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Autore Discussione: Concita DE GREGORIO  (Letto 77158 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Agosto 07, 2013, 05:25:10 pm »


Pubblicato il 03 agosto 2013

DI' QUALCOSA DI SINISTRA

Michela Murgia "Scrivere è fare politica per questo mi candido"

L'autrice oggi ufficializza la sua corsa alla Regione Sardegna "I partiti hanno paura e non ascoltano i veri bisogni della gente"

di CONCITA DE GREGORIO


"Per me scrivere e fare politica sono la stessa cosa. Cominciare a raccontare è stato un gesto violento di reazione. Come fa il topo quando è nell'angolo, ha mai ucciso un topo? Nelle case di paese quando c'è un topo in casa le donne sanno che bisogna stancarlo. Allora cominciano a battere per terra con la scopa, e lui scappa, e loro battono, e lui scappa, e loro battono ancora finché non si stanca. Quando si stanca rallenta, e finisce in un angolo. Proprio un momento prima di essere colpito il topo, vinto, fa una cosa in apparenza insensata, l'unica che può fare: attacca.

Non importa se tu sei cento volte più grande di lui e stai per ucciderlo: lui ti si avventa contro, attacca. Io ero quel topo. La mia storia è quella della mia generazione. Ho lavorato in una centrale termoelettrica e ho fatto il portiere di notte, ho insegnato a scuola e ho venduto aspirapolveri al telefono in un call centre. Ti dicono che è flessibilità, diventi un saltimbanco del precariato. Scadeva un contratto e loro battevano, compromessi, battevano, umiliazioni e ricatti, battevano e battevano. Allora ho fatto l'unica cosa che potevo ancora fare. La scrittura come ribellione, un gesto politico. Se non puoi fare più niente almeno dillo. Poi sono stata fortunata, certo. Ho trovato chi ha letto, ho potuto scrivere ancora".

Michela Murgia ha 41 anni, da sette anni scrive. Da venti cerca un posto nel mondo e un senso a quella frase che ha scritto nella sua biografia: sono una donna di sinistra.
"Dire sono di sinistra ha senso nel mio ordine interiore, in quello esteriore no. Non trovo più il posto che la sinistra si è data, non lo vedo. Scrive una storia senza trama. Ha perso il coraggio, vuole accontentare chiunque. Dovrebbe essere il luogo dei diritti ed è sovente su questo terreno superata a sinistra dalla destra. Dovrebbe portare la bandiera della liberazione: dai poteri, dal controllo. Lo dico semplice, non bisogna avere paura di sembrare ingenui: il controllo del mercato, per esempio, sulle nostre vite. Chi indica un'altra strada, oggi, alla dittatura del mercato? Chi dice che legare il destino delle aziende a quello dei lavoratori è un errore? Perché le aziende falliscono ma le persone no".

È nata e cresciuta a Cabras, in Sardegna. Era nell'Azione cattolica. Dopo il call center ha scritto un libro, Il mondo deve sapere, da cui Paolo Virzì ha tratto un fortunato film. "Arrivavano dalle segreterie dei partiti politici i fax coi nomi delle persone da assumere. Il sindacato era colluso". Con Accabadora, il primo romanzo, ha vinto il Campiello. Poi Ave Mary, un saggio sulle donne e l'educazione cattolica.
"Mi dicevano sei pazza, scrivi un racconto, capitalizza il successo. Ma a me del mio successo personale non m'importa niente. È un principio di necessità, la scrittura. È un modo per occupare uno spazio pubblico e dire cosa c'è che non va. Ora con Loredana Lipperini ho scritto L'ho uccisa perché l'amavo. Questo, per me, è dire qualcosa di sinistra. Non avere paura dell'impopolarità, avere il coraggio di indicare una rotta. Se penso a cosa è stato Berlusconi in questi anni, l'ottimismo fasullo, la realtà finta e rosa. E all'epilogo, ammesso che lo sia: era tutto già scritto, già noto. Che ipocrisia fingere indignazione adesso senza aver reagito prima allo scempio. La destra ha fatto il suo lavoro. Compito della destra è non spostare equilibri, mantenere i poteri in mano a chi li stringe. In questo senso anche il Pd è stato di destra. Forse è stato anche più grave perché non te lo aspetti da lì. In Sardegna la coincidenza di interessi Pd-Pdl è impressionante. Gli stessi orizzonti. Significa che destra e sinistra sono uguali? No. Significa che Pd e Pdl hanno interessi comuni. È evidente dal governo attuale, del resto".

