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Autore Discussione: LUIGI LA SPINA -  (Letto 81771 volte)
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« inserito:: Gennaio 16, 2008, 12:19:07 am »

15/1/2008
 
La Corte e le ragioni del sì
 
LUIGI LA SPINA

 
C’è un orientamento giuridico, ispirato da civiltà e buon senso, riassunto in un motto latino che persino i liceali d’oggi sanno tradurre: «In dubio pro reo». Con un po’ di ironia, ci si potrebbe riallacciare a questo principio per comprendere la motivazione principale per cui, domani sera, i giudici della Corte costituzionale dovrebbero dare il via libera alla celebrazione del referendum sulla legge elettorale. Una previsione naturalmente a rischio, perché non sono affatto esclusi colpi di scena, ma che, secondo autorevoli indiscrezioni, si può avanzare con sufficiente attendibilità. A costo di far impallidire i giuristi e di far arrossire l’avventuroso divulgatore, il dovere giornalistico impone di semplificare il «nocciolo» del problema.

Sarà discusso in camera di Consiglio nella soluzione del conflitto tra due esigenze altrettanto essenziali in una democrazia, quella di una corretta rappresentanza dei cittadini nelle istituzioni e quella di una efficace governabilità. Alcuni ritengono che assegnare alla lista con più voti un così determinante premio di maggioranza, come avverrebbe per effetto di un sì al referendum, possa distorcere troppo gravemente i veri risultati elettorali. La democrazia rappresentativa, quella alla quale si ispirano i moderni Stati costituzionali, compreso il nostro, sarebbe colpita nel suo principio fondamentale. I sostenitori di questa tesi, per giustificare in maniera evidente i loro timori, avanzano un caso, teorico, ma possibile. In un sistema molto frazionato di partiti, potrebbe succedere che la lista con più voti raggiunga solo il 15 per cento dei suffragi, ma ottenga, con la legge risultante da un favorevole responso referendario, una maggioranza in seggi di oltre il 50 per cento. All’esigenza di governabilità, si può subordinare a tal punto il criterio di un’adeguata rappresentanza della reale volontà degli elettori?

Nonostante l’indubbio fondamento di questa obiezione, la Corte costituzionale, nella maggioranza dei suoi componenti, sarebbe orientata all’ammissibilità del referendum per una serie di considerazioni di ordine giuridico, pratico e persino «politico», se a questo termine si attribuisca un’accezione molto larga, che comprenda anche un giudizio generale sugli effetti di una decisione per gli equilibri delle istituzioni. Bisogna, innanzi tutto, sgombrare il campo da facili scorciatoie in base ai precedenti. Come ha scritto Michele Ainis sulla Stampa di ieri, il passato fornisce «un sacco della Befana» nel quale ognuno può trovare la tesi che fa più comodo. In questa situazione, in cui l’opinabilità ha latitudini assai estese, l’imputato referendum sarebbe «assolto», per tornare all’iniziale riferimento scherzoso, con tre sostanziali motivazioni.

È difficile stabilire una cifra, un limite quantitativo per cui un premio di maggioranza non diventa più un’accettabile correzione di necessaria governabilità del sistema, ma si trasforma in una vera e propria truffa della reale rappresentatività popolare. Una consultazione referendaria sull’argomento, come quella che si celebrerebbe se la Corte costituzionale desse parere favorevole all’ammissibilità dei quesiti, non offrirebbe, del resto, un responso chiaro sull’effettiva opinione dei cittadini a tal proposito? C’è, poi, un’altra considerazione che influenza la scelta della Consulta. Proprio in questi giorni in Parlamento, il luogo che rappresenta la massima espressione della volontà popolare, si sta discutendo una bozza di accordo sulla riforma della legge elettorale. Perché non lasciare al potere legislativo, a cui spetta il compito di trovare un’intesa, la responsabilità di annullare il voto referendario con una soluzione approvata dalla grande maggioranza delle Camere? Alla luce anche di questa osservazione, i giudici si limiterebbero a un puro parere di legittimità sui quesiti presentati dalla coppia Guzzetta-Segni, senza approfondire gli aspetti di costituzionalità della legge risultante. La terza valutazione che dovrebbe orientare al «sì» la Corte costituzionale si riferisce, infine, proprio alle specifiche caratteristiche di una legge elettorale. Per come è configurato il giudizio di legittimità, è estremamente improbabile, per non dire impossibile, che una norma elettorale arrivi al parere della Consulta.

Ecco perché, di fatto, solo il presidente della Repubblica, nell’ambito delle sue prerogative in tema di promulgazione di una norma legislativa, riesce a esprimere una valutazione sulla sua correttezza costituzionale. Fu il caso, ad esempio, del «no» del Quirinale alla prima formulazione del cosiddetto «porcellum» di Calderoli, il sistema con il quale fu eletto l’attuale Parlamento. Ciampi ricordò ai riformatori di quel tempo che al Senato, secondo la nostra Costituzione, vige la regola della rappresentanza su base regionale. Così la legge fu cambiata, anche se i dubbi, proprio sul premio di maggioranza, rimasero. I 14 giudici della Corte, anche domani sera, potrebbero seguire, perciò, la stessa prassi e non avventurarsi in un giudizio preventivo, una scelta così innovativa da risultare clamorosa e da ammettere alle attenuanti, generiche e specifiche, pure l’incauto indovino.
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Novembre 05, 2008, 06:36:45 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Febbraio 06, 2008, 03:17:09 pm »

5/2/2008
 
Il Signor No parla di dialogo
 
LUIGI LA SPINA

 
Non si saprà mai se la sorprendente ipotesi di una intesa Berlusconi-Veltroni lanciata sulla prima pagina del Giornale di ieri sia stato un ballon d’essai ispirato dal Cavaliere per ammonire gli alleati del suo schieramento, cercare di seminare lo scompiglio in campo avverso, ribaltare la responsabilità dell’interruzione della legislatura. Oppure, più semplicemente, sia partorita solo dalla imprevedibile fantasia del direttore del giornale di famiglia, per di più nel giorno del lutto per la scomparsa di mamma Rosa. Qualunque sia la verità, la proposta-provocazione ha avuto un merito, quello di individuare il più insidioso punto di debolezza, tra i tanti di forza, di Silvio Berlusconi alla vigilia dell’apertura della campagna elettorale: quello di apparire come il «Signor No». Colui che, per un vantaggio elettorale immediato, personale e di partito, costringe gli italiani ad andare al voto con una legge contro la quale si sono pronunciati, oltre che mezzo Parlamento, non solo i sindacati, che si potrebbero dipingere come fiancheggiatori del centrosinistra, ma quasi tutte le organizzazioni imprenditoriali e artigiane, in genere non tenere nei confronti di quella parte politica.

Nei prossimi due mesi, fino a metà aprile, quando molto probabilmente si voterà, dovremo aspettarci molti altri colpi di scena, da entrambi gli schieramenti. Berlusconi, infatti, dovrà cancellare, con una campagna propagandistica a suon di colpi d’artificio, l’impressione di un noioso revival di quelle del 2006 e del 2001, per non rievocare addirittura quelle del secolo passato. Veltroni dovrà costantemente segnare la discontinuità con l’era prodiana, rimarcando la novità della sua offerta elettorale, sia nei contenuti politici sia nelle forme in cui si presentano.

Così, ancor prima che il presidente della Repubblica abbia ufficialmente dichiarato il fallimento della legislatura e sia stata stabilita la data delle elezioni, già si intravedono, con sufficiente chiarezza, le linee fondamentali di quello sforzo di convincere gli elettori che non siamo alla vigilia della più noiosa campagna elettorale degli ultimi tempi. Anche per non contribuire a rafforzare il maggior rischio del prossimo voto, quello di una straordinaria vittoria dell’astensionismo.

Il Cavaliere, poiché non può cambiare il nome del solito candidato alla presidenza del Consiglio, né la formazione degli alleati, col consueto terzetto Fini-Bossi-Casini, ha deciso di cambiare il messaggio con il quale si presenterà agli italiani. Non più l’uomo della «rottura», anzi della rupture come si dice adesso alla Sarkozy, rispetto ai tradizionali ipocriti balletti consociativi della politica italiana. Ma l’uomo del dialogo, l’unico, ora, capace di mettere fine a quella sterile guerra di tutti contro tutti che, nella seconda Repubblica, ha portato l’Italia sull’orlo di un declino storico. La riforma della legge elettorale, simbolo di una nuova fase della politica italiana, sarà lui a riuscire a portarla a compimento, nella prossima legislatura. Il traguardo del Quirinale, in questo modo, potrebbe sancire la sua avvenuta mutazione: da capopopolo di una guerresca fazione a padre della patria, consacrato, se non unto, dal balsamo della grande riconciliazione nazionale.

