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Autore Discussione: Vittorio Foa - Le parole dimenticate  (Letto 9272 volte)
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« inserito:: Gennaio 15, 2008, 04:56:49 pm »

Le parole dimenticate

Vittorio Foa


Si parla di una politica di centrodestra e di una politica di centrosinistra, si vive l’alternanza dei loro rispettivi governi. L’ultimo governo di centrodestra ha suscitato moltissime proteste ed è stato sconfitto nelle elezioni. Con l’arrivo del governo di centrosinistra è successo però un disastro: le proteste non sono finite e i cittadini che protestavano durante il governo di centrodestra hanno continuato a farlo.

Ciò è accaduto perché si è rappresentata la sinistra in maniera imperfetta e quindi, anziché rassegnarsi a questo centrosinistra, ma anche a questo centrodestra, bisogna andare oltre. È una ricerca aperta laicamente a tutti, che non ha primati, nel tentativo di delineare un futuro che, insieme alle critiche del presente e del passato, indichi le speranze che sono tutte reali, se lo vogliamo, già nell’oggi.

Una caratteristica dell’irrilevanza dei discorsi di oggi è che l’interlocutore non ha più importanza. La parola è un impegno verso qualcuno, verso qualcosa: quando l’interlocutore non è considerato o non c’è, la parola è nel vento. In politica, tanto a destra quanto a sinistra, un caso molto frequente di scomparsa dell’interlocutore è il cosiddetto patto dei governi verso i governati: la concretezza dei soggetti viene meno, non si sa più chi di fatto si assume gli impegni e non si riconoscono le esistenze reali cui ci si rivolge. Penso molto alle parole della politica, alla loro capacità o incapacità di comunicare, e penso al carattere plurale di queste parole, alla molteplicità di significati, e anche di contraddizioni, che esse possono raccogliere: solo leggendo la loro interna contraddizione, la loro polarità, riusciamo a capirle.

La parola «lavoro», ad esempio, mi ha accompagnato per una parte della mia vita: mi sono occupato del lavoro umano e della sua organizzazione. Quando facevo l’organizzatore sindacale mi era chiaro che lo sviluppo, la crescita dell’economia d’insieme era una necessità per andare avanti e, al tempo stesso, una radice di difficoltà e d’infelicità. Le due cose, camminare e soffrire, vanno avanti insieme. Ogni giorno si può ascoltare, su Rai Radio 1, la trasmissione Pianeta dimenticato che tratta proprio le umane sofferenze e l’umana volontà di crescere. Consiglio di ascoltarla. Ho un’amica, Mariella Gramaglia, che è andata in India per aiutare un sindacato di donne non ancora riconosciuto, lasciando per questo incarichi politici molto importanti in Italia.

Nella mia vita il lavoro non è stato solo erogazione di fatica, di energia e di tempo, ma anche il punto di sbocco di una linea politica, di una più generale volontà di cambiamento. Oggi quel tipo di sbocco sul terreno politico sembra scolorito e addirittura scomparso: i lavori sono infiniti, uno diverso dall’altro e non sembrano più costituire il terreno propizio per un confronto omogeneo. A volte un carattere apparentemente omogeneo sembra dato dal precariato, ma ci sono molti modi di essere precario. Accanto al precariato e alla visibile difficoltà di affrontarlo c’è poi l’immigrazione nella sua doppia forma: da un lato essa è una grandissima risorsa a partire dalla diversità delle sue lingue e, dall’altro, rappresenta una notevole complessità.

Vi sono ulteriori termini di possibile confronto da cui far emergere i nuovi interlocutori e le loro rivendicazioni: basti pensare all’eterno mutare dei profili professionali, che comporta il riconsiderare il rapporto possibile con le professioni storiche e con i sindacati; poi allo sterminato campo del lavoro femminile, tutto da esplorare, e ancora alle diverse forme del tempo del lavoro.

Tutta la storia del sindacato è fatta di conquiste e rinunce; e le conquiste sono più spesso di dignità che di libertà.

Io continuo a credere a uno sbocco politico: il lavoro è sempre più legato al sapere, alla formazione di una capacità di muoversi nel futuro, alla formazione di tutte le età e di tutti i tempi. Per capire il nostro tempo abbiamo bisogno di un punto di partenza, e se il punto di partenza non è il lavoro umano che cosa diavolo può essere?

Penso alla parola polare, per esempio a «radicale». Io sono radicale perché credo e spero che il mondo cambi e cancelli violenze e ingiustizie. Ma sono anche un radicale diverso perché vorrei partecipare all’eliminazione delle violenze e delle ingiustizie, non vorrei agire senza partecipazione: per questo penso di essere autonomo. Confesso di aver sempre creduto di essere autonomo, ma non sono sicuro di me stesso.

Un’altra parola di grande uso in politica è «cambiamento». È una parola che può assumere molti significati e, a seconda del significato che le attribuisco, che riesco a trovare, si aprono orizzonti diversi. Posso pensare a una piccola riforma, posso pensare a una grande rivoluzione: la scelta del significato diventa decisiva. Mi viene in mente L’antico regime e la Rivoluzione di Tocqueville, quindi l’agosto 1789 quando i francesi unificarono gli stati proclamando l’Assemblea nazionale. Essi sentivano di aver compiuto un passo decisivo per l’umanità ed era una sensazione meravigliosa: questa meraviglia era il significato della rivoluzione che poi abbiamo dimenticato.

Il degrado del linguaggio non è un problema di parole, ma deriva da un comportamento pratico, cioè dall’esempio. Mi colpisce il fatto che dell’esempio non si parla mai, anzi non esiste come categoria di giudizio del proprio e dell’altrui comportamento: eppure sappiamo che tutto viene da lì.

L’esempio non nasce dalle prediche, ma dalla vita, quella che si svolge nelle scuole, negli ospedali, negli eserciti, ovunque si stia insieme.

Le scelte qualche volta sembrano difficili, ma non bisogna avere paura: si deve scegliere. Ogni scelta ha le sue ragioni e avere consapevolezza delle ragioni degli altri non diminuisce il valore della scelta.

Non sono mai stato in grado di aggrapparmi a un pensiero strutturato. Ho lasciato fare e ho vissuto questa mia mancanza con un certo senso di rimprovero, però non mi sento di trovare un punto di riferimento esplicito. Prendo dove posso, dove trovo: non sono un maestro e forse non ho avuto maestri.

Essendomi occupato di politica tutta la vita ho un senso limitato dello spettacolo. Ho coscienza del fatto che la politica è una cosa stretta e che ci sono mille altre cose. Lo spettacolo è qualcosa di molto importante da cui però sono rimasto fuori e sono consapevole del mio limite che è molto forte: sono contento quindi che qualcun altro, ad esempio Luca Ronconi che ha messo in scena Il silenzio dei comunisti, riesca a vincere questo limite, a vedere come spettacolo quello che io ho visto come agire tecnico di qualche uomo in mezzo ad altri uomini. Mi fa piacere insomma che qualcuno sappia andare oltre quello che io ho vissuto come agire empirico, come azione politica: è una questione che mi interessa molto.

Anche se personalmente sono limitato nella capacità di godere lo spettacolo, in qualche modo provo un grande interesse per il fatto che la politica, vissuta da me come una tecnica ristretta anche se legata al destino e al progresso dell’umanità, sia vissuta in un modo più ampio, come musica, spettacolo, come arte in genere, come riflessione che va oltre il presente: tutto ciò è più forte in me quanto più divento vecchio. Sento cioè il pericolo, e anche il rischio, di una vita per certi versi limitata. Se per ipotesi dovessi dire a un ragazzo di occuparsi di politica gli direi di occuparsi di altre cose, soprattutto di altre cose insieme alla politica. Questa è una delle ragioni per cui mi attira lo spettacolo e mi attira proprio come curiosità, dal momento che il mio è stato un rapporto limitato.

Dicono che il collettivismo è finito, che c’è un ritorno dell’individuo. Io ho sempre parlato di un individuo che non è solo: devo pensare l’individuo perché lo penso sociale, altrimenti non lo potrei pensare nemmeno come individuo, perché chiuso in se stesso egli è un’immagine vuota.

Le immagini del passato mostrano anche grandi cortei, dimostrazioni di forza del sindacato con centinaia di migliaia di persone. Io non credo più tanto in queste forme di lotta, ma non voglio condannarle con sufficienza: ho una certa età e rispetto il mio passato, anche quando dubito che possa essere riproposto oggi. Mi sento comunque di indicare un obiettivo per il futuro: lavorare per l’unità. Lavorare per l’unità sapendo di essere diversi senza pretendere di essere uguali e rispettando le differenze che stanno alla base del progresso umano.

Da giovane mi sono occupato del movimento di lotta popolare dei «fasci siciliani» del 1890: è stato importante studiarlo. Era il tentativo di un nuovo socialismo, un socialismo differenziato in cui protagonista non era più soltanto la classe, ma tutti, e ognuno trovava in se stesso una ragione conviviale della propria vita, qualunque cosa facesse. È stata un’esperienza breve, stroncata con la violenza perché era una grande esperienza di libertà…

La memoria è selettiva. Oggi è spesso sanzionatoria, al servizio della politica. Di fronte a un guasto morale, civile, sociale, la cosa più importante è il riconoscimento: il guasto va riconosciuto perché se non lo si riconosce colpisce due volte. È riconoscimento quello che chiedeva Gandhi e quello chiesto nei processi all’apartheid in Sudafrica, che ha permesso la riconciliazione di Nelson Mandela. Anche in Ruanda, mi ricorda mia figlia Bettina, sul genocidio dei tutsi da parte degli hutu il processo di riconoscimento va rafforzato, e nei casi in cui il contesto politico è sfavorevole alle vittime, si pensi alla Bosnia e in particolare a Srebrenica, il riconoscimento è ancora più difficile.

Anche nel nostro passato di italiani ci sono cose che non vanno: quando il governo italiano ha riconosciuto per la prima volta che, durante la guerra fascista del 1936, abbiamo lanciato gas sui contadini etiopi, la notizia ha creato sollievo nel mondo etiope. Ma perché sollievo? Perché riconoscere il male che si è fatto è davvero importante. E immaginiamo quante cose si devono ancora riconoscere…

La memoria aiuta a pensare e io credo che si debba pensare. Si deve pensare ai propri passi e chiedersi: perché li faccio? come mi muovo? come si muovono i miei simili, i miei amici e anche i miei avversari? La memoria stimola a pensare e aiuta a porre domande, e le domande sono la cosa più importante. La domanda sul futuro che mi faccio continuamente è provocata anche dalla memoria: quando avevo vent’anni se mi avessero chiesto come mi immaginavo gli esseri umani mille anni dopo, mi sarei divertito con la fantasia scientifica e con la fantasia storica a proiettare sul futuro i cambiamenti che mi stavano alle spalle, che stavano nei miei ricordi personali e nella memoria storica.

Per un giovane di oggi quella domanda è impossibile: chiedere oggi come sarà l’essere umano fra mille anni non ha più alcun senso.




Pubblicato il: 15.01.08
Modificato il: 15.01.08 alle ore 13.50   
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 21, 2008, 12:52:59 am »

Dal carcere fascista, alla Resistenza, all'impegno politico

Quando malato disse: "Non vi vedo ma mi date la speranza"

Politica, rigore e indipendenza


Vittorio Foa


ROMA - Una vita a sinistra, della quale può essere definito uno dei padri più nobili. Passando per la politica, il sindacato, il giornalismo. Una vita lunghissima, 98 anni, durante i quali Vittorio Foa ha attraversato le fasi cruciali della storia della Repubblica. A partire dal fascismo, di cui conobbe le carceri, alla lotta per la Liberazione. Ed ancora l'impegno politico e sindacale. Una voce libera. Mai conforme, sempre fuori dalle rigide regole di partito.