Michela Murgia stasera a Nuoro dirà della sua decisione di candidarsi a governatrice della Regione con una lista indipendente. Rappresenterebbe la terza possibilità davanti a cui le segreterie politiche sono molto in apprensione.
"Ho ascoltato e girato molto e ho cercato soprattutto di capire i bisogni veri delle persone. Mi dicono che i partiti hanno paura e lo vedo dalle loro scelte. Il consiglio regionale sardo ha votato lo sbarramento al 10 per cento. Pd e Pdl dentro e fuori tutti gli altri. Nella stessa legge è stavotata col 94 per cento di voti la doppia preferenza uomo donna. A voto segreto, 94 per cento: tutti. Perché hanno paura, lo sanno che le donne  -  certe donne  -  sono il cambiamento. Penso a Paola Natalicchio sindaco di Molfetta a 34 anni, nonostante i partiti. Quando vinci è così: nonostante i partiti, devi farli dimenticare. In Sardegna il Pd ha preferito perdere con Cappellacci che vincere con Soru. C'è una mediocrità delle classi dirigenti alla quale ci siamo arresi e che grida vendetta, invece".

Bisognerebbe raccontarla, dice. Lo storytelling politico è un genere letterario.
"Lo è. Il Pd ha smesso di scrivere la sua storia da tempo. Ricordo quando Bersani disse agli industriali veneti: la Lega vi ha promesso il federalismo fiscale ma non ve lo ha dato, lo faremo noi. Ricordo quando Rutelli, per reagire alla campagna sulla sicurezza imbastita da Alemanno, fece i manifesti che dicevano "Né quartieri alti né quartieri bassi solo quartieri sicuri". "E mo' te svegli", gli ci scrissero sopra. Questo ha fatto la sinistra, usare le storie degli altri. Il problema è che non si fidano delle persone. Non si fidano, hanno paura. Il consenso si costruisce sulla consapevolezza degli individui, e nelle persone ci devi credere. C'è una formazione di popolo da fare, la devi fare. Una pedagogia di popolo. Non puoi delegarla alla tv, che è di Berlusconi: è una resa totale. Ad Arborea, da noi, c'è un comitato di cittadini compatto e motivato contro la trivellazione della piana che i Moratti vorrebbero fare per cercare il gas. La Saras, un'azienda privata. Il Pd regionale cosa fa? Ascolta le popolazioni, indica un'idea di mondo e di futuro? No, sta con gli interessi dei privati. Dice trivelliamo la piana. Ha paura di perdere l'appoggio economico che lo tiene al potere ".

Poi certe volte la vita cambia in un minuto, e allora capisci che non c'è tempo da perdere.
"La mia vita è cambiata, sì, per ragioni molto personali. Ne ho una nuova davanti e non voglio sprecarla. Per un certo periodo ho pensato che scrivere romanzi fosse inutile. Non posso perdere tempo con la finzione mentre intorno tutto crolla, pensavo. Però Gomorra ha ridato nerbo alla figura dello scrittore che parla della realtà usando la sapienza narrativa. D'altra parte penso anche che Kafka, col Processo, ha cambiato il mondo più di quanto possa fare Bauman. Abbiamo permesso che la parola intellettuale diventasse un insulto, è vero. Abbiamo lasciato crescere una generazione di intellettuali che non stanno nella realtà. Però raccontare per me resta l'unico modo di dire quel che non puoi spiegare. Bisogna accettare di essere transitori. Di essere utili per il presente. Senza l'ambizione narcisistica di dire ma io, fra cento anni, sarò ricordato. A me basterebbe che fra cento anni dicessero c'era da assumersi una responsabilità e l'ha fatto. Sì, Pasolini ha saputo fare le due cose insieme ma non siamo tutti Pasolini".

E poi c'è il tema dell'eredità da portare. Il più importante di tutti.
"In Sardegna la nostra tradizione è di racconto orale. Da secoli abbiamo affidato ai narratori e ai poeti il compito di portare la voce della gente. Chi scrive ha un mandato anche politico, io mi sento in quel posto. Qui nell'isola non mi chiedono mai quando scrivi un altro libro, mi chiedono perché non parli di questo? Mi dicono tu che hai voce per farti ascoltare, dillo. In Italia se ho lavorato bene mi dicono brava, in Sardegna mi dicono grazie. I popoli devono riconoscere i loro narratori, noi abitiamo le loro storie. Ora che la politica non ha più una trama la gente va ai festival letterari a chiedere risposte. Ma il compito degli scrittori non è dare risposte, è tenere aperto lo spazio delle domande. Ecco, alla fine è questo. C'è un'eredità di responsabilità da raccogliere. Una eredità di responsabilità. Fare un gesto di sinistra è prendersela in carico e portarla. L'Italia si salverà da sola, nonostante la politica. A dispetto della politica. Lo sta già facendo".

da - http://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/societa/2013/08/03/news/michela_murgia_scrivere_fare_politica_per_questo_mi_candido-64211525/
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« Risposta #91 inserito:: Ottobre 13, 2013, 05:23:18 pm »