Più facile, apparentemente, l’annuncio innovativo di quello che sarà il suo avversario, Walter Veltroni. Innanzi tutto il nome di un candidato che, per la prima volta, si presenta nella corsa a palazzo Chigi. Poi un partito nuovo, il Pd, che ha scelto il suo leader con un metodo inedito in Italia, le primarie. Veltroni, inoltre, aggiungerà a queste caratteristiche alcune innovazioni, esteriori ma non secondarie: un programma di pochi punti che dovrebbe far dimenticare le famose 278 pagine di quell’autentico inutile elenco del telefono che appesantì subito il governo Prodi e la promessa, in caso di successo, di un governo snello, con una forte riduzione di ministri. Ma, soprattutto, Veltroni annuncerà, sia pure con tutto il garbo che gli conosciamo, la rupture più significativa: quella dell’esperienza dell’Ulivo, la formula con la quale, per 15 anni, il centrosinistra, con alterne fortune, ha gareggiato nella competizione politica italiana. L’intesa con la sinistra radicale, prima di desistenza elettorale, poi, di alleanza organica nell’Unione, è stato il vincolo, nel bene e nel male, al quale si è legato il partito del riformismo italiano. Ora, aldilà di possibili intese tecniche al Senato, sembra si sia chiusa la lunghissima epoca, cominciata agli esordi della nostra Repubblica, nella quale, dalla sinistra del nostro paese, era stata sempre osservata scrupolosamente la regola di non avere mai nemici da quella parte.

La prossima campagna elettorale, così, si presenta già con una curiosa inversione di ruoli: là dove c’era l’annuncio di una novità dirompente ora c’è la promessa di un dialogo conciliante; nel campo di quella che era la continuità si avanzano, invece, brusche e potenzialmente dirompenti mutazioni. Se questi cambi di campo serviranno a ravvivare la campagna elettorale siano benvenuti. Speriamo solo che, come si diceva a scuola, cambiando l’ordine dei fattori, i risultati della politica italiana siano destinati a non rimanere immutati.
 
da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Febbraio 11, 2008, 05:11:45 pm »

11/2/2008
 
Nuovo cinema Walter
 
LUIGI LA SPINA

 
Finora non ci siamo annoiati e anche il futuro, almeno quello prossimo, sembra promettente. Il Pd spezza l’alleanza con la sinistra radicale, Berlusconi convince Fini alla lista comune. Gli altri rimangono spiazzati e comincia quel balletto dei piccoli alleati che, ricordando la famosa battuta di Moretti, potrebbe sintetizzarsi così: «Conto di più se entro nel partito del più forte o se rimango da solo?». Da una parte, il dubbio angoscia Di Pietro e i radicali; dall’altra, affligge Storace e, soprattutto, Casini. Insomma, lo spettacolo della campagna elettorale è partito in modo più avvincente del solito e la ricerca della «novità» pare la parola d’ordine per conquistare gli italiani.

Se dovessimo tradurre nel linguaggio degli economisti il fenomeno che sta avvenendo in questi giorni, si potrebbe osservare che sul mercato della politica, di fronte al rischio della disaffezione del cliente per la scarsa efficacia del prodotto che è stato presentato, si sta cercando di cambiare l’offerta. Per rianimare le vendite, c’è chi scommette su una nuova denominazione della ditta e su un nuovo capoazienda; c’è chi, invece, si limita a una diversa confezione. Tutti accusano la concorrenza di riciclare, in realtà, la vecchia merce, con una dose, maggiore o minore, di fantasia e di inganno.

Ma, rovesciando il punto di vista dal quale si osserva il mercato della politica, forse si potrebbe scorgere più facilmente la vera novità di questa neonata campagna elettorale: la scommessa su un cambiamento della domanda.

Da 15 anni, da quando, in sostanza, è cominciata la cosiddetta Seconda Repubblica, c’è stato un tale congelamento degli italiani in due schieramenti, fieramente opposti e assolutamente non comunicanti, da provocare sempre lo stesso fenomeno elettorale: la vittoria andava a chi, di volta in volta, riusciva a portare alle urne il maggior numero dei suoi tifosi. Mai si è riusciti a far breccia in campo avverso. Ecco perché «comunisti» e «forzitalioti» si sono combattuti a colpi di slogan sempre più feroci, tali da aprire sempre di più il fossato tra i due accampamenti e impedire qualsiasi sconfinamento. Come dimostra il discorso d’apertura della campagna elettorale pronunciato ieri da Veltroni, per la prima volta, affiora la possibilità, e la voglia, di scongelare quel blocco di ghiaccio che ha immobilizzato la politica e la società italiana negli ultimi tre lustri. Il leader del Pd punta a convincere anche parte degli italiani che finora hanno votato per il centrodestra, non ritenendo più immutabile la domanda sul mercato della politica.

I cambiamenti di linguaggio, di comportamento, persino della scenografia nella quale Veltroni ha voluto ambientare il suo intervento in Umbria non derivano solo, come superficialmente si dice, dalle caratteristiche del suo modo di far politica, dal suo temperamento e dalla sua cultura. Sono obbligati dalla strategia, l’unica possibile per tentare di vincere o di perdere il più onorevolmente possibile. Sono possibili perché ora, ha osservato il leader Pd, non tanto «siamo soli, quanto liberi». Da quei condizionamenti ideologici che, evidentemente, impedivano finora mosse così innovative. Sono plausibili se si riconosce che non è giusto «mettere le bandierine» sulla testa degli italiani.

Il «nuovo cinema Veltroni» non imita l’America per passioni adolescenziali, ma perché crede, come sta dimostrando la battaglia per le primarie negli Stati Uniti, che si possa conquistare il centro dei due campi, sfondando le linee avversarie e non solo rinsaldando le proprie. Così come McCain si atteggia a repubblicano moderato e sia Obama sia Hillary smussano le audacie liberal dei loro programmi. Proprio secondo le classiche regole delle competizioni politiche americane.

È probabile che Veltroni, anche in questo caso, trascini l’avversario Berlusconi a quel comportamento imitativo che ha indotto il Cavaliere a rompere gli indugi sulla costituzione del partito unico dei moderati. Del resto, il significato originario della mossa da lui annunciata sul predellino dell’auto a Milano, quando decretò il de profundis per Forza Italia e la nascita del «popolo o partito della libertà», era proprio quello di allargare i consensi in un’area più vasta e composita di quella a cui faceva riferimento il berlusconismo della prima ora. Ecco perché anche il centrodestra cercherà, questa volta, di non voler solo convincere quelli che erano già convinti. Non è detto che un cambio di formazioni, nella classe politica, produca necessariamente migliori risultati per i cittadini italiani. Forse migliori speranze si potrebbero coltivare se gli elettori si strappassero quelle maglie un po’ logore che da troppi anni indossano e provassero a giudicare i candidati senza pregiudizi. Sarebbe proprio bello se risuonasse, in campagna elettorale, quel grido di «liberi tutti» che allietava il finale dei nostri vecchi giochi di bambini.
 
da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Marzo 29, 2008, 06:54:05 pm »

29/3/2008
 
Depressi alle urne
 
LUIGI LA SPINA

 
Ci avevano promesso una campagna elettorale senza insulti, senza colpi bassi, finalmente degna di una democrazia matura. Una sfida sui programmi, in modo che gli elettori potessero scegliere tra progetti alternativi, concreti e verificabili, per far uscire l’Italia dal declino, anche d’immagine internazionale, sempre più evidente. Ci avevamo sperato e, con un po’ di buona volontà, ci avevamo anche creduto. Ma, a due settimane dal giorno del voto, forse è il caso di ricredersi e di rimpiangere il passato. Sì, proprio quello che abbiamo tanto deprecato, perché almeno ci si poteva illudere nel carosello di reboanti promesse, perché almeno la noia non ci affliggeva, perché almeno aspettavamo con grande curiosità il duello televisivo finale, quello che ormai in tutti i Paesi anticipa, con il suo esito, il verdetto delle urne. Se non ci sarà una scossa negli ultimi quindici giorni, del tutto improbabile peraltro, i due principali candidati a Palazzo Chigi, ma anche tutti gli altri a dire il vero, concluderanno una delle più deprimenti campagne elettorali che si siano mai viste. Una campagna all’insegna di una sostanziale rassegnazione di fronte alle difficoltà davanti alle quali si trova il nostro Paese.

