosi si ostinano a ignorare la verità e le loro ricette parlano agli italiani con un linguaggio ormai sconosciuto.

Il punto di partenza, se quei medici non vogliono più cullarsi nell’illusione consolatoria, è la comprensione di quanto è successo quasi un anno fa. L’esito delle elezioni non ha segnato solo la sconfitta di un candidato della sinistra, ma la ricomposizione, sotto le bandiere di Berlusconi, di quel blocco sociale e politico che ha consentito alla Dc di governare l’Italia per i primi 45 anni della storia repubblicana. Con una sola variante: l’assorbimento, nella maggioranza moderata del Paese, dell’eredità postfascista e la contemporanea espulsione della sinistra cattolica. Un cambiamento, peraltro, che uniforma in una fisionomia europea quella che era un’anomalia del nostro sistema politico rispetto alle altre democrazie occidentali.

Per la sinistra italiana, perciò, il rischio non è di una fisiologica alternanza al potere, come si è verificata nella seconda Repubblica, quella che è cominciata dai primi Anni 90. Ma di una terza Repubblica, con caratteristiche molto simili alla prima, almeno dal punto di vista della stabile presenza di un solo schieramento alla guida del Paese. Se questo è lo scenario del prossimo futuro, la sinistra può rassegnarsi al ruolo che ebbero il Pci e i suoi piccoli alleati di allora, quello di un’opposizione, magari forte, ma permanente. Un’eterna minoranza che tuteli il suo ceto politico, le forze sociali di riferimento e le residue e sempre più limitate aree del Paese dove potrà ancora governare. Per questo obiettivo, basta certamente cambiare un segretario logorato con un altro e cercare di ricostruire un partito socialdemocratico.

Se il centrosinistra italiano, invece, vuole tornare, un giorno, a Palazzo Chigi, l’ambizione e il compito sono ben più alti. Bisogna ammettere, innanzitutto, che le idee e le parole con le quali questo schieramento si è rivolto agli italiani sono vecchie e non corrispondono più al comune sentire della grande maggioranza dei concittadini. Occorre operare, perciò, una vera rivoluzione culturale e politica e pagare un prezzo, anche gravoso, con le liturgie, i miti, i compromessi, le bugie, le procedure del passato.

Non è vero che il Pd sia fallito perché non è riuscito a fondere l’eredità post-comunista con quella cattolico-democratica. Veltroni, al contrario, ha perso la scommessa perché si è ostinato a tenerle insieme, a farle sopravvivere, con continui compromessi e al costo di tante ambiguità. Senza attuare il vero progetto esposto al Lingotto di Torino, quello di mandarle in soffitta. Con tutto il rispetto per i cari antenati, ma riconoscendo che, oggi, quelle due tradizioni non significano più niente per tantissimi italiani. Perché non servono né a scaldare i loro cuori, né a rassicurare i loro portafogli. Perché parlano con il linguaggio del secolo scorso, astratto, ideologico, ipocrita. Perché non sono di nessun aiuto rispetto ai problemi nuovi di un secolo nuovo.

È inutile, allora, che il centrosinistra italiano vada, con la lanterna di Diogene, a cercare nuovi leader sparsi per tutta Italia, belli, giovani e, magari, abbronzati. Così, è assurdo cercare di ricostruire il vecchio Pci cambiandogli il nome, come è stato già fatto, prima trasformandolo in Pds, poi in Ds. Proprio nel momento in cui, evidentemente, si stanno sfaldando i rapporti di consenso tra il partito e il suo tradizionale elettorato: gli operai, i giovani, gli intellettuali. Il Pd, finora, ha parlato sempre dentro una vecchia e residuale coalizione di consensi, rassicurato, ogni tanto, dai falsi plebisciti delle primarie e dalle piazze falsamente moltiplicate. Se non avrà il coraggio di guardare alla realtà, la minoranza in Italia sarà sempre e sicuramente il suo destino.

da lastampa.it
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« Risposta #21 inserito:: Marzo 14, 2009, 03:33:44 pm »

14/3/2009
 
Il Fini delle regole
 
 
 
LUIGI LA SPINA
 
Anche in politica, le parole restano sempre molto indietro ai fatti. L’ha dimostrato pure l’ultimo scambio di accuse tra Berlusconi e Franceschini, a suon di definizioni vecchie e ormai senza alcun rapporto con la realtà. Perché sia il clerico-fascismo sia il catto-comunismo sono stati importanti filoni culturali e politici della nostra vita pubblica, ma appartengono a un passato senza eredi. Chi non se n’è accorto, o finge di non essersene accorto per comodità polemica, sottovaluta l’intelligenza dell’opinione pubblica, che invece è molto più occupata a capire le novità del presente per intuire gli sviluppi del futuro.

Al di là delle tumultuose vicende del Partito democratico che, almeno, contribuiscono a ridurre il tasso di ripetitività delle nostre cronache, la parabola politica e personale di Gianfranco Fini suscita, da un po’ di tempo, una crescente curiosità, molta sorpresa e, perfino, un qualche imbarazzo. Anche in vista dell’unificazione tra An e Fi nel nuovo partito, colpiscono le trasformazioni del presidente della Camera: da delfino, qualche volta impaziente di Berlusconi, al ruolo di implacabile suo censore, in nome del rispetto delle regole e degli equilibri tra poteri dello Stato.

Se questo atteggiamento potrebbe rientrare nelle funzioni e nei doveri di un’alta carica istituzionale, meno scontate, invece, sono le sue mosse politiche: da quelle internazionali, sulle responsabilità fasciste e naziste nei confronti degli ebrei, a quelle su questioni più domestiche.