Il cinismo a cinque stelle

di CONCITA DE GREGORIO

È LA LEGGE del mare. È la legge di Dio. È la legge degli uomini da prima che ogni legge sia mai stata scritta. Salvare un uomo in mare. Non c'è nemmeno da spiegarlo, mancano le parole. Provate solo ad immaginare che succeda a voi.
Siete in barca, vedete qualcuno che sta annegando e che vi chiede aiuto. Un ragazzo, una donna che annega a pochi metri da voi. Sareste capaci di lasciarlo morire sotto i vostri occhi? Gli chiedereste  -  di qualunque religione, partito politico, di qualunque razza voi siate  -  da dove viene e a fare che cosa o gli gettereste prima un salvagente? Vi buttereste voi stessi, quasi certamente. Non è una regola, è istinto. È ineludibile afflato di umanità. È quel che distingue gli essere umani dalle bestie, e non sempre ché spesso la lezione arriva dagli animali. Ecco. Si fa moltissima fatica a dare un giudizio politico della censura di Beppe Grillo e dell'ideologo Casaleggio ai parlamentari cinque stelle che al Senato hanno proposto e poi votato un emendamento che dice questo: chi trova una persona in mezzo al mare può soccorrerla senza rischiare di commettere reato.
"Non li lasceremo più morire. Più sicurezza e umanità", hanno scritto Maurizio Buccarella e Andrea Cioffi, i senatori cinque stelle poi sconfessati con durezza dal Capo. Si fa fatica a dare un giudizio politico su chi pensa ai suoi elettori  -  al suo consenso attuale ed eventuale  -  prima che ai morti. "Se avessimo proposto di abolire il reato di clandestinità avremmo ottenuto dei risultati elettorali da prefisso telefonico ", si legge nella risoluzione pomeridiana del blog sovrano, la voce del Padrone. Non ci sarebbe convenuto, non ci conviene.
Quindi ora scusate se ai cinici sembrerà demagogia ma provate a pensare ai trecento morti in fondo al mare di Lampedusa, al morto "numero 11, maschio, forse anni 3", che se fosse stato vivo sarebbe stato clandestino anche lui, e perseguibile chi avesse salvato quel bambino di tre anni dal mare. Provate a dire se vi sembra degna di un essere umano una legge che sanziona chi soccorre un bimbo in mare, chiunque quel bambino sia perché questo e solo questo è: un bambino. Provate adesso a dare un giudizio politico a due leader politici che pretendono di rinnovare la politica e il Paese e intanto dicono questo: soccorrere uomini e donne in mare "è un invito ai clandestini di Africa e Medio Oriente ad imbarcarsi, ma qui un italiano su otto non ha i soldi per mangiare ". Quindi non vengano, o se vengono affoghino. Servirà da lezione agli altri.
La Lega ha applaudito Grillo con osceno entusiasmo. Il Pdl, in una sua buona parte, si è accodato. L'emendamento è passato coi voti di altri Pdl, di Scelta civica di Sel e del Pd, oltre che dei quattro senatori cinque stelle in commissione. Niente affatto pentiti, questi ultimi. Immediata assemblea del gruppo, questa volta stranamente non in streaming. Giornalisti e militanti fuori dai piedi. Il tema immigrati non era nel programma, è l'argomento del fedelissimi al capo: gli eletti devono attenersi al mandato e non prendere iniziative personali. Ma, domandiamoci, ci sarà una ragione se non c'era una parola, neanche una, sul tema dell'immigrazione e delle leggi sui clandestini nel programma di Grillo, molto netto invece nel proporre  -  per esempio -  un referendum sull'uscita dall'euro.
Poco a poco si delinea un profilo politico che pure era chiaro, ma che ha confuso una buona parte dell'elettorato di sinistra attratto dai temi sacrosanti del rinnovamento e dello strapotere corrotto della casta. Questa roba con un'Italia migliore non c'entra. È un calcolo, una strategia di marketing elettorale di ambigua origine e di sempre più nitido approdo. Ma di nuovo: dare un giudizio politico, in un caso come questo, è troppo onore. "Non li lasceremo più morire", non è una posizione politica, è la declinazione di un essere umano. Chi preferisce che anneghino faccia i conti con se stesso e certo poi, se crede, anche col suo elettorato.
(11 ottobre 2013) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/politica/2013/10/11/news/il_cinismo_a_cinque_stelle-68347261/?ref=HREA-1
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« Risposta #92 inserito:: Marzo 05, 2014, 06:22:03 pm »

Hanno ucciso il mestiere più bello

di CONCITA DE GREGORIO

C’è stato un tempo, incredibilmente recente, in cui si diceva che fare il sindaco fosse il mestiere più bello del mondo, ed era vero. E' successo così pochi anni fa che se ci sforziamo ce lo ricordiamo ancora. Nelle piccole città, per esempio, nei paesi: nei luoghi dove eravamo nati e dove certe domeniche tornavamo. C’era qualcuno che era stato a scuola con noi, in un’altra sezione di un altro anno, o che era stato vent’anni fa fidanzato/a con qualcun altro che conoscevamo bene, o che era il figlio dell’Amelia la collega di nostra madre, ti ricordi l’Amelia?, e questo qualcuno adesso era il sindaco. Lo si incontrava per strada la mattina, buongiorno sindaco, si sorrideva con allegra ironia come a dire “sindaco, chi l’avrebbe detto…”, e lei o lui sempre, sempre passava mezz’ora a rispondere non puoi capire la bellezza di questo mestiere, il contatto con la realtà, la prossimità con le persone, la soddisfazione di essere utile, la certezza di poter davvero cambiare le cose, guarda la politica alla fine non c’entra, è un’altra storia questa, se ti ci metti davvero puoi fare, cambiare i destini. Fare bene, il bene. In buona fede, provando e magari sbagliando, ma fare.