Nato a Torino, Foa entrò nel 1933 in Giustizia e Libertà. Era il tempo del fascismo e a soli 25 anni venne arrestato e denunciato dal tribunale speciale, che lo condannò a 15 anni di reclusione. Uscito da carcere nel 1943 divenne segretario del Partito d'azione e fece parte del comitato di Liberazione Nazionale prendendo parte alla Resistenza.

Dopo la fine della guerra conobbe l'esperienza parlamentare. Fu eletto deputato per il Partito d'Azione nel 1946, per poi passare nel Partito socialista di cui fu dirigente nazionale e, per tre legislature (1953-1968), deputato.

L'impegno politico di Foa non dimenticò il sindacato. Nel 1948 entrò nella FIOM nazionale di cui nel 1955 fu segretario. Teorizzava la linea politica dell'autonomia operaia, e la mise nero su bianco nell'editoriale del primo numero della rivista di Raniero Panzieri, Quaderni rossi, legata a quest'area.

Nel 1964 abbandonò i socialisti e diede vita al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (Psiup). E' il momento in cui alla politica si somma il giornalismo. A partire dal Manifesto, con cui collaborò dal 1966 al 1968. Nel 1970 fece la scelta di ritirarsi a vita privata, ma fu una decisione momentanea. Dopo la sconfitta elettorale del Psiup, nel 1972 tentò l'esperienza del 'Nuovo Psiup'. Nacque poi il partito di unità proletaria, di cui divenne dirigente nazionale. La tesi di Foa partiva dal presupposto che fosse necessario creare una forza politica in grado di orientare i gruppi rivoluzionari verso una prospettiva di "governo delle sinistre" distogliendole da una prospettiva violenta. Sempre col PdUP, nel 1976, prese parte alla promozione della lista unica della nuova sinistra, Democrazia Proletaria.

In seguito Foa decise, nuovamente, di allontanarsi dalla vita politica. Nel gennaio 1980 promise di non parlare né scrivere più di politica per almeno quattro anni. E così si dedicò all'insegnamento universitario a Modena e Torino.

Il 15 giugno 1987 venne eletto senatore come indipendente nelle liste del PCI, dove rimase anche quando ci fu la trasformazione in Pds. Nel 1992 abbandonò, definitivamente, la politica attiva per dedicarsi alla stesura di alcuni libri, in gran parte autobiografici.

Una delle sue ultime immagini pubbliche sono quelle del palco di piazza San Giovanni a Roma il 14 settembre 2002, alla manifestazione dei "girotondi". L'ultranovantenne Foa, già malato, con una frase a effetto ("Non vi vedo, ma vi sento. Voi mi date speranza") rivendicò la necessità di "esserci" ancora. Sempre a sinistra.

(20 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 21, 2008, 12:53:54 am »

Aveva 98 anni, si è spento nella sua abitazione a Formia

Napolitano: "Per lui un posto d'onore nella storia d'Italia"

E' morto Vittorio Foa voce inquieta della sinistra

Veltroni: "Immenso dolore, uno dei figli migliori del Paese"

Fini: "Un padre della democrazia italiana, luminosa figura"



 ROMA - E' morto a 98 anni Vittorio Foa, politico, scrittore e giornalista. Dagli esordi in Giustizia e Libertà negli anni Trenta, passando per la Resistenza, per la Costituente, la militanza nel Psi, nella Cgil, nel Psiup, la vicinanza al Pci come indipendente, Foa ha attraversato l'intera storia del movimento operaio e della sinistra italiana. A dare la notizia della scomparsa, d'intesa con la famiglia, è stato il segretario del Pd, Walter Veltroni. In una nota, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, lo ricorda "senza alcun dubbio" come "una delle figure di maggiore integrità e spessore intellettuale e morale della politica e del sindacalismo italiano del Novecento".

Il capo dello Stato ricorda anche "la sua dedizione alla causa della libertà, la partecipazione alla Resistenza, l'impegno nell'Assemblea Costituente e nel Parlamento repubblicano, la piena identificazione, da combattivo dirigente della Cgil e da studioso, con il mondo del lavoro", caratteristiche che "gli hanno garantito un posto d'onore nella storia dell'italia repubblicana". Vittorio Foa è morto a Formia, in provincia di Latina, dove si era trasferito nel 1989 ma dove già aveva, da anni, una casa in campagna (per la precisione a Castelforte). Come da sua volontà, sarà cremato e le ceneri saranno deposte nella città pontina.

Esprime "profondo dolore" il presidente della Camera Gianfranco Fini: "Una luminosa figura della storia della Repubblica, un padre della democrazia italiana che ha onorato le istituzioni con la meritoria opera politica e con il lucido lavoro intellettuale, uniti al grande rigore morale e alla ferma coerenza personale. Sono convinto- continua Fini - che la sua lezione di libertà resterà nella memoria degli italiani come esempio di attaccamento alla Costituzione e ai valori che sono in essa custoditi".

"E' un immenso dolore per noi, per il popolo italiano - dice Veltroni - per gli italiani che credono nei valori di democrazia e libertà, per l'Italia che lavora, per il sindacato, a cui Vittorio Foa ha dedicato la parte più importante della sua vita". Ma anche "un dolore personale" perché "Foa incarnava ai miei occhi il modello del militante della democrazia, con una meravigliosa storia di sofferenza, lotta e speranza, un uomo della sinistra e della democrazia mosso da un ottimismo contagioso e da un elevatissimo disinteresse personale. Penso che tutto il Paese senta Vittorio Foa come uno dei suoi figli migliori". "Un uomo - ha aggiunto Massimo D'Alema - la cui vita è stata tutta una testimonianza dei valori e degli ideali della sinistra democratica".

A Veltroni e D'Alema fa eco il vicepresidente del Senato, Vannino Chiti: "A Foa abbiamo guardato come a un esempio luminoso, alla sua lucidità di pensiero, alla sua vita esemplare colma di battaglie in difesa della democrazia e della pace, dei valori fondanti della Repubblica e della Costituzione, del lavoro e della giustizia sociale". "Cordoglio e tristezza", a nome delle senatrici e dei senatori del gruppo del Pd, anche da parte di Anna Finocchiaro, che ricorda Foa come "una voce che non ha mai mancato di difendere il rispetto dei diritti fondamentali". Un minuto di silenzio è stato osservato durante la seduta del Consiglio regionale del Lazio. Mentre il presidente della Regione, Piero Marrazzo, sottolinea che "i grandi valori democratici dell'Italia repubblicana restano orfani di uno dei loro testimoni più autentici". E il sindaco di Roma, Gianni Alemanno: "Scompare un combattente generoso, colto e intelligente".
 
"Abbiamo respirato a ogni incontro, a ogni lettura tanta libertà e un'intelligenza politica acuta e carica di futuro - dice Fausto Bertinotti - un futuro che ha amato sempre perché mai ha rinunciato a costruirlo. Sarà impossibile dimenticarlo". Cordoglio anche da Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica di Roma, che proprio quest'anno aveva conferito a Foa l'iscrizione onoraria.

"Un giorno di lutto per l'Italia - afferma il ministro per l'Attuazione del programma Gianfranco Rotondi - se ne va uno degli uomini che hanno segnato la storia culturale della sinistra. Che resta orfana di un grande pensatore e di un punto di riferimento fondamentale". Per Fabrizio Cicchitto, presidente dei deputati del Pdl, "scompare una personalità straordinaria, di notevole intelligenza e grande fascino". "Ha offerto a noi e alle generazioni future una testimonianza preziosa e un esempio altissimo di valore umano e civile", aggiunge il presidente del Senato, Renato Schifani.

"Un vuoto enorme nella cultura democratica e riformista del nostro Paese", aggiunge Rosy Bindi. "Scompare l'ultimo di una grande tradizione del sindacalismo italiano - osserva il sindaco di Venezia, Massimo Cacciari - che componeva in sé consapevolezza della specificità del lavoro sindacale, competenze economiche e organizzative di alto livello, con ampia visione politica e culturale".

Autore di numerosi libri (fra gli altri, Il cavallo e la torre, Questo Novecento, Il silenzio dei comunisti - con Miriam Mafai e Alfredo Reichlin -, Il sogno di una destra normale - con Furio Colombo -, Lettere della giovinezza, Sulla curiosità), Foa aveva pubblicato di recente (lo scorso gennaio) per Einaudi Le parole della politica, scritto insieme a Federica Montevecchi. "Forse - sosteneva nel saggio - il degrado della politica e delle sue parole sta proprio nell'agire pensando di essere soli e nel pensare solo a se stessi". Un lavoro dalla lunga gestazione, ma che conteneva l'obiettivo "ambizioso" di analizzare i motivi di "questo degrado e, se possibile, di indicare una via d'uscita". A prevalere era una commistione tra memoria e politica, filo conduttore che ha caratterizzato quasi tutta l'opera di un grande uomo del secolo scorso.

(20 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 21, 2008, 12:55:16 am »

20/10/2008 (15:44) -


Vittorio Foa, voce critica e alta della sinistra italiana
 

ROMA
Nato il 18 settembre 1910 a Torino da una famiglia di origine ebraica, Vittorio Foa nel 1931 si laurea in Giurisprudenza e nel 1933 entra nel movimento di Giustizia e Libertà. Inizia così un periodo di attiva cospirazione e di forte impegno politico contro il regime fascista. Il 15 maggio 1935, all’età di 25 anni, viene arrestato su segnalazione di un confidente dell’Ovra (la polizia segreta fascista) e denunciato al Tribunale Speciale che lo condanna a 15 anni di reclusione, che sconterà nel carcere di Civitavecchia, assieme ad Ernesto Rossi, Enrico Bauer e Massimo Mila. Esce dal carcere il 23 agosto 1943, all’età di 33 anni. Il governo Mussolini era caduto il 25 luglio, ma solo dopo gli scioperi di Milano e Torino e le pressioni dei partiti antifascisti, il maresciallo Badoglio si decide a liberare Foa e i suoi compagni.

Dal settembre del 1943, raggiunta la libertà, partecipa attivamente alla Resistenza come dirigente del neonato Partito d’Azione. Il 2 giugno 1946 viene eletto deputato all’Assemblea Costituente e diventa membro della «Commissione dei 70». Gli art. 39 e 40 della Costituzione, che riguardano la libertà e organizzazione sindacale e il diritto di sciopero, in aperta antitesi con i valori fascisti, sono anche opera sua. Nel 1948 entra nella Cgil con incarichi di direzione dell’ufficio economico. Nel 1953 viene eletto deputato nelle liste del Partito Socialista: sarà confermato a tale carica altre due volte (1958 e 1963). Nel 1955 diventa segretario nazionale della Fiom e nel 1957 entra nella segreteria nazionale della Cgil: sarà un dirigente sindacale di lungo corso e molto ascoltato, sia nelle vesti di «massimalista» che di «riformista».