Fini sfoggia un fermo laicismo, senza paura di turbare le coscienze cattoliche, in stragrande maggioranza sia nel suo partito sia nel suo elettorato. Ripudia il tradizionale «machismo» della destra italiana per un femminismo che, anche in questo caso, lo mette in contrasto con molti suoi antichi sodali, propugnando persino le «quote rosa». Sfida la paura per gli immigrati, motivo fortemente aggregante per mobilitare la richiesta di «legge ed ordine», tradizionale slogan sotto le vecchie bandiere della destra, con una serie di incalzanti dichiarazioni: a favore del loro voto nelle amministrative, contro la possibilità che i medici possano denunciare gli immigrati clandestini, contro il rischio di non registrazione all’anagrafe dei loro figli.

Parlare, perciò, di curiosità di tutta l’opinione pubblica è davvero giustificato, registrare la sorpresa di quella che ha sempre votato centrodestra è scontato, ma perché e dove alberga l’imbarazzo? A questo punto, bisogna smettere con le ipocrisie e formulare ad alta voce le domande che inquietano molti elettori del centrosinistra: Fini è diventato il garante della democrazia in Italia? Se, al termine del mandato di Napolitano, fosse lui e non Berlusconi ad ascendere al Quirinale, saremmo più tranquilli? Insomma, l’erede di quel partito che fu escluso per tutta la prima Repubblica dal famoso «arco costituzionale» può essere considerato, oggi, un sincero e rassicurante difensore della suprema legge del nostro Stato antifascista?

Finché qualche salace battutista, come la nostra «Jena» quotidiana, propone l’attuale presidente della Camera come segretario del Pd, si può sorridere e passare oltre. Ma quando Fini stesso trova che «non ci sia nulla di male» a considerare di sinistra certi suoi atteggiamenti e ricorda che fu Almirante a pronosticargli «l’apprendimento della democrazia» attraverso la frequentazione delle aule parlamentari, forse è il caso di riflettere un po’ di più su questa intrigante metamorfosi dell’ex leader neofascista.

È possibile che Fini abbia capito che la maggioranza dei suoi colonnelli guardi, ormai, più a Berlusconi che a lui. È probabile che giudichi, ormai, la gran parte del suo antico elettorato irrimediabilmente sedotta dalle sirene del capo del governo. È ragionevole che, ormai, non creda più alla possibilità di ereditare Palazzo Chigi dall’attuale presidente del Consiglio. Ma la sincerità delle intenzioni non conta in politica. Contano i fatti e le apparenze divengono spesso strade obbligate e senza ritorno.

Ecco perché, lasciando perdere le antiche definizioni e distogliendo i pensieri dagli automatismi mentali del passato, si può anche immaginare che il futuro del centrodestra italiano si possa giocare tra due ipotesi. La costituzione di un partito che non è mai esistito nella storia della nostra Repubblica: quello conservatore e democratico, sul tipo del modello inglese, e un altro, moderato e plebiscitario, sulla falsariga di quello che in Francia sta prefigurando Sarkozy. Sulla via del primo, almeno per ora, Fini pare un camminatore solitario, mentre l’autostrada di Berlusconi sembra molto affollata. Ma è affollata anche la truppa degli aspiranti eredi al trono del Cavaliere. E il proverbio ricorda che, qualche volta, è meglio essere soli che male accompagnati.

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« Risposta #22 inserito:: Marzo 21, 2009, 12:09:04 pm »

21/3/2009
 
La carta di Fini

LUIGI LA SPINA
 
L’unione tra Alleanza nazionale e Forza Italia costituisce sicuramente un fatto positivo per la nostra democrazia. Non tanto perché sia un’ulteriore tappa verso la semplificazione del sistema politico italiano: rispetto ai taumaturgici effetti dell’ingegneria elettorale e costituzionale, occorre sempre manifestare una sana diffidenza. Ma per un motivo più semplice e un’osservazione più realistica: tra gli elettori dei due partiti una sostanziale unificazione è già avvenuta da tempo e, quindi, perpetuare una divisione dirigenziale sarebbe solo un inutile tentativo di autoconservazione dei grandi e piccoli gruppi di potere. Questa presa d’atto, però, non deve far compiere l’errore di sottovalutare l’interesse per le imprevedibili conseguenze del nuovo assetto nel centrodestra italiano. Perché nulla è scontato, tranne l’attuale indiscutibile leadership di Berlusconi.

A partire dalla fallace tesi di chi pensa che ammettere l’inesistenza di una diarchia con Fini equivalga ad ammettere che An stia confluendo in Forza Italia. L’evoluzione dell’area politica destinata a raccogliere la rappresentanza dell’Italia moderata e conservatrice che parte, oggi, dall’ultimo congresso di un partito nato a metà del secolo scorso, non terminerà certamente la prossima settimana, con la celebrazione della nascita del «Popolo della libertà». Le ultime mosse del presidente della Camera, infatti, hanno confermato una sua scelta strategica: quella di chiudere l’epoca della ricerca del «delfinato» rispetto a Berlusconi, come se Fini potesse limitarsi a raccogliere l’eredità del presidente del Consiglio. Una fase che, se davvero è esistita, da tempo si è compiuta nella pratica dimostrazione di un fallimento. Con l’unità tra i due partiti più grossi del centrodestra italiano si è aperta una sfida più ambiziosa. Quella di chi non si limita a portare nel nuovo partito l’orgoglio del proprio passato, di chi non vuole entrarci deponendo le armi. Ma di chi, anzi, presume di possederne migliori per vincere la competizione del futuro.