Qualcuno se lo ricorda? Io sì. Mi ricordo anche che era vero. Che un sindaco, il sindaco di una piccola o media o persino grande città, poteva davvero rovesciare il guanto e cambiare la storia. Potrei fare esempi, nomi. Quello che assegnò le case popolari. Quello che salvò la fabbrica dalla chiusura. Quello che fece il parco. Quello che si inventò il lungomare che non c’era. Quello che si gemellò con Chernobyl. Quella che riscattò le terre alla mafia. Ma sono storie di ieri, l’altro ieri. Qui parliamo di adesso. Adesso, oggi, in un lasso di tempo infinitesimale, fare il sindaco è diventata una condanna. Una sciagura. Sono passati gli anni, siamo cresciuti e poi invecchiati: non sono più i figli degli amici, ora. Sono gli amici. Sono loro ad aver affrontato campagne elettorali a dispetto dei partiti e averle vinte. Sono gente della nostra generazione, della nostra età che chiama e dice: è un inferno. Hanno scommesso tutto, hanno sgominato la diffidenza e il disincanto, hanno vinto. Bene, no? Malissimo, invece.

Vi racconto un segreto. Ho un’amica cara, carissima, che quando le hanno chiesto – come a molti di noi nei paesi è successo – ti candidi? Ha detto sì, va bene provo. Ma guarda che c’è il ras della camorra (o delle tessere, degli affari, della massoneria, fate voi) ha detto va bene, provo. Ha vinto a dispetto di ogni previsione, perché la capacità delle persone di sperare ancora è illimitata e per meraviglia irragionevole. E' stata felice, ha fatto una grande festa, si è messa al lavoro. Due mesi dopo le hanno messo sotto sequestro i mutui bancari. Un importante leader politico da Roma l’ha chiamata per consigliarle di cercare un accordo con i mafiosi. Non l’ha fatto. Hanno minacciato suo figlio, a scuola: lo hanno isolato e deriso. Non l’ha fatto comunque. Hanno licenziato suo marito con l’occasione degli esuberi. Ha resistito ancora. Hanno fatto chiudere il negozio di suo padre triplicando l’affitto dei locali. Pazienza. Poi l’hanno messa nelle condizioni di non poter spendere un euro, perché per avere libertà di investire in nuovi progetti devi avere una disponibilità economica e se non hai il credito da Roma – dunque se non hai i favori di quel leader che ti consigliava come fare con la mafia – la spending review ti impedisce di fare la mensa all’asilo. Di conseguenza: rivolta dei genitori. Ti impedisce di sbloccare un pignoramento. Di conseguenza: rivolta degli abitanti del quartiere. Non puoi assumere chi merita. Di conseguenza: rivolta dei precari. Non puoi mettere a norma gli alloggi. Di conseguenza: rivolta di popolo. A sei mesi dalle elezioni, vinte a maggioranza assoluta, le hanno recapitato – i concittadini che, chissà, l’avevano votata – una busta piena di sterco. Le lettere anonime di minaccia arrivano ogni giorno a casa. Chiede: cosa rispondo, come reagisco. E' una trappola: ci mettono a fare qualcosa che poi ci impediscono di fare. E' un orribile inganno. E' vero, è così.

E' questa l’origine ultima del disincanto verso la politica. Chiunque vada al governo, oggi, deve ricominciare da qui: i sindaci sono il primo bersaglio, il più prossimo, dei cittadini. Fare il sindaco non è solo un trampolino di lancio per la politica grande, non per tutti. Fare il sindaco è stare alla pari fra pari. Se non date loro i mezzi, voi che avete le mani sul quadro di comando, se vi approfittate della loro credibilità per avere voti e poi chiudete l’ossigeno state uccidendo la fiducia – l’ultima – nella politica. E' questo che state facendo? E poi cosa? Attenti, scherzate con l’ultimo fuoco.

Da - http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2014/03/04/news/vita_da_sindaci_chiusi_in_trincea-80163087/index.html?ref=HREC1-16#Hanno-%20ucciso-il-mestiere-pi%C3%B9-bello
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« Risposta #93 inserito:: Marzo 07, 2014, 09:05:45 am »

La finzione della parità
di CONCITA DE GREGORIO
   
Sarà interessante vedere il governo Renzi passare dalle parole ai fatti, ora che tutti sono a bordo. Ora che, pazienza per l'overbooking, si è trovato un posticino per tutti - incerti, ex nemici, ultimi arrivati e pecorelle smarrite nella stiva. A decollo avvenuto il primo nodo al pettine, chi l'avrebbe detto, riguarda le donne.

