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Autore Discussione: LUIGI LA SPINA -  (Letto 81896 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Dicembre 29, 2012, 07:47:11 pm »

Editoriali
29/12/2012

La radiografia del candidato ideale

Luigi La Spina

Il mancato cambiamento della legge elettorale non è solo uno dei tanti fallimenti di una legislatura da dimenticare. E’ anche il simbolico segnale della sordità dei partiti rispetto alle richieste dei cittadini su tutto il fronte della riforma della politica, dalla riduzione del numero dei parlamentari, al finanziamento pubblico, dall’abolizione delle province alle regole di garanzia per le candidature alle Camere.

 

Il risultato di questo deludente bilancio è, in questi giorni, sotto gli occhi di tutti. C’è chi, come il partito di Bersani, cerca, con le cosiddette «parlamentarie» in programma nel week-end, di attuare, perlomeno, un parziale tentativo di restituzione agli italiani del diritto a scegliere i loro rappresentanti. Chi, come Berlusconi, vuole evitare che la sua prossima compagine parlamentare non sia composta solo di fedelissimi. Chi, come Monti, salendo in politica spera di alleggerire il più possibile il carico di imbarazzanti compagni di cordata. 

 

A proposito dell’attuale presidente del Consiglio in carica per gli affari correnti, è evidente il tentativo di sorvegliare la selezione di questi adepti alla sua «agenda». Lo conferma sia l’incarico a Bondi di un esame preliminare dei candidati, sia la distinzione, dove è consentito dal quorum necessario all’elezione, cioè alla Camera, tra una lista di uomini e donne provenienti dalla «società civile» e una lista di personale politico collaudato, come quello che si raggruppa nel partito di Casini.

 

E’ lodevole l’apertura di Monti verso coloro che non hanno fatto della vita di partito l’unica esperienza della loro vita. Del resto, corrisponde al suo profilo di tecnico, autorevole professore di economia apprezzato internazionalmente. Così come è apprezzabile la ricerca di competenze, fondate più sul valore intellettuale e sul successo professionale e meno sulla fedeltà di clan, per arricchire di qualità una classe politica che non ne ha dimostrato molta.

 

La questione della provenienza, da parte dei candidati, è, però, meritevole di qualche riflessione supplementare. E’ ovviamente ingenuo o scopertamente ipocrita ritenere che assicuri, di per sé, una garanzia di serietà, competenza e rigore morale. Il passato offre esempi troppo clamorosi per poterli dimenticare, sia tra gli eletti in Parlamento, sia tra i consiglieri regionali. E non sono solo gli albi degli igienisti dentali a non aver offerto nomi che abbiano dato prove esaltanti nei nostri emicicli. Tra coloro che sono stati condannati dalla magistratura ci sono fior di avvocati, medici, architetti che, prima di entrare in politica, godevano di sicura fama per la presunta eccellenza del loro lavoro. Ricordiamo, infine, che la ventennale discesa in campo dello stesso Berlusconi è sempre stata contrassegnata dalla sua polemica contro i «professionisti della politica». Ma l’esito concreto di questo slogan non pare davvero brillante, se guardiamo alla classe dirigente trasportata dal Cavaliere nelle aule parlamentari.

 

La radiografia dei candidati, oltre che alla fedina penale, non può quindi limitarsi alla professione dichiarata sul loro curriculum vitae. Né ci sono garanzie assolute, per il futuro, dai comportamenti del passato. Tutt’al più ci possono essere segnali promettenti e altri meno. Per quanto riguarda i magistrati, ad esempio, la carriera quarantennale dell’ormai ex procuratore antimafia, Piero Grasso, improntata alla serietà di un impegno volto a evitare esibizionismi parapolitici e a condurre indagini concluse con sentenze che ne hanno garantito la fondatezza, forse potrebbe confortare di più di quella di altri suoi colleghi, come Antonio Ingroia, per citare la candidatura più discussa.

 

Di fronte alla montante indignazione «antipolitica» da parte dei cittadini italiani, peraltro ampiamente giustificata, bisogna, però, evitare scorciatoie semplicistiche e populiste. La nostra storia recente ci dimostra come certe parole d’ordine, sulle quali è stata costruita la cosiddetta «Seconda Repubblica», non hanno portato benefici risultati. E’ augurabile che, anche con il contributo di Monti, la Repubblica che ci aspetta dopo la fine di febbraio offra un personale politico migliore. Ma la società, qualche volta è civile e, qualche volta, no.

da - http://lastampa.it/2012/12/29/cultura/opinioni/editoriali/la-radiografia-del-candidato-ideale-F4z5t4YCJe72gcY36XKiSM/pagina.html
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« Risposta #136 inserito:: Gennaio 23, 2013, 09:03:44 am »

Editoriali
22/01/2013

Opinione pubblica disprezzata

Luigi La Spina

La compilazione delle liste elettorali, culminata con il «caso Cosentino», trascinatosi fin all’ultima ora a casa Berlusconi in una trattativa a dir poco indecorosa, anche se conclusa per fortuna in modo ragionevole, lascia davvero interdetti. Ma in quale mondo vive la nostra classe politica, a cominciare da quella del Pdl? 

 

U na legislatura costellata da una eccezionale ondata di scandali ha suscitato un’altrettanto eccezionale ondata di sdegno popolare. Ne è testimonianza evidente il dilagare di un fortissimo sentimento «antipolitico» che, non solo gonfia fino a percentuali a due cifre il movimento di Grillo, ma che ingrossa le file di coloro che, in questi giorni, pensano di rifiutare la scheda per il voto di fine febbraio. Il fallimento, poi, dell’unico compito, nell’ultimo anno di vita di questo Parlamento, che il presidente Napolitano aveva sollecitato ai partiti, quello di varare una riforma della pessima legge elettorale in vigore, poteva far sperare che le forze politiche cercassero di dimostrare almeno qualche segnale di consapevolezza e di autocorrezione. 

 

Il bilancio che ieri sera si poteva tracciare, invece, a parte, bisogna ammetterlo, il miglior comportamento del Pd, è del tutto deludente.
Sia sul piano della decenza politica nella scelta dei candidati, con la dimostrazione lampante di quanto fosse insufficiente il decreto varato dal ministro Severino due mesi fa. Sia sul piano della lealtà nei confronti dei cittadini, con la reiterazione impudente delle vere e proprie truffe elettorali che si compiono con le candidature plurime in vari collegi e con quelle che si avanzano solo come «acchiappavoti», perchè si dichiara in anticipo la volontà di rinuncia al seggio parlamentare per mantenere altri incarichi, politici o istituzionali.

 

Il negoziato, chiamiamolo così, sulla candidatura dell’ex deputato Pdl e ex sottosegretario, Nicola Cosentino, è stato certamente esemplare di uno sfacciato schiaffo alla sensibilità dell’opinione pubblica. Con l’aggravio di una mistificante confusione tra concetti diversi.
Non si trattava, infatti, di emettere un verdetto nei confronti delle pesantissime accuse che la magistratura gli ha rivolto, in sostanza quelle di collusione con la camorra. Cosentino, infatti, è da considerarsi innocente fino all’ultimo dei tre gradi di giudizio.
Né valgono considerazioni di tipo morale o moralistico che riguardano solo la coscienza individuale, sua e dei suoi concittadini. Esiste, invece, una chiara condizione, nei suoi riguardi, di impresentabilità politica, quella che, secondo la Costituzione, non gli consente di rappresentare, senza vincoli di mandato, la nazione nel Parlamento italiano.

 

Aggravante di questa trattativa disperata, per lui e per i vertici del suo partito, è il calcolo, davvero vergognoso, di cui si è discusso in questi giorni in via del Plebiscito. Non si è valutato solo il prezzo di una rinuncia ai voti che Cosentino avrebbe potuto portare al partito. Ma, sulla bilancia delle convenienze, una indecente contabilità ha cercato di valutare se fossero maggiori, in termini di suffragi elettorali, i numeri di coloro che avrebbero disertato, per indignazione, le urne, nel caso di una sua candidatura o quelli di chi non avrebbe votato senza che il suo nome figurasse in lista.

 

La motivazione fondamentale della necessità di candidare l’ex deputato campano, poi, è stata confessata, da entrambe le parti di questa trattativa, con sorprendente candore: quella di evitargli il carcere. Qui la confusione delle idee è massima. O non siamo più uno Stato di diritto, basato sulla distinzione dei poteri, e allora non c’è altra via che quella della montagna, con il moschetto in mano per fare la rivoluzione. Oppure, nonostante tutte le colpe e gli errori della magistratura e i difetti della nostra vita pubblica, lo siamo ancora.
In questo secondo caso, la Costituzione ammette che non si possa arrestare un deputato senza il consenso della maggioranza dei suoi colleghi, ma non che si possa far eleggere, con un listino bloccato in modo da assicurargli il seggio, un cittadino in Parlamento per sottrarlo alla prigione.

 

L’esclusione, in extremis, di Cosentino dalla lista Pdl in Campania rappresenta una buona notizia, ma non cancella lo spettacolo miserevole che si è svolto in questi giorni. Anche perché, sia pure, con gravità minore, ha riguardato il comportamento di altri partiti.
Per esempio, pure la decisione di candidare Lorenzo Cesa nelle liste del partito di Casini si presterebbe a molte critiche.
Rafforzate, peraltro, dalle promesse di un rigoroso controllo di «presentabilità politica» sbandierate dal capo della coalizione, lo stesso Mario Monti.
Per non parlare del brutto costume, abituale anche questa volta in tutti i partiti, di «paracadutare» nei collegi nomi sconosciuti sul territorio, in barba a qualsiasi rispetto per la rappresentatività regionale degli eletti.