Non ci si deve aspettare, perciò, che Fini, durante questa legislatura, ingaggi una battaglia di logoramento, di punzecchiature, di prese di distanza nei confronti di Berlusconi. Coloro che, soprattutto nella sinistra italiana, pensano di trovare nel presidente della Camera un alleato, una «quinta colonna» dell’opposizione, si illudono o fingono di illudersi. Coloro che, nello schieramento di maggioranza, temono tradimenti politici e agguati parlamentari rischiano di non vedere, tra il fumo delle scaramucce quotidiane, il fuoco della futura decisiva battaglia. Il progetto di Fini è un altro e si basa su una fondamentale convinzione: quella di una superiorità «ideologica» dei valori da sempre sostenuti dal suo partito rispetto al pragmatismo aziendalista del presidente del Consiglio. La crisi, prima finanziaria e poi economica, che il mondo sta drammaticamente vivendo in questi giorni, infatti, sembra aver riportato alla ribalta, con una verniciatura più seducente, alcune tradizionali convinzioni della destra italiana.

Quella, per esempio, che il ruolo dello Stato conservi un’importanza fondamentale, sia come motore di sviluppo, sia come garanzia di una efficace e indispensabile rete di protezione per i cittadini. Ecco perché la difesa delle sue istituzioni, delle sue regole e, persino, di alcune prassi parlamentari, da parte di Fini, non deriva solo dal rispetto del ruolo che attualmente ricopre. Ma dalla certezza che, nei prossimi anni, solo chi avrà puntato al rafforzamento della centralità dello Stato nella vita pubblica sarà legittimato a guidarne le sorti. La scommessa di Fini, prima sulla futura egemonia culturale e, poi, su quella politica nei confronti dell’area di centrodestra, non punta solo sull’insperata resurrezione di alcuni «temi forti» del suo passato partitico. Ma sulla speranza di aver intuito alcune trasformazioni profonde del moderatismo italiano, come l’inarrestabile secolarizzazione modernizzante di quell’elettorato, che resta conservatore in economia e in politica, ma che non lo è più nel costume privato e pubblico. Il tentativo di non seguire il tradizionale ossequio berlusconiano per le posizioni delle gerarchie vaticane, con un laicismo non antireligioso, ma non dissimulato, dimostra proprio la sua volontà di cogliere questo mutamento e di rappresentarlo politicamente. Oggi, dunque, non si apre un congresso che dovrà stabilire chi comanderà nel nuovo partito unificato, perché i cittadini che hanno votato il centrodestra lo hanno già deciso. Né a chi andrà l’eredità di Berlusconi, perché quella personale è, sicuramente, un fatto di sangue e quella politica è, probabilmente, non trasmissibile. La vera competizione, nel centrodestra, è tra chi, anche senza cannocchiale, avrà visto meglio il nostro futuro.

da lastampa.it
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« Risposta #23 inserito:: Marzo 30, 2009, 09:29:22 am »

30/3/2009
 
Il Cavaliere pigliatutto
 
LUIGI LA SPINA
 
Singolare ma significativo il modo con il quale si è concluso il congresso fondativo del nuovo partito di centrodestra italiano. Certo può essere sorprendente che alle tre fondamentali questioni poste da Fini, l’apertura di una stagione costituente, il sostegno al referendum, la correzione della legge sul testamento biologico così come votata al Senato, Berlusconi, nella replica finale, abbia risposto a metà e piuttosto sbrigativamente solo alla prima, lasciando all’interpretazione del suo silenzio la posizione del Pdl sulle altre due.

Il presidente della Camera aveva tratteggiato un profilo di partito molto preciso, dai caratteri laici e modernizzanti, quasi spigoloso, con una identità così forte che lui stesso era stato costretto a definirlo obbligatoriamente «di minoranza». Un partito, certo, di ispirazione moderata, ma con lo sguardo tutto rivolto al futuro e difficilmente etichettabile come conservatore. Il premier ha voluto evitare «l’alternativa del diavolo» che Fini gli aveva posto: se avesse aderito alle sue posizioni gli avrebbe consegnato il bastone dell’ideologo e del profeta, consacrandolo definitivamente come suo erede; se gli avesse opposto una linea diversa avrebbe riconosciuto, per la prima volta nel partito da lui fondato e sul quale regna incontrastato, la possibilità di una leadership alternativa.

Così, Berlusconi, derubricando quasi l’intervento di Fini come il proverbiale «utile contributo al dibattito», ha voluto concentrarsi sull’ordine del giorno del presente. Un ordine del giorno pervicacemente mirato a un solo scopo: il rafforzamento dei poteri del premier. D’altra parte, se si punta a un partito del 51 per cento, se si identifica il Pdl come il partito degli italiani, quello destinato e quasi costretto a governare per l’inconsistenza dello schieramento avversario, si deve tener conto che tutti possono farvi parte, i laici come i cattolici, i liberisti come i protezionisti, i conservatori come i riformisti. Insomma, un partito che non divide, pragmatico, che si modella nelle mani del suo leader con prontezza e realismo.