Sempre lì s'inceppa il meccanismo della propaganda. Una piccola cosa: che volete che sia al cospetto della soglia di sbarramento, del modello strutturale di riferimento, del ruolo del Senato e dei vincoli costituzionali, per esempio. Eppure, ogni volta daccapo, è lì che alzano le mani i professionisti di meccanica elettorale: quando davvero, ma davvero, bisogna garantire che uomini e donne abbiano la stessa possibilità sostanziale di essere eletti. Sostanziale oltreché formale.

Dunque succede che, di fronte ad un emendamento sulla parità di genere firmato da parlamentari di molti gruppi e partiti politici, il relatore esprima parere negativo, il governo taccia un momento di troppo e l'agognata riforma, il cosiddetto Italicum, interrompa la sua marcia trionfale e vada in stallo per mezza giornata. Allarme nel pannello di comando, pericolo di caduta, i calcoli di aula fanno temere il peggio, meglio riprendere quota e aspettare. Il voto slitta a lunedì.

Combinazione vuole, è proprio un caso ma si sa che il caso è un mistero trasparente e luminoso, che la tre giorni di sosta attraversi l'8 marzo. Una festa, la Festa della Donna, che molti - persino molte donne - hanno ormai in uggia, la giudicano più o meno sottovoce stantia e retorica: a cosa serve un giorno all'anno, la vita è tutti i giorni, il merito prescinde dal sesso eccetera. Benissimo, ammettiamo che. Andiamo a vedere però le ragioni reali per cui una richiesta semplice e sensata come quella della parità fra uomini e donne nelle liste elettorali (cinquanta per cento di capolista, alternanza uno a uno e non a blocchi perché è chiaro, e noto per esperienza, e reso manifesto dal buon senso che se in una circoscrizione elettorale un partito ha la forza di eleggere due parlamentari mettere una donna al terzo posto è un esercizio di stile, salvo sorprese) dunque vediamo perché no. La voce del Transatlantico è molto chiara, tutti sanno perché: perché chi fa le liste - i Denis Verdini, gli uomini neppure tanto ombra dei partiti - vogliono avere le mani libere. Vogliono essere loro a decidere, ancora una volta, chi sarà eletto e chi no. Certo, con un margine di rischio perché l'elettorato può essere imprevedibile. Ma con un margine minimo, diciamo. Vogliono garantire chi deve essere garantito: i fedeli, i devoti, quelli che poi saranno grati e obbedienti. Anche le donne possono essere fedeli e non leali, certamente. Tutto attorno abbiamo fior di esempi. A maggior ragione quindi - anche nell'antica ottica della concessione dall'alto - non dovrebbero esserci problemi. Invece ci sono.

È una vecchia storia. Renzi ha fatto un governo 50 e 50 (ci sarebbero anche i sottosegretari, ma quelli sono meno vistosi dunque si contano meno) e ha abolito il ministero delle Pari Opportunità, che per un momento alla vigilia aveva pensato per Ivan Scalfarotto, gay e paladino dei diritti delle minoranze. Poi Giovanardi in pubblico e Alfano in privato hanno avuto da ridire. È pur sempre un governo di larghe intese, questo, per quanto - rispetto al precedente - di più aggressive e meno miti pretese. Perciò il gruppo di parlamentari Pd, Ndc, Sel, Scelta civica e vari altri minori - le firmatarie dell'emendamento che ha provocato lo stallo, non sono fra loro Forza Italia e Cinque Stelle - non possono contare sul sostegno istituzionale di un ministro. Ci fosse stata, per dire, Iosefa Idem, la volta scorsa si sarebbero rivolte a lei. Ma la volta scorsa la legge elettorale non era all'ordine del giorno. La palla non si trova mai col piede. Ora che tutto marcia, manca il referente. Laura Boldrini, presidente della Camera, ha ricevuto le deputate (video) facendo presente che ben due articoli della Costituzione, il 3 (uguaglianza) e il 51 (pari opportunità) sono dalla loro. I senatori del Pd hanno sottoscritto un appello. Sel chiede il voto palese, non si vede perché sull'uguaglianza di genere ci debba essere libertà di coscienza da tutelare. Eppure non basta. è il governo che deve parlare. È Renzi che deve mettere dentro i fatti l'abilità che manifesta a parole.