 

Il disprezzo per l’opinione dei cittadini manifestato così clamorosamente in questi giorni, però, fa sorgere un sospetto.
Forse quell’indignazione della società civile contro la cosiddetta «casta», così sbandierata in tv e sui giornali, nei bar e nei salotti di tutt’Italia, è solo un clamoroso bluff mediatico destinato a rientrare nelle disciplinate truppe della militanza o della convenienza partitica? Forse, per questa convinzione, è, in fondo, comprensibile l’insensibilità, un po’ beffarda, della nostra classe politica nei confronti degli elettori? La risposta non tarderà ad arrivare, tra poco più di un mese.

da - http://lastampa.it/2013/01/22/cultura/opinioni/editoriali/opinione-pubblica-disprezzata-AqBepqW3hx8iBM3vAcD2lN/pagina.html
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« Risposta #137 inserito:: Gennaio 30, 2013, 07:42:22 pm »

26/9/2012

Non sprechiamo i sacrifici degli italiani

LUIGI LA SPINA

I tre presidenti italiani di maggior prestigio internazionale, quello della Repubblica, Giorgio Napolitano, quello del Consiglio, Mario Monti e quello della Banca europea, Mario Draghi, condividono, in questi giorni, la stessa forte preoccupazione per il nostro Paese. Il timore che, dopo la cospicua riduzione del divario di interessi tra i bond italiani e quelli tedeschi e il varo deciso a Francoforte dello scudo antispread, in Italia, ci si possa illudere su un definitivo superamento della crisi finanziaria dello Stato. Una eventualità che non è totalmente scomparsa, invece, sull’orizzonte del nostro futuro. Così, tra l’altro, si spiegano i tre contemporanei allarmi che, da Roma, da New York e da Berlino, oggi, hanno lanciato i tre presidenti.

Napolitano ha espresso una condanna durissima per i vergognosi esempi di corruzione e di immoralità pubblica che alimentano, con la giustificata indignazione dei cittadini, la cosiddetta «antipolitica». Monti, sia pure con il suo tipico linguaggio sobrio e allusivo, ha sollecitato l’aiuto dell’opinione pubblica perché esiga una diversa «qualità» dei loro governanti.

Draghi ha ricordato che, senza l’impegno concreto e persistente al risanamento e alla riforme delle classi politiche nazionali, non sarà sufficiente l’opera della Bce per salvare sia l’unità dell’Europa, sia la sorte dell’euro.

Le diverse responsabilità istituzionali, certamente, hanno indotto i tre presidenti a manifestare la loro apprensione con forme differenti, ma il fondamento dei timori è identico: il rischio che l’Italia, dopo aver faticosamente risalito la china della credibilità internazionale, dopo aver recuperato la stessa dignità della sua immagine sul palcoscenico del mondo, dopo aver di nuovo riscosso la fiducia sulla serietà dei suoi impegni, possa ripiombare nel discredito e nel disprezzo dei suoi partner continentali e d’oltreoceano.

Si coglie con evidenza, in questi giorni, l’amarezza e, persino, un certo disorientamento di Monti e dei ministri del suo governo. Come se lo scandalo della Regione Lazio, con i terribili danni mediatici di quelle squallide foto di festini, col contorno di maschere umane e suine, avesse reso, di colpo, vani tutti gli sforzi che, da mesi, si stanno facendo, in tutte le sedi del potere internazionale, per convincere i nostri interlocutori che l’Italia ha compiuto una svolta definitiva, irreversibile e profonda nei suoi comportamenti pubblici. Come se tutti i dubbi sul «dopo Monti», l’interrogativo che all’estero pongono con trepidazione al presidente del Consiglio, avessero avuto una risposta improvvisa ed eloquente. Come se il futuro italiano si fosse svelato ai loro occhi, dietro quelle maschere ridanciane e spudorate, diffuse, con malizioso compiacimento, sui giornali, le tv e gli schermi di Internet in tutto il mondo.

A quasi un anno dall’inizio della durissima prova a cui è stato sottoposto il nostro Paese, si è ormai capito che l’immagine dell’Italia, la percezione che in Europa si ha del nostro paese e dei nostri governanti, condizioni pesantemente sia i mercati finanziari, sia le istituzioni europee. E’ quell’immagine che rende credibili gli impegni di risanamento dei nostri conti pubblici. Quell’immagine fa sperare che le riforme approvate o solo annunciate abbiano veramente effetti concreti sull’economia italiana. Quell’immagine garantisce che anche le parti sociali abbiano compreso l’esigenza di rinunciare alle difese corporative e accettino di cambiare passo, per salvare il futuro dei giovani, le vere vittime di anni di dissipazione pubblica e di egoismo privato.

Le preoccupazioni di Monti e del suo grande «lord protettore», Giorgio Napolitano, sono condivise anche dal presidente della Bce, il quale le inserisce pure in un quadro europeo che mostra sintomi di inquietante allentamento degli impegni promessi. Draghi nota le titubanze e gli affannosi negoziati del premier spagnolo, Mariano Rajoy, soprattutto con la Merkel, per evitare di chiedere quegli aiuti all’Europa che lo costringerebbero a imporre ai suoi connazionali una medicina ben più amara di quella che già stanno sorbendo. Ma ha accolto, con allarme, pure le sparate propagandistiche di Berlusconi sull’abolizione dell’Imu, in caso di una nuova vittoria elettorale del centrodestra italiano. Un segnale di come l’imminenza della campagna elettorale nel nostro paese possa spezzare il precario accordo della «strana maggioranza» che sostiene Monti sulla necessità di non abbandonare la strada del rigore finanziario.

I timori dei tre presidenti sono fondati sull’esperienza di chi sa come la fiducia si conquisti con molta fatica e la si perda con molta facilità. I sacrifici che in questi mesi stanno facendo gli italiani non meritano di essere sprecati.

da - http://www1.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10570
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« Risposta #138 inserito:: Febbraio 01, 2013, 11:57:36 pm »

Editoriali
01/02/2013 - il caso musy

Quel marcio della società civile


Luigi La Spina

Sono tanti i sentimenti che agitano l’animo di chi abbia letto il decreto di fermo emesso dalla procura contro il presunto attentatore di Alberto Musy, l’ex candidato a sindaco di Torino e consigliere comunale che giace, in coma profondo, in una clinica emiliana da poco meno di un anno. E’ sempre opportuno ricordare subito che, fino a sentenza definitiva, l’imputato, Francesco Furchì, si deve considerare innocente. Ma il giusto scrupolo giuridico non può impedire di compiere qualche riflessione e di formulare qualche giudizio, non sulla fondatezza o meno degli indizi contro l’accusato, compito esclusivo della magistratura, ma sulle vicende e sui comportamenti dei protagonisti e dei comprimari di una tragedia che ha commosso tutti. La coincidenza, poi, con la campagna elettorale aggiunge suggestioni comparative interessanti e offre una lezione su cui varrebbe la pena meditare. 

 

E’ certamente grande lo sbigottimento per la futilità e l’abiezione delle motivazioni per cui, secondo l’accusa, si arriva a privare, purtroppo probabilmente per sempre, quattro bambine della guida di un padre e una donna dell’amore di un marito. 

 

Come è altrettanto grande il rispett o e l’ammirazione per il comportamento della vittima. Musy ascolta la raccomandazione del suo maestro all’Università, Pier Giuseppe Monateri, in favore del figlio dell’ex parlamentare Salvo Andò, ma, dopo l’esame del candidato in commissione, segue la sua coscienza e vota in modo contrario rispetto all’autorevole consiglio. Analoga indipendenza di giudizio e probità morale mostra nelle altre due circostanze per cui, secondo gli inquirenti, Furchì decide la vendetta. 

 

Fosco è, invece, l’ambiente in cui si muove l’imputato, faccendiere tanto millantatore di amicizie importanti quanto impresario di affari costantemente destinati al fallimento. Mellifluo e forbito nelle occasioni mondane, violento e intimidatorio nei rapporti privati. Ma anche il comportamento del docente di diritto, il terzo uomo di questa vicenda, lascia allibiti. Amico di Furchì, sospetta subito che possa essere l’attentatore, sia per la conoscenza dei motivi di risentimento contro Musy, sia per l’inconfondibile andatura claudicante dell’attentatore, rilevata dalle immagini tv che lo ritraggono. Dopo gli appelli della moglie della vittima e degli inquirenti a tutti coloro che potessero aiutare l’inchiesta, Monateri non solo non si presenta in questura, ma scrive un bigliettino, vergognoso e insultante, contro il suo ex allievo e fornisce una versione credibile dei fatti solo al quarto interrogatorio, quando è minacciato di arresto per favoreggiamento e falsa testimonianza.

 

Al di là delle prove che saranno portate al dibattimento e dell’esito del processo, il quadro dei comportamenti dei protagonisti è ben definito. Da una parte, abbiamo Musy, un avvocato che lascia la docenza universitaria e uno studio professionale molto importante per un impegno politico che sa benissimo lo porterà solo a un posto di minoranza in consiglio comunale. Un uomo la cui vita è stata setacciata in ogni risvolto possibile, senza mai trovare la più piccola ombra. Dall’altra, un faccendiere senza faccende e un professore che insegna diritto civile ai suoi allievi e dovrebbe offrire ai suoi studenti esempi ben diversi di comportamento civile. Dov’è, questa volta, il confine tra la buona società, quella dei salotti letterari, delle associazioni culturali, delle professioni prestigiose, delle amicizie altolocate, e quella della politica, per definizione, sporca, brutta e cattiva?