Non si poteva trovare, in effetti, miglior simbolo di questo clima scoraggiante, dell’argomento sul quale si è concentrata la polemica elettorale: l’Alitalia. Un caso che avvilisce, perché si parla di concludere una storia vergognosa di sprechi clientelari e di incapacità manageriale con due soluzioni entrambe umilianti. O la svendita a una compagnia straniera o l’intervento dello Stato, anche se coperto da ancora fantomatici imprenditori privati, che comunque si risolverà al solito modo: a spese dei contribuenti italiani. La società italiana, ingessata dal potere delle corporazioni, da mediocri compromessi su qualsiasi cambiamento si tenti di varare, avrebbe bisogno di una classe politica all’altezza di una grande impresa: quella di esercitare su di essa un vero choc riformistico. L’impressione, invece, è duplice: o i nostri leader sottovalutano la gravità della diagnosi, o sono consapevoli della loro incapacità ad applicare quelle terapie che potrebbero salvare il malato. Davvero Veltroni pensa che bastino le proposte finora avanzate, dall’aumento delle pensioni alla riduzione dei costi della politica, benché siano opportune, ad affrontare i nostri veri, grandi problemi? È tutto qui, quello che «si può fare»? Davvero Berlusconi pensa che basti riproporre il ricordo dei suoi ultimi cinque anni presidenziali, senza neanche la promessa-illusione di ridurre drasticamente le tasse, per far «rialzare l’Italia»? A questo punto, è legittimo il sospetto che il candidato del Pd punti a una onorevole sconfitta che gli eviti un troppo oneroso compito a Palazzo Chigi. Come è giustificato il dubbio avanzato anche da Stefano Folli sul Sole-24 ore di ieri, cioè quello di un Cavaliere sospeso tra la voglia di vincere e il desiderio di sottrarsi al dovere di governare. In Italia ci sono almeno tre emergenze, prioritarie e gravissime, che andrebbero risolte con misure drastiche, attuabili solo con un sostanziale accordo della classe politica, in qualsiasi modo si divida in Parlamento. La prima riguarda l’impossibilità, per i veti di minoranze onnipotenti, di varare opere indispensabili allo sviluppo del Paese e, quindi, al bene comune, come, per esempio, l’Alta velocità o i termovalorizzatori per i rifiuti. La paralisi decisionale del nostro Paese sta emarginando l’Italia dalle nazioni che contano sul piano internazionale, con le ben note conseguenze sulla competitività del sistema economico, sulle nostre esportazioni, sulle sorti del turismo. C’è poi la questione della criminalità organizzata. È chiaro che, senza l’apporto delle regioni del Sud, l’Italia non riesce più a stare al passo delle economie occidentali sviluppate. Mafia, ’ndrangheta e camorra, oltre al quotidiano bilancio tragico di morte e di ricatto sulle persone, drenano risorse tali da costituire un fardello ormai insopportabile per i conti dello Stato e per quelli delle imprese. La Confindustria siciliana ha avuto il coraggio di rifiutare la sottomissione alla legge criminale. Che cosa aspettano le forze politiche per proporre il varo di un piano straordinario di lotta alla criminalità organizzata? Di questo argomento, in campagna elettorale, abbiamo sentito solo flebili e marginali accenni. Resta, infine, la grande necessità di un rapido e deciso cambio di passo nella formazione delle nuove generazioni. Sulla scuola e sull’università italiane si sono abbattute, negli ultimi quindici anni, continue, devastanti riforme con un gravissimo effetto di confusione sugli obiettivi fondamentali e di sostanziale svilimento degli studi. Senza una classe dirigente all’altezza dei tempi, l’Italia è destinata a un più o meno lento scivolamento nella schiera dei Paesi di serie B. Anche qui, senza una grande intesa politica vinceranno sempre le corporazioni sindacal-burocratiche a spese degli utenti, con i risultati che constatiamo ogni giorno. Ci sono ancora quindici giorni per curare la «grande depressione» di questa campagna elettorale. Altrimenti, non ci si potrà sorprendere o, peggio, lamentare per l’arrivo di una «grande depressione» anche nell’affollamento alle urne.

da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Maggio 08, 2008, 06:59:10 pm »

8/5/2008
 
Lo specchio del Cavaliere
 
LUIGI LA SPINA

 
Come ha riconosciuto il Presidente della Repubblica, il merito è soprattutto dei cittadini. La rapidità con la quale si è riusciti, dopo il voto, a formare un governo è stata possibile perché gli italiani, nonostante una sciagurata legge elettorale, hanno concesso al leader prescelto un’ampia e chiara maggioranza. Bisogna però ammettere che, questa volta, anche la classe politica ha contribuito all’inedita snellezza delle procedure: Veltroni ha avuto il coraggio di semplificare, nel suo schieramento, il ventaglio dei partiti. Berlusconi e Fini hanno avuto la prontezza di raccogliere la sfida e la legge Bassanini, con la prescrizione di soli 12 ministri con portafoglio, ha completato l’opera di sfrondamento.

Al di là dei risultati elettorali, dei meccanismi tecnici, dei riti semplificati, però, si è indubbiamente colta la preoccupazione di fondo che tutto il nostro Paese manifesta. L’urgenza di vedere subito insediato un governo nella pienezza dei suoi poteri per affrontare la gravità dei problemi che si affollano. A partire dal principale, la difficoltà di milioni di famiglie davanti al rincaro dei prezzi e ai segnali di una economia stagnante. Ecco perché il clima un po’ trionfalistico che accompagna, in genere, la nascita di un governo è sembrato ieri mutare in un’atmosfera di prudente realismo, come le parole del neoministro dell’Economia, Giulio Tremonti, hanno dimostrato senza troppe concessioni ai brindisi augurali.

Le caratteristiche del nuovo governo sono evidenti e si possono prestare a un duplice pronostico sulla sua efficienza e sulla sua capacità di essere all’altezza dell’arduo compito. Si tratta di un ministero imperniato su tre figure chiave: Tremonti, Maroni e il sottosegretario Letta. Intorno a loro, un gruppo di fedelissimi. Una compagine in cui scarseggiano i cosiddetti «tecnici» e non compaiono personalità che potrebbero assumere posizioni scomode o troppo indipendenti, come gli ex ministri Beppe Pisanu e Antonio Martino o l’ex presidente del Senato, Marcello Pera. Il ministero si profila, dunque, soprattutto per l’omogeneità politica dei suoi componenti. In netta contrapposizione con il maggior difetto del precedente, quello di Prodi, in cui l’anarchia delle voci era assoluta.

L’altro aspetto per il quale il nuovo governo si distacca da quello dell’ultima legislatura è l’età media dei suoi ministri. Per le abitudini italiane, arrivare alla cifra dei 50 anni è già un bel progresso. Spiccano, poi, un ministro della Giustizia di 37, dell’Istruzione di 34 e le poco più che trentenni Meloni e Carfagna. Meno successo ha avuto Berlusconi, lo dovrà ammettere persino lui e gli costerà molto, con la presenza femminile: 4 donne su 21 sono ancora troppo poche.

Se questi, a una prima sommaria analisi, sembrano i principali connotati della terza esperienza governativa del «Cavaliere», il giudizio, come si accennava prima, può essere bifronte. Da un lato, la compattezza di questo ministero, con l’assenza, a parte il triumvirato di comando che assiste il presidente del Consiglio, di figure troppo indocili, assicura una concordia, una fedeltà e una unicità di indirizzo, almeno a Palazzo Chigi, quali Prodi non si poteva neanche immaginare. Con la garanzia, fondata sulla grande maggioranza che il governo possiede alle Camere, che alle decisioni del gabinetto seguano rapide approvazioni parlamentari. Tali condizioni rassicurano Berlusconi sulla possibilità di attuare il suo programma, ma gli tolgono qualsiasi alibi, se i risultati della sua azione di governo non dovessero rispondere alle attese degli italiani e alle promesse fatte in campagna elettorale.

La medaglia ha il suo rovescio. Dall’altro lato, proprio la possibile mancanza di una dialettica franca, spregiudicata e magari capace di contraddire, con forte personalità e autorevolezza, gli orientamenti del premier potrebbe indebolire la capacità del governo di reagire, con prontezza ed efficacia, alle sfide difficili che il prossimo futuro sicuramente gli presenterà. E’ davvero arduo prevedere se i vantaggi della scelta berlusconiana prevarranno sui rischi. Ma quando si comincia un’opera complicata è d’obbligo e non solo cortese guardare il bicchiere dalla parte dove è pieno.

 
da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Maggio 25, 2008, 06:02:54 pm »

25/5/2008
 
Il villaggio di Asterix
 
LUIGI LA SPINA

 
Torna alla moda il nucleare e la presidente della Regione Piemonte dice di no. Trionfa il federalismo di Bossi e il sindaco di Torino gli contrappone il suo. Ma Bresso e Chiamparino chi sono diventati?