Nel 1964 partecipa alla prima scissione «da sinistra» del Psi e diventa uno dei principali animatori, con Lelio Basso, del partito che da quella scissione nasce, il Pspiup, che abbandona alla fine degli anni Sessanta per buttarsi nella fondazione di una nuova formazione politica questa volta a sinistra del Pci, il Pdup, ma parteciperà poi anche alla nascita della Nuova sinistra unita. Ambiti diversi e lontani tra loro e una capacità «libertaria» di cambiare punto di vista fuori dalle logiche di partito, stante che l’antifascismo e il socialismo saranno sempre, per Foa, un modo di pensare, agire, vivere. Un itinerario, dunque, che appare ondivago e apparentemente incoerente, ma permette a Foa di essere in prima fila nel cuore della storia recente: dalle lotte operaie del boom economico al 1968, dai movimenti della nuova sinistra post-sessantottina alla condivisione della «svolta» del Pci e alla vicinanza con Pds e Ds prima e con l’Ulivo poi, Foa si schiera sempre con ciò che ha le sembianze dell’innovazione. La curiosità, in lui, diventa metodologia politica e perfino esistenziale. Ma alla fine degli anni Settanta decide di lasciare gli incarichi sindacali e politici per tornare agli studi e alla libertà della ricerca: insegna Storia Contemporanea nelle Università di Modena e di Torino, studiando la storia e le lotte movimento operaio in numerosi volumi. Sono gli «anni del silenzio».

Alla fine degli anni Ottanta Foa torna a partecipare attivamente alle discussioni in atto nella sinistra italiana che sfociano nella «svolta» di Achille Occhetto del 1989 che segna la fine del Pci e la nascita del Pds. Il Pci si divide e Foa, che comunista non è mai stato (anzi: era sempre stato in polemica con il Pci), viene eletto senatore nelle fila del Pci-Pds (1987-1992). Da allora si ritira a vivere a Formia (Latina), con la sua compagna Sesa Tatò, che ha condiviso con lui tutta una vita. Una delle sue ultime immagini pubbliche sono quelle del palco di piazza San Giovanni a Roma il 14 settembre 2002, alla manifestazione dei «girotondi». L’ultranovantenne Foa, con una frase a effetto («Non vi vedo, ma vi sento. Voi mi date speranza») afferma la necessità di «esserci» ancora, nonostante i problemi alla vista. Anche all’ultimo congresso di Pesaro dei Ds (2002) e alla convention di nascita della lista unitaria (2004) i videomessaggi di saluto di Foa commuovono e fanno pensare, oltre a suscitare entusiasmo, non solo in quanto testimone di un secolo e decano della politica ma perché forte di una curiosità laica e intellettuale che gli ha sempre permesso di mettersi in ascolto e cercare di capire il nuovo, non contrapponendovi né la propria formazione politica d’altri tempi né un’ideologia inflessibile.

Da questa versatilità e acutezza derivano le sue originali annotazioni su Internet, sulla modernità della scienza che può arrivare a modificare l’uomo, sul bisogno incessante di comunicare con gli altri per capire e cambiare se stessi. Foa ha pubblicato, tra l’altro, presso Einaudi, Il Cavallo e la Torre. Riflessioni di una vita (1991), Questo Novecento (1996), Lettere della giovinezza (1998), Il tempo del sapere. Domande e risposte sul lavoro che cambia (con A. Ranieri, 2000), Passaggi (2000), Il silenzio dei comunisti (2002). L’ultima sua opera è La memoria è lunga (Einaudi, 2003), libro di 80 pagine e video di 50 minuti. Nei suoi scritti recenti Foa si arrovella sull’interrogativo «Perché la destra ha vinto le elezioni?», ricorda in modo nitido e commosso gli amici Norberto Bobbio, Massimo Mila, Ernesto Rossi e molti altri, spiega perché l’unità in politica deve sempre concepirsi tra diversi e mai come appiattimento, ha lo sguardo costantemente rivolto al futuro e alla contaminazione con diversi punti di vista, oppone il rifiuto etico a una visione della politica ridotta a contrattazione privata, riflette sulla pericolosa irrilevanza del linguaggio che diventa disimpegno etico. In Un dialogo (Feltrinelli), libro-conversazione con lo storico Carlo Ginzburg (2003), s’interroga sui rapporti tra socialisti, militanti del Partito d’azione e Pci evidenziando un eccesso di silenzio benevolo nei confronti dei rapporti tra il partito di Togliatti e l’Unione sovietica. Silenzio che ha riguardato lui stesso, facendo prevalere le ragioni dell’unità sulla necessità della denuncia. Parole che indagano e fanno discutere, le sue, come dimostra questa rassegna tratta da alcuni dei suoi scritti più recenti e autobiografici.

da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Ottobre 21, 2008, 11:27:30 am »

21/10/2008
 
La memoria lunga
 

 
WALTER VELTRONI
 
Un suo piccolo libro di pochi anni fa, che ricordo di aver presentato con lui in un’affollata e festosa serata a Formia, aveva come titolo Sulla curiosità. Era contenuto in un cofanetto Einaudi, insieme con un video pieno di parole e di immagini emozionanti, intitolato La memoria è lunga.

Ecco, pensare a Vittorio Foa, anche oggi che è un giorno di tristezza e di dolore, a me fa venire in mente soprattutto questo. La memoria, che per lui era la condizione essenziale per la comprensione del presente.

La memoria delle vicende di questo nostro Paese, che Foa esprimeva e incarnava con una vita straordinaria, arrivata ad attraversare tutto un secolo. E in che modo. L’antifascismo, cresciuto dal momento in cui, ragazzino, vede negli occhi degli operai di Borgo San Paolo, nella sua Torino, l’angoscia di chi all’indomani delle elezioni del ’24 sente che sta perdendo la democrazia. «Giustizia e Libertà» e gli otto anni di carcere insieme con Mila, Bauer ed Ernesto Rossi, perché «per difendere la libertà bisogna anche saperla perdere». La Resistenza, la scelta di chi decide «di non lasciarsi vivere, di non pensare alla vita come una chiusura in se stessi». Il Partito d’Azione e l’Assemblea Costituente, quando «non c’era contraddizione fra l’essere appassionatamente di parte e l’essere capaci di trovare un’intesa al di sopra delle parti». La Cgil, il sindacato, un’altra scelta di vita raccontata con parole da conservare: «Quando si è in una stretta, in una fase di crisi e di cambiamento - dice Foa - bisogna rispondere allargando la democrazia e la partecipazione, questo è il principio per cui ho amato lavorare in un’organizzazione come il sindacato che questo richiedeva». La politica, vissuta sempre dalla stessa parte, a sinistra, da uomo della democrazia coerente e insieme pronto a scrutare il nuovo, a cercare, a cambiare. Preferendo ai vincoli della routine, alla linearità scacchistica del movimento delle torri, l’imprevedibilità della «mossa del cavallo», come ha voluto intitolare la sua autobiografia.

La curiosità, appunto. Un’incredibile, continua e creativa curiosità. Non c’era lido raggiunto che non meritasse di essere lasciato per cercare ancora. «Sono importanti non le risposte, ma le domande», sosteneva sorridendo. Anche l’ultima volta che l’ho visto, il mese scorso, l’ho trovato così. Stanco, certo. Sprofondato nella sua poltrona nell’angolo studio vicino alla grande cucina della casa di Formia, i due bastoni vicino a sé e la vista affaticata che ormai gli consentiva di leggere i suoi libri e i suoi tre quotidiani al giorno solo grazie agli occhi e all’amore paziente di Sesa. Il sorriso era però quello di sempre. Aperto, come aperto Vittorio era di fronte alla vita. Ottimista, carico di speranza e di fiducia. A un certo punto del nostro colloquio mi ha detto, riferendosi a un altro suo libro, Questo Novecento: «Sto scrivendo la prefazione per la nuova edizione, è pessimista». Non dalla mia espressione, ma evidentemente dall’esitazione della mia voce, deve essersi accorto di aver creato in me una certa sorpresa. Vittorio cupo e sfiduciato? E allora mi ha detto: «No, no, forse non ci siamo capiti, pessimista sul passato e ottimista sul futuro».

I problemi li avvertiva bene. Esperienza e saggezza, attenzione instancabile alle cose del mondo, facevano sì che li comprendesse perfettamente.
Basti pensare a un’intervista di qualche mese fa e al suo dirsi preoccupato per l’Italia e per la Costituzione, che sentiva, per aver contribuito a scriverla, «un po’ anche figlia mia». Sulle preoccupazioni, però, aveva la meglio la speranza. Verso le nuove generazioni, le possibilità dei giovani, le loro idee. Anche su una creatura che poco più di un anno fa stava per nascere, Foa aveva riposto fiducia. Il 14 ottobre del 2007 volle a tutti i costi prendere parte alle primarie del Pd, e anche nei mesi successivi mi fece sempre sentire la sua vicinanza. Durante la campagna elettorale e dopo il voto, con parole di affetto e di esortazione a continuare sulla strada intrapresa che porterò con me.

Oggi è un giorno di tristezza e di dolore. Ma il conforto viene dal fatto che Vittorio Foa ha vissuto una vita piena come pochissimi altri, e viene anche dai pensieri, dalle parole e dall’esempio («esempio», un vocabolo che lui credeva prezioso e da recuperare, per animare una buona politica) che ci lascia. L’esempio di un uomo che a chi gli chiedeva con quale termine avrebbe voluto essere ricordato rispondeva sorridendo e senza esitare: «partecipazione».

Spiegando: «L’autonomia ha sempre significato per me partecipare alla trasformazione, voler cambiare la società, senza aspettare che il problema venga risolto da qualcun altro». È per questo, e per molto altro ancora, che Vittorio Foa nel tempo a venire sarà ancora con noi, con chi ha a cuore i valori della libertà, della giustizia sociale, della democrazia.
 
da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Ottobre 21, 2008, 11:36:30 am »