 

In una campagna elettorale confusa, strumentale, miserrima come quella a cui stiamo assistendo, il tragico e significativo, «caso Musy» dovrebbe insegnare, almeno, che gli uomini non si dividono per etichette professionali e che onore e disonore possono convivere tra vicini di poltrona, nelle aule parlamentari come in quelle universitarie. Musy ha dimostrato che la politica si può fare anche in maniera diversa, pagando un prezzo altissimo per rimanere coerente a una scelta morale. Resta la sua immagine di uomo, forse, sì, anche ingenuo, ma che rivendica il diritto di essere ingenui pure in politica, e il suo corpo steso, incosciente sul letto di una clinica. Vicino a lui, è chiaro e terribile, invece, il confine tra la vita e la morte. L’amore delle sue bimbe e di sua moglie, che non finirà mai, lo trattiene al passaggio di quel confine. Lo fa anche la speranza di quelli che l’hanno conosciuto, nell’augurio che, anch’essa, non debba finire.


da - http://lastampa.it/2013/02/01/cultura/opinioni/editoriali/quel-marcio-della-societa-civile-72gEQAPqp7ttYkLItZaB4N/pagina.html
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« Risposta #139 inserito:: Febbraio 27, 2013, 05:37:55 pm »

Editoriali
27/02/2013

La Destra che non trova alternative

Luigi La Spina

Ai nostri politici farebbe bene un corso accelerato di storia patria. Anzi, per fare meno fatica, si potrebbero limitare a un colpo d’occhio sul bel grafico multicolore che il sito del nostro giornale ha pubblicato e metterlo a confronto con i risultati del voto, dalla proclamazione della Repubblica in poi. Si accorgerebbero subito che in Italia, ormai, esistono tre «postulati». 

 

Postulati che non si possono ignorare, pena le clamorose gaffe e gli imbarazzanti commenti che abbiamo ascoltato nei primi minuti dello spoglio elettorale di lunedì. 

 

Nel nostro paese, innanzi tutto, c’è una solida e persistente maggioranza di centrodestra. Rappresentata, per quasi cinquant’anni, dalla Dc e, per quasi vent’anni, da Berlusconi. Corollario della prima regola è, quindi, la seconda: il centrosinistra può vincere solo se questa maggioranza è costretta a dividersi o, in parte notevole, ad astenersi. L’ultimo, in verità, non è un postulato, ma è una consuetudine talmente radicata da divenire anch’essa una costante dalla quale non si può prescindere: i sondaggi, in qualsiasi modo siano condotti, sottovalutano sempre i consensi del centrodestra. 

 

Alla luce di queste banali osservazioni, sono chiarissimi i motivi di quelle apparenti sorprese del voto che riguardano l’atteggiamento elettorale dei cosiddetti «moderati» italiani. Appaiono del tutto comprensibili la tanto celebrata rimonta di Berlusconi, i modesti apporti di questi elettori alla lista Monti, la sconfitta della Lega e la sostanziale scomparsa dell’estrema destra. 

 

Se si guardano le serie storiche dei risultati dal ’94 in poi, l’andamento dei suffragi al partito di Berlusconi è assolutamente costante: dopo il clamoroso successo iniziale, avviene un’esperienza di governo che regolarmente delude i suoi simpatizzanti e che viene punita nei successivi verdetti elettorali sempre meno del prevedibile per le eccezionali prestazioni del Cavaliere in campagna elettorale, certamente, ma non solo. Il punto fondamentale di questo fenomeno è un altro: non esiste una diversa «offerta» che possa dirottare la «domanda» dei moderati al mercato elettorale italiano. 

 

Anche domenica e lunedì scorsi, la regola è stata puntualmente osservata. A questo proposito, è corretto confrontare i sondaggi con i sondaggi e i risultati con i risultati e non mischiare questi due diversi termini di riferimento. La rimonta di Berlusconi è stata sicuramente spettacolare, ma se i sondaggi si sono dimostrati fallaci rispetto al dato reale dei voti, è probabile che fossero fallaci anche quelli, estremamente deludenti, che erano stati diffusi all’inizio della campagna elettorale. Del resto, la «quasi vittoria» del centrodestra è avvenuta soprattutto per la pesante sconfitta di Bersani che, rispetto al 2008, è passato dal 33,2 al 25,4. Perché, sempre nel 2008, il partito di Berlusconi aveva il 37,3; nel 2011, il 29,4 e, ora, è arrivato al 21,5. Vista la dura sconfitta della Lega, la scomparsa dell’estrema destra e di Fini, il deludente risultato di Casini e della Meloni, era davvero inimmaginabile che la delusione dei moderati italiani fosse tale da punire ancor di più il partito di Berlusconi. A meno di prevedere una devastante epidemia influenzale politicamente selettiva, cioè tutta rivolta contro i simpatizzanti di quello schieramento. 

 

L’unica alternativa al voto per il Popolo della libertà, sempre per questa area di elettorato, poteva essere il suffragio a Monti. Ma il presidente del Consiglio ha chiuso subito questa strada, rifiutando di ereditare il consenso che, in questi vent’anni, i moderati hanno affidato al Cavaliere, per imbarcarsi in un difficile tentativo di scompaginare quei due poli che, in tutto il mondo, dividono i cittadini: la destra e la sinistra. Una scelta che ha abbandonato una sfida, altrettanto difficile, ma forse che sarebbe stata più utile all’Italia. Perché Monti, invece di voler accentuare l’eterodossia del nostro sistema politico, avrebbe potuto guidare al cambiamento la destra italiana, uniformandola alla normalità delle democrazie europee. Quella di uno schieramento liberal-conservatore, rispettoso delle regole, privo dei condizionamenti che la personalità di Berlusconi gli ha impresso, meno incline alle suggestioni populistiche e alle tentazioni antieuropee. 

 

La storia, anche quella recentissima, non si fa con i se. È inutile pensare quali conseguenze ci sarebbero state per il futuro della nostra democrazia se Monti, ascoltando anche il nostro saggio capo dello Stato, non fosse «salito» in politica e, dall’alto del suo seggio di senatore a vita, avesse avuto il coraggio di avviare la trasformazione dei caratteri del centrodestra italiano. Allora, fantasia per fantasia, si può sognare un altro po’ e immaginare che quel compito, rifiutato da Monti, tocchi a un giovane esponente del centrosinistra italiano. In fondo, i paradossi non sono solo una specialità nostrana: Tony Blair, in Inghilterra, ha preso anche l’eredità della Thatcher. Non potrebbe avvenire una cosa simile pure da noi? 

 da - http://www.lastampa.it/2013/02/27/cultura/opinioni/editoriali/la-destra-che-non-trova-alternative-4fVwJb9PJMZnMG7n30SqqN/pagina.html
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« Risposta #140 inserito:: Marzo 09, 2013, 11:32:11 pm »

Editoriali
09/03/2013

Dalla politica una melina sconcertante

Luigi La Spina


Solo una «commedia dell’assurdo» alla Ionesco potrebbe ben rappresentare la situazione che l’Italia sta vivendo. 

Ogni giorno si moltiplicano i segnali di una crisi economica che, in molte regioni del nostro Paese, si sta trasformando in un vero dramma sociale. 

In Piemonte, i ritardati o addirittura mancati pagamenti da parte delle amministrazioni pubbliche stanno costringendo alla chiusura o al fallimento molte aziende, proprio mentre le risorse per gli ammortizzatori ai dipendenti licenziati si stanno esaurendo. Dall’altra parte della pianura padana, il sistema veneto delle piccole aziende, una volta esportatrici, si sta disgregando, senza che appaiano praticabili altre forme produttive in grado di reggere la concorrenza internazionale. Nel nostro Mezzogiorno, in difficoltà i già pochi poli industriali esistenti, la sopravvivenza è affidata a una modesta economia familiare legata all’impiego pubblico e all’assistenzialismo statale. E proprio ieri sera, l’agenzia Fitch ha sanzionato questa condizione dell’Italia declassando il nostro rating. 

 

Di fronte a questa emergenza drammatica, ci sarebbe bisogno di un governo autorevole, forte nel consenso popolare e, soprattutto, capace di rappresentare in sede europea una voce ascoltata e influente. Le scelte di politica economica per stimolare la crescita che si dovrebbero attuare, infatti, dipendono, almeno per l’80 %, da decisioni che si possono approvare solo in sede comunitaria. Ebbene, dopo elezioni che hanno clamorosamente dimostrato l’insofferenza e la protesta di molti italiani, la nostra classe politica sta attuando una «melina» tattica davvero sconcertante.

 

La direzione del Pd ha votato compattamente in direzione una proposta di governo, guidato dal suo segretario Bersani, con l’unanime consapevolezza che sarà impraticabile. Il leader del «Movimento 5 stelle», infatti, ha già respinto sprezzantemente la richiesta di un voto di fiducia senza il quale la maggioranza al Senato non esiste. D’altra parte, nessuna persona di buon senso e con un minimo di esperienza politica potrebbe immaginare una rivolta di quei parlamentari contro il diktat di Grillo. Non solo per il costume, diciamo così, in vigore in quel movimento, ma perchè è davvero impossibile pensare a un’ipotesi del genere proprio all’inizio della legislatura e con la forte probabilità di imminenti nuove elezioni. È evidente perchè il partito democratico vorrebbe sottoporre Napolitano e il Paese a una così inutile perdita di tempo: il solenne «no» espresso in Parlamento dai grillini addosserebbe solo a loro la responsabilità di portare l’Italia a un nuovo scontro elettorale, all’ombra di una situazione economica e finanziaria che potrebbe davvero diventare tragica.

Sull’altro versante, quello del centro destra, i comportamenti sono altrettanto grotteschi. L’ indirizzo politico di quello schieramento appare determinato unicamente dalla sorte giudiziaria del suo leader, Silvio Berlusconi. La disponibilità a un governo di larga coalizione è ben vista perchè potrebbe offrire uno scudo istituzionale, politico e aziendale al Cavaliere nei confronti delle possibili sentenze di condanna che potrebbero essere pronunciate nelle aule di giustizia. Ma già è pronto un «piano B», se questa offerta venisse respinta: l’appello al popolo contro il «cancro» della magistratura, che sarà, prima, lanciato nella manifestazione romana del prossimo 23 marzo e, poi, costituirà il tema fondamentale di una ancor più pirotecnica campagna elettorale estiva.

 

Il terzo polo di questa inedita evoluzione della nostra cosiddetta «seconda Repubblica», quello del movimento di Grillo, intanto, aspetta l’auspicata catastrofe del sistema, tra le goffe ingenuità dei suoi neoparlamentari e gli insulti a raffica del leader. Corteggiato penosamente da chi dovrebbe contestarne, invece, le improbabili ricette per affrontare la nostra crisi economica, dall’impossibile referendum sull’euro a quel reddito di cittadinanza che, nella misura indicata, affosserebbe definitivamente i conti dello Stato. 