Approfittando dell’eclisse parlamentare di Pecoraro Scanio e di Bertinotti, forse si sono scoperti tardoseguaci dell’antimodernista Ivan Illich e del Rousseau delle «piccole patrie».

O si preparano alla barricate contro Berlusconi, rilanciando la parola d’ordine dell’ex procuratore generale di Milano, Saverio Borrelli: «Resistere, resistere, resistere!». Oppure hanno solamente ceduto alla tentazione dello snobismo, quello gozzaniano e un po’ zitellesco che qualche volta colpisce i piemontesi.

In attesa di un chiarimento, tutte le ipotesi sono valide. Anche perché, come è noto, l’animo umano è insondabile, ma quello dei politici lo è ancor di più. Eppure, la voglia di distinguersi della coppia istituzionale più importante del Nord-Ovest può rappresentare, di questi tempi, una risorsa nazionale, ma anche recare qualche danno. La cartina dell’attuale nostra geografia politica li condanna, innanzi tutto, a una certa inquietante solitudine. Con le giunte genovesi sull’orlo del naufragio, con quelle napoletane sostanzialmente commissariate dal Berlusconi in veste di «operatore ecologico», per parlar fino, Bresso e Chiamparino signoreggiano sull’unica grande isola della sinistra nazionale. Se escludiamo, naturalmente, i territori del Centro, dove comanda da sempre la «Lega dell’Appennino», come rischia di trasformarsi il Pd.

L’isolamento, come detto, può rivelarsi «splendido». Se suggerisce ai riformisti italiani l’alternativa alla tenaglia formata da un’opposizione di sua maestà, debole e conformista, e da un’opposizione ribellistica, astratta e livorosa. Chiamparino, terragno torinese che parla in dialetto ai suoi concittadini anche quando sono immigrati, potrebbe far scendere i suoi compagni di partito dalle luci della (ex) ribalta alle ombre delle fabbriche e agli angoli oscuri delle strade. La Bresso, con l’aiuto del marito svizzero e con la passione dell’Europa, dovrebbe poter aiutare il suo schieramento a uscire dai confini nazionali, per gettare lo sguardo a quello che succede al di là delle Alpi. In fondo, non si capisce perché il suo partito non debba assomigliare un po’ di più ai suoi fratelli europei.

La solitudine piemontese e torinese, politica ma forse anche psicologica e civile, può ispirare, però, una sindrome pericolosa, quella che potremmo definire da «villaggio di Asterix». Se Bresso e Chiamparino, novelli Asterix e Obelix, pensassero di costituire in Piemonte una «riserva gallica» della sinistra in lotta contro Cesare-Berlusconi, il risultato potrebbe essere, per loro e per il Pd italiano, del tutto catastrofico. L’ambientalismo della Bresso, diverrebbe subito la variante subalpina del conservatorismo nazionale e il federalismo comunale di Chiamparino, la parodia di un Bossi in formato Gianduia.

Come sanno i veri snob, il rischio è quello che l’anticonformismo non costituisca una salutare reazione all’ossequio della moda e, magari, alla viltà del servaggio. Ma la caduta nel provinciale macchiettismo del «signor no», destinato al compatimento e alla noncuranza. Sarebbe un peccato, perché l’azzardo di volersi fare sentire anche fuori dai confini di Torino e del Piemonte si può giocare una volta sola e, quindi, bisogna giocarselo bene.
 
 
da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Agosto 26, 2008, 10:49:44 am »

26/8/2008 - SCUOLA, FEDERALISMO
 
Prof nord e prof sud
 
 
 
 
 
LUIGI LA SPINA
 
Tra le certezze che alleviano i mutati ritmi stagionali dell’esistenza, il dibattito di fine estate sulla scuola è tra i più rassicuranti. Nell’imminenza dell’apertura dell’anno scolastico, conforta ritrovare il vecchio lamento sul costo dei libri, la consueta denuncia per la carenza e il degrado delle strutture edilizie, ricorrere ai cari luoghi comuni sul «carosello degli insegnanti».

Quest’anno, però, il ministro Gelmini ci ha provocato un brivido di disorientamento introducendo una polemica un po’ nuova, quella sulla scarsa preparazione dei professori meridionali. È vero che di fronte alla reazione indignata e offesa dei docenti provenienti dalla Magna Grecia, è subito tornata, anche lei, all’antica abitudine di accusare le cattive interpretazioni delle sue parole, ma il merito di aver ricordato come il divario di risultati tra Nord e Sud d’Italia sia certificato da inoppugnabili dati comparativi non va trascurato. È, naturalmente, una sciocchezza sostenere che la causa di questa grave disparità di preparazione scolastica sia attribuibile alla più ridotta capacità professionale degli insegnanti meridionali. Innanzi tutto perché le generalizzazioni sono tutte stupide. Poi perché, in questo caso, sono ancora più stupide, dal momento che molti professori in cattedra al Nord si sono laureati in atenei del Sud. È perlomeno ingenuo, infine, pensare che la scuola possa essere un’isola rispetto al contesto sociale in cui si trova e che le vere cause di queste differenze non debbano dipendere, invece, dal diverso livello economico, civile, culturale tra le regioni confrontate.

Fatte queste banali premesse, che dovrebbero essere ovvie, ma che evidentemente ancora non lo sono, la Gelmini, in maniera del tutto involontaria, ha offerto alla discussione pubblica il problema della scuola italiana come paradigma illuminante della questione politica che dominerà la prossima stagione politica: il federalismo. Se proviamo a collegare, infatti, quanto è avvenuto e avviene nelle aule scolastiche del nostro Paese, con il possibile esito della riforma propugnata dalla Lega e in discussione in tutti gli altri partiti, possiamo forse aumentare l’interesse di una polemica che, in tempi antichi, si definiva «da bar». Con tutta la nostalgia, certo, per quei bar di una volta e per gli avventori che li frequentavano.

C’è una parola in nome della quale si sono compiute le peggiori nefandezze nella scuola italiana: l’autonomia. Questo slogan ha inaugurato la via italiana al decentramento dell’istruzione, fondata su una comoda contraddizione, quella tra l’assoluta libertà didattica, che in alcuni casi ha sfiorato l’anarchia, e l’irresponsabilità sui risultati di questo metodo di insegnamento. In tutto il mondo si possono scegliere due soluzioni al problema della scuola pubblica. La prima assicura il valore legale del titolo di studio, con il riconoscimento uniforme dei voti conseguiti per le graduatorie nei successivi sviluppi di accesso universitario e professionale, stabilendo rigide norme su programmi, orari, disciplina. Corollario coerente con tale impostazione è lo stipendio uguale per tutti i docenti, una carriera fondata solo sull’anzianità, ma la tutela di una cattedra a vita, fino ai fatidici «quarant’anni di insegnamento», come diceva il professor Aristogitone nel famoso programma radiofonico di Arbore e Boncompagni.

La seconda via, sul modello anglosassone, è fondata, invece, sulla flessibilità dei programmi, sulla riconosciuta disparità nella preparazione degli alunni, ma alla mobilità e anche alla precarietà degli insegnanti corrisponde una verifica impietosa dei risultati. Quella che il mercato delle professioni sanziona con il livello di accesso agli impieghi più prestigiosi e remunerativi. Una selezione su basi economico-sociali che attenua le disparità iniziali di classe con sostanziose borse di studio pubbliche, ma soprattutto private. Insomma, la libertà d’insegnamento si collega strettamente alla responsabilità sui risultati. Con conseguenze trasparenti e crudeli sulla carriera dei capi d’istituto, sugli stipendi dei docenti, sul destino degli allievi. Solo in Italia si è riusciti nel perverso incrocio tra la cosiddetta autonomia scolastica e l’assoluta irresponsabilità sugli effetti di tale autonomia. Tra la gelosa tutela della libertà d’insegnamento e la comoda garanzia dell’inamovibilità del posto e dello sviluppo di carriera.

Se ora trasportiamo questo modello scolastico ai criteri della futura riforma federalista, non vorremmo si ripetesse lo stesso esito. Ogni amministratore pubblico potrà disporre di ampia libertà per finanziare tutte le attività che riterrà più convenienti. I «cento fiori» delle regioni e dei comuni italiani esalteranno le risorse di fantasia e di spregiudicatezza del genio nostrano. In teoria, alle maggiori spese dovrebbero corrispondere maggiori tasse, agli sprechi di denaro la sanzione di un più vicino e occhiuto controllo del cittadino. Ma alla fine, quando i conti non torneranno, ci sarà mai qualche sindaco o governatore regionale che pagherà di tasca sua, perdendo il posto, senza far appello alla borsa dello Stato e incolpare il solito «governo ladro»?

 
da lastampa.it
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« Risposta #7 inserito:: Agosto 26, 2008, 06:46:12 pm »

«I signori al governo fanno a gara a chi la spara più grossa».