Vittorio FOA

1. Gobetti e Rosselli

Prima del mio arresto ho scritto per i "Quaderni di Giustizia e Libertà" quattro saggi piuttosto discutibili: ero molto giovane e quegli articoli non dicevano niente di importante. Importanti sono invece due saggi di Leone Ginzburg e di Carlo Levi in cui vengono attribuite a Gobetti idee, che in realtà nei suoi libri non c'erano. Di recente, quando ho riletto le opere di Gobetti, ho trovato straordinarie le cose che Carlo Levi è riuscito a fargli dire. Per esempio le cose che Carlo Levi ha scritto sul fascismo erano bellissime, ma non tutte venivano da Gobetti. Prendi l'idea del fascismo come delega totale: se la democrazia è un sistema fondato sulla rappresentanza, che implica una delega a governare, il fascismo è un sistema di delega totale e definitiva, ossia, paradossalmente, è una forma estrema di democrazia. L'idea che Levi si faceva del fascismo era una sorta di estensione della critica, durissima, che rivolgeva alla democrazia rappresentativa e che era fortemente influenzata dal pensiero di Mosca.
Ho detto Gobetti, ma penso anche a Rosselli: i contributi di pensiero di Levi e di Ginzburg erano, a mio avviso, anche più interessanti di quelli di Rosselli e dei fuoriusciti. A Torino si viveva in una solitudine che favoriva la riflessione e permetteva di non restare prigionieri dell'immediatezza della politica. Non si doveva persuadere nessuno né si era costretti ribadire la propria identità. Rosselli, invece, come leader di un gruppo politico in polemica con altri gruppi antifascisti e in lotta contro il fascismo, doveva continuamente tener conto dei risultati della sua propaganda, dell'eco che le sue parole potevano avere.
Nel mio ultimo libro, Passaggi, mi sono posto il problema della parola in politica, leganto al tema dell'ascolto. In politica chi parla non dialoga mai davvero, perché deve innanzi tutto adoperare parole che in qualche modo possano certificare la sua identità. Se voglio dimostrare di essere socialista, devo usare parole dalle quali l'ascoltatore mi possa riconoscere come tale. La mia idea è che sia necessario, invece, in politica parlare ascoltando. Ho sempre pensato al silenzio forzato dell'antifascismo in Italia come a una situazione privilegiata rispetto a quella degli emigrati. I fuoriusciti dovevano testimoniare continuamente chi erano, che cosa facevano, che cosa avevano fatto. C'era in loro, inevitabilmente, uno spirito di emulazione, di competizione con gli altri. In noi no: noi torinesi mandavamo all'estero scritti nei quali cercavamo di riflettere su quel che era l'Italia, punto e basta. Ed è questo che probabilmente d'Orsi non ha capito, o non ha voluto capire… D'Orsi sostiene che gli intellettuali antifascisti torinesi erano in qualche modo condizionati dal fascismo e che, per opportunismo scendevano a mille compromessi. Ma i grandi quadri del periodo lucano Levi li ha fatti quando era confinato. Era un opportunista? La sua arte era condizionata dal fascismo? Lo era il nostro pensiero, i nostri comportamenti? No davvero. La verità è che, semplicemente, noi avevamo una percezione del fascismo dal di dentro, non esterna, non meramente ideologica come i fuorusciti. Ma D'Orsi è convinto che i comunisti fossero in Italia gli unici veri antagonisti del fascismo e cerca di dimostrare che gobettiani e giellisti erano politici improvvisati e antifascisti "per caso".
C'era una marcata differenza fra Levi e Ginzburg. Ginzburg era fondamentalmente un grande filologo, dotato di una straordinaria capacità pedagogica, di una cultura vastissima e di forte recettività. Levi, invece, inventava: inventava quando dipingeva e inventava quando faceva politica e, in entrambe i casi, lo faceva molto bene. Ha inventato una tesi politica, la tesi dell'autonomia, che poi ha attribuito a Gobetti, ma che, a mio avviso, in Gobetti non c'è, ed era tutta sua. Le idee di Levi sull'autonomia, alle quali ho aderito con molta convinzione, sono lì, negli articoli sui "Quaderni di Giustizia e Libertà".
Rientrano nella tradizione consigliare la cui forza di suggestione sta nell'immaginare la trasformazione della società come incorporata nell'atto stesso, non separata dall'azione rivoluzionaria. La democrazia diretta è questa cosa qui: può assumere forme particolari, per esempio quella della revocabilità da parte dei rappresentati della delega concessa ai rappresentanti, ma nell'essenza è tutta qui. L'autonomia di Levi è poi concepita in un contesto di tipo federativo: a questo riguardo ci sono nei "Quaderni" molti articoli, alcuni dei quali derivavano da Cattaneo ma altri da Silvio Trentin socialista e, appunto, teorico del federalismo, che vedeva il socialismo non come gestione statale della ridistribuzione sociale, ma come creazione autonoma del mondo del lavoro, come sistema di autonomie locali.
Per noi di GL l'autonomia era anche autonomia operaia, intesa come risposta al potere padronale da parte degli operai, che doveva nascere lì, nella fabbrica, dove c'era l'organizzazione dell'autorità. Credo però che questa linea non sia né gobettiana , né genericamente azionista, ma sia molto azionista piemontese, anzi, torinese e prevalentemente un prodotto di Carlo Levi. Bisognerebbe vedere se è realmente così e in che modo Ginzburg accoglie queste idee, se Lussu e gli altri fanno altrettanto. Nei "Quaderni" le posizioni più interessanti sono quelle dei piemontesi, e tra queste meriterebbero attenzione quelle di Mario Levi, fratello di Natalia Ginzburg.
In Gobetti la rivoluzione aveva come punto di forza la classe operaia. Ma credo che i consigli rappresentassero per lui proprio quello che rappresentavano per Gramsci e per l'"Ordine Nuovo" nel 1919: non una espressione di autonomia operaia, ma uno strumento per costruire il Partito Comunista.
È un discorso un po' complicato. Ho dedicato alla questione dei consigli un libro, La Gerusalemme Rimandata, che fra tutti mi è più caro. Quando, negli anni '70, lavoravo a questo libro, mi sono accorto di diverse cose, tra cui, appunto, del fatto che il movimento consigliare dell'"Ordine Nuovo" non era legato tanto all'idea di autonomia, quanto alla volontà di rompere con il socialismo. Lenin aveva detto che bisognava far fuori il partito socialista e il movimento consigliare poteva essere il modo di farlo. Non è un caso che, durante l'occupazione delle fabbriche, nella sezione centro della Fiat, il segretario del consiglio delle commissioni interne, Giovanni Parodi, con il quale, poi, io ho lavorato a Roma, aveva dato vita a un movimento consigliare il cui unico obbiettivo che era la scissione del partito socialista e la nascita del partito comunista.
Se uno riprende gli scritti di Gobetti, vede che la sua linea era molto simile a quella dei comunisti del 1919. Piglia il Paradosso dello Spirito Russo che Ginzburg recensisce nei "Quaderni". Gobetti faceva ripetutamente riferimento al pensiero religioso e in questa luce esaltava l'esperienza bolscevica, che per Gobetti era ancora principalmente quella del comunismo trotskijsta. Io ho esaminato attentamente gli articoli di Gobetti sui consigli: sono presi quasi alla lettera dall'"Ordine Nuovo" e alla base dell'esperienza dell'"Ordine Nuovo" non c'era l'idea dell'autonomia delle masse, c'era l'idea del partito. I partiti comunisti si sono formati sulle esperienze consigliari, che, anche se piene di contraddizioni, erano esperienze di autonomia forti. Però c'era da subito l'idea di far partito. E l'ultimo Gobetti era comunista e basta.
Assieme all'idea che bisognasse rompere con la tradizione socialista, nell'esperienza consigliare c'era anche l'idea che la classe operaia si fosse ormai impadronita della cultura del padrone e fosse tecnicamente capace di gestire la fabbrica tanto quanto il padrone. Non c'era però l'idea di una cultura specificamente operaia, non c'era l'idea che nell'azione della classe operaia potesse già esserci la nuova società. Se uno va a rivedere gli scritti riguardanti le occupazioni del 1920, in tutte le città dove queste avvengono, le posizioni dei comunisti si attestano sempre sulla rivendicazione del sapere padronale e non del sapere operaio. Questi consigli operai li ho studiati in particolare per l'Inghilterra, nel Clyde e a Glasgow nel 1915, nell'Inghilterra settentrionale nel 1917, e mi sono formato la convinzione che il fallimento dell'autonomismo consigliare fosse dovuto proprio alla mancata rottura con il sapere padronale.
Li ho visti come tentativo di far nascere una politica dalla stessa condizione operaia, una politica, dunque, che non calasse dall'alto, ma che venisse dal basso, dalle contraddizioni interne della classe operaia e come coscienza di queste contraddizioni, che è la condizione per risolverle. Però dopo il 1917 il movimento consigliare è stato assorbito da una idea più elementare: quella che la rivoluzione in Occidente fosse impossibile e che il solo modo per salvaguardarla fosse difendere il primo stato rivoluzionario, la Russia.
I comunisti guardavano al movimento dei consigli non come a un moto di autonomia, ma come occasione di rottura con la tradizione socialista e in particolare con il determinismo storico, proprio di quella tradizione, che ipotizzava nella storia tante fasi successive, dove il passaggio alla fase più avanzata era possibile solo quando la precedente fosse sufficientemente matura. La cultura del primo '900 aveva rifiutato il determinismo. L'attivismo, il volontarismo suggerivano che le cose si potessero fare anche subito, senza rispettare rigide gradualità, saltando, se necessario, le tappe intermedie.
Queste cose noi, giellisti e azionisti, le abbiamo apprese anche attraverso Gobetti. E avevamo simpatia per i comunisti, nonostante il loro autoritarismo, proprio perché anche noi eravamo contro il determinismo storico. Bisogna fare delle cose? la rivoluzione? il socialismo? be' si fanno!
L'influenza di Gobetti a Torino è stata molto forte. Ma quanto ai suoi effetti mi sono venuti dei dubbi, che mi hanno anche creato qualche problema con i giovani gobettiani di Torino. Noi abbiamo preso da Gobetti alcune cose. Tra queste c'è l'intransigenza, quella che lui cercava in Vittorio Alfieri e che ha sempre praticato nella sua vita di scrittore, di giornalista e di editore. Gobetti è stato un grande editore e anche nel suo modo di fare l'editore invitava a parlare e a esprimersi in un continuo richiamo alla libertà e ai doveri che la libertà pone. Noi sentivamo fortemente il suo disprezzo per l'opportunismo e la piccineria, e penso, ad esempio, che questo abbia avuto una grossa influenza su di me personalmente. Noi questo disprezzo lo avevamo interiorizzato ed è diventato l'imperativo di salvaguardare la "dignità del ruolo". Il nostro ruolo di oppositori era la testimonianza, che richiedeva una certa dignità, l'impossibilità di dire e fare cose meschine o volgari.
Nelle mie lettere dal carcere c'è una vicenda, per la quale mi arrabbiai moltissimo: una ragazzina aveva fatto per me una domanda di grazia al Duce. Io ignoravo del tutto la cosa, anche perché con quella ragazzina non avevo alcun rapporto. La domanda mi venne portata dall'Ovra in cella: quando lessi quel foglio, ci scrissi sopra un bel no, sottolineandolo tre volte. Nei documenti dell'Ovra è detto che il condannato ha rifiutato di aderire alla domanda. Ecco: questo rifiuto deve molto all'esempio gobettiano.
L'essere antifascisti, però, allora, presentava davvero il rischio di farsi determinare dal fascismo, nel senso che se io dico semplicemente di no, finisco con l'essere determinato da ciò che nego. Ed è appunto quello che accadeva all'antifascismo propagandistico. Quando abbandonavamo il facile linguaggio della propaganda, capivamo che, ci piacesse o meno, nel fascismo c'era lo Stato italiano e che quindi non potevamo disfarcene semplicemente negandolo. Dovevamo sforzarci di vedere che cosa era in sé il fascismo, non solo quello di cui il fascismo era la negazione. Allora, l'essere antifascisti voleva dire esserlo criticamente, significava capire i risvolti "attivi" e "affermativi" che c'erano nel fascismo e nel paese che si era evoluto in senso fascista, senza illuderci che il fascismo si fosse semplicemente imposto e sovrapposto ad una presunta anima democratica dell'Italia.
La scelta di campo antifascista ti coinvolgeva al punto che alle volte avevi il timore di essere intellettualmente zoppo, incapace di analisi critica, perché il coinvolgimento morale e politico era troppo assorbente rispetto a ogni altra cosa. Io ho provato spesso questo timore. Invece, se penso a Levi e a Ginzburg, che erano intransigenti quanto me, non vedo nulla di cieco o di acritico nella loro intransigenza.
Da Gobetti oltre all'intransigenza, abbiamo preso altre due cose che, però, alla lunga avrebbero segnato la nostra sconfitta politica. Una era la convinzione che il socialismo storico fosse morto. Noi abbiamo creduto che fra riformisti, rivoluzionari e massimalisti quella esperienza fosse finita. In Gobetti era fortissima la convinzione, che oggi viene tenuta un po' in ombra dai suoi storici, che l'unico vero socialismo fosse il comunismo sovietico. L'altra cosa che abbiamo preso da lui era la critica radicale della democrazia politica, che noi sapevamo essere l'unica accettabile via di uscita dal fascismo e l'unico modo di creare qualcosa di decente in Italia, ma di cui percepivamo tutti i limiti. In Gobetti il disprezzo per la democrazia parlamentare era molto forte e noi lo abbiamo bevuto tutto. Era una posizione che, come ho già detto, veniva in parte dal pensiero di Mosca, che, appunto, con la critica alla democrazia e con la teoria delle élites aveva detto delle cose straordinariamente intelligenti. Le teorie di Mosca hanno avuto però due sviluppi completamente diversi: uno di destra, nel senso di Oriani e del fascismo, ove l'unica alternativa alla democrazia rappresentativa era la forza, l'autoritarismo e l'altro di sinistra, e penso a Gobetti e a Dorso, ove l'alternativa era invece la rivoluzione. L'idea che il fascismo fosse espressione non tanto del grande capitale, quanto della piccola borghesia che riproduce se stessa continuamente in forme diverse, restando sempre la stessa, meschina, chiusa, incapace di solidarietà vera, spingeva Gobetti e Dorso, a sostenere la necessità di una rottura rivoluzionaria. Che cosa poi dovesse contenere questa rivoluzione nessuno, però, l'ha detto.