 

È vero che le forme e le liturgie della Repubblica vanno rispettate perché sono anche sostanza di una democrazia che non si deve arrendere alla demagogia. Ma non si capisce perchè si debba imporre al presidente della Repubblica, e soprattutto a tutti i cittadini, un allungamento di tempi che, a questo punto, umilierebbe, nell’ipocrisia e nel tatticismo, proprio quella democrazia che, a parole, viene tanto esaltata. Un forte richiamo alla responsabilità di una classe politica che non sembra ancora aver capito la gravità del disagio sociale che sta investendo il Paese, è arrivato ieri dal capo dello Stato, con parole di una inequivocabile chiarezza e severità. Parole che hanno raccolto lo stupore e l’ allarme degli italiani per tempi di attesa che non preludono a soluzioni, ma solo a uno scontato fallimento. 

 

Non è più il momento di inutili giri di valzer intorno a Napolitano (o forse al suo successore?), con l’unico scopo di ribaltare sugli altri la colpa della mancata costituzione del governo. Il rischio è quello di un maremoto che travolgerà tutti, anche il pifferaio Grillo che l’ha evocato. 

da - http://lastampa.it/2013/03/09/cultura/opinioni/editoriali/la-sconcertante-melina-della-politica-uxL2mQzscUYGwm0eNePAiL/pagina.html
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« Risposta #141 inserito:: Marzo 20, 2013, 06:47:03 pm »

Editoriali
20/03/2013

Non basta l’anagrafe per dirsi nuovi

Luigi La Spina


Era ora. L’ondata di «nuovismo» che sta dilagando nella politica italiana rompe finalmente il più evidente carattere distintivo del nostro sistema democratico rispetto a quelli stranieri: una gerontocrazia, ostinata e pervasiva, che sta soffocando un po’ tutta la società italiana. 

 

Un costume che non si limita, infatti, all’occupazione permanente delle poltrone del potere politico, ma che si estende a tutte, o quasi, le posizioni di vertice nella nostra classe dirigente. 

Con tutte le critiche che si possono rivolgere ai comportamenti dei parlamentari del Movimento 5 stelle e, soprattutto, del leader, Beppe Grillo, bisogna riconoscere, però, che il loro irrompere sulla scena della politica italiana ha impresso, almeno sotto questo aspetto, un impulso importante e contagioso.

 

In questo clima di rinnovamento, pur senza far paragoni incongrui, anche la coincidenza temporale dell’arrivo in Vaticano di Papa Francesco pare contribuire a rafforzare tale tendenza che coglie la necessità di una maggiore apertura e di una maggiore sensibilità per i grandissimi cambiamenti che, in questi ultimi anni, hanno mutato e, persino stravolto, il mondo e i nostri stili di vita. Con l’ovvia considerazione che l’apporto delle nuove generazioni alla direzione delle nostre società diventi determinante per cogliere prontamente le opportunità più promettenti del futuro sviluppo.

 

Come in tutti gli amori improvvisi, però, accanto agli indubbi benefici si possono celare insidie che, con l’andar del tempo, possono portare a controproducenti delusioni. Ecco perché sarebbe meglio non farsi travolgere da ingenui entusiasmi e formulare qualche distinzione a proposito dell’etichetta «nuovo».

 

Il pericolo maggiore è quello di una conseguenza paradossale di tale moda giovanilista, quella di perpetuare, cambiando direzione, un sistema di privilegio fondato sullo stesso criterio che si cerca di combattere: l’età anagrafica. Sarebbe davvero un peccato se l’esito di questa rivoluzione generazionale si risolvesse nel semplice spostamento, a favore delle classi più giovani, di quella stessa barriera di esclusione che, finora, li ha così potentemente sfavoriti. Se l’esperienza, in nome della quale si sono autorizzate occupazioni di potere non altrimenti giustificate, diventasse, ora, una patente d’infamia, in nome della quale si possano compiere scelte non altrimenti giustificate. Perché dobbiamo ricordarci che il merito, la professionalità e la competenza non possono essere subordinati a considerazioni meramente anagrafiche.

 

Gli esempi di questi giorni, a tal proposito, sono contraddittori. Le nomine per le presidenze delle Camere hanno premiato, al di là delle loro tendenze ideologiche, due nomi certamente «nuovi» alla politica; personaggi che nella società civile, però, si sono distinti per un impegno riconosciuto di serietà e di professionalità. La discriminante «nuovista», in questi due casi, non ha avuto come punto di riferimento l’età, ma il merito. In altre occasioni, invece, l’inesperienza non sembra aiutare l’efficacia nello svolgere il compito assegnato. È la sorte di tanti esponenti del M5S, sulla cui ingenuità ci si è accaniti forse con troppe compiacenze interessate, ma che hanno costretto lo stesso leader, Grillo, a riconoscerle come un pericolo. Talmente grave da imporre le inedite e un po’ inquietanti figure di due «commissari», controllori di comportamenti che potrebbero essere facilmente preda di esperti in trappole parlamentari.

 

Anche le scelte per i capigruppo hanno avuto esiti discutibili. Tale funzione, infatti, richiede una conoscenza dei regolamenti e delle consuetudini, alle Camere, molto approfondita. Ma lo studio di leggi e di norme non è sufficiente, se non è accompagnato da lunghi anni di frequentazioni parlamentari che solamente possono costruire un bagaglio di esperienza tale da far fronte a qualsiasi imprevisto procedurale o politico. E’ l’autorevolezza conquistata sul campo di tante battaglie parlamentari che consente di imporre la disciplina ai membri del gruppo di cui si è alla guida e di guadagnare il rispetto sia degli avversari che si affrontano dalle altre parti dell’aula, sia del presidente dell’assemblea.

 

Ecco perché è con simpatia che si può accogliere la giovane età e il brillante futuro che aspetta il nuovo capogruppo del Pd, Roberto Speranza. Un politico che ha la fortuna di esibire un nome benaugurante, ma che forse non basterà per dirigere un gruppo di parlamentari, molto composito negli orientamenti politici e culturali, e con esponenti dotati di lunga navigazione in tutti i meandri della complessa vita a Montecitorio.

 

Se proprio vogliamo insistere, insomma, nel confronto con quanto sta succedendo sull’altra sponda del Tevere, si potrebbe valutare forse con minor superficialità il vero significato di quel «nuovo» che un uomo di quasi 78 anni sta portando nei secolari costumi della più vecchia monarchia del mondo.

DA - http://lastampa.it/2013/03/20/cultura/opinioni/editoriali/non-basta-l-anagrafe-per-dirsi-nuovi-qoqdOyuti7eeVyKMC04cIN/pagina.html
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« Risposta #142 inserito:: Marzo 27, 2013, 06:42:14 pm »

Editoriali
27/03/2013

I guai dei tecnici che vogliono fare i politici

Luigi La Spina


Infierire sarebbe così facile e così meritato che verrebbe voglia di cercare argomenti per difendere il governo e i due ministri competenti (?!), giustificare, in qualche modo, quella che il capo di stato maggiore ha definito, qualche giorno fa, «una farsa» e che, ieri, in Parlamento, ha superato persino i caratteri di un genere drammatico che, pure, ha grandi tradizioni e nobili interpreti. Ricorrere a quelle parole che cominciano tutte con la «s», come sconcerto, stupore, sgomento, sdegno e finiscono tutte con una condanna senza appello.

 

Oppure si potrebbe solleticare la complicità del lettore con l’irrisione e il sarcasmo, sfogando così l’amarezza e la vergogna per una figuraccia internazionale quale, nella storia della Repubblica, si fa fatica a ricordarne una somigliante. Una tentazione che promette un effetto brillante, ma che sarebbe imperdonabile accogliere, perché non si può davvero sorridere sulle spalle di due militari italiani in attesa di un processo che potrebbe condannarli, se non alla morte, a una lunga pena detentiva.

 

Meglio, allora, avvertire il rischio e sollecitare l’allarme davanti all’imprevedibile incrocio tra una crisi di governo, già molto complicata sullo sfondo di possibili nuove elezioni e uno «tsunami» devastante sul governo Monti , con riflessi negativi persino sul Quirinale. Istituzioni che, nel frattempo, dovrebbero reggere l’immagine dell’Italia sul piano internazionale, per evitare conseguenze gravi sui conti della nostra finanza e della nostra economia. Una situazione che, oggi, dovrebbe imporre a tutti i partiti, per un minimo di responsabilità nazionale, atteggiamenti che non cerchino di sfruttare il dibattito sul caso dei marò e delle dimissioni del ministro Terzi nell’occasione per una sfacciata e contingente propaganda politica. 

 

L’occasione, invece, potrebbe essere anche utilizzata per cercare di rispondere alla domanda che, in queste ore, un po’ tutti si fanno. Perché quel governo Monti e quei «tecnici», chiamati in soccorso di una politica fallimentare, celebrati e celebratisi come i salvatori dell’Italia, rispettati in sede internazionale e stimati dalla stampa estera, stanno per concludere la loro esperienza, proprio su quella scena mondiale teatro di tante soddisfazioni, in un modo così disastroso? In un modo tale da cancellare, magari ingiustamente, un ricordo, nella memoria degli italiani, che poteva essere diverso? 

 

C’è solo un motivo di consolazione, forse, in una vicenda dove è davvero difficile trovarne. Quella di un chiarimento, severo ma illuminante, sulla questione dei tecnici in politica.
Una ipotesi auspicata fin dai lontani tempi del ministro repubblicano Visentini e che, periodicamente, si affaccia quando la politica si manifesta inadeguata a risolvere i nostri problemi. La delusione per questo epilogo del governo Monti potrebbe indurre alla errata conclusione che la competenza sia inutile o un ostacolo alla buona politica. Invece, proprio la lezione che si può trarre dal lavoro compiuto dal governo Monti, in questo anno e mezzo di attività, dimostra che i guai cominciano quando i tecnici esulano dalle loro competenze e sono sedotti dalla prospettiva di cambiare mestiere e di trasformarsi in politici. Tentazione che, sulla scia dell’esempio più importante, quello del presidente Monti, ha contagiato, ad un certo momento, anche il suo ministro degli Esteri.