Consolo: «Scuola del Sud? Un'idiozia»

Lo scrittore siciliano replica alla Gelmini

Intervista al saggista messinese trapiantato a Milano: «Sono migliaia gli insegnanti meridionali al Nord»



MILANO - «Parlare di corsi di aggiornamento per i professori meridionali, di un’istruzione del Sud e di una del Nord è una grande idiozia, fuori dai tempi. Fomenta l’odio razziale e non fa emergere il vero problema dell’Italia, che è l’individualismo e la mancanza di una coscienza civile». Lo scrittore e saggista siciliano Vincenzo Consolo, emigrato a Milano nel 1969, difende gli insegnanti meridionali «costretti a lasciare la propria terra per lavorare» e si scaglia contro la ministra Gelmini e Umberto Bossi: «I signori che stanno al governo oramai fanno a gara a chi la spara più grossa».

Lei è nato a Sant’Agata di Militello e ha frequentato ginnasio e liceo a Barcellona (in provincia di Messina). Che ricordi ha dei suoi docenti?
«Ho avuto sempre dei professori straordinari. Ricordo in particolar modo il professori di Lettere e di Filosofia. Non insegnavano solo storia della filosofia, ma ci introducevano alla cultura e alla storia contemporanea».

Ma durante gli studi universitari si è trasferito a Milano…
«Ho frequentato Giurisprudenza e con me c’erano molti meridionali, che poi sono diventati la classe dirigente dell’Italia del dopoguerra: i fratelli De Mita, Gerardo Bianco. Allora Milano era un mito, il paradiso della rinascita italiana. Però mi sono laureato a Messina, perché per un disguido burocratico dovetti fare il militare e persi tempo. Dopo la laurea ho insegnato Diritto ed Educazione Fisica in un Istituto agrario, nelle colline siciliane. Ho evitato l’avvocatura e il notariato o, peggio, di dover chiedere al politico di turno di darmi un posto in Regione, come succedeva a tutti i miei coetanei e come avviene ancora oggi. Infine, quando ho avuto la malsana idea di fare lo scrittore, sono emigrato a Milano, nel 1969».

Che cosa consigliava ai suoi alunni di allora e che cosa consiglierebbe agli studenti di oggi?
«Ai miei tempi consigliavo di lasciare Agraria e di scegliere gli istituti alberghieri, perché con il fallimento della Riforma Agraria, in Sicilia c’era molta emigrazione e povertà. Oggi i confini sono molto più aperti di allora. Consiglierei di andare in Europa, di non andare dal politico a chiedere aiuto. Si diventa schiavi, clienti del potere».

Lei che ha frequentato Nord e Sud, che differenze di stile didattico trova tra le due Italie?
«Non vedo differenze. La Gelmini, che è di Brescia, ha fatto delle dichiarazioni grossolane. Oramai i signori che stanno al governo, fanno a gara a chi la spara più grossa. Rileggetevi il "Discorso sul costume degli italiani” di Leopardi. Parlava di una mancanza di società civile, di un paese dove ognuno pensava a se stesso. Questo e l’immobilismo sono i veri mali dell’italia, non i professori del Sud. Tanto più che ci sono migliaia di professori che dal Meridione emigrano a Nord perché c’è più spazio e più lavoro.

Anche quelli sono stati abbastanza maltrattati da Umberto Bossi, per la verità…
«Rispondo con un solo esempio: Salvatore Guglielmino, autore con Leonardo Sciascia de “La Guida al Novecento”, dove moltissimi alunni hanno studiato letteratura, era di Ragusa. Ha insegnato all’istituto Manzoni di Milano e ne ha fatto storia e lustro. Direi che è ora di smetterla con questi campanilismi inutili. Facciamo una pessima figura davanti all’Europa. Mi dispiace che lo stesso presidente della Regione Sicilia Lombardo dialoghi con la Lega».

A settembre sarà premiato per il suo impegno civile al SalinaDocFest e sta ultimando un romanzo sui fondamentalismi, ambientato in Sicilia». Il Sud per lei è una patria o un ricordo?
«Io sono un disadattato. Il sud è un paradiso abitato da diavoli, da mafiosi. Per me è l’Itaca che ho lasciato e che non riconosco più. Milano è la patria immaginaria, il mito del progresso. Ma mi ha deluso anche questa, per la nascita della Lega, per la progressiva mancanza di accoglienza e solidarietà».

Ketty Areddia
26 agosto 2008

da corriere.it
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« Risposta #8 inserito:: Agosto 29, 2008, 07:05:24 pm »

28/8/2008 (9:24) - ANALISI

L’autunno caldo di Chiamparino
 
In bilico tra una forte immagine nazionale e le beghe politiche che dividono la sua città


LUIGI LA SPINA


TORINO
C’era una volta a Torino un sindaco che andava in giro vestito in un solo modo. D’estate, sfoggiava larghi camiciotti di improbabili colori. D’inverno, si infagottava in un pesante loden verde. Parlava anche una sola lingua: un curioso misto di italiano e dialetto piemontese, in cui, ogni tanto, spuntava la parola in inglese. Come se la nostalgia per la vocazione di un insegnamento universitario in economia, precocemente rinnegata per la politica, dovesse trovare uno sfogo, almeno verbale.

Ora, Sergio Chiamparino è diventato un sindaco à double face. Quando calca la scena nazionale, come ministro-ombra per la riforma federale, dialoga, con autorevolezza e competenza, sul problema chiave della ripresa politica, mostrando una capacità di mediazione e una volontà di raccogliere larghi consensi che, anche di fronte alle platee più ostili, gli assicurano ascolto e rispetto. Ma quando torna nella capitale subalpina, il suo sorriso si rabbuia in una persistente irritazione. Ingaggia tenzoni furibonde contro i signori delle tessere pd, personaggi del tutto sconosciuti fuori dal cerchio della piccola politica cittadina.

Si rinchiude nella sua oscura stanza a palazzo di Città come in un fortino assediato, come se temesse di perdere l’immagine vincente del sindaco delle Olimpiadi, forte di un consenso elettorale straordinario, ai vertici in tutte le classifiche di popolarità tra i primi cittadini italiani.

Il destino personale di Sergio Chiamparino può interessare relativamente poco. L’ennesima prova di masochismo della sinistra, che, ancora una volta, rischia di bruciare, per squallidi litigi e gelosie correntizie, uno dei pochi personaggi spendibili in sede nazionale, non sorprende. Nè sorprende che il caso Chiamparino somigli alle analoghe vicende che, per citare solo qualche esempio, a Bologna come a Venezia, contrappongono sindaci pd dotati di forte personalità e di carisma sovracittadino alla burocrazia partitica locale.

La vocazione al «farsi male da soli» è l’unica caratteristica identitaria resistente a tutte le rivoluzioni (o pseudo tali) del partito più forte in quello schieramento. Che anche la ridotta di Asterix, quella di Torino e del Piemonte, dove, al Nord, si lecca le ferite la sinistra italiana, possa essere sbaragliata, alla prima occasione, dal centrodestra dilagante, è un’ipotesi che non deve spaventare chi crede nella democrazia e nelle virtù dell’alternanza al potere.

La preoccupazione e l’allarme, per chi ha solo a cuore le sorti di una città come Torino, nella delicata fase post-olimpica nella quale si trova, sono altri. Poichè il secondo mandato di Chiamparino scade istituzionalmente nel 2011, l’eventualità che altri tre anni di logoramento, di battaglie correntizie, di dispute non sulle grandi questioni dello sviluppo cittadino, ma su misere lotte di potere, assegnazioni di posti, distribuzioni di fondi, spartizioni di influenze politiche, possano compromettere il futuro della città dovrebbe angustiare tutta la classe dirigente subalpina.

Proprio i prossimi tre anni saranno decisivi per Torino. Come è capitato in tutte le amministrazioni comunali che hanno sostenuto l’onere di ospitare le Olimpiadi, svanita l’euforia della festa, illanguidite le speranze di ricaschi turistico-economici straordinari e immediati, terminato il boom edilizio finanziato dai governi nazionali, i conti non tornano.

Se alle casse esauste si aggiungono i tagli disposti da Tremonti, a cominciare dal mancato introito dell’Ici compensato da finanziamenti erariali promessi ma ancora non incassati, si comprende facilmente come la situazione del bilancio di palazzo di Città sia veramente drammatica. Per di più, anche a Torino, nel passato, si è caduti nel tranello di spericolate cartolarizzazioni che, con i tassi crescenti di questi anni, fanno pesare ancor di più il gravame del debito.