È difficile prevedere se questo modello di partito «acchiappatutto» reggerà agli scossoni di scelte che, comunque, sono imminenti, come quelle sul testamento biologico dove, alla Camera, forse la maggioranza dei deputati non è pronta a sostenere il testo approvato a Palazzo Madama. O quando il referendum sulla legge elettorale potrebbe costituire una ghiotta tentazione per sfidare la Lega alla crisi di governo e a nuove elezioni, pur di arrivare, con una scorciatoia, a quella soglia del 51 per cento che, diversamente, potrebbe costituire solo un miraggio.

La conclusione del congresso, però, aiuta a dare un significato chiarificatore al paragone che è aleggiato in questi giorni: il Partito della Libertà è la Dc del Duemila, una «balena bianca» guidata da quel moderno doroteismo ideologico che ha sostituito il dialogo diretto tra il leader e il popolo alla vecchia mediazione interclassista dei capi democristiani? Il confronto sottintende, più o meno esplicitamente, una previsione: Berlusconi è riuscito a raggruppare sotto le nuove bandiere del Pdl un blocco sociale che garantirà al centrodestra l’egemonia politica in Italia per un periodo molto lungo, destinato a non terminare neanche dopo il suo passaggio di consegne.

Il richiamo alla Dc è utile se coglie la capacità del Pdl di rappresentare l’anima moderata e sicuramente maggioritaria del Paese. È illuminante perché coglie l’attuale pragmatismo di Berlusconi, che ha mandato in soffitta l’epopea rivoluzionaria degli esordi e che rifiuta le incalzanti sfide modernizzanti e fortemente identitarie che gli propone Fini. Ma con alcune differenze importanti che, invece, non consentono di fare pronostici. La Dc aveva un elettorato più conservatore di chi si incaricava di rappresentarlo nelle aule parlamentari e al governo. Il Pdl, al contrario, rischia di avere un centro di gravità dirigenziale nettamente più a destra della maggioranza di chi lo vota.

Questa diversità lascia, soprattutto nel Nord Italia, un potenziale spazio politico sia alla Lega, naturalmente, sia ai partiti del centro e del centrosinistra. Poiché non esiste più, nonostante le ossessive insistenze di Berlusconi, un partito antisistema come era il partito comunista, la previsione di una sicura egemonia del centrodestra per i prossimi decenni non può essere confortata da quella similitudine storica. Nell’Italia del Duemila il potere non si conquista più perché gli altri sono fuori gioco, ma perché gli altri si mettono fuori gioco da soli.
 
da lastampa.it
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« Risposta #24 inserito:: Aprile 09, 2009, 11:09:47 am »

9/4/2009
 
Il duello del Nord
 
LUIGI LA SPINA
 
Era una facile previsione quella formulata al primo congresso del «Popolo della libertà»: l’unità fra Fi e An avrebbe ridotto il potere negoziale della Lega verso il principale partito che sostiene il governo.

Un pronostico che già ieri, in mattinata, si era confermato, quando la discussa istituzione delle ronde era stata stralciata dal decreto e relegata nel disegno di legge. Ma che si è dimostrato clamorosamente azzeccato alla luce della sconfitta parlamentare dello schieramento di centrodestra sulle espulsioni degli immigrati. Nel voto segreto, infatti, è emersa la crescente irritazione di molti deputati del neonato partito per quelli che considerano i «ricatti» continui e inaccettabili della Lega.

La politica, però, non è solo una fredda partita a scacchi, dove i numeri, le strategie, le alleanze, i rapporti di forza si muovono nel ristretto campo di gioco, in questo caso in Parlamento e in Consiglio dei ministri. Per comprendere, con una maggiore profondità, sia i motivi di questo contrasto sia il perché sarà destinato a crescere durante l’attuale legislatura, occorre allargare lo sguardo anche fuori dai palazzi del potere.

Il partito di Bossi è in difficoltà perché deve dimostrare ai suoi elettori che l’alleanza di governo stretta a Roma costringe a pagare prezzi salati sull’altare della coerenza programmatica, ma riesce a portare il risultato della riforma federalista. Un provvedimento che è ormai diventato il totem davanti al quale solamente si giustifica la partecipazione della Lega alla maggioranza. Il conseguimento di questo obiettivo simbolico sta diventando sempre più oneroso, anche perché la necessità di trovare un accordo pure con il Pd alimenta le diffidenze tra le file dei sostenitori di Berlusconi. Una parte della maggioranza, inoltre, si è resa conto che, almeno in una prima fase, i costi di questa riforma saranno alti e difficilmente sopportabili in un momento in cui la crisi economica mette a rischio anche i conti dello Stato.

Si sta allargando tra il partito del presidente del Consiglio e quello di Bossi, però, una diversità «ideologica» ancora più importante della valutazione di questo o quel provvedimento, come potrebbe essere la riforma federalista o le ronde anti-immigrati. Un contrasto più profondo e radicale che, proprio in questi tragici giorni, si palesa con grande chiarezza. La volontà d’impersonare lo Stato, la sua forza, la sua presenza, la sua necessità, la provvidenzialità del suo intervento di conforto e di aiuto ai terremotati abruzzesi che Berlusconi dimostra in questi giorni contrasta frontalmente proprio con la ragione fondativa della Lega.

Tra il Cavaliere «rivoluzionario» dei suoi esordi politici, alla fine del secolo scorso, interprete del fastidio per le regole di uno Stato burocratico e accentratore, un sentimento largamente diffuso nel Nord del nostro Paese, e un premier che pare voler subentrare, sul campo devastato di una tragedia immane, al ruolo di Napolitano nella funzione di massima autorità istituzionale, c’è davvero una trasformazione notevole. Allora, l’alleanza con l’antistatalismo e l’autonomismo leghista era del tutto naturale. Ora, diventa più difficile, per il partito di Bossi, accettare un presidente del Consiglio sempre di più avvolto nell’odiato tricolore, a capo di una nuova formazione politica che pare aver trovato nel Centro-Sud d’Italia il baricentro non tanto dei consensi quanto degli entusiasmi.