 

Davanti a questa mutazione genetica così allettante, si palesano, allora, i dieci «peccati capitali» dei tecnici che vogliono cambiare mestiere:
1) La sopravvalutazione della competenza. Poiché è l’unico motivo per cui vengono chiamati, essi pensano che le loro teorie siano infallibili e, se producono errori, la colpa non è di teorie sbagliate, ma di realtà che sbagliano a non adeguarsi.
2) La pelle sottile. Abituati alle riverenze accademiche, non sopportano le durezze dello scontro politico.
3) L’ingenuità. Sottovalutano le capacità di interdizione delle burocrazie ministeriali, così potenti da far fallire qualsiasi progetto d’innovazione.
4) L’isolamento professionale. Se i consigliori decidono, chi consiglia i consigliori?
5) Un linguaggio che tradisce. Non c’è niente di peggio che scambiare un’aula di università, piena di studenti intimoriti, per un’assemblea parlamentare pronta ad azzannare chiunque.
6) Un’emozione che tradisce. Controllare i sentimenti non è facile, per chi non ha imparato la cinquantennale lezione di un Andreotti.
7) I tempi troppo veloci. La politica non consente le lentezze di chi è abituato a meditare troppo prima di rispondere (anche di fronte alle telecamere).
Fico A proposito di tempi: sanno di essere ministri «a tempo», ma vorrebbero estendere all’infinito quella scadenza.
9) Suscitano troppe speranze, perché possano arginare le inevitabili delusioni.
10) Ultimo e più grave peccato: la vanità, per chi non è abituato a padroneggiarla, come gli attori o i politici, si trasforma sempre in un crudele boomerang.

 

In un mondo in cui si pensa di poter fare a meno dei medici, cercando le ricette su Internet, degli avvocati, sfogliando il codice, degli idraulici, ricorrendo agli esperti casalinghi del «fai da te» e, magari, pure dei giornalisti, utilizzando i più comodi tramiti comunicativi della «rete», sarebbe ora che anche i cosiddetti tecnici rispettassero le loro competenze e le loro professionalità e non invadessero quelle degli altri.

da - http://www.lastampa.it/2013/03/27/cultura/opinioni/editoriali/i-guai-dei-tecnici-che-vogliono-fare-i-politici-UTiEAzU008iDWlkPhjj94J/pagina.html
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« Risposta #143 inserito:: Aprile 11, 2013, 05:28:52 pm »

Editoriali
11/04/2013

Il chiarimento che non si può rinviare

Luigi La Spina


La Commissione Ue è allarmata: in Italia, le banche sono incapaci di sostenere la ripresa. Monti ha lanciato un monito sul rischio di far ripiombare il Paese nella crisi. 

 

Il presidente di Confindustria descrive una situazione economica drammatica, con pericoli di violente esplosioni sociali. Ormai tutti, da Napolitano al piccolo negoziante sull’orlo del fallimento, invocano un governo e si lamentano, giustamente, per i ritardi di una classe politica che, dopo le elezioni, non riesce ancora a formare un esecutivo che provveda a misure di politica economica urgenti e indispensabili. 

 

Come oggi «La Stampa» documenta, l’ordinaria amministrazione alla quale è obbligato il governo Monti dimissionario, costringe l’Italia a un immobilismo ormai insopportabile. Sia per i limiti che prescrive all’iniziativa dell’esecutivo, sia, e forse con peggiori conseguenze, perché i responsabili degli uffici pubblici, senza attendibili previsioni sugli indirizzi del prossimo governo, preferiscono rinviare anche quei provvedimenti che, in realtà, potrebbero varare. Ecco perché è ormai evidente quanto siano false e pericolose quelle illusioni sulla possibilità che una nazione possa reggere senza un governo, fondate su strampalati confronti con esperienze come quelle che ha vissuto, in tutt’altra situazione, uno Stato come il Belgio.

 

Invocare l’arrivo di «un» governo, però, non basta. Quale governo? L’Italia non ha bisogno di un governo qualsiasi, ma del governo capace di affrontare i gravi problemi strutturali di una economia poco innovativa e inadeguata a sostenere la competitività internazionale, di riformare istituzioni non più adatte a una società che è molto cambiata negli ultimi decenni, di alleviare il peso di una politica invasiva e costosa. Per queste ragioni, non sono indifferenti le alleanze partitiche possibili e la costruzione di una maggioranza parlamentare non può limitarsi al raggiungimento di un traguardo numerico.

 

A questo proposito, forse non sarà così inutile, come la pensa anche qualche suo componente, quella commissione di saggi istituita dal presidente della Repubblica che ha sollevato tante critiche e tante troppo facili ironie. Innanzi tutto perché, invertendo l’ordine delle scelte sulle due più importanti cariche del nostro Stato, ha obbligato le forze politiche a cercare un ragionevole accordo sulla prima, quella per il Quirinale, foriero di un clima meno invelenito per trovare la seconda, quella per Palazzo Chigi. Poi, perché il lavoro che sarà offerto dai saggi alla meditazione di tutti potrebbe individuare davvero quel minimo programma comune sul quale si potranno dividere coloro che sono pronti a condividerlo e coloro che non lo sono.

 

Gli esempi di alleanze impossibili su temi fondamentali per il futuro del Paese sono numerosi e documentano come sia necessario un preventivo esame sulla diagnosi dei mali italiani e sulle terapie più efficaci per curarli. È difficile trovare un’intesa fra chi vuole l’abrogazione dell’Imu sulla prima casa e chi sostiene che, dopo questo provvedimento, l’Italia avrebbe bisogno di un’altra manovra correttiva. Fra chi crede necessario dotare l’Italia di una serie di infrastrutture moderne, più adeguate alla competizione sui mercati delle merci e chi preferirebbe un Paese disponibile alla cosiddetta «decrescita felice». O tra chi sollecita il ritiro dei nostri soldati dall’Afghanistan e chi ricorda che gli impegni internazionali dell’Italia devono essere mantenuti, pena l’ulteriore caduta del nostro ruolo e della nostra immagine nel mondo. Oppure tra chi ritiene indispensabile una riforma della legge sulla corruzione e, in generale, una profonda revisione del funzionamento di una giustizia che non tranquillizza gli investitori stranieri sulla convenienza del mercato italiano e chi, invece, pensa sia più importante puntare sulla separazione delle carriere e sulla responsabilità individuale dei magistrati. Per non parlare della condivisione indispensabile su principi fondamentali della democrazia rappresentativa e sul rispetto delle autonomie tra i poteri dello Stato. Ciò non vuol dire sanzionare l’impossibilità di un qualsiasi accordo, ma costringere le parti a un chiarimento sulle loro priorità e sui compromessi ai quali sarebbero disponibili.

 

In politica, quando si annunciano trattative impostate sui «criteri» o sul «metodo» per compiere una designazione a una carica pubblica si dice una bugia. Prima si cerca di trovare l’accordo su un nome e poi, alla luce dell’identikit del prescelto, si inventano i motivi che giustificano quella decisione. Speriamo che questo sistema non sia la regola per nominare il prossimo capo dello Stato. Ma sarebbe gravissimo per il futuro dell’Italia se la formazione del nuovo governo si fondasse sul gioco delle alleanze preferite dai partiti, o più convenienti per la sorte di alcuni loro leader, e non su un’intesa sulle cose da fare.

da - http://lastampa.it/2013/04/11/cultura/opinioni/editoriali/il-chiarimento-che-non-si-puo-rinviare-mzFLEyh6a4HzFDM1g8yOaM/pagina.html
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« Risposta #144 inserito:: Aprile 17, 2013, 11:52:11 am »

Editoriali
17/04/2013 - Quirinale

La scelta per il Colle non diventi un concorso di popolarità

Luigi La Spina

La scelta per il nuovo Presidente della Repubblica non si fa per concorso, ma non si fa neanche con un sondaggio di popolarità. La mancanza di autorevolezza da parte della classe politica a cui spetta la nomina del Capo dello Stato è tale che si sta diffondendo un nuovo gioco di società, all’insegna del presidente preferito. 

 

Chi lo vuole donna, chi giovane, magari senza sapere che deve almeno aver compiuto 50 anni, chi lo vuole «nuovo», fuori dall’aborrita casta, chi lo vuole, invece, esperto, ma simpatico come Pertini, competente come Ciampi, saggio come Napolitano. Insomma, ogni italiano possiede l’identikit giusto, come quello dell’allenatore che saprebbe far vincere alla sua squadra la Coppa dei Campioni.

 

Il problema è che il futuro presidente italiano avrà un compito ancor più difficile. Altro che Coppa dei Campioni : qui si tratta di non far scivolare il nostro Paese nella serie B delle nazioni nel mondo. Ecco perché il punto di partenza da cui far nascere questa scelta non dev’essere il balletto sul nome a noi più gradito, ma una seria riflessione sul ruolo che dovrà svolgere il nuovo inquilino del Quirinale e, quindi, sulla persona più adatta a ricoprirlo nelle attuali difficilissime circostanze.

 

Le istituzioni politiche, come gli organi del corpo umano, si modificano secondo le funzioni a cui sono chiamate. La presidenza della Repubblica è l’esempio più evidente di questo fenomeno. Nella prima fase dello Stato democratico, caratterizzata da partiti forti, ideologie forti e forte identificazione degli italiani con i loro rappresentanti in Parlamento, bastavano capi dello Stato notai o arbitri. Quando si sono manifestate, tra crisi economiche e tensioni sociali, le prime vistose crepe nei rapporti tra la classe politica e cittadini, durante gli Anni 70 e 80, il Presidente è diventato il parafulmine dello scontento popolare, inteso sia come megafono degli umori generali, sia come mediatore dei conflitti. Una funzione esemplarmente esercitata da Pertini e, in parte, anche dal «picconatore» Cossiga. Il trauma del passaggio tra la prima e la seconda Repubblica, richiedeva, invece, la garanzia di un vecchio «padre della patria», come il costituente Scalfaro o quella riscoperta dell’orgoglio nazionale, indispensabile cemento unitario contro la disgregazione della Repubblica, che, forse, solo un’azionista come Ciampi poteva compiere senza rischi nostalgici.