Su queste pericolanti basi di fragilità finanziaria, si innestano problemi politici complessi, a partire dalla scadenza del secondo mandato di Chiamparino. Da una parte, è già cominciata la battaglia di posizionamento in vista della candidatura alla sua successione. Intrecciata, peraltro, all’altra lotta per una votazione altrettanto importante: quella, prevista nel 2010, per la presidenza della Regione.

Ufficialmente Mercedes Bresso, attuale inquilina del palazzo in piazza Castello, si dovrebbe ripresentare senza temibili concorrenti. Ma le variabili, presunte, sperate, solo immaginate, eccitano gli animi e turbano le fantasie.

D’altra parte, è anche comprensibile che Chiamparino pensi al suo futuro politico. A come non disperdere il tesoro di popolarità che si è assicurato a Torino. A come utilizzare il prestigio e l’autorevolezza che si sta conquistando anche nel resto del Paese. Gli onori comportano anche gli oneri del coraggio politico: sta a lui esercitare la sua leadership mettendola alla prova. Non nella polemica del cortile di casa, in cui rischia di immiserire la sua posizione. Ma in una scelta di responsabilità istituzionale, soprattutto di fronte a quel 70 per cento di torinesi che l’ha votato. Se può esercitare il ruolo di sindaco nelle condizioni, personali e politiche, in cui l’ha fatto negli anni scorsi, lo dimostri, tornando ad indossare i suoi vecchi abiti. Altrimenti, non condanni la città, per altri tre anni, a uno spettacolo poco rassicurante.

da lastampa.it
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« Risposta #9 inserito:: Ottobre 10, 2008, 09:43:07 am »

10/10/2008
 
Grandi crac piccoli imbrogli
 
 
LUIGI LA SPINA
 
È una consuetudine, per la verità non solo italiana, quella di nascondere dietro grandi progetti, nati da ottime intenzioni, piccoli imbrogli, nati da personali interessi. Tradizione rispettata anche nel decreto Alitalia, una legge che dovrebbe consentire il salvataggio della nostra compagnia di bandiera, ma che avrebbe potuto anche salvare dai guai giudiziari alcuni grandi manager italiani, da Tanzi, a Cragnotti, a Geronzi.

Come al solito, è stata rispettata anche un’altra tradizione: quando viene svelato il trucco, la ricerca dei mandanti della poco onorevole operazione si perde nell’anonimato di piccoli peones parlamentari, subito scaricati da tutti e costretti a immolarsi, solitari e comodi capri espiatori, al ludibrio generale. Con i presunti beneficiari che si dichiarano ignari di tutto, i presunti sostenitori della maggioranza che si ritraggono indignati dal sospetto che si possa dubitare della loro superficialità e persino i presunti avversari dell’opposizione che proclamano non si possa non credere alla loro dabbenaggine.

Veri, verosimili o fantasiosi i retroscena che si raccontano in queste ore sulla vicenda, sarebbe troppo cinico, ma soprattutto poco avveduto, l’atteggiamento di chi tende a circoscrivere la vicenda come uno dei tanti episodi di malcostume politico, una gaglioffa furbata che solo l’arroganza del potere poteva pensare passasse impunita. A tutti costoro, in buona o cattiva fede, manca completamente la sensibilità nell’avvertire i sentimenti che in questi giorni agitano il nostro Paese. Quando, di fronte alla gravissima crisi finanziaria mondiale, alla possibile incombente crisi economica, la credibilità e la fiducia dell’opinione pubblica in coloro che li governano è l’unica arma contro il dilagare di una incontrollata paura. Il vero pericolo di fronte al quale nulla varrebbero i provvedimenti che governi e autorità finanziarie di tutto il mondo hanno approvato.

A questo proposito, bisogna dare atto a Casini che ha denunciato la questione in Parlamento e soprattutto a Tremonti di aver colto la gravità del segnale che la classe politica, tra complicità e indifferenza, stava mandando ai cittadini. Il ministro del Tesoro, con un drastico aut-aut che metteva in gioco la sua permanenza alla guida del dicastero, ha costretto alla frettolosa e vergognosa ritirata proponenti dichiarati e ispiratori occulti dell’emendamento truffaldino.

La «ragion di Stato» e anche la responsabilità di tutti coloro che, in questi giorni, hanno il compito di informare l’opinione pubblica, giornalisti compresi, corrono su un binario assai stretto. Da una parte, occorre non drammatizzare una situazione che soprattutto e solo dal panico potrebbe essere compromessa, con conseguenze catastrofiche. Dall’altra, non nascondere con generiche promesse di assolute garanzie la gravità dei fatti avvenuti e di quelli che potrebbero avvenire. Anche perché la rapidità con cui le bugie sparse a piene mani, in queste ore, sono state svelate, può compromettere la credibilità di qualsiasi promessa o semplicemente previsione sul futuro avanzate da quegli stessi protagonisti della crisi.

L’elenco delle false rassicurazioni, purtroppo, è lungo. Ci avevano detto che le difficoltà finanziarie avrebbero toccato solo le banche americane, spregiudicate e irresponsabili. Poi, che solo qualche banca europea poteva essere contagiata, ma che sicuramente tutte le banche italiane avevano una capitalizzazione largamente sufficiente a fronteggiare qualsiasi esigenza di liquidità. Infine, che l’economia reale, quella che non si regge sulle carte, ma sulle fabbriche e sulle merci, era al riparo, dietro solidi salvagenti. Tutti conforti verbali che si sono trasformati in inquietanti boomerang nell’opinione degli italiani.

I banchieri non possono operare senza la fiducia. I governanti senza la credibilità delle loro parole. Se dietro alle parole vuote si nascondono, poi, piccole o grandi truffe, non possono lamentarsi di non riuscire a convincere gli italiani, anche quando avrebbero ragionevoli argomenti per riuscirci.

 
da lastampa.it
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« Risposta #10 inserito:: Novembre 06, 2008, 08:45:22 am »

6/11/2008
 
Se l'Italia scioglie il gelo del Cremlino
 
 
LUIGI LA SPINA
 

Avranno poca importanza, per fortuna, le scontate reazioni italiane alla vittoria di Obama. Sia quelle del centrosinistra, che cerca di sfruttare il riverbero mediatico del clamoroso successo dei democratici americani, nella speranza di rianimare le sorti del partito che porta, in Italia, lo stesso nome. Sia quelle del centrodestra, che vorrebbe evitare di essere coinvolto nella dura sconfitta degli amici repubblicani.

Più interessanti possono essere, invece, le conseguenze dell’elezione di Obama alla Casa Bianca sulla linea della politica estera governativa. Berlusconi, approfittando di una serie di coincidenze diplomatiche e sfruttando il suo notorio pragmatismo, potrebbe accentuare quel movimento di cauto distacco dalla politica di Bush che, negli ultimi mesi, aveva tradito il tradizionale perfetto allineamento alle tesi della segreteria di Stato americana. Soprattutto sui due scenari che, molto probabilmente, vedranno i cambiamenti più significativi nella politica Usa: il fronte russo e quello iraniano.

La contemporaneità tra il trionfo elettorale di Obama e il durissimo discorso anti-Stati Uniti del premier Medvedev non è né casuale né beneaugurante per il nuovo presidente americano. Si tratta di un pesante avvertimento che rischia di avvelenare quella «luna di miele» che Obama sembra aver intrapreso con il mondo intero. Proprio in questo momento di gelo diplomatico Mosca-Washington, si presenta un’opportunità che Berlusconi potrebbe cogliere per proporsi in un ruolo che ama molto, quello del mediatore internazionale. Per tutto il 2009, infatti, l’Italia avrà la presidenza di turno del G8.

L’occasione per offrire al neopresidente Usa i frutti dell’amicizia con Putin coltivata da Berlusconi sia in appuntamenti pubblici sia in quelli privati, nella sua villa in Sardegna. Rapporti di simpatia che oggi, nella visita ufficiale a Mosca, il nostro premier riconfermerà ed estenderà al successore di Putin al Cremlino.

L’altra partita sulla quale la posizione italiana potrebbe essere utile alla diplomazia del neopresidente americano è quella, ugualmente importante, del caso Iran. Se, all’epoca della crisi per la Georgia, era apparsa evidente la distanza tra l’amministrazione Bush e il governo Berlusconi, altrettanto diverse, anche se meno clamorosamente, sono le linee di approccio al confronto con quello Stato mediorientale. L’Italia, al contrario della Germania ad esempio, non ha affatto ridotto l’interscambio commerciale con l’Iran e, sia pure in forme molto discrete, continua a mantenere un dialogo con il regime di Ahmadinejad. Anche in questo caso, se Obama volesse ammorbidire l’atteggiamento di Bush potrebbe trovare nell’Italia un canale di colloquio sperimentato con i dirigenti di quel Paese.