Quando si proclama solennemente, durante il congresso di unificazione, che il traguardo del Pdl è quello di raggiungere l’autosufficienza per governare l’Italia, cioè il 51 per cento dei suffragi elettorali, è evidente, per la Lega, il rischio dell’impotenza e della sua riduzione a un ruolo di mera testimonianza identitaria in alcune zone del Paese. Bossi, che è un politico molto accorto, non ha avuto certo bisogno di aspettare gli avvenimenti di ieri per avvertire il pericolo. Le prossime elezioni europee potrebbero costituire, nel Nord, il primo banco di prova di quella stagione fortemente competitiva che si annuncia tra i due partiti della maggioranza.

La sfida tra Pdl e Lega potrebbe avere due esiti. Quello di un confronto continuo, in un’alternanza di risultati, per tutta la legislatura con un obbiettivo finale: la conquista dell’egemonia, nel Nord d’Italia, tra l’elettorato del centrodestra. Oppure potrebbe portare a uno sbocco dirompente: l’interruzione della quarta esperienza governativa di Berlusconi e nuove elezioni. In quest’ultimo caso, il verdetto del duello potrebbe essere senza possibilità di rivincita e potrebbe chiudere un’intera stagione politica e, magari, personale.
 
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« Risposta #25 inserito:: Aprile 10, 2009, 09:23:17 am »

10/4/2009
 
Se MITO tramonta

 
LUIGI LA SPINA
 
Tra i tanti miti che «la grande recessione», come ormai viene definita l’attuale crisi economica in riferimento alla «grande depressione» del ’29, ha infranto, forse, ce n’è uno speciale. Perché si scrive in lettere tutte maiuscole, MITO, e si riferisce al progetto di una grande alleanza tra le due capitali del Nord-Ovest, Milano e Torino. L’idea non era nuova, perché risaliva addirittura agli Anni Ottanta del secolo scorso.

Ma il superamento della crisi Fiat, l’entusiasmo per l’arrivo delle Olimpiadi torinesi, la prospettiva di un rapido collegamento ferroviario tra le due città, la fusione tra le due grandi banche, Intesa e San Paolo, aveva ridato slancio ai sogni di una vera conurbazione industriale e commerciale, motore dell’intera area nord-occidentale dell’Italia. Così, qualche anno fa, l’euforia finanziaria internazionale diede anche un po’ alla testa, forse, ad alcuni protagonisti delle classi dirigenti torinesi e milanesi. Si stabilirono tappe forzate di integrazione tra aziende di servizio, si immaginarono e si realizzarono alcuni esperimenti di collaborazione culturale e turistica, del resto con ottimi risultati, come la rassegna «Settembre Musica». Si programmò un rilancio reciproco tra i due grandi prossimi appuntamenti internazionali che riguarderanno Torino e Milano, nel 2011 le celebrazioni per i 150 anni dell’unità italiana e, nel 2015, l’Expò milanese.

Non mancarono, naturalmente, reazioni di paura e di diffidenza. I timori erano soprattutto quelli che provenivano dalla capitale subalpina, più piccola di quella lombarda e, quindi, spaventata dalla possibilità di diventare solo una città satellite, dormitorio più a buon mercato dell’imperialismo economico meneghino. Lo scetticismo, invece, era diffuso a Milano, per la sensazione di supponente autosufficienza che spesso colpisce parte di quella classe dirigente. Un convincimento, peraltro, che non sembra suffragato dai fatti, recenti e meno recenti.

In questo clima, di un MITO ormai sballottato fra illuministici progetti e provinciali sgomenti, è arrivato il tornado della crisi internazionale. Con il solito corollario, comprensibile ma pericoloso: l’egoismo stracittadino. Le obiezioni di merito si sono trasformate in paletti di principio irrinunciabili e le difficoltà di bilancio in solidissimi alibi. Finché è sbarcato a Torino il grande guru della sociologia italiana, Giuseppe De Rita, e, con il suo eloquio sornione e ammaliante, ha ammonito la classe dirigente locale con un crudo avvertimento: cari torinesi, non illudetevi, fate da soli, perché non saranno i cinquanta minuti dell’Alta velocità a colmare i fossati che si stanno aprendo tra le due città. Non che De Rita abbia consigliato Torino a rimanere zitella. Solo non ha suggerito la monogamia, ma una sbarazzina poligamia. Per un cattolico dichiarato, fedelissimo a una moglie con la quale ha avuto ben otto figli, è certamente un azzardo. Magari rischia la scomunica. Per amore. Di Torino.
 
da lastampa.it
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« Risposta #26 inserito:: Aprile 28, 2009, 05:55:50 pm »

28/4/2009
 
Gli orfani del 25 Aprile
 
LUIGI LA SPINA
 

Non facciamo gli ipocriti.

Non è vero che, dopo la celebrazione, a partiti unificati, della festa del 25 Aprile, il compiacimento sia generale e tutti sprizzino soddisfazione.

I sentimenti, quelli sinceri di gran parte dei militanti e di gran parte della classe dirigente del Pd come del Pdl sono altri: delusione, stizza e, in molti casi, la sensazione di aver subito una sconfitta.