 

È toccata a Napolitano l’ultima, necessaria metamorfosi quirinalizia. In una drammatica spaccatura tra destra e sinistra, tra berlusconismo e antiberlusconismo, una sfida che ha sostanzialmente bloccato lo sviluppo italiano condannando il nostro Paese all’immobilismo e, quindi, al declino, l’attuale Capo dello Stato è stato costretto a guidare la politica, rappresentando, dentro e fuori i confini nazionali, l’unica istituzione autorevole, super partes, capace di suscitare fiducia nei cittadini. Una istituzione, quella della presidenza della Repubblica, che, ormai, è più importante della presidenza del governo e tale sarà destinata a restare. 

 

La memoria del passato, oltre a essere utile per diradare un po’ le nebbie del futuro, può servire anche per smascherare alcuni pregiudizi e far emergere la banalità di alcune delle osservazioni che, in questi giorni, sono più ripetute. Napolitano, non solo fu eletto da una risicata maggioranza, ma, quando fu nominato, era un politico di lunghissimo corso, per di più erede di una militanza comunista mai rinnegata. Eppure, l’uomo di parte è diventato il Presidente di tutti, anche dell’anticomunista per eccellenza, Silvio Berlusconi. Ma, cosa ancor più straordinaria, gli italiani, non considerano Napolitano un rappresentante della cosiddetta «casta», anche se ha passato più di mezzo secolo nelle aule parlamentari. Proprio perché, come si è detto prima, la funzione che le circostanze storiche costringono a esercitare al Quirinale è capace di trasformare l’uomo che vi abita. Fa diventare un democristiano, colto e riservato come Cossiga, un fantasioso demolitore del «bon ton» istituzionale. Costringe un severo conservatore come Scalfaro a essere considerato un campione della più accesa sinistra. Prende un garbato governatore della Banca d’Italia, lo avvolge in una bandiera tricolore e lo mette a cantare, con tutti gli italiani, l’inno di Mameli.

 

Ecco perché non è importante che il prossimo presidente sia uomo o donna, giovane o vecchio, politico di antica data o di fresca esperienza e, magari, neanche conterà il numero dei suoi elettori o il loro colore politico, anche se è auspicabile, naturalmente, la più ampia condivisione della scelta. Dovrà essere una persona che per 7 anni, un periodo che non consente una nomina dettata da esigenze contingenti, garantisca che la politica italiana, in un momento di estrema conflittualità interna e discredito tra i cittadini, non corroda le basi della democrazia. Dovrà essere punto di riferimento internazionale, interlocutore affidabile e autorevole dei più importanti leader , immagine di un’Italia rispettata nel mondo. Dovrà aiutare, con scelte difficili e pure impopolari, a far superare quel conservatorismo sociale e quell’egoismo corporativo che blocca, da almeno due decenni, l’economia del nostro Paese e che non si battono con la demagogia.

 

Compiti molto ardui, che richiedono competenza istituzionale, capacità di guida politica, esperienza internazionale, ma anche coraggio morale per compiere scelte innovative e resistere alla pressioni delle convenienze e delle abitudini. Perché il prossimo Presidente della Repubblica sarà determinante per il futuro del nostro Paese. Non è il caso di sceglierlo con l’applausometro.

da - http://lastampa.it/2013/04/17/cultura/opinioni/editoriali/la-scelta-per-il-colle-non-diventi-un-concorso-di-popolarita-cmF1rFS75E0wcf9pZK9wkI/pagina.html
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« Risposta #145 inserito:: Maggio 02, 2013, 06:51:13 pm »

Editoriali
30/04/2013

Il peso delle buone intenzioni

Luigi La Spina


I discorsi che i neo-presidenti del Consiglio leggono in Parlamento per ottenere la fiducia ai loro governi sono sempre pieni di buone intenzioni. Anche quello che Letta ha pronunciato ieri alla Camera è stato pieno di buone intenzioni, forse troppo pieno di buone intenzioni. Ma, accanto ai propositi, questa volta, il nuovo inquilino di palazzo Chigi ha pure fornito agli italiani due notizie importanti. 

 

La sospensione della rata Imu di giugno per la prima casa e l’impegno a non aumentare l’Iva. Un annuncio che, legittimamente, ha permesso al centrodestra di rivendicare il successo della promessa elettorale di Berlusconi e di imprimere al primo governo di larghe intese nella storia della nostra Repubblica il suo sostanziale sigillo politico.

 

È vero che il presidente del Consiglio ha annunciato l’avvio di una nuova fase nella politica italiana, con un esplicito richiamo a quella necessità di una profonda autocritica dei partiti sollecitata da Napolitano nel suo discorso di rielezione al Quirinale. Così come ha posto il problema del lavoro al centro di un programma tutto teso alla crescita e ha confermato una visione europeista, pure molto spinta in senso federale. Ma lo scarto temporale tra le buone intenzioni e le notizie è stato tale che l’appropriazione, debita o indebita, da parte del centrodestra del suo governo è stata fin troppo facile. Anche perché sarebbe stato molto arduo individuare nel fumoso programma elettorale del centrosinistra una proposta concreta, di immediata comprensione da parte dei cittadini italiani, da accogliere nel discorso del nuovo presidente del Consiglio. Ecco perché quello squilibrio politico, in verità, non è addebitabile tanto a Letta, quanto alla sciagurata campagna per il voto di febbraio condotta da Bersani.

 

Il premier, citando la distinzione che faceva il suo maestro, Nino Andreatta, tra «la politica» e le «politiche», ha cercato preventivamente di ammonire la ex contrastante maggioranza che si appresta alla fiducia a evitare proprio simili divisive rivendicazioni di schieramento e a unirsi sulla necessità dei provvedimenti da varare. Una giusta raccomandazione, anche se i primi commenti dei berlusconiani trionfanti non sembrano averne tenuto conto. Ma è proprio nel merito della complessiva manovra economica annunciata ieri che, subito, è emersa una domanda fondamentale: dove il nuovo governo troverà, nel risicato bilancio dello Stato, le risorse per coprire tutte le nuove spese indispensabili di fronte agli impegni annunciati alla Camera?

 

La domanda non ha avuto, ieri, una risposta, anche perché le assicurazioni del presidente del Consiglio sulla «ferrea lotta all’evasione» e sul rispetto degli impegni assunti dall’Italia durante il precedente governo Monti non servono, certamente, a trovarla. Né, d’altra parte, il discorso programmatico di un nuovo governo è l’occasione più adatta per snocciolare cifre e illustrare tabelle di bilancio. Si può intuire, però, la strada che Letta ha intenzione di imboccare per mantenere fede alla sua convinzione per cui «di solo risanamento l’Italia possa morire». Ed è quella annunciata da un’altra notizia fornita dal discorso alla Camera, il suo immediato viaggio a Berlino, Bruxelles e Parigi.

 

Il carattere fortemente europeista che il presidente del Consiglio ha voluto imprimere al programma del governo, infatti, non è solo la rivendicazione della fondamentale sua esperienza politica e intellettuale. Perché individua, persino con le uniche parole un po’ enfatiche di un discorso altrimenti pacato, quelle finali, l’unica possibilità di conciliare la tenuta dei conti pubblici con l’urgenza di avviare la crescita dell’economia italiana. È proprio sulle sue indiscutibili credenziali europeistiche che Letta tenterà di appoggiare le richieste alla Merkel di concedere al nostro Paese quello che è stato ottenuto da un altro confratello del partito popolare europeo, il premier spagnolo Mariano Rajoy, cioè un allentamento dei vincoli sul deficit. Dopo aver invocato l’elezione diretta da parte dei cittadini europei del presidente della commissione, gli sarà più facile, nei prossimi giorni a Bruxelles, incoraggiare i vertici comunitari su quella svolta antirecessiva della politica economica che sembra annunciarsi nelle più recenti loro dichiarazioni. Sarà naturale, a Parigi, stringere un patto di sostegno reciproco con il francese Hollande per rafforzare quella «alleanza per la crescita» che pare incominciare a far breccia nel muro rigorista elevato dai Paesi del nord Europa.

 

Basterà la patente dell’europeista a 24 carati Letta per convincere la Merkel e, soprattutto, la Bundesbank, di concedergli quello che non hanno concesso a un altro indiscusso europeista come Monti? Basterà il cambiamento di umore continentale che si avverte dappertutto, anche in Germania, per aiutarlo in una impresa che appare abbastanza temeraria? Gli basterà l’appoggio di Napolitano, la competenza e l’autorevolezza internazionale di Saccomanni, il favore di Draghi, la mancanza di una alternativa che non siano le elezioni, per arrivare al primo tagliando del suo governo, quello fissato tra 18 mesi? Domande a cui nessuno, oggi, potrebbe dare risposte. Letta, comunque, merita un sincero augurio, perché l’Italia ha bisogno che le sue buone intenzioni si realizzino. Ma ci potremmo accontentare anche di molto meno di quello che ci ha promesso.

da - http://lastampa.it/2013/04/30/cultura/opinioni/editoriali/il-peso-delle-buone-intenzioni-pNCYxPllhb7uXSRIG2eXmN/pagina.html
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« Risposta #146 inserito:: Maggio 07, 2013, 11:06:51 pm »

Editoriali
07/05/2013

Andreotti, gli storici si divideranno

Luigi La Spina

Come al solito, è stato Napolitano a indicare la strada sulla quale si dovevano incamminare i commenti: bisogna riconoscere l’eccezionale ruolo svolto da Andreotti nelle vicende della nostra Repubblica, ma il giudizio su di lui va affidato alla storia. 