I presumibili migliori rapporti tra la nuova amministrazione democratica americana e l’Europa, invece, non dovrebbero lasciare al governo Berlusconi quei margini di protagonismo internazionale che, con Bush, consentivano al leader italiano un ruolo di particolare vicinanza agli Stati Uniti. A meno che al nostro presidente non riesca una mediazione che, all’apparenza, sembra proprio impossibile: mettere d’accordo due caratteri inconciliabili, quello di Angela Merkel e quello di Nicolas Sarkozy.
 
da lastampa.it
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« Risposta #11 inserito:: Novembre 12, 2008, 10:13:31 am »

12/11/2008
 
Passera Modiano e il Mi-To
 
 
LUIGI LA SPINA
 
Uno scontro di potere all’interno di un’azienda. Una partita politica tra le principali banche italiane e il governo, in un momento di crollo dei listini borsistici. Un nuovo assetto della classe dirigente torinese, in vista del confronto con Milano. Ecco perché il caso Passera-Modiano, al vertice del gruppo Intesa Sanpaolo, non è solo una disputa personalistica tra due manager, né un confronto tra due diverse concezioni organizzative, ma una vicenda rivelatrice dei prossimi mutamenti nei rapporti tra il nostro sistema finanziario e quello politico. Con le relative conseguenze sul futuro delle due capitali del Nord-Ovest italiano.

Per capire il significato dell’ultima puntata di quell’infinita telenovela che, sull’asse Torino-Milano, si va rappresentando, dall’epoca della fusione tra le principali banche delle due città, si deve partire, come al solito, dagli uomini.

Dalle loro ambizioni che, quando non sono misere, celano, però, progetti più ampi e più interessanti di un’affermazione di vanità personale. Come in una qualsiasi azienda, la delimitazione dei territori di potere tra amministratore delegato e direttore generale non solo non è facile, ma si ridefinisce ogni giorno. Non fanno eccezione i rapporti tra i due maggiori manager di Intesa Sanpaolo. È comprensibile, perciò, che Corrado Passera cerchi di affermare la sua assoluta supremazia nella gestione della banca. Come è comprensibile che Pietro Modiano cerchi di resistere ai tentativi di ridimensionamento della sua autonomia e delle sue competenze. Ed è altrettanto comprensibile che i punti critici della banca, dal caso Zaleski all’esposizione per la Cai, alla minore redditività del «retail», siano pedine-pretesto per reciproche accuse strumentali e propagandistiche.

Ridurre questo scontro al solito allarme per la volontà prevaricatrice di Milano nei confronti dell’influenza torinese nel nuovo gruppo bancario, però, sarebbe davvero un’interpretazione di miope campanilismo provinciale. Accanto allo scontro di potere, infatti, si individuano i segni dell’avvio di una partita politico-finanziaria che supera i confini del Nord-Ovest italiano e riguarda la fisionomia nazionale del nostro sistema del credito. In un momento di gravi difficoltà per tutte le banche, è naturale il loro avvicinamento al potere governativo, dal quale si aspettano un prezioso e, forse, indispensabile aiuto.

Sia Unicredit sia Intesa Sanpaolo erano considerate, fino a poco tempo fa, istituti guidati da personalità legate al centrosinistra. Ma, da quando Passera si è fatto promotore e principale sponsor della cordata Colaninno per il salvataggio dell’Alitalia, si sono cominciati a vedere nelle mosse dell’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo i segni rivelatori di una progressiva e crescente influenza del centrodestra in tutto il mondo bancario e finanziario italiano. Così l’attacco a Modiano, un manager sempre sostenuto dalla sinistra, viene giudicato anche come l’avvisaglia di un’offensiva che potrebbe persino arrivare ai due presidenti del gruppo, Enrico Salza e Giovanni Bazoli, di simpatie notoriamente antiberlusconiane.

Il terzo aspetto sotto il quale è utile guardare il caso Passera-Modiano riguarda i cambiamenti che, in alcuni ruoli-chiave del potere torinese, si stanno manifestando sotto la regia del nuovo presidente della Compagnia di San Paolo, il più forte azionista della banca. Nella classe dirigente della città si sta sgretolando il vecchio assetto che, formatosi quindici anni fa, all’epoca della prima giunta Castellani, di fatto ha guidato le sorti della capitale subalpina fino alle Olimpiadi e all’immediato periodo successivo ai giochi. L’avvocato Angelo Benessia vorrebbe ereditare, insomma, quel ruolo di «patronage» che finora ha esercitato Enrico Salza per le sorti di Torino, sia pure in condizioni e in modi diversi.

Al di là della rivalità tra i due personaggi della «città che conta», si profila un nuovo modello di relazioni tra le due capitali del Nord-Ovest: non più competitivo sulle singole partite di potere che si aprono nelle due regioni, ma di integrazione complementare per lo sviluppo di questo intero territorio. Per Torino si tratta di non limitarsi più a una battaglia difensiva, di resistenza alle mire milanesi, ma di ambire alla cogestione paritaria delle più importanti scelte socioeconomiche del Nord-Ovest. Un progetto che può essere interessante, che magari richiede un ricambio di classe dirigente, a patto che non preveda, per avviarlo, un disarmo unilaterale.
 
da lastampa.it
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« Risposta #12 inserito:: Novembre 15, 2008, 12:03:30 pm »

15/11/2008
 
Farsa all'Alta Corte
 
LUIGI LA SPINA

 
L’occasione è buona, proprio perché nessuno può mettere in dubbio i meriti del nuovo presidente della Corte Costituzionale e le sue attitudini a ricoprire l’alto incarico che gli è stato affidato. Giovanni Maria Flick, sia per le sue competenze scientifiche, sia per le qualità di indipendenza, equilibrio, capacità organizzativa, sia per aver sempre dimostrato di essere persona assolutamente per bene, sarà un presidente di massima garanzia per tutti.

Sgombrato il campo da qualsiasi dubbio sulla persona, si può esigere, senza rischi di alimentare sospetti ed equivoci, che questo malcostume di affidare, per pochi mesi, la guida della Consulta al giudice più anziano finisca al più presto. La convenienza ad allargare il più possibile il numero di coloro che possono fregiarsi del titolo di «emerito», con annessi vantaggi, è chiara. Ma è altrettanto chiaro il danno che questo espediente arreca alla autorevolezza, credibilità e prestigio dell’Alta Corte.

Questi giudici, chiedono, spesso, di essere difesi dagli attacchi strumentali nei loro confronti. Per pretenderlo dagli altri, dovrebbero prima difendersi da se stessi.
 
 
da lastampa.it
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« Risposta #13 inserito:: Novembre 21, 2008, 10:43:42 am »

21/11/2008
 
Partiti modello Lega

 
LUIGI LA SPINA
 
Bossi non ha ancora vinto, perché il cammino verso la trasformazione dell’Italia in uno Stato federale è lungo e accidentato. Ma già può inorgoglirsi di un risultato, forse da lui imprevisto e sicuramente da tanti imprevedibile, quello di aver imposto a un po’ tutti i partiti italiani il modello della sua Lega.

Fermiamoci un momento a raccogliere le immagini che in questi giorni offre la politica di casa nostra.

La domanda è immediata: che razza di partiti abbiamo in Italia? È certamente vero che le ideologie, feticci distintivi del Novecento, non ne marcano più né le identità, né i confini. Ma il via-vai sul tradizionale asse della destra e della sinistra delle nostre forze politiche negli ultimi tempi è tale da rendere una sfida impossibile quella di tentare un, sia pure approssimativo, allineamento logico. Perché Di Pietro sia finito all’estrema sinistra o Fini si batta con vigore contro la Lega per non chiudere la porta agli immigrati, ad esempio, è del tutto misterioso.

Per non parlare, poi, della velocità con cui svolte epocali, improntate a inaugurare stagioni storiche della nostra politica, si rivelino, dopo pochi mesi, fuochi fatui di scenari immaginari. Le recenti elezioni avevano illuso su un risultato che sembrava incontrovertibile: il sostanziale bipartitismo raggiunto dal nostro sistema. Ora, a sinistra, non solo quel gruppo unico parlamentare «Democratici-Italia dei valori», promesso prima del voto, è stato subito rinnegato, ma si è sfasciata clamorosamente l’alleanza, prima in una quotidiana polemica reciproca e, poi, in quella farsa ridicola e penosa a cui siamo costretti ad assistere sul caso della Vigilanza Rai. A destra, solo il cemento del potere impedisce che, per la sorte degli scali aerei, per la «messa in prova» dei detenuti, per i flussi immigratori, i contrasti nella maggioranza si allarghino pericolosamente. Con l’effetto che il percorso verso un vero partito unico tra Fi e An si allunga sempre di più.