Si dice spesso che la vera parità sarà raggiunta quando ci saranno nei posti di comando tante donne incapaci quanti uomini inetti solitamente ci sono. È una ben triste battuta. È purtroppo già spesso vero che anche gli uomini ricoprono incarichi di prestigio in quanto "uomini di" - di corrente, di riferimento, di un leader - quanto accada alle donne che di rado, anche a questo giro di governo, possono essere identificate non solo in base ai loro meriti ma per essere piuttosto "donne di". Indicate da. Volute da. In confidenza con. Negli stessi giorni in cui si discute la legge elettorale si chiude a Roma un magnifico incontro di Women in diplomacy, convegno di giovani diplomatiche del Mediterraneo voluto da Emma Bonino, ottimo ministro degli Esteri non sponsorizzato da alcuna frazione di corrente per la conferma. Nei medesimi giorni in cui si osserva la pausa di riflessione, 8 marzo compreso, la Lego manda in produzione tre figurine che rappresentano una chimica, un'astrofisica e una paleontologa. Le affianca alle tradizionali signora col gattino, alla cuoca e alla giardiniera col grembiule. Anche in questo caso c'è voluta una potente raccolta di firme, in azienda non gli era venuto in mente. Strano. Perché le scienziate (anche quelle italiane, buongiorno Fabiola Gianotti) sono parecchie, cucinano anche e a volte hanno un gatto. Magari a Renzi questa cosa della Lego interessa. Magari, domani sabato 8, pensando al pupazzetto dell'astrofisica (ne ha avuta una eccelsa Firenze, un saluto Margherita Hack) butta un occhio all'emendamento sulla parità. Aspettando Godot, lunedì.

© Riproduzione riservata 07 marzo 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/07/news/de_gregorio_8_marzo-80403020/?ref=HREC1-1
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« Risposta #94 inserito:: Giugno 23, 2014, 10:38:51 pm »

Brasile 2014. "Ho costruito lo stadio, ma non vedrò la gara. Mi sono venduto i biglietti"
Reportage. Ney, 32 anni, ha lavorato tre anni al cantiere dell'Arena das Dunas, dove domani gioca l'Italia.   
"I soldi li metto da parte per comprare la lavatrice a mia moglie, che fa la cameriera nel resort dei turisti ricchi".
"Voi del primo mondo non state andando bene: l'Europa è stanca?"


Di CONCITA DE GREGORIO
23 giugno 2014
   
NATALE - Venga, l'accompagno. Ney Da Silva, 32 anni, nome completo Wildgledney Geherlykley Da Silva, dice che conosce una scorciatoia per andare allo stadio. "Se passiamo dalla strada ci mettiamo tre ore. Dalle dune in 45 minuti si arriva. L'ho fatta tutti i giorni per due anni. Posso dire che l'ho costruito io, lo stadio. Anche io, diciamo meglio", ride. Trenta chilometri ogni mattina alle quattro, quando i turisti dei resort sulle spiagge più belle del mondo vanno a dormire.

Gruista, Ney è uno dei due milioni di operai brasiliani che hanno lavorato agli stadi del mondiale. Questo, il suo, si chiama "Arena Das Dunas" e per la verità non è proprio finito. È un coleottero bianco al centro di una rete di cavalcavia e di case diroccate, di strade di terra, baracche appoggiate a grattacieli, transenne voragini e tangenziali sopraelevate al centro di Natal. Una metropoli e un campo nomadi, insieme. Nella stessa foto, grandhotel e capanne di stracci. Lo stadio è pronto, ma per arrivarci bisogna guadare rigagnoli di liquami, camminare un passo avanti all'altro su tavole di legno marcio, sperare. Ruspe, montagne di terra sabbiosa, non una luce che illumini il buio attorno, la sera. "Abbiamo dovuto correre, ma l'importante è che dentro sia finito, no? Tanto dopo il Mondiale chi vuole che ci vada in uno stadio da 40mila posti? Qui da noi quando a una partita vanno in tanti sono 900. Con calma, poi lo finiamo. Prima ci sarà da ricostruire il bairro di Mae Luiza che è venuto giù la settimana scorsa con l'ultima alluvione. Ma insomma ci penserà la governatrice che questo è lavoro suo. Allora, andiamo?".

La governatrice dello stato di Rio Grande do Norte, Rosalba Ciarlini, italiano il nonno Pietro Ciarlini fondatore della prima squadra di calcio della regione, è un medico. Eletta nel Partito democratico, ce n'è uno anche qui, è andata personalmente all'aeroporto a ricevere Balotelli di cui è tifosa con vigore: purtroppo i giornali hanno colto l'occasione per pubblicare la foto del suo fulgido sorriso alla vista del campione accanto a quella della frana di 70 metri cubi, appunto, che ha travolto un quartiere intero della città costruita sulla sabbia, molti feriti, centinaia di famiglie senza tetto. Andiamo.