 

Così, nella scia della duplicità, peraltro simbolo di una vita che per i suoi detrattori aveva l’accezione della doppiezza, si sono indirizzate quasi tutte le dichiarazioni d’ordinanza in occasione della sua morte. Eppure, questa volta il nostro presidente-bis della Repubblica potrebbe essersi sbagliato ad affidare con tanta fiducia al supremo tribunale del tempo. Se la politica, infatti, si è ritirata nel limbo dell’imbarazzo di fronte alla sua indecifrabile personalità, anche la giustizia, almeno quella terrena, non è riuscita, dopo anni e anni di indagini, a emettere una sentenza che non avesse, appunto, il carattere dell’ambiguità e della doppiezza: per metà assoluzione e per metà condanna. È possibile quindi, anzi è molto probabile, che anche gli storici futuri si divideranno sulla sua figura e finiranno per arrendersi, pure loro, di fronte al vero incrollabile muro di ingiudicabilità che impedisce di emettere il verdetto definitivo su di lui: il mistero.

 

L’uomo che per sessant’anni è stato sempre sul palcoscenico della vita pubblica, sempre in prima fila, sempre protagonista delle luci della politica e persino dello spettacolo, se ne è andato senza accendere neanche il più piccolo spiraglio sul retroscena di quella ribalta. Come per suggellare la sua vita nella definizione dell’uomo più misterioso della nostra Prima Repubblica e per lanciare, da accanito scommettitore alle corse quale era, l’ultima sua sfida, proprio alla storia: far breccia, finalmente, nel muro del suo mistero.

L’imbarazzo della politica d’oggi nei confronti di Andreotti non deriva, però, solo dall’indecifrabilità dello statista romano, ma da un sottile legame, forse persino un po’ inquietante legame, del nostro presente a quel passato. Come se il richiamo di quella presenza non si spegnesse neanche con la sua morte e, anzi, il momento della sua scomparsa segnasse, per una beffa della cronaca di questi giorni, una coincidenza di segni che riaccende il ricordo e l’attualità della sua esperienza politica.

 

Se Andreotti è stato l’essenza della cosiddetta «democristianità» nella storia della nostra Repubblica, è quasi banale osservare che Letta, con Alfano suo vice, sono i giovani dc a cui è affidato il rinnovamento della politica italiana, perché forse quel carattere è l’araba fenice della nazione. Meno ovvio dell’anagrafe partitica, è il metodo di governo proclamato dal neopresidente del Consiglio nel suo discorso di investitura alle Camere, la concretezza. Non è stata sempre questa la maniera con cui Andreotti ha definito il suo modo di governare gli italiani, fino a intitolare la sua storica rivista di corrente con il nome di «Concretezza», appunto? Da tutti i commentatori, poi, è stato rievocato il precedente storico delle «larghe intese» sulle quali si regge il governo Letta, il primo esperimento del genere, quello inaugurato nel ’76 proprio da Andreotti, definito della «non sfiducia» e proseguito, due anni dopo, sempre da lui a palazzo Chigi, con il ministero della solidarietà nazionale.

 

I brividi della memoria, però, non si fermano qui, perché, purtroppo, richiamano altri ricordi, più sanguinosi. Perché quel governo con cui Andreotti ebbe la fiducia anche dei comunisti, nel marzo ’78, nacque sull’onda del rapimento di Moro e dell’uccisione dei suoi uomini di scorta come l’esecutivo Letta è stato battezzato dalla sparatoria contro i carabinieri davanti al Parlamento.

 

Non bisogna, naturalmente, dar troppo peso a quelle che sono solo suggestioni di eredità partitiche e coincidenze di tempi molto diversi per formulare confronti, e meno che mai, previsioni del tutto ingannevoli. Ma la scomparsa dell’ultimo grande statista democristiano e i troppi chiaroscuri dei commenti di ieri una lezione utile la danno, invece. Fino a quando l’Italia non sarà capace di fare i conti con la sua storia, anche recente, di riconoscerne virtù e vizi senza sempre voler assolvere la propria parte e sempre condannare quella avversaria, ma ammettendo l’inestricabile partecipazione di tutti sia alle prime sia ai secondi, l’ombra di Andreotti e del suo mistero continueranno a incombere sulla politica italiana. 

da - http://www.lastampa.it/2013/05/07/cultura/opinioni/editoriali/andreotti-gli-storici-si-divideranno-JHAPzyssG0WKgIep0mXgfL/pagina.html
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« Risposta #147 inserito:: Maggio 15, 2013, 11:58:10 am »

Editoriali
15/05/2013

Deve finire lo scaricabarile politico

Luigi La Spina


No alla guerra per la Tav. Perché non si può nascondere la realtà dietro le parole dell’ipocrisia o della furbizia. Quello che è avvenuto l’altra notte in Valsusa non è un atto di protesta e neanche di guerriglia contestativa, ma un attacco terroristico che, per le modalità con cui è stato programmato e attuato, non ha provocato vittime solo perché così ha voluto un provvidenziale destino. Si è trattato anche di una specie di prova generale di quello che potrebbe succedere nei prossimi mesi, con il rischio che il lavoro degli operai nei cantieri diventi il fronte di una assurda battaglia.

Ecco perché non è più tollerabile l’ambigua coltre di imbarazzo con cui la politica italiana cerca di mascherare sia l’incapacità a gestire questo problema secondo le regole della democrazia, sia quella vergognosa doppiezza con cui, alla stragrande maggioranza dei sì ufficiali da parte dei partiti all’Alta velocità, si accoppia la ricerca di strumentali e demagogici consensi elettorali. È troppo facile e profondamente ingiusto ridurre la questione della Tav a un problema di ordine pubblico, scaricando su poliziotti, carabinieri e magistrati la responsabilità di quanto sta avvenendo in Valsusa. Troppo vigliacca è «l’alternativa del diavolo» a cui li si mette davanti. 

O la scelta di una impossibile militarizzazione, per anni, di una vasta zona del territorio nazionale o quella di immolarsi e di far, magari, immolare qualche lavoratore di quei cantieri per consentire la realizzazione di un’opera su cui lo Stato non mostra il volto della chiarezza, della coerenza e della responsabilità.

È ora che governo e Parlamento facciano una scelta precisa tra quella, invece, seria alternativa che adesso si impone, ne spieghino le ragioni a tutti gli italiani, ma pure all’opinione pubblica internazionale, e si impegnino a mantenerla in tutte le sedi, anche quelle più direttamente interessate al progetto.

Si può considerare la nuova linea di Alta velocità Torino-Lione indispensabile per lo sviluppo dell’economia italiana e, in particolare del Nord-Ovest, nell’Europa delle future generazioni. Ritenere che, anche alla luce della crisi di questi anni, l’opera, con la proiezione dei lavori per quasi 20 anni, costituisca l’unico realistico grande investimento in grado di offrire importante occupazione nel territorio. Valutare le compensazioni promesse ai valligiani un’occasione di ammodernamento delle infrastrutture locali da non perdere. Giudicare che il nuovo percorso del treno riduca notevolmente gli indubbi disagi di chi dovrà sopportare, per così tanto tempo, quei lavori vicino a casa e limiti i rischi ambientali in modo convincente.

È possibile, invece, pensare che, con le parziali ritirate di alcuni partner europei dalla partecipazione a questa linea ferroviaria di alta velocità, il famoso «corridoio 5» sia diventato un progetto ormai morto, una ambiziosa opera che l’Europa, con la sua economia languente, non si può più permettere. Nella disputa sulle eventuali penalità pecuniarie che l’Italia dovrebbe sopportare per la rinuncia alla Tav, poi, c’è chi accusa i favorevoli al progetto di esagerarne strumentalmente la portata.

La questione, se si evitano fantasiosi e demagogici allarmi da una parte e troppo facili sottovalutazioni delle conseguenze da chi non è concretamente toccato dai lavori, si può e si deve affrontare con razionalità e senza ideologismi preconcetti. Quello che non si può fare è il valzer di uno scaricabarile politico durato troppo a lungo e diventato troppo pericoloso, perché uno Stato, per essere rispettato dai cittadini, deve dimostrare di avere rispetto per se stesso. Il Pd non può più tollerare l’ambiguità tra la posizione nazionale favorevole e la sostanziale ostilità di tanti suoi amministratori locali. Ma anche il centrodestra, a parole più coerente, nei fatti mostra contraddizioni inspiegabili, come lo sconcertante zig-zag dichiaratorio sui finanziamenti compensativi compiuto dal ministro Lupi qualche giorno fa.

L’Alta velocità Torino-Lione può assurgere, se ci pensiamo, al simbolo della più grave malattia che, negli ultimi decenni, ha colpito l’Italia: la diserzione di una classe dirigente che non sa più dirigere alcunché.

 da - http://lastampa.it/2013/05/15/cultura/opinioni/editoriali/deve-finire-lo-scaricabarile-politico-0c2Woj8iN7zZGzGvywYTHJ/pagina.html
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« Risposta #148 inserito:: Maggio 23, 2013, 05:31:08 pm »

EDITORIALI
23/05/2013

Se la riforma può blindare il governo

LUIGI LA SPINA


C’è una regola d’oro che andrebbe sempre rispettata: per fare una buona legge elettorale occorre che le elezioni siano lontane. Il motivo è ovvio. Altrimenti, ciascun partito cercherebbe di ottenere un sistema di voto che, nell’immediata contingenza, lo favorisca e penalizzi gli avversari. Solo quando la futura scadenza elettorale è così lontana da rendere imprevedibili quelli che saranno gli schieramenti ai blocchi di partenza e i loro rapporti di forza è possibile sperare in una legge che soddisfi, per un tempo sufficientemente lungo, le due fondamentali esigenze. Quella di formare un Parlamento che rispecchi le opinioni degli italiani e che sia in grado di assicurare un governo stabile al Paese. 
 
Questo inizio di legislatura, allora, sembrerebbe il momento più opportuno per riformare, finalmente, il più brutto sistema di voto che la Repubblica abbia mai avuto. Ma le apparenze ingannano, perché il rischio di elezioni anticipate, anzi anticipatissime, incombe e, quindi, tutte le proposte che, in questi giorni, i partiti avanzano tengono conto di questa ipotesi e si modellano sulle speranze o sui timori che l’ipotesi possa diventare, tra breve, una realtà.
 