A sinistra, Franceschini viene accusato di una colpevole ingenuità, quella di avere offerto su un piatto d’argento l’occasione a Berlusconi per un’altra «furbata»: lo scippo dell’unica festa veramente ed esclusivamente identitaria del centrosinistra italiano, quella che, ancora, lasciava una fetta dell’attuale maggioranza fuori dal perimetro dei fondatori e ispiratori della nostra Repubblica. Il segretario Pd, sempre secondo i suoi critici all’interno del partito, prevedeva, da parte del premier, la persistenza del rifiuto a partecipare a quella celebrazione e, quindi, l’opportunità di sfruttare un forte argomento polemico in campagna elettorale. Quando Berlusconi, invece, ha deciso di intervenire alla festa della Liberazione, la mossa di Franceschini si è rivelata un clamoroso boomerang.

La cosa curiosa è che, anche a destra, gli umori sono simili. La partecipazione dei leader Pdl a quella festa è vista come un cedimento all’opportunismo, uno sgradevole prezzo pagato per l’accreditamento politico e morale di Berlusconi come candidato al Quirinale e custode proprio di quella Costituzione di cui gli odiati comunisti furono tra i progenitori. Boccone ancor più amaro da digerire è, poi, il riconoscimento della Resistenza e dei suoi valori come elemento costitutivo e ispiratore della nostra Repubblica.

Altrettanto curiosa e unificante è la speranza segreta che riesce a consolare, sia la destra sia la sinistra, in questi momenti. Per i militanti della prima, l’attesa è quella di superare in fretta il fastidioso pedaggio dell’avvenuto ossequio formale, per depotenziare questa ricorrenza fino a mandarla in soffitta, tra le vecchie bandiere e le vecchie medaglie dimenticate e impolverate. Possibilmente cambiandogli addirittura il nome, per confonderlo con uno più gradito. Per i simpatizzanti della seconda, la presunta gaffe di Franceschini sarà presto superata, quando la strumentalità dell’adesione di Berlusconi sarà contraddetta da comportamenti ed iniziative che riveleranno i veri sentimenti del premier nei confronti del 25 Aprile. Insomma, cova in tutti e due gli schieramenti l’ansia di dimostrare che si può tranquillamente tornare indietro, a quei posti che assicuravano così comode identità distintive e così comode occasioni di polemica politica e di scontro ideologico.

Invece, no. In politica, quello che conta non sono le intenzioni, le mosse strumentali, i retropensieri, ma i fatti compiuti. Quando Fini è passato dal ritenere Mussolini «il più grande statista del Novecento» a considerare l’antifascismo un valore obbligatorio per aderire alla democrazia italiana, molti erano i dubbi, le ironie, i sospetti, dentro e fuori An. Tutte impressioni fallaci: era partito un tragitto irreversibile, certo accidentato, ma senza ritorno, come lo sono tutte le profonde revisioni della propria storia politica e personale. Un percorso che ha portato anche La Russa, ministro della Difesa, a inchinarsi davanti alla Resistenza e alla festa della Liberazione dai fascisti e dai nazisti.

Quando, molti anni fa, il segretario del Pci, Enrico Berlinguer, ammise di sentirsi più sicuro all’ombra della Nato, ci furono analoghi dubbi, sospetti, ironie. Eppure, quello fu il punto di partenza che trasformò un partito che, in molte sue parti, era rimasto filosovietico, antidemocratico e antioccidentale, nella sezione italiana della socialdemocrazia europea. Sarebbe più rassicurante, certo, che le truppe avversarie rimanessero sui vecchi fronti e che le caserme dei nostri rimanessero sempre là, dove il rifugio è sicuro. Poi, per fortuna, e magari senza calcolare le conseguenze, magari senza intravedere il punto d’arrivo, i protagonisti della storia spezzano tabù e scompigliano il gioco. Lo fanno per un calcolo contingente, per astuzia, magari per viltà o per azzardo. Ma quello che dicono e che fanno resta e non possono più tornare indietro.

L’«ingenuità» di Franceschini ha prodotto un risultato importante. La fermezza del Capo dello Stato, nel ribadire che i principi della Costituzione sono irrinunciabili per garantire il rispetto della democrazia nel nostro Paese e che la lotta antifascista è l’esperienza fondante della nostra Repubblica, ha molto contato per arrivare alla condivisione della festa. La rinuncia di Berlusconi a un suo lungo atteggiamento di distacco e di freddezza, rispetto all’anniversario della Liberazione, va apprezzata per quello che significa non per i motivi, presunti o reali, di tale scelta.

Prendere sul serio quello che si dice e quello che si fa non è da sciocchi ottimisti, ma sottintende una pretesa esigente: la verifica della coerenza da parte dei protagonisti. Chi pensa o spera in una facile palinodia delle parole o degli atteggiamenti non considera che la forza dei fatti è destinata a vincere sempre, anche contro la volontà degli uomini.
 
da lastampa.it
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« Risposta #27 inserito:: Maggio 08, 2009, 05:07:26 pm »

8/5/2009

Il fantasma dell'immigrato
   
LUIGI LA SPINA


Sul problema dell’immigrazione, i rischi sono evidenti. C’è una campagna elettorale dove, oltre alla battaglia tra destra e sinistra, si è aperta una competizione dura tra Lega e Pdl.