Se neanche la personalità del leader, a partire dalla più forte, quella di Berlusconi, riesce a unificare la fisionomia delle nostre forze politiche, smentendo la tesi, che pure sembrava illuminante, di una nuova realtà, quella del moderno «partito personale», bisogna concludere che esse abbiano esaurito la loro funzione di rappresentanza dei cittadini, almeno in una democrazia come la nostra?

Prima di proclamare troppo frettolosamente il loro decesso, forse è il caso di non trascurare, invece, la forza crescente dei partiti italiani quando riescono a difendere gli interessi concreti di un territorio. Perché solo sul territorio se ne riconoscono chiaramente i confini, si capiscono quali gruppi sociali li sostengano e quali li combattano e, spesso, solo dal territorio possono emergere anche le nuove leadership. A quest’ultimo proposito, è evidente, tra l’altro, l’impressione che l’esperienza di sindaco o di governatore regionale prometta un cursus honorum più rapido e più sicuro della navigazione parlamentare e, persino, di quella ministeriale.

Se si guarda la vera mappa politica dell’Italia d’oggi il fenomeno è evidentissimo. A parte il dilagante successo della Lega di Bossi nell’Italia del Nord, il centrosinistra è ormai ridotto a una Lega del Centro, con qualche residua presenza, all’estremo Ovest e all’estremo Est, dell’eredità operaista di città come Torino, Genova e Venezia-Marghera. A destra, è significativo l’allarme con cui il presidente di una Regione importante come il Veneto, Giancarlo Galan, incita Forza Italia a trasformarsi in una «Forza Veneto», unica soluzione per non essere sconfitti dall’impetuosa avanzata delle armate bossiane. Nel Centro-Sud, quella mappa è altrettanto rivelatrice. Sul sindaco di Roma, Gianni Alemanno, si sta definendo la nuova identità di An e degli interessi da lui rappresentati. Un partito dal quale Fini sembra sempre più distaccato, nella corsa alla sfida per l’eredità berlusconiana dell’intera area moderata. La battaglia per la difesa di Fiumicino nella vicenda Alitalia, anche attraverso imprevedibili alleanze trasversali, potrebbe trovare il primo cittadino della capitale in una posizione ideale per la sua crescita di leadership tra gli elettori e di forza tra gli iscritti. Nel Sud, l’alleanza del centrodestra con l’Mpa di Raffaele Lombardo non solo si è rivelata preziosa dal punto di vista elettorale, ma si è dimostrata condizionante per il governo di città importanti come Catania e per quello di Regioni fondamentali come la Sicilia.

Questa tendenza, poi, verso il cosiddetto «partito territoriale» è destinata a crescere se, com’è ormai scontato, nemmeno per le elezioni europee, in cui non vale l’alibi della governabilità, sarà possibile, per i cittadini, scegliere il proprio rappresentante. Con le liste bloccate, l’unico vero rapporto di fiducia che è concesso all’elettore è quello con il proprio sindaco o con il proprio presidente di Regione. È l’unica libertà di scelta che resta agli italiani. E loro la faranno valere sempre di più.
 
da lastampa.it
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« Risposta #14 inserito:: Novembre 22, 2008, 12:23:20 pm »

22/11/2008 (7:25) - CHIAMPARINO

"Un leader per il Pd del Nord"
 
Il sindaco di Torino: dobbiamo organizzarci autonomamente da Roma

LUIGI LA SPINA
TORINO


Il partito democratico è in pieno marasma. La sorda guerra di correnti intorno al solito dualismo Veltroni-D’Alema è esplosa clamorosamente sul «caso Villari». Ma anche la collocazione nel Parlamento europeo ha riacceso le polveri tra la componente cattolica e quella postcomunista. Di fronte al rischio concreto della dissoluzione di un progetto che, a sinistra, aveva sollevato molte speranze, alcuni pensano che solo un congresso possa far superare questa crisi. Domandiamo, allora, al ministro ombra per le riforme istituzionali, il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, se anche lui ritiene che questa proposta sia utile a superare i contrasti. «Non credo. Servirebbe solo a fotografare la situazione esistente e, finito il congresso, tutto continuerebbe come prima. Le correnti e le sottocorrenti sono preesistenti a quella fusione “tiepida” che ha unito ds e Margherita. Ho l’impressione che gran parte dei capi di queste correnti abbiano partecipato alla nascita del nuovo partito più con l’obiettivo di creare un contenitore che garantisse l’autoriproduzione di quelle componenti che non per cercare di costruire davvero un soggetto unico. Non ci sono diversi progetti politici, alternativi tra loro, ma ci sono divisioni fondate su rivalità personali, lotte di potere interne al partito».

Allora, se un congresso non serve, come potete uscire da questa situazione? Lei ha una proposta?
«Sì. Io trasformerei l’attuale federazione di correnti in una federazione dei territori. Devo fare un’autocritica: mi rammarico di essermi fermato, quando ci furono le primarie, ad organizzare, con altri amici, una lista a favore di Veltroni con caratteristiche territoriali. Ora, se fossi al posto del segretario, farei io qualcosa per stimolare che questo nasca. Per esempio, partendo dal Nord, dove questo tema è più sentito e dove la sfida del partito territoriale esistente, cioè la Lega, è più forte».

Mi faccia capire, lei vuole fondare il partito democratico del Nord? «Nella prossima primavera, abbiamo le elezioni europee, ma abbiamo anche alcune elezioni locali che, per certi aspetti, sono ancor più importanti per il nostro radicamento e per la continuità di certe esperienze di governo. Direi a Piemonte, Liguria, Lombardia e Veneto: ragazzi, mettetevi insieme, decidete voi un coordinatore che sia rispettoso delle rappresentanze nei vostri territori e decidete autonomamente alleanze politiche, programmi, candidati e leadership. Sarei io a spingere con forza nel senso di questa federazione dei territori».

Ma con chi dovrebbe allearsi il partito democratico del Nord? Con l’Udc e, cioè, con il centro o dovrebbe ritornare all’Unione? «Io faccio un altro discorso. Ho l’impressione che organizzare una sommatoria di sigle rischi, per prima cosa, di non essere realizzabile e, poi, di non tradursi in una sommatoria di voti. Il Trentino lo dimostra: lì c’è stata un’originalità di rapporti. Il pd si è alleato con una lista territoriale che ha racchiuso tutta un’altra serie di sensibilità politiche».

Ma un progetto politico deve pur avere una direzione riconoscibile, non crede? «Certo. In termini di progetto politico, è indubbio che la necessità di guardare verso il centro è forte, è quella prevalente. Le sfide politiche, è notorio, si vincono sottraendo voti al centro. Il problema è che il centro non sempre è moderato. Spesso è radicale, come quello della Lega, per esempio. Per vincere dobbiamo conquistare la vasta area che confluisce al centro dell’incrocio tra due assi: destra e sinistra, innovazione e conservazione. E questo non si ottiene sommando le attuali sigle di partito».

E allora, con chi? «Sperimenterei, partendo dalle prossime elezioni, aggregazioni con una forte connotazione di rappresentanza territoriale e civica. Questa è l’unica condizione, facciamo l’esempio del Piemonte, per poter tenere insieme fasce di popolazioni, come quelle montane, e istanze sociali, come quelle legate alle fabbriche. Insomma, per mettere insieme rappresentanze diverse, come l’agricoltore cuneese e il cassintegrato della Bertone. Unire sensibilità diverse, come l’attenzione ai valori del mondo cristiano e la difesa della laicità dello Stato».

Queste non erano le ragioni fondative dell’Ulivo? «Sì, si potrebbe anche parlare di un rilancio di quell’idea. Ma con questa forte specificazione territoriale. Non lo chiamerei più l’Ulivo, perché i nomi connotano un’esperienza, e quell’esperienza è finita. Ci vuole una scommessa nuova, che non punti alla sommatoria di sigle di partito, siano l’Udc o quelli della vecchia Unione».

Ma basta la territorialità per fare un partito? Questa non è la morte della politica, almeno come l’abbiamo sempre pensata: condivisone di ideologie o almeno di valori, di progetti ideali? «Certo. Il territorio è condizione necessaria, ma non sufficiente. Il partito territoriale, me ne rendo conto benissimo, è la risorsa, ma anche il limite. Non essendoci sistemi di valori tali da esprimere un progetto politico credibile, che risponda alle aspirazioni di tutto il Paese, il territorio è l’unico punto di partenza per cercare di ricostruire questo insieme di valori e di messaggi programmatici, stando in mezzo ai problemi. E’ l’inizio di un cammino, ma sicuramente non ci si può fermare lì».

da lastampa.it
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