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« Risposta #6 inserito:: Ottobre 21, 2008, 11:37:46 am »

2. Effetti dell'attivismo giellista


Ecco: noi abbiamo preso queste due cose da Piero Gobetti e su queste due cose noi, ossia il Partito d'Azione, siamo stati sconfitti. Ci siamo dovuti accorgere tra il '43 e il '46 che queste due cose non funzionavano. Abbiamo dovuto prendere atto che il socialismo tradizionale era ben vivo e per una ragione profonda, che noi non riuscivamo a vedere. Vedevamo che i socialisti non erano presenti nelle fabbriche e nel movimento partigiano o che vi erano presenti solo in forza di accordi di vertice, che noi, naturalmente, disprezzavamo e nelle prime elezioni dopo la Liberazione non ci aspettavamo davvero il successo del Partito Socialista. Non capimmo che esso nasceva dalla voglia diffusa, dopo tante sofferenze, di cambiare, sì, qualcosa, ma senza traumi, senza violenza. I socialisti, per la verità, facevano uso di un linguaggio violento, di tipo sovietico, ma la gente non li prendeva sul serio e votò socialista nel '46 - persino la regina Maria Josè votò socialista - perché voleva qualcosa di nuovo, ma in modo pacifico. Noi eravamo alla ricerca di un socialismo autonomo e libertario, intimamente rivoluzionario e siamo stati sconfitti dal riemergere del socialismo tradizionale come fattore di rassicurazione.
L'altro elemento su cui siamo stati gobettiani sino in fondo, e abbiamo perduto, è stato - lo ripeto - il disgusto per la democrazia classica. Disgusto è forse una parola sbagliata. Però… Ho riletto recentemente il Manifesto di Ventotene, quello dei federalisti europei, scritto da Altiero Spinelli e Ernesto Rossi. È tutta una polemica contro la democrazia rappresentativa. L'azionismo è venuto fuori a dire basta con questa roba, bisogna fare qualcosa che venga direttamente dal popolo e che attivi la volontà popolare. Che ci volesse la democrazia rappresentativa l'abbiamo capito, ma, in fondo, la consideravamo un elemento non dico marginale, ma quanto meno da integrare con la democrazia diretta, con l'autonomia operaia, con l'iniziativa dal basso, che sola avrebbe dato alla democrazia un contenuto di liberazione vera, perché la democrazia rappresentativa di per sé non ha contenuti, fornisce, tutt'al più delle garanzie formali. Questa convinzione dell'insufficienza della democrazia rappresentativa l'abbiamo ereditata da Gobetti.
Certo, l'eredità gobettiana era anche un elemento di forza. Sul quale, però, abbiamo perduto. L'intransigenza che abbiamo adottato come insegna ci ha fatto fraintendere dalla gente quando abbiamo dovuto affrontare la costruzione di uno Stato e la formulazione della sua costituzione. Abbiamo creduto per molto tempo, proprio perché eravamo intransigenti, e perché le cose non andavano come avremmo voluto, che fosse in corso una restaurazione. E invece no. Era qualcos'altro, che non era ciò che volevamo noi, ma non era neppure una restaurazione. Era una cosa diversa, nuova. Franco Venturi, uno dei nostri grandi torinesi, diceva che il Termidoro non era stato una restaurazione, ma, piacesse o meno, qualcosa di nuovo. Ho ricordato questa frase nella prefazione degli scritti politici di Venturi. Venturi viveva a Parigi, perché suo padre era emigrato lì, ma era un torinese e ha fatto tutta la Resistenza a Torino, come dirigente del Pd'A. Venturi nel suo realismo, agli insoddisfatti della democrazia parlamentare, che vedevano dappertutto Termidoro (e con Termidoro intendevano la restaurazione) non si stancava di ripetere che stava invece nascendo in Italia qualcosa di nuovo e che quando nasce qualcosa di nuovo, bisogna innanzi tutto cercare di capire che cosa è.
Carlo Levi ha raccontato la nostra sconfitta nell'Orologio, dove ha fatto l'apologia di Parri e ha dipinto me e Spinelli come giovani dirigenti del partito tutti presi dai giochi della politica-tecnica. Fede, quello che veniva dalla prigione, ero io. Dice che Fede viveva nel cielo sacro della prigione, così alto e lontano che non riusciva a vedere il contadino in carne e ossa. In questo un po' mi ci riconosco: quel giudizio l'ho registrato e accettato. Quando sono entrato nel sindacato, ho cercato appunto di riprendere il contatto con la realtà, con la realtà del lavoro proletario. Quando scopro negli uomini esperienze e valori che prima non conoscevo, vengo trascinato dall'entusiasmo. La scoperta del lavoro proletario è stata uno di questi momenti. Ne Il Cavallo e la Torre, ho raccontato che quando sono entrato nella segreteria confederale, e ho cominciato a girare, sono venuto a contatto con settori per me nuovi del lavoro, dai contadini del Piemonte ai coloni del Mezzogiorno e non più soltanto con i metalmeccanici di Torino, a cui si era rivolta la mia prima attività di sindacalista.
Nell'Orologio Levi dice che Fede, cioè io, voleva tutto, ma non sapeva che cosa voleva. In realtà io volevo l'azione, volevo dei fatti. Ero circondato dai poeti. Nell'Orologio Ferruccio Parri è descritto come una figura piena di fascino, così incapace di fare il Presidente del Consiglio da apparire, nelle parole di Levi cariche di amore, un poeta. Allora ho avuto modo di conoscere molto bene Parri e anche a me appariva un poeta. Poi c'era Lussu, questo grande signore sardo, che dava grandi, divertenti sciabolate. Da Don Chisciotte vedeva la vita come una grande battaglia, come un torneo. Poi c'era Dorso, l'erede di Gobetti. Allora era apparso a noi come il grande campione del Mezzogiorno. Era un gobettiano meridionale, che diceva che la piccola borghesia meridionale fregava sempre i contadini e quando sembrava voler fare qualcosa di nuovo, finiva per fregarli nuovamente.
Secondo Dorso si doveva fare la rivoluzione. Io avevo letto di Dorso la Rivoluzione meridionale, nell'edizione di Gobetti del 1924, un bel libro che mi era rimasto impresso. Ma il vero meridionalista era Rossi Doria, che cominciò a dire che esistevano diversi tipi di Mezzogiorno, quello interno e quello costiero, per esempio, e che non si poteva fare la rivoluzione, ma bisognava invece fare delle cose. Il vero azionista meridionale, che voleva fare delle cose, e poi le ha fatte davvero con la Democrazia Cristiana e con i socialisti, era Rossi Doria. Guido Dorso era il poeta, Rossi Doria era il politico, il tecnico.
Dorso lo avevamo fatto responsabile dell'azione meridionalista e fu un fallimento, perché entrò subito in conflitto con altri meridionalisti, anche del nostro partito. Dorso parlava con il suo tono profetico e sottolineava lo schifo della situazione, la necessità della rivoluzione, ma non ricordava mai i contadini: non li aveva ancora scoperti. A un certo punto sia Levi sia Rossi Doria si avvicinarono a Dorso e nelle elezioni del'46 inventarono, su sua richiesta, una lista non di partito, una lista di meridionalisti rivoluzionari, che si presentò a Bari con Pasquale Fiore e a Potenza con Guido Dorso. Gli azionisti di Bari, tra cui Calace, che era stato in prigione per molti anni, accettarono questo tentativo e ci si buttarono con entusiasmo. Anche Levi e Rossi Doria, che erano su posizioni più concrete di Dorso, ci si buttarono con entusiasmo. Fu una sconfitta spaventosa, che parve ancora più grande per le illusioni che ci eravamo fatti vedendo i comizi sempre affollati. Ma la gente, allora, andava a tutti comizi. Una vera sconfitta gobettiana…
Insomma, io, rispetto ai politici-poeti, ero un politico-tecnico. Lo dico con un po' di autoironia, come dire, vi guardo, poeti, vi ammiro, sono in ginocchio, sono un povero diavolo che vive la sua politica-tecnica... È una canzonatura di me, naturalmente, non di loro. Anche perché, poi, chissà, anch'io, forse, ero un po' poeta...

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« Risposta #7 inserito:: Ottobre 21, 2008, 11:38:42 am »