Una competizione, in prospettiva determinante, per l’egemonia politica e culturale nelle regioni del Nord d’Italia. La crisi economica è nella fase in cui alle avvisaglie di qualche segnale incoraggiante corrisponde la fase più dura delle conseguenze sui consumi delle famiglie e sull’occupazione, soprattutto dei giovani. Sono i momenti in cui le lusinghe della demagogia, la corsa al voto in più o al lettore in più, sembrano irresistibili e le voci dell’egoismo, le paure di perdere le nostre sicurezze, le tentazioni di chiudersi nei recinti del pregiudizio appaiono troppo forti.

Eppure bisogna resistere a queste seduzioni, comprensibili ma da respingere con fermezza, e cercare di fare appello alla coscienza civile, alla necessità di ragionare, distinguere, fermare un’ondata emotiva e strumentale che può far correre al nostro Paese un’altra stagione di follia collettiva, di sbandamento morale e politico e di fornire a gruppi più o meno organizzati l’occasione di violenze e di delitti.

Il controllo dell’immigrazione clandestina è un problema vero e occorre togliere alla Lega il monopolio della sua agitazione propagandistica e strumentale. Non si risolve con appelli moralistici e irenici all’integrazione sociale e culturale, né con azioni caritative e umanitarie, doverose, encomiabili, ma che limitano i danni di politiche sbagliate, non offrono soluzioni di lungo periodo. I risultati dell’azione del ministro Maroni, dopo un anno di esercizio al ministero dell’Interno, non sembrano aver ottenuto, finora, quegli effetti che in campagna elettorale erano stati promessi. È anche questa consapevolezza, forse, che induce la Lega ad affrettare i tempi e alzare i toni di provvedimenti annunciati e poi ritirati, confusi, contraddittori, velleitari e, in alcuni casi, come quelli sui medici e i presidi «spioni», così clamorosamente anticostituzionali da risolversi in un boomerang per la credibilità dell’intera politica del Viminale.

Occorre individuare, con intese possibilmente meditate e allargate a un ampio confronto parlamentare, una serie di interventi che, come è stato fatto per l’immigrazione albanese, limitino il fenomeno e, poi, finiscano per estinguerlo. Le intese con la Libia, ad esempio, vanno messe alla prova di un impegno concreto e verificabile e, di fronte alla possibilità di bloccare il flusso dei clandestini riportandoli ai lidi di partenza, non bisogna opporre rifiuti pregiudiziali.

A fronte di questo impegno, serio, civile, rispettoso dei valori della persona, specie se in difficoltà, ma non ipocrita e falsamente moralista, è necessaria una vera mobilitazione delle coscienze per impedire una deriva emozionale del Paese che potrebbe accendere fenomeni di vero e proprio razzismo. Gli episodi di questi giorni, purtroppo, hanno alimentato timori da non sottovalutare. Basti citarne uno solo, che vale per tutti: la proposta del capogruppo milanese della Lega, Salvini, di una specie di segregazione razziale, come nel passato regime sudafricano, sui trasporti pubblici della città. Un’idea che fa rabbrividire e che dimostra come sia assolutamente necessario porre un deciso altolà alle sfrenatezze culturali e morali di certe posizioni politiche.

Già abbiamo vissuto epoche in cui al mancato rispetto delle regole civili di uno Stato democratico sono corrisposte indulgenze giudiziarie, furbizie partitiche e ammiccamenti giornalistici. Ora, il pericolo può essere ancor più grave, perché la violenza verbale e, magari, fisica rischia non solo d’infrangere una legge, ma il diritto a una convivenza fondata sul rispetto elementare per la vita umana, sull’accettazione di quella fraternità che, accanto alla libertà e all’eguaglianza, sono i fondamenti di una moderna comunità civile. Sono i principi della Rivoluzione francese, alla fine del Settecento. Speriamo che nel nuovo millennio non si debbano più ricordare come patrimonio di parte, ma come patrimonio di tutti.

da lastampa.it
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« Risposta #28 inserito:: Maggio 20, 2009, 10:37:19 am »

20/5/2009
 
Non sono ragazzate
 
 

LUIGI LA SPINA
 
L’automatismo della memoria potrà anche essere fuorviante, quando ci spinge ad applicare al presente i termini del passato.

Ma può anche essere salutare, quando ci impedisce di trasferire gli errori del passato sul nostro presente. A Torino, prima l’aggressione al segretario della Fiom, poi gli scontri con la polizia al cosiddetto G8 dei rettori hanno fatto immediatamente ricordare il clima infame degli Anni Settanta e, subito, è scattato l’allarme sui rischi di un ritorno del terrorismo nel nostro Paese. Ci si può chiedere se sia ancora adeguato l’uso di questo o di un altro termine per analizzare ciò che sta avvenendo, quasi quarant’anni dopo. Ma la vera domanda, quella che conta, non è se l’usura del linguaggio possa agevolare la pigrizia della mente. La questione è se sia giustificato quel timore e quell’angoscia che prende alla gola chi ha vissuto quei tempi orribili. La risposta, purtroppo, può essere una sola, chiara e forte: sì.

È ovvio che oggi le condizioni politiche, sociali, culturali sono troppo diverse da quelle che il confronto, eppure inevitabile, ci rammenta. Ma il paragone non suggerisce solo elementi rassicuranti.

Allora, c’era la spinta a una redistribuzione di ricchezza e di potere, accumulati negli anni del dopoguerra, richiesta dalla affollata generazione dei figli di coloro che li avevano procurati. Adesso, s’agita lo spettro dell’esaurimento, a seguito della crisi economica, dell’unico capitale che ha consentito alla precarietà giovanile la sopravvivenza, quello dei risparmi di genitori e nonni. Allora, c’era una forte opposizione parlamentare di sinistra che, in una prima fase, trasferì nelle istituzioni la voce della protesta e, poi, sia pure tardivamente, vi si oppose con fermezza, quando non fu più possibile disconoscerne l’eredità familiare. Adesso, l’assenza o la debolezza di quella rappresentanza non è un vantaggio, ma un rischio.