Ney sale in macchina, una vecchia Ford il cui cofano è foderato dalla bandiera brasiliana. Linda, vero? Muito linda. Però il tifo ha tardato tanto a decollare. Molte proteste alla vigilia. Ora però i sondaggi dicono che a una settimana dal fischio d'inizio il consenso dei brasiliani per il Mondiale è salito di dodici punti, dal 54 al 66 per cento, e la contestazione è scesa di altrettanto, dal 39 al 27. Aveva ragione Dilma a dire che i pessimisti sono già sconfitti. "Non so dei sondaggi, so che alla fine bisogna stare con la Selecao e basta. Quelli che protestano hanno ragione, si guardi intorno: qui non c'è niente. Ma Dilma fa il suo meglio, ha fatto tanto. E poi se ci tolgono anche l'allegria della torcida cosa ci resta?". Non c'è niente. Dune, spettacolari dune patrimonio dell'umanità, montagne di sabbia alte come palazzi che i tour operator propongono ai turisti di attraversare in cammello, animale non esattamente indigeno. Il recinto dei cammelli eccolo, compare come un'allucinazione nel deserto. "Io non ci sono mai salito, costa troppo. Però a mio figlio Samuel che ha 3 anni ho promesso che una volta lo porto. Ci vuole lo stipendio di un mese, ma lo porto". Nel cantiere "Consorzio Arena das Dunas" Ney ha lavorato otto ore al giorno, straordinari frequenti e forfettizzati, per 900 real al mese, circa 300 euro. Lo stadio è costato 450 milioni di real. Dei 900 mensili che vanno a Ney per pagare l'affitto della casa dove vive con la madre due fratelli la moglie e due figli ne spende 500. 400 real, 130 euro, restano per vivere. "Così quando sono venuti Bebeto, Ronaldo, la governadora e tutte le autorità al cantiere, qualche mese fa, a dire che ci avrebbero regalato due biglietti per andare allo stadio, a noi operai, ho pensato subito: li vendo. Poi alla fine ce ne hanno dato uno solo, non so perché. A me è toccato quello di Stati Uniti-Ghana. L'ho venduto per 250 real e li ho dati a mia moglie Mariana, sennò mi scappano di mano e spariscono. Lei mette via i soldi per comprare una lavatrice, lavora tutto il giorno e non ce la fa a lavare i panni di tutti. È cameriera a chiamata nel resort più grande di Praia de Ponta Negra, lavora a giornate, 30 real al giorno". 10 euro. Il resort dove lavora Mariana è quello a cui il quotidiano O Globo dedica oggi un'inchiesta. Le stanze costano fino a 20mila reais, il kit offerto sottobanco ai clienti "sexo droga e forrò" ne costa 30. Sempre dieci euro, alla ragazza che fornisce i tre generi di conforto menzionati: il forrò è una danza tipica del Nordeste. "Che peccato è, bella Maria, farsi un po' di compagnia", canta Vinicius dagli altoparlanti.

Ney dice che non si lamenta perché un lavoro ce l'ha, per arrotondare fa il barbiere a casa, ha due figli sani. Dice che è una buona cosa che il governo abbia pensato di regalare i biglietti delle partite agli operai, mica tutti ci pensano. Però poi certo, la lavatrice è più importante della partita che tanto quella si vede in tv. Siamo quasi arrivati quando indica all'orizzonte un edificio basso, orizzontale, lontano. "Quello è il posto degli scienziati. Qualcosa di buono per il mondo arriva anche da Natal, non abbiamo mica solo le dune". Il posto degli scienziati è il centro di neuroscienze fondato da Miguel Nicolélis, gloria nazionale, da 20 anni direttore del centro della Duke University negli Usa. Nicolélis è nato qui e ci lavora. Dal suo progetto "Camminare ancora" è nato l'esoscheletro che muoveva l'uomo paralizzato che ha dato il calcio d'inizio al Mondiale, sorretto da un robot che traduce in gesti le intenzioni.

"La tv ha detto che lo hanno fatto coi cervelli delle scimmie". Più o meno, infatti. Lavorando con le scimmie, quelle che qui la notte se non chiudi bene le finestre vengono a rubare dentro casa. Siamo arrivati, ecco il coleottero bianco. Ney racconta per filo e per segno come lo ha montato, spiega che per grazia di Dio in questo stadio non è morto nessuno, solo un suo compagno, Lucas, è caduto dalla gru e ancora non può camminare ma c'è quel robot, qui lo sanno tutti, e poi speriamo che non gli serva neanche quello. Dice scusi un momento, tira fuori dal borsone una maglia dell'Italia, si cambia e la indossa. Ha il numero 9. Balotelli? "No, è quella del 2006, è Toni. Noi tifiamo tutti Italia, qui, perché è vero che l'Uruguay è fratello ma ci ha già fatto male una volta e ora basta". Quella volta, certo. "Però sa cosa penso? Che voi del primo mondo non state giocando bene. È un po' stanca forse l'Europa? Il terzo mondo ha sempre fame, allora escono il coraggio, la forza, la ilusao". La speranza, che non è sempre sinonimo di illusione. Primo mondo contro terzo mondo, dice Ney, gruista a Natal. È un po' stanca forse l'Europa, non ha più fame? Beviamo un'acqua di cocco, che fa caldo. Grazie della gita, Ney. Ma no, grazie a voi che siete venuti. Tornate, e buona fortuna.