3. Il popolo italiano e il paradigma antifascista


Penso che le scelte politiche che abbiamo fatto allora siano state molto legate al nostro tipo di antifascismo, che era l'antifascismo delle autonomie, l'antifascismo del popolo che si ridesta e viene avanti. Il mio impegno nell'antifascismo è stato fortissimo, ma, come ho detto più volte, non era legato né a una sorta di pessimismo cosmico, né all'idea che l'Italia fosse costituzionalmente malata. Quando Gobetti va a Parigi sottolinea che vuol rompere con l'Italia, che a Parigi non ci va a fare lotta politica, ma cultura europea, il che va benissimo. Però è chiaro che poteva suonare come un segnale di abbandono, come un dire agli italiani, agli antifascisti, fate un po' quel che vi pare, io me ne vado… Gobetti lo dice esplicitamente: la Francia è il luogo dove posso essere quello che sono. In un articolo di un Annuario del 1999 dell'Istituto Einaudi, D'Orsi parla del malfrancese, si intitola Il malfrancese nella cultura torinese. Non è un gran che, ma c'è qualche citazione gobettiana interessante.
Il nostro antifascismo era dettato piuttosto dalla voglia di "risvegliare" gli italiani. Questa immagine del risveglio ci era stata suggerita da Rosselli. L'idea di un Italia costituzionalmente malata è antica e si trova in fondo già in Machiavelli, e c'era nel Gobetti di Carlo Levi È l'idea che l'italiano per natura non ha il coraggio di lottare, di esistere, di affermarsi. Su "Giustizia e Libertà", il settimanale di Parigi, c'è stata una polemica molto interessante al riguardo: si trattava del rapporto tra Risorgimento, fascismo e antifascismo. Alcuni giellisti, soprattutto Nicola Chiaromonte e Andrea Caffi, negavano che gli ideali e l'azione di GL fossero in continuità con quelli del Risorgimento. Il Risorgimento, sosteneva Chiaromonte, aveva generato anche il fascismo ed era inutile nasconderselo. Insomma Chiaromonte e Caffi contestavano Rosselli e il modo un po' facile e propagandistico con cui cercava di accaparrarsi l'eredità risorgimentale.
Chiaromonte era durissimo nel giudicare il Risorgimento e gli si oppose l'allora giovanissimo Venturi, negando la possibilità di prendere una realtà storica e giudicarla o buona o cattiva nel suo insieme. Rosselli, un po' suo malgrado, accettò la posizione di Venturi: la ripeté con meno rigore ma con la sua grande capacità di mediazione e riuscì a mettere d'accordo le diverse voci. Il giudizio sul Risorgimento era importante per valutare quale conto si potesse fare del popolo italiano. A scomporre l'esperienza risorgimentale qualcosa di buono si trovava, prenderla tutta assieme era una rovina. Chiaromonte e Andrea Caffi, che erano uomini di grande intelligenza, si occupavano allora del problema della società di massa, e sostenevano che con il suo avvento qualcosa era finito per sempre, anche la tradizione, in fondo aristocratica, del Risorgimento, lasciando il campo alla plebaglia fascista, ossia al popolo nella sua peggiore espressione.
Per noi l'idea del risveglio degli italiani era un'idea-forza. L'idea di un'Italia costituzionalmente malata implica quella di un rapporto terapeutico con il popolo italiano. In un rapporto di tipo terapeutico l'attore dell'eventuale guarigione è il medico, mentre il paziente è passivo. Invece l'attore del risveglio è il popolo stesso.
Noi avevamo puntato molto sull'idea del risveglio. Però quando ripenso alla Resistenza, mi viene il dubbio che rappresentandola come risveglio, abbiamo di fatto assolto il popolo italiano dal suo essere stato fascista. Abbiamo presentato gli italiani come se sotto sotto fossero stati antifascisti, ma antifascisti dormienti. Forse è stato un bene, perché in questo modo abbiamo dato alla Repubblica un paradigma antifascista. Poi i comunisti, visto che nel '45 abbiamo liberato l'Italia dai tedeschi oltre che dai fascisti, hanno negato anche l'esistenza di una guerra civile riconducendo la Resistenza alla formula della guerra patriottica, della guerra di liberazione: il vero nemico, insomma, era il tedesco, mentre i fascisti italiani erano semplici strumenti dell'occupante.
Quali sono state le luci e le ombre di questa nostra scelta? Le luci ci sono, perché il paradigma antifascista ha impedito, anche negli anni più bui della guerra fredda, un imbarbarimento della situazione. Il paradigma antifascista ha permesso, e, per così dire, costretto la Democrazia Cristiana a fare una cosa assai importante: isolare i fascisti. Ci sono stati momenti difficili con Sturzo prima, poi con Tambroni nel '60, ma De Gasperi e Fanfani hanno tenuto fermo, nonostante tutti i loro limiti, a questa linea.
Le ombre consistono nel non aver messo in discussione il passato. Leggevo ieri la prefazione agli scritti di Lutero di uno storico dell'Università di Pisa, Prosperi. La figura di Lutero assolutista, fortemente antisemita e non solo per motivi di religione… Quella che pone il pensiero di Lutero alle radici del Nazismo è una tesi diffusa, che Adriano Prosperi giustamente rifiuta. In realtà il nazismo ha avuto molte fonti e tra queste, forse, anche le teorie di Lutero. Be' i tedeschi hanno fatto passare due generazioni prima di parlarne, ma poi hanno discusso la questione del nazismo con estrema franchezza. In Italia, ricorda Prosperi, la campagna razziale del '38, è stato un episodio durissimo, durante il quale uomini come Bottai si sono macchiati di atti crudeli, ma non ha spinto nessuno ad indagare a fondo sulle colpe degli italiani che hanno condiviso quegli atti. Basta pensare all'impunità garantita ai professori che avevano preso il posto dei colleghi allontanati dall'università perché ebrei, come se non sapessero che cosa stavano facendo: non hanno neppure dovuto restituire le cattedre! Insomma, come dice Prosperi, i tedeschi discutono il loro passato, gli italiani no.
Questa mancanza d'analisi critica mi pare evidente e da tempo penso che sia all'origine delle nostre difficoltà nell'affrontare la corruzione, la mafia, lo stesso terrorismo, cioè i grossi nodi della nostra vita nazionale. E se in Italia non si è affrontato il passato, è anche colpa nostra, di noi antifascisti, che abbiamo assolto, almeno in parte, gli italiani raccontando loro una pietosa bugia. Io non penso più che gli Italiani fossero semplicemente addormentati. Penso che li abbiamo assolti dalle loro colpe, che non siamo andati a vedere dov'era il guasto, nel fascismo e prima del fascismo.
Naturalmente queste nostre colpe, le colpe degli antifascisti, ammesso che siano colpe, sono molto inferiori a quelle del fascismo. Però mi domando se l'antifascismo mentre ha fatto cose molto buone, non abbia permesso anche alcune cose cattive, come la sordina messa per amor di patria all'adesione di massa degli italiani al fascismo. So già che mi diranno che questa è una posizione revisionista, ma, insomma, è certo che gli italiani erano fascisti, non è possibile negarlo. Sapessi com'era profonda la solitudine di un antifascista nei primi anni Trenta! eravamo soli, solissimi.
Ci troviamo oggi in una situazione in cui rimettere in discussione il mio passato, le mie idee di un tempo, rischia di farmi apparire vicino alle posizioni del revisionismo, che si sforza di rivalutare i valori che io ho sempre negato e nega quelli per i quali mi sono sempre battuto. Il revisionismo sostiene, per esempio, che durante la Resistenza c'erano due schieramenti che si affrontavano per degli ideali diversi ma equivalenti o almeno ugualmente meritevoli di rispetto. Io ho sempre pensato, invece, che quegli ideali fossero assolutamente opposti. Una volta ho partecipato a una trasmissione televisiva con Pisanò, uno dei fondatori del Movimento Sociale, che allora era senatore. Pisanò mi si è rivolto dicendo: "Lei sa quanto me che avevamo degli ideali tutti e due. Diversi, certo. Ma la patria era un valore per lei e per me". Io gli ho risposto "Senta, sarà pure come dice Lei. Però se vinceva Lei io sarei ancora in prigione. Avendo vinto io, Lei è senatore della Repubblica e parla qui con me".
A proposito dell'adesione degli italiani al fascismo c'è naturalmente da stabilire quale fosse la natura di quel consenso. Come vedevamo allora questo consenso e come lo vedo adesso io? Trovo abbastanza utile questo confronto tra passato e presente, anche se non bisogna usare le parole di ora per allora, perchè le parole di oggi sono piene di mille altre esperienze.
Riguardo al consenso c'è una tesi, anche questa proposta da Pavone, che ipotizza l'esistenza nell'opinione pubblica di una zona grigia, nella quale la gente non sta né da una parte, né dall'altra. Io ho qualche dubbio in proposito, un dubbio che nasce dalla mia stessa esperienza. Io vedevo allora le cose cambiare attorno a me e l'evoluzione del consenso al fascismo non era affatto lineare. Credo che la cosa nascesse dalla natura specifica del consenso in un regime autoritario (e a maggior ragione in un regime totalitario) nel quale il compito del capo è, per così dire, di omologare tutti. In un regime totalitario il capo riesce in un modo o nell'altro a convincere il popolo a pensarla come lui, e nel popolo il consenso di ciascuno si esprime nel farsi omologo agli altri, ossia nel non mostrarsi diverso, nel non dare la sensazione di essere diverso. Il consenso in questo caso non è il voler agire come gli altri, ma il non voler agire diversamente dagli altri. Anche questa omologazione, per la verità, in Italia è riuscita solo in parte.
Visto che parlo di presente e di passato, forse è opportuno dire ancora qualcosa sull'uso della memoria. Io dico spesso che non bisogna essere prigionieri della memoria. Cosa vuol dire essere prigionieri della memoria? Vuol dire concepire la memoria come mera riproduzione di quel che è stato, che si è creduto, che si è pensato. Mentre la memoria, che è comunque selettiva, è sempre una risposta alle domande di oggi. La memoria viene sollecitata dal presente. Il passato, allora, non è qualcosa di oggettivo, di chiuso in sé, e non puo`essere puramente e semplicemente riprodotto, perché è sempre ripensato da un essere vivo. Certo, nel passato ci sono eventi incontrovertibili. Se ci sono i documenti che ne testimoniano l'esistenza, non si può negare che siano avvenuti. Ma la testimonianza, la memoria, non è essa stessa un documento?
Io sento molto il fatto che la schiera di testimoni di cui faccio parte stia scomparendo. Tra pochi anni non ci sara`piu`nessuno di noi. Ho vissuto da giovane e poi da uomo maturo la scomparsa dei reduci della Prima Guerra Mondiale. Li vedevo scomparire uno ad uno, finché sono scomparsi tutti. L'assenza della loro testimonianza la sento come una perdita, direi quasi un pericolo. La storia si fa con i documenti. Però anche la testimonianza è un documento.
C'è chi dice che tutto è relativo, che "la storia è lo storico che la fa". Questo genere di teorie relativistiche sta alla base del revisionismo e ne costituisce la legittimazione. Si può sempre discutere, ma quando il revisionismo nega i fatti, ad esempio l'esistenza delle camere e gas, ogni discussione è impossibile. C'è un sì o un no, punto e basta. Lo stesso quando inventa qualcosa. Quando De Felice, nonostante che non ci sia alcuna testimonianza in merito, afferma che Mussolini aveva nelle mani un pacco di lettere di Churchill penso che abbia bene il diritto di pensare che tra i due ci fosse stata una corrispondenza, ma anche che, visto che non c'è alcuna prova, non abbia affatto il diritto di trasformare in prova una sua congettura.
Rimettere in discussione il proprio passato non significa essere contigui con il revisionismo. Il fatto è che bisogna sempre dire la verità, senza subordinare l'analisi del passato alla strumentalizzazione che può esserne fatta. Ma che cos'è poi la verità? Una volta un giovane prete mi ha chiesto: "Nei suoi libri parla di giustizia e parla di libertà e io capisco. Ma non parla mai di verità". La domanda era pertinente: la verità di cui mi chiedeva conto non era la verità rivelata, quella di Dio, era la verità degli uomini. Io non parlo della verità perché mi trovo continuamente a doverla cercare demistificando le "verità" della mia parte politica (ed è così che posso apparire "contiguo" ai revisionisti).
Ecco, questo discorso della demistificaziomi mi fa ripensare a Levi: immagina il giovane Levi al confino, in Lucania, che esce dalle sue esperienze torinesi, parigine, dal movimento di Giustizia e Libertà, e incontra quella gente di laggiù: quanti schemi, quanti pregiudizi, quanti miti deve abbandonare… Certo ci si può anche domandare se il passaggio dal mito all'analisi critica sia sempre reale, se in questo passaggio non accada talvolta di scambiare semplicemente un mito con un altro…

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« Risposta #8 inserito:: Ottobre 21, 2008, 11:40:13 am »