Allora, c’erano forti ideologie rivoluzionarie, certo da non rimpiangere, perché dietro le utopie si nascondevano modelli di terribili regimi dittatoriali e sanguinari, ma che legavano, comunque, i sogni giovanili a un ideale. Adesso, le speranze faticano ad appendersi a qualsiasi valore per cui possa sembrare giustificato battersi.

Ecco perché la memoria soccorre, invece preziosa, a ricordarci una lezione intransigente su quel limite invalicabile, sempre, comunque, dovunque: il confine tra l’espressione di un pensiero, di una protesta, anche di una ribellione, e il ricorso alla violenza, sia pure piccola, marginale, apparentemente effimera. Le parole si possono cercare meglio, ma le accezioni della violenza non hanno i diminutivi. Perché il passato può essere un incubo, ma anche un vaccino.
 
da lastampa.it
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« Risposta #29 inserito:: Maggio 27, 2009, 10:09:47 am »

27/5/2009
 
Berlusconi e i problemi dimenticati
 
LUIGI LA SPINA
 
A dieci giorni dal voto, ci aspettavamo di dover lamentare l’assenza delle questioni europee nella campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo. Ma non avremmo mai potuto immaginare che sarebbe stato «il caso» di una ragazza diciottenne, Noemi Letizia, il centro del dibattito tra i partiti. Una polemica che ha suscitato, da una parte, una enorme curiosità voyeuristica sull’intimità di Berlusconi e, dall’altra, una raffinata dissertazione politologica sulla distinzione tra pubblico e privato, quando si parla di un personaggio che rappresenta la quarta carica dello Stato. Ma che non avrà, molto probabilmente, alcun effetto sui risultati del 6-7 giugno.

Tanto rumore per nulla, quindi? Non proprio. Esiste un problema di coerenza nella pretesa di riservatezza sulla sua vita privata che, oggi, il presidente del Consiglio rivendica. Una richiesta difficilmente comprensibile, dal momento che anche sull’esibizione pubblica, ostentata ed insistita, delle felicità familiari, delle ricchezze personali e, persino, delle straordinarie capacità di ringiovanimento estetico si è fondato quel formidabile rapporto di successo politico che unisce, da oltre quindici anni, Berlusconi con la maggioranza del popolo italiano.

Ecco perché il premier dovrebbe riuscire a offrire, sul «caso Noemi», una versione dei fatti meno contraddittoria e più credibile di quella finora fornita da lui, dai suoi difensori e dai familiari della ragazza. Berlusconi si sentirà ingiustamente perseguitato per una sciagurata visita nella poco amena Casoria, ma non dovrebbe dimenticare la lezione dantesca sulla pena del contrappasso.

Non è possibile, però, che i trasversali interessi congiunti dei due schieramenti, con l’opposizione che così maschera le sue difficoltà e con Berlusconi che recita la sua parte migliore, quella della vittima, riescano a eludere il vero problema sul quale il dibattito pubblico dovrebbe concentrarsi: la crisi economica, soprattutto per le sue conseguenze più gravi, la crescita della disoccupazione e l’ampliarsi della condizione di precarietà che affliggono molti italiani. Le preoccupazioni dei vescovi sulla condizione sociale di molti nostri concittadini sono condivisibili e significative, anche perché provengono da chi aveva espresso una esplicita fiducia al nascente «Berlusconi quarto». L’appello alla riforma del welfare lanciato da Confindustria e, per la prima volta, non contestato pregiudizialmente da tutti i sindacati, va accolto. Non solo per verificare la possibilità di un’intesa, ma per sgomberare o confermare il sospetto che incomincia a convincere molti: quello di un’ipocrita commedia all’insegna dello slogan «ora le riforme». Perché, in campagna elettorale, è troppo pericoloso impaurire la somma degli interessi costituiti in difesa dell’esistente e perché è più facile, per chi non ha responsabilità di governo, inneggiare al cambiamento.

La divaricazione tra le due Italie che, in questo momento, fronteggiano la situazione di crisi è davvero insopportabile. Da una parte, i garantiti: coloro che, addetti all’impiego pubblico o semipubblico, non solo non rischiano il posto di lavoro, ma, in un periodo di inflazione moderata, almeno finché durerà, constatano un potere d’acquisto, tutto sommato, non inferiore ai tempi passati. Dall’altra, chi ha visto drammaticamente ridotto il suo salario dalla cassa integrazione o, addirittura, non ha più speranze di una riapertura della sua fabbrica o del suo ufficio. In fondo al secondo girone, quello che potremmo chiamarlo, alla Primo Levi, dei «sommersi», ci sono i precari. Quelli che invano hanno sperato in una riconferma dell’occupazione e, magari, in un contratto a tempo indeterminato. Come è possibile sopportare l’ingiustizia di protezioni sociali che così dividono la sorte di tanti italiani? Come è possibile non accettare un innalzamento dell’età pensionabile, di fronte a una molto più lunga aspettativa di vita, per poter estendere a tutti la sicurezza di non essere abbandonati a una perenne precarietà del lavoro?

È a questa linea di coraggioso rinnovamento nella politica sociale ed economica che Berlusconi dovrebbe rispondere. Coi fatti.
 
da lastampa.it
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