© Riproduzione riservata 23 giugno 2014

Da - http://www.repubblica.it/speciali/mondiali/brasile2014/2014/06/23/news/operaio_arena_das_dunas-89755238/
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« Risposta #95 inserito:: Ottobre 05, 2014, 07:44:31 pm »

Il Ragazzo e la Ditta, due partiti in uno. Il futuro dei democratici alle prove d’autunno
Renzi scardina la tradizione, Bersani e D’Alema resistono. Ma i “figli” dei vecchi big sono attratti dal leader. Civati e la scissione: “Tanti la chiedono”

Di CONCITA DE GREGORIO
05 ottobre 2014
   
LA DITTA, il Ragazzo. La luna di miele era per i fotografi, in verità una tregua armata. Estranei erano ed estranei sono rimasti. Al Partito (quello novecentesco, quello delle tessere che non ci sono più) il Ragazzo non è mai piaciuto: un'altra tradizione politica, tutta quella spregiudicatezza, occhiolino alle telecamere e nessuna gratitudine verso i padri. Alle Frattocchie lo avrebbero messo a rilegare atti del congresso, così si calma. Ma il Ragazzo le Frattocchie sa a malapena cosa siano, e poi quello era il Pci. A Renzi, d'altra parte, la Ditta è servita soprattutto come mezzo di trasporto: capolinea Palazzo Chigi. Come legittimazione, anche: vuoi mettere l'aura che ti dà essere alla guida del primo partito del centrosinistra europeo in confronto, mettiamo, a una lista civica. Difatti pazienza se non si iscrive più nessuno, "contano gli elettori", ha ripetuto venerdì. Pazienza se nemmeno in Emilia vanno più a votare alle primarie, "nessuno ha interferito", se la Ditta è in liquidazione perché "un partito senza iscritti non è più un partito", parola di Bersani. Renzi: "Io parlo agli italiani, non ai dirigenti del Pd. Ogni volta che D'Alema apre bocca mi regala un punto". Ecco, questo.

Dall'ultima direzione Pd è cambiato il mondo: ora è finalmente chiaro a tutti. Esistono due partiti dentro il Pd, anzi tre. Il partito di Renzi, la vecchia Ditta, la sinistra di Civati. Guardate i video su Youtube. Osservate come si muovono, ascoltate cosa dicono. La velocità, la quantità di parole per minuto. Lo schema di gioco: i vecchi in difesa, il Ragazzo all'attacco. I verbi al passato, i verbi al futuro. Bersani, D'Alema, i dirigenti venuti dal Pci hanno patito, irriso, combattuto Matteo Renzi  -  un boy scout scaltro e ambizioso, un democristiano 2.0 fissato con Twitter, ridevano  -  fino a che non ha vinto: le primarie prima, le europee dopo con un risultato da lasciare tutti muti. Il 40, e zitti. In mezzo la partita del Quirinale, che senza i 101 e rotti "traditori" avrebbe potuto davvero cambiare le sorti del Paese, ma non è accaduto e ancora resta da spiegare come, perché, per mano di chi. Ora preparano la fronda. D'Alema riunisce i suoi parlamentari a cena, Bersani parla con Pippo Civati il quale a sua volta parla con Vendola. Ieri erano insieme in manifestazione in piazza Santi Apostoli: Vendola, Civati, Landini. Un'altra sinistra possibile, ancora una. La scissione è il tema del momento. Subito? A dicembre? Non appena mancheranno i voti al Senato, magari per la legge di Stabilità?

Ora: a chi vive nel mondo reale è piuttosto chiaro che quel che accade dentro il Pd interessa ormai solo a chi lo abita. Agita curve sempre più esigue. Interessa pochissimo anche Renzi, infastidito dalle diatribe delle minoranze interne almeno quanto Berlusconi lo era dal dibattito parlamentare. Una zavorra: "Se decidono di uscire fanno il 5, e andiamo più veloce", ha detto l'altro giorno a uno dei suoi tre uomini di fiducia  -  di tre persone sole si fida davvero. Fanno il 5, dice di Civati e del possibile "nuovo soggetto politico" che si è affacciato ieri dal palco di Sel.

"E' troppo presto, ora, per rompere", dice rientrando verso casa Felice Casson, senatore civatiano e possibile candidato sindaco per Venezia. "Con l'articolo 18 in aula si andrà per le lunghe. Lo stesso governo non ha chiesto, in conferenza di capigruppo, di contingentare i tempi del dibattito: segno che il governo per primo non ha fretta". Il governo non ha fretta di arrivare al voto finale. Civati ragiona sui tempi: "Mi chiedono di uscire dal Pd per strada, in treno, al bar mentre prendo un caffè". Ma è presto, ripete. "Non prima di dicembre di sicuro, deve passare dicembre".

Dicembre è il mese chiave. Perché se il riposizionamento dei Giovani turchi e le strategie di Area democratica (se Roberto Speranza in Direzione si astiene, se Andrea Orlando vota a favore e D'Attorre contro) sono ghiottonerie solo per i feticisti della materia è anche evidente che si tratta di segnali che annunciano una partita più grande. Fuori dal Pd c'è il campo esteso del centrosinistra, il destino del governo e delle istituzioni