Vittorio FOA

Premessa


Eravamo tre amiche in procinto di laurearci, Linda, Silvia ed io, tutte e tre interessate a esplorare i diversi filoni del socialismo liberale (o del liberalsocialismo) italiano. Entusiaste per la lettura de Il Cavallo e la torre, abbiamo deciso di scrivere a Vittorio Foa per chiedergli un incontro. Non ci aspettavamo una risposta immediata. Ad essere sincere, non ci aspettavamo nessuna risposta o almeno nessuna risposta positiva. Vittorio, invece, ci ha risposto subito invitandoci tutte e tre a Formia.
Il 25 aprile del 1999 lo abbiamo passato con lui, trovando l'interlocutore più attento e sollecito che potessimo immaginare. Noi eravamo andate lì per ascoltarlo e invece era lui che chiedeva le nostre opinioni su ogni genere di questioni e ci stava ad ascoltare.
In quel periodo cercavo di precisare il tema centrale della mia tesi di laurea, che in ogni caso avrebbe avuto a che fare con Gobetti, Rosselli, GL, il PdA. È stato proprio per un suggerimento di Foa che ho poi individuato il fuoco unificante del mio lavoro nella figura di Carlo Levi. E da Foa sono tornata quando ho dovuto affrontare l'elaborazione vera e propria della tesi.
Ho raccolto l'intervista il 7 e l'8 febbraio 2001, durante un soggiorno in casa di Sesa e Vittorio a Formia. Ho trascorso con loro tre giorni, in fitta conversazione, tra le poltrone del salotto e le seggiole della cucina. Abbiamo parlato di molte cose: sebbene incentrata sul ruolo dell'invenzione in Carlo Levi, la nostra chiacchierata è stata occasione di una grande, indimenticabile carrellata sull'Italia di oggi e di ieri.
Ho registrato quasi tutto. In un secondo momento, con calma, ho trascritto le registrazioni. Il testo che presento è frutto di una successiva rielaborazione nella quale non solo ho eliminato i modi della lingua parlata più ostici alla lettura, ma ho lasciato da parte gli accenni (frequenti e gustosi) ad argomenti non attinenti al tema della mia tesi. Ho poi reso il tutto in forma di monologo, un po' perché mi pare che così il discorso risulti più compatto e l'argomentazione più persuasiva, ma un po' anche (o dovrei dire soprattutto?) perché i miei interventi nella conversazione servivano quasi solo a me, per accertarmi di aver davvero capito quello che Vittorio veniva dicendo. Vittorio, insomma, ha diretto il nostro colloquio dal principio alla fine, senza mai farsi sviare dalle mie interruzioni, senza perdere mai il filo del discorso e riprendendolo ogni volta dal punto esatto in cui lo aveva lasciato.
Del resto che Vittorio avesse ben chiaro in testa quel che doveva dirmi lo testimonia il brano di una lettera che mi scrisse il 30 novembre del 2000:

Distanza teorica tra Gobetti e Rosselli nel tempo: nella GL torinese, nel Pda, oggi. Effetti positivi dell'attivismo giellista nel secolo, il duro prezzo pagato dal paradigma antifascista nella Repubblica, il rapporto con i comunisti, il giudizio sul popolo italiano.

Era il tracciato delle conversazioni che avremmo poi avuto a Formia e funziona perfettamente come sommario dell'intervista. È quasi inutile aggiungere che il testo, così come appare qui di seguito, è stato letto e approvato da Vittorio.

Genova, 12 gennaio 2003

Alisia Poggio

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« Risposta #9 inserito:: Ottobre 21, 2008, 03:39:36 pm »

Epifani & Foa: il filo rosso del lavoro


Bruno Ugolini


Pubblichiamo un articolo uscito su l'Unità del 21 febbraio 2006

Non è un dialogo tra il segretario generale della Cgil, e un vecchio reduce, una specie di «padre storico» del movimento sindacale. È un dialogo tra il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, e un giovane «organizzatore sindacale» senza timori reverenziali. Questo giovane di 96 anni si chiama Vittorio Foa. Il botta e risposta tra i due è rappresentato nel volume Einaudi Cent’anni dopo. Il sindacato dopo il sindacato. È uno dei tanti modi voluti dalla Cgil per celebrare non in modo retorico un secolo di storia, guardando al futuro. Ed è un colloquio serrato tra due socialisti, come sottolinea nella post fazione Guglielmo Ragozzino. Due socialisti, che non credono davvero alla tesi, spesso imperante, relativa al fatto che la sinistra non ci sarebbe più.

Essere a sinistra oggi - spiega Foa «vuol dire essere qui e anche altrove, vivere oggi e contemporaneamente domani, vuol dir agire per se e anche per gli altri». È un po’ la filosofia dell’anziano segretario della Cgil che ha mantenuto intatta la sua lucida intelligenza e il gusto della scoperta, della conoscenza, dell’ottimismo della volontà, per usare un’antica terminologia. È il filo conduttore delle cento pagine einaudiane ed è anche una non banale risposta a quelli studiosi che si vanno chiedendo a che cosa serva il sindacato. Con un altro segretario della Cgil che non si ritrae dal confronto, indotto ad approfondire i vari capitoli che formano, come un enorme puzzle, l’Italia di oggi.

Certo questo suo interlocutore, questo straordinario giovane-anziano, si muove spesso con aria sbarazzina e invita innanzitutto i compagni della sua Cgil a non essere conformisti, a conservare la propria autonomia di pensiero. E nel seguito della conversazione non mancano esempi di questa impostazione non burocratica. Come non erano mancati in altri libri di Vittorio Foa, pronto a rilevare, nel sindacato, pigrizie, mancanza di coraggio, adeguamento a certezze irremovibili. Erano stimoli, provocazioni che però cadevano spesso nel vuoto. La novità sta che ora il dirigente che ha vissuto gran parte della sua vita accanto a Di Vittorio, Santi, Lama, Novella, Trentin confronta le sue idee apertamente con l’attuale leader della Confederazione generale del lavoro. E trova spesso, risposte, approfondimenti, sintonie e contestazioni.

Come quando solleva un tema che rappresenta un tabù per il movimento sindacale. Lui che è stato tra le guide dell’azione che portò molti anni fa al disfacimento delle cosiddette «gabbie salariali», oggi fa notare come la identità dei salari rischi di essere solo nominale, perché il costo della vita varia da zona a zona e nel centro-sud, ad esempio i costi di affitti e prodotti alimentari sono inferiori. Con Epifani che osserva come però le famiglie meridionali magari hanno costi più alti, per poter usufruire di cure mediche o centri universitari specializzati, situati al nord. Oppure non possono recarsi per lavoro in località dove i servizi hanno prezzi impraticabili e godono, poi, di una minore possibilità di occupazione (e di reddito).

Sono temi che richiamano direttamente un argomento caro agli osservatori di tali problematiche. Quello del cosiddetto «nuovo modello contrattuale» che dovrebbe regolare i rapporti di lavoro. Con Foa che in sostanza invita ad un’«apertura», proprio per colmare le differenze cresciute nel Paese. Ed Epifani che spiega come queste, però, aumenterebbero se si accettasse l’idea di ridimensionare il contratto nazionale e misurare la produttività laddove si genera. Così si ridurrebbe la dinamica media delle retribuzioni, impoverendo ancora di più una parte consistente del mondo del lavoro. La via d’uscita per il segretario della Cgil sta invece nell’intervento di riforma del costo del lavoro, nella politica sociale (fiscale soprattutto), nell’offerta di beni comuni come casa, istruzione, sanità. Ed in una contrattazione territoriale su obiettivi sociali.

È vero che su tali aspetti la polemica con Cisl e Uil appare ancora forte e l’obiettivo dell’unità sindacale, tanto caro a Vittorio Foa, appare gonfio di difficoltà. Ma anche qui le sue parole non disperano: «Siamo divisi perché stiamo ricercando l’unità, intesa come processo per essere contemporaneamente noi stessi ma anche gli altri, per vedere e capire le loro buone ragioni». Sono, in questo crescere del racconto a due, i nostri anni dell’insicurezza: «Se penso alla diversità dei miei vent’anni provo una sottile angoscia». Il passato dell’antifascista Foa non è stato certo facile. Eppure «la lotta per la libertà» gli dava un senso. Oggi occorre «cercare di recuperare questo senso». Ed è compito arduo, chiarisce Epifani, perché siamo di fronte a persone che hanno condizioni e soggettività assai diverse. L’analisi passa in rassegna, alcuni «soggetti sociali», come le donne, con Vittorio Foa che racconta di un sapere femminile in più, proveniente dal lavoro familiare e di cura. O come gli anziani, visti da entrambi come una risorsa per il Paese. Ancora una volta l’antico segretario della Cgil ricorre alla memoria e racconta di quella volta che in una riunione di mezzadri, stupiti, chiese loro di prepararsi alla morte. Voleva incitarli, in sostanza, ad un invecchiamento attivo.

Mentre per un altro capitolo, quello degli immigrati, una novità prorompente nel panorama lavorativo, lo stesso Foa lamenta una mancata risposta complessiva alla nascita della legge Bossi-Fini, anche se riconosce l’attività condotta in questo campo dai sindacati. Mentre Epifani fa notare come oggi si diano da fare su tali temi, i sindacati, i governi locali, la chiesa, mentre c’è l’assenza di un «ruolo sociale» dei partiti. E si tocca un punto delicato, le tentazioni che hanno attraversato parte della Cgil nel recente passato: dar vita ad un partito del lavoro. Era l’epoca di Cofferati segretario ma la proposta era stata di Claudio Sabbatini. Furono anni in cui il sindacato svolse un ruolo di supplenza. Epifani rammenta la battaglia sull’articolo diciotto e il merito di Cofferati nel difendere l’autonomia della Cgil. Per l’attuale segretario confederale, comunque, la prospettiva di un partito del lavoro indebolisce lo stesso ruolo del sindacato. I partiti della sinistra devono però, aggiunge, avere attenzione alle istanze del lavoro. E Foa pesca nel passato, a quando nel 1943 nel Sud ci fu un tentativo appoggiato dagli inglesi (malvisto dagli Usa) di dar vita a un «Partito del lavoro»dalle forme molto ambigue, con elementi delle Trade Union e dell’estremismo comunista locali. Erano a Salerno ed erano contro Togliatti: Giuseppe Di Vittorio li emarginò.

C’è un intreccio continuo, nell’agile volume, tra l’oggi - anzi il domani - e la realtà che sta alle nostre spalle. Con quei cento anni del più grande sindacato italiano che coincidono con la storia del Paese, partono dalla nascita del 1906 (preceduta dallo sciopero generale del 1904). Già allora un modo per collegare i lavoratori all’intera società. «Mentre lavorano per sé lavorano anche per gli altri, mentre lottano per i loro diritti lottano per i diritti di tutti». È il cuore, l’anima, di un secolo cigiellino. Passa dal patto di Roma, alla riscossa degli anni Sessanta, alla lotta contro il terrorismo sotto la guida di Lama, all’accordo del ’93 con Bruno Trentin che ancora oggi regola i contratti. Dalle lotte bracciantili al taylorismo, alla società dell’informazione, alla odierna realtà frantumata. Sono riferimenti che scorrono nel susseguirsi del colloquio. Quasi si fosse alla perenne ricerca di un aggiornamento, di un filo da tirare. Come quando Vittorio Foa indaga su una sfera dei diritti, quale il diritto all’acqua potabile, «da garantire in qualunque modo, anche indipendentemente dalla libertà contrattuale». Non è un affermazione scontata.

E un modo per dire, ci sembra, che lo stesso sindacato dovrebbe auto-limitare la propria azione quando essa, appunto, nega quei diritti primari. Non per eliminare il conflitto ma per trasformarlo in conflitto civile, capace di non nuocere ai cittadini utenti. Sono, certo, tasselli, di un mondo globalizzato e complicato. Come governare - si chiede Guglielmo Epifani - questo insieme, con quali garanzie, tutele, diritti, dignità delle persone che lavorano e con quale modello sociale? Oppure bisogna rassegnarsi a convivere con tanti sistemi e regolazioni territoriali o agire sulla sfida globale «mettendo in discussione conquiste raggiunte in cento anni»? Interrogativi ai quali questo libro prezioso abbozza prime risposte. È la prospettiva di un rimescolamento, cercando in sostanza, per dirla ancora con Epifani, di «essere meticci senza che questo voglia dire abbandonare diritti e tutele per ognuno e per tutti…».

Pubblicato il: 20.10.08
Modificato il: 20.10.08 alle ore 16.40   
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« Risposta #10 inserito:: Ottobre 21, 2008, 03:44:33 pm »

Foa: antifascista, intransigente, mai stato comunista

Nicola Tranfaglia


Vittorio Foa lascia un vuoto straordinario in chi scrive come in tutta la sinistra italiana ed europea. È stato, per un tempo assai lungo, una personalità che riusciva ad unire la simpatia umana, la concretezza dell’uomo d’azione con la limpidezza del pensiero e l’ottimismo nell’avvenire.

L’avevo conosciuto più di trent’anni fa e per i settant’anni gli avevo fatto una lunga video-intervista con l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio sugli anni della sua cospirazione antifascista.

Già perché Vittorio (che quest’anno aveva appena compiuto novantotto anni) era stato arrestato a Torino già nel 1935 grazie alla soffiata di un confidente dell’Ovra fascista e fu per dodici anni prigioniero a Regina Coeli e in altri carceri come militante di Giustizia e Libertà, il movimento fondato da Carlo Rosselli ed Emilio Lussu. Liberato nell’agosto 1943 aveva condiviso a lungo la cella con altri noti antifascisti come Ernesto Rossi, Massimo Mila e Riccardo Bauer.

Appena libero fu, con Ugo La Malfa, segretario del Partito di Azione,eletto quindi nel 1946 deputato del Pda e poi, sciolto il Partito di Azione nel 1947, deputato del Partito Socialista Italiano per tre legislature.

Nel 1948 aderì alla Fiom, il sindacato dei metalmeccanici della Cgil di cui divenne, sette anni dopo, segretario nazionale.

A metà degli anni sessanta aderì al Partito Socialista di Unità Proletaria di cui divenne uno dei maggiori dirigenti nazionali e nel 1992,dopo esser stato senatore indipendente nelle liste del Pci nella legislatura precedente, decise di lasciare la politica attiva.

Si dedicò a scrivere libri in gran parte autobiografici. Tra i tanti che ha pubblicato voglio ricordare in particolare Il Cavallo e la Torre (Einaudi, 1991)che raccoglie una sorta di personalissima e godibile autobiografia, Questo Novecento (Einaudi, 1996) che ci restituisce la sua visione problematica e acuta del secolo ventesimo e le sue Lettere della Giovinezza (1935-1943) pubblicate sempre da Einaudi nel 1998.

Tra queste ultime che portano il lettore nelle carceri fasciste, ricordo sempre quella scritta subito dopo la caduta del fascismo il 25 luglio del 1943: «Al mutamento radicale nella situazione politica del paese non corrisponde purtroppo un adeguato mutamento nella situazione interna del carcere. Qui tutto è sostanzialmente immutato, ossia fascista». Parole profetiche per la crisi italiana, potremmo dire.

Le idee essenziali che hanno caratterizzato in vari momenti la riflessione dell’uomo politico torinese mi paiono oggi più che mai attuali. Foa era, dagli anni trenta, un europeista convinto che aveva visto assai presto la necessità storica dell’unione dei popoli e degli stati europei dopo la catastrofe fascista, almeno in parte dovuta ai nazionalismi che avevano prevalso dopo la prima guerra mondiale nel vecchio continente.

Il secondo punto forte delle sue idee era quello delle autonomie locali e delle comunità umane più piccole mortificate dal centralismo francese , come da quello italiano, negli anni del liberalismo e, ancor più, del regime fascista.

Infine Foa si preoccupava della frammentazione politica che aveva caratterizzato, nel periodo liberale,come in quello repubblicano,la partecipazione politica ed elettorale e si pronunciò più volte per un sistema elettorale maggioritario che mettesse insieme le forze affini e rendesse più efficiente il sistema politico.

Non era mai stato comunista ma collaborò nella Cgil, come nei partiti di sinistra, con i comunisti italiani e riuscì sempre a mantenere la sua autonomia di pensiero e di azione.

Il suo antifascismo nacque e rimase sotto il segno della intransigenza sui valori di fondo che erano le libertà civili dei cittadini e la solidarietà sociale. In questo senso militò nel movimento sindacale con grande passione ed ebbe per Giuseppe Di Vittorio una particolare amicizia e venerazione soprattutto per la sua umanità e la capacità di difendere gli interessi dei lavoratori, senza dogmatismi né rigidità.

Intervistato l’anno scorso da un telegiornale italiano, Foa disse, non a caso: «Bisogna guardare la concretezza dei fatti... Dobbiamo vedere non le idee generiche, ma come si possono realizzare le cose». Sono del tutto d’accordo con lui.

La politica italiana, purtroppo, è sempre stata,anche a sinistra, piena di idee astratte e scarsa di fatti concreti. Di qui l’importanza di una personalità come quella di Vittorio Foa che ha dimostrato,in tutta la sua vita, di privilegiare l’esperienza concreta rispetto alle discussioni fumose che piacciono tanto a molti politici e intellettuali del nostro tempo.

In questo senso, essendo quasi centenario, Vittorio restava un uomo giovane e vivo per il suo tempo.

Pubblicato il: 21.10.08
Modificato il: 21.10.08 alle ore 14.44   
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« Risposta #11 inserito:: Giugno 05, 2010, 05:20:56 pm »

Vittorio Foa, l'anticipazione: dal carcere all'Europa

di Federica Montevecchi

Vittorio Foa riteneva le lettere che aveva scritto dal carcere fascista la memoria di riferimento della sua lunga vita: ne parlava spesso, ne ricordava con precisione brani, che poi voleva rileggere e verificare, e tutte le volte ogni lettura, lungi dal risolversi in un omaggio al passato, apriva inesauribili possibilità di riflessione e di discussione. Questo accadeva non soltanto perché Vittorio viveva la vecchiaia in maniera progettuale, con rare concessioni alla malinconia, ma anche perché il suo epistolario si presta a interpretazioni molteplici. Esso è a un tempo il documento di un'esperienza storicamente fondamentale, la testimonianza indiretta di un mondo, quello della Torino antifascista degli anni ’30 del Novecento, e il resoconto di una educazione politico-intellettuale. L’intreccio di questi aspetti si riflette naturalmente anche nella scelta di lettere (o di parti di lettere) che Vittorio preparò, nell'estate del 2008, per questa edizione: il criterio adottato per tale scelta era riconducibile in primo luogo al bisogno di mettere in risalto quello che egli riteneva essere il suo carattere prevalente, vale a dire quell'identità profonda e invariabile che permane in ogni età e nelle mutevoli espressioni dell’esistenza. Le comunicazioni ai genitori e alla famiglia, le riflessioni, le analisi di libri contenute in questa scelta di lettere mostrano come il carattere prevalente di Vittorio fosse intellettuale: questo era il continuum che costituiva il suo modo di essere e che, per il legame inscindibile di intellettualità e politica, ha trovato necessariamente e coerentemente espressione nei diversi ruoli che egli ha ricoperto nella vita pubblica italiana. Prova di tutto ciò è dunque la vita stessa di Vittorio a partire proprio dall'esperienza del carcere, luogo dove egli trascorse gran parte della giovinezza, dai 25 ai 33 anni. (...)

Negli otto anni, tre mesi e otto giorni di reclusione a Vittorio Foa fu concesso di comunicare soltanto con i famigliari più stretti per mezzo di lettere che inizialmente avevano cadenza bisettimanale e poi, dopo il processo, cadenza settimanale: alcune lettere straordinarie erano permesse in occasione delle festività o per comunicare alla famiglia eventuali trasferimenti. Della corrispondenza di questi anni - ossia delle 525 lettere, cinque cartoline postali e un telegramma conservate dai genitori di Vittorio - restano 498 lettere e quattro cartoline postali.

Nel carcere fascista per scrivere la lettera era concesso un solo foglio - quasi sempre di carta assorbente e a spese del detenuto - che con lo scoppio della guerra venne ridotto alla metà; ogni lettera era poi sottoposta al controllo della censura presso la direzione centrale della polizia politica (OVRA) al ministero dell’Interno e lì in alcuni casi archiviata, in altri censurata parzialmente, a volte con inchiostro spennellato, altre volte con i tratti minuti di un pennino. Nell’epistolario sono presenti 103 lettere censurate parzialmente e solo tre di queste - più alcune righe di altre due - furono lette, all’epoca dell’edizione integrale, nella parte coperta grazie all’impegno dell’Istituto di patologia del libro e della Polizia scientifica; per quanto riguarda le lettere trattenute dalla censura, infine, resta tuttora valida l’ipotesi che si possano ancora trovare negli archivi del ministero dell’Interno. (...)Nelle lettere selezionate per questa edizione le riflessioni di Vittorio su se stesso e sulla sua esperienza carceraria si intrecciano con analisi storiche, economiche e letterarie che mostrano il suo modo di pensare e, al tempo stesso, anticipano alcuni dei temi che resteranno per lui essenziali. (...) È sempre attraverso il richiamo all’azione, alla necessità di una politica che sia tale, e cioè capace di comprendere il proprio tempo e di agirlo, che Vittorio risponde anche alla campagna razziale e al dolore di assistere dal carcere alla dispersione della propria famiglia. (...) Anche in questo momento drammatico Vittorio cerca di capire, di trovare il senso degli accadimenti: interessante a tal proposito è, ad esempio, la lettera del 7 luglio 1938 si afferma l’inutilità delle frequenti conversioni di ebrei al cattolicesimo poiché appariva chiaro che la persecuzione antisemita non aveva carattere religioso ma razzista. (...) Rivendicare l’appartenenza al proprio tempo significa anche condividerne le responsabilità riconoscendo, soprattutto nel caso della campagna razziale, che è solo «la diretta esperienza del male che può dare a noi uomini comuni la piena coscienza del male e della necessità di combatterlo; fuori di quella esperienza si dicono delle belle parole e si dorme».(...)

L’EUROPEISTA RESPONSABILE
Va da sé che la Resistenza e la storia successiva alla seconda mondiale avrebbero mostrato come la lotta contro il nazi-fascismo «richiedeva anche il recupero di quelle identità nazionali che il nazismo aveva tentato di annullare e che erano le precondizioni per avviarsi a disegni più alti». Il fatto stesso che, già all’epoca del carcere, Vittorio fosse un convinto europeista e, al tempo stesso, orgoglioso della sua identità italiana formata sulla memoria risorgimentale (...) è l’esempio più chiaro della duplicità dell’idea di nazione, del fatto cioè che anche le forme politiche più nobili sono soggette a rischi di degenerazione risultando così tanto positive quanto potenzialmente negative. Questa ambiguità, che si riflette inevitabilmente nel linguaggio politico, costituisce un richiamo indiretto alla responsabilità, che per Vittorio Foa era il criterio primo dell’azione politica e punto di vista privilegiato da cui guardare alla storia del Novecento.

05 giugno 2010
http://www.unita.it/news/culture/99608/vittorio_foa_lanticipazione_dal_carcere_alleuropa
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