Ecco perché l’annunciata riforma minimale del cosiddetto «porcellum» potrebbe diventare, inopinatamente, uno strumento di governo. Un mezzo, insomma, per ridurre le tentazioni, presenti sia destra, sia a sinistra, di interrompere la legislatura e di far fallire subito l’esperimento di grande coalizione su cui si fonda il ministero Letta. Un rischio che, in un momento di grave crisi economica e di forti tensioni sociali per una situazione occupazionale drammatica, preoccupa tutta la classe dirigente del nostro Paese.
 
Le proposte di riforma elettorale che si stanno affollando sul tavolo del ministro Quagliariello, incaricato della questione, sono varie, ma quasi tutte convergono su un punto: quello di ridurre, o addirittura eliminare, l’eccessivo premio di maggioranza previsto dal «porcellum» alla Camera. Intento del tutto condivisibile, ma che, nella situazione attuale, estenderebbe quella impossibilità di trovare una maggioranza che risulta al Senato anche a Montecitorio. Un sistema sostanzialmente tripolare, con centrosinistra, centrodestra e Movimento cinque stelle attestati ciascuno sul 25-30 per cento dei voti e profondamente divisi tra loro, non potrà mai arrivare a esprimere, senza un premio elettorale «esagerato», una maggioranza solida e politicamente omogenea. La piccola riforma che il governo Letta si prepara a proporre al Parlamento servirà, perciò, a costituire il miglior deterrente contro le velleità di chi vuole tornare al voto e, così, a «blindare» il suo ministero. Perché spegnerà le speranze di una piena vittoria di ciascuno dei tre raggruppamenti politici che si dividono il voto degli italiani e quelle di poter contare, nella prossima legislatura, su una governabilità migliore di quella, assai precaria, che caratterizza l’attuale.
 
La convinzione che, in mesi così difficili, sarebbe una sciagura interrompere una esperienza di governo tanto faticosamente raggiunta e lo scenario alternativo che si presenterebbe, con le previste e minacciate dimissioni dell’appena rieletto presidente della Repubblica Napolitano, sono tali che il risultato della riforma «minimale», così è stata definita, del sistema di voto sarebbe del tutto auspicabile. Una riforma elettorale, poi, deve essere coerente con un assetto delle istituzioni e delle forme di governo che le forze politiche si dichiarano impegnate a cambiare. Eliminare, intanto, il rischio che gli italiani possano andare a votare, un’altra volta, con le attuali regole è certamente opportuno. Vedremo quale sorte avrà, questa volta, l’obbiettivo di quella «grande riforma» che, da oltre 20 anni, i partiti cercano di varare e che tra commissioni, bicamerali e, adesso, convenzioni sembra sempre allontanarsi quanto più se ne proclama la necessità e l’urgenza. Nel frattempo, però, quella «minimale» che, ora, dovrebbe essere approvata sul sistema di voto deluderebbe gli italiani sulle due fondamentali esigenze: quella di poter scegliere lo schieramento che dovrà guidare il Paese e quella di poter eleggere i loro rappresentanti in Parlamento attraverso una chiara contrapposizione tra i candidati nel collegio elettorale. 
 
L’esperienza, inoltre, insegna a coloro che non hanno la fortuna di essere giovani che, in Italia, le leggi tampone hanno una longevità straordinaria. Non c’è niente di più duraturo, da noi, che una norma annunciata come provvisoria. Vuoi vedere che la prossima riformetta elettorale non solo serva a blindare Letta a palazzo Chigi, ma trasformi questa esperienza precaria delle larghe intese in una caratteristica di governo che ci accompagnerà, invece, per i prossimi anni?

da - http://www.lastampa.it/2013/05/23/cultura/opinioni/editoriali/se-la-riforma-pu-blindare-il-governo-38Z3vJ7yZFLl1ZTeRVt5YO/pagina.html
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« Risposta #149 inserito:: Maggio 29, 2013, 06:23:59 pm »

Editoriali
29/05/2013

Centrodestra, un futuro oltre Berlusconi

Luigi La Spina


Ancora una volta è apparsa evidente la diversità tra le elezioni amministrative e quelle per le politiche. Una caratteristica costante in Italia, ma che pure i differenti sistemi di voto in uso nelle due consultazioni hanno accentuato. 

 

Ca mbia, evidentemente, la domanda dei cittadini nei confronti dei candidati e cambia l’offerta della politica nel cosiddetto mercato elettorale. 

 

Quando i due tipi di votazione si sovrappongono, poi, le valutazioni sono ancora più complicate perché gli effetti di trascinamento tra i due voti non sono facilmente calcolabili.

 

I confronti e i giudizi, perciò, dovrebbero sempre rispettare le regole elementari della statistica, quelle che comparano situazioni omogenee e criteri altrettanto omogenei. L’analisi dei risultati del voto di ieri, proprio cercando di non tradire le norme della correttezza valutativa, consente sia qualche correzione alle impressioni più immediate, sia di formulare alcune ipotesi sulle tendenze, di più lungo periodo, nei comportamenti elettorali degli italiani.

 

L’esito più clamoroso e più preoccupante della parziale consultazione amministrativa è certamente il dato dell’astensione. La percentuale dei cittadini che non hanno ritirato la scheda elettorale è alta in sé, ma è ancor più significativa perchè, in Italia, il fenomeno del «non voto», diversamente da altre democrazie occidentali, non è mai stato così diffuso. Un confronto, però, tra votazioni amministrative omogenee, cioè quelle non «inquinate» dall’effetto spurio di contemporanee elezioni politiche nazionali, suggerisce un giudizio meno sorprendente. Perché non c’è stato un crollo improvviso della partecipazione elettorale, ma la conferma di una costante tendenza che, alla tradizionale scadenza dei cinque anni di una legislatura comunale, si pone sempre tra il 5 e l’8 per cento in meno di votanti. Un dato forse ancor più allarmante di una caduta drammatica, perché segnala una disaffezione dei cittadini per la politica profonda e crescente, non legata a sfiducie episodiche e transitorie, ma a una delusione per i comportamenti della nostra classe politica che nasce da lontano e che non sarà curabile, nè in tempi brevi, né con ricette demagogiche, come il caso Grillo sembra dimostrare.

 

Al di là delle un po’ affrettate consolazioni del «Pd» sulla tenuta del partito, fondate più sullo scampato pericolo della sua dissoluzione che sui consensi numerici effettivamente ottenuti dai suoi candidati, la riflessione forse più interessante, quella che illumina uno scenario più gravido di conseguenze per il sistema politico italiano, anche con uno sguardo più lungo sul futuro, riguarda il centrodestra.

 

Se, come pare probabile, Alemanno sarà sconfitto al ballottaggio da Marino, questo schieramento che, dalla fondazione della Repubblica, può contare sulla maggioranza dei consensi tra gli italiani non guiderà nessuna tra le più importanti città del Paese. Con il rischio di perdere persino alcune delle sue tradizionali roccaforti in quelle città di media dimensione che, soprattutto nel Nord, avevano sempre assicurato un suffragio ampio e sicuro allo schieramento di centrodestra. Questo risultato, naturalmente, non si fonda sulla peggiore prestazione che, da sempre, contraddistingue l’alleanza guidata da Berlusconi nel voto amministrativo rispetto a quello nelle politiche, ma confronta votazioni di tipo omogeneo. 

 

I motivi di tale situazione sono vari e si possono dividere sostanzialmente in due campi, il primo di tipo più strettamente politico, il secondo con caratteristiche economico-sociologiche.

 

Dopo vent’anni, la leadership carismatica di Berlusconi non è riuscita, non ha potuto, non ha voluto creare una classe dirigente con personalità adeguate alle esigenze di governo del territorio. Nei casi più fortunati ha «adottato» leader locali di provenienza democristiana o socialista, in altri ha gettato nella mischia della politica manager pubblicitari, uomini di belle ma sproporzionate speranze, donne di bella ma troppo ambiziosa presenza. Il risultato di un confronto che, in genere, vede perdenti i candidati locali del centrodestra rispetto a quelli del centrosinistra, non deriva da un destino avverso, né da differenze, dal punto di vista politico, genetiche. E’ il prodotto naturale, coerente e inevitabile del rapporto fiduciario e personale tra Berlusconi e il suo elettorato. Con il vantaggio di poter godere, all’ombra della sua abilità nelle campagne elettorali nazionali, di una rendita di posizione assicurata, o quasi, in Parlamento, ma con lo svantaggio di perderla del tutto quando il candidato, nel voto amministrativo, non è più lui. Per ora, il rischio che il centrodestra perda una forte rappresentanza alle Camere è oscurato dalla longevità politica del Cavaliere, ma in un futuro non troppo lontano questa sarà l’incognita più importante del nostro sistema democratico.

 

La seconda causa della grave sconfitta di questo schieramento è il venir meno di quella richiesta liberista e antistatalista su cui si è fondato, per 20 anni, il consenso, soprattutto nel Nord, al centrodestra. In un momento di crisi economica, dalle giunte degli enti locali ci si aspetta sicurezza sociale, mantenimento dei livelli nei servizi pubblici, stimolo allo sviluppo e all’occupazione. Attese che, in genere, si pensa siano più ascoltate da uomini della sinistra e meno da candidati dello schieramento opposto.

 

Ecco perché il centrodestra, se vuol garantirsi un futuro meno oscuro, non dovrà solo pensare al dopo Berlusconi, alla costruzione di un partito e di una classe dirigente all’altezza delle sfide dei prossimi decenni, ma a come adeguare il suo programma politico alle mutate esigenze del blocco sociale che, in questi anni, ha costituito lo zoccolo duro dei suoi consensi elettorali.

da - http://lastampa.it/2013/05/29/cultura/opinioni/editoriali/centrodestra-un-futuro-oltre-berlusconi-Z9J63Stj9mBow2sYNXTcVI/pagina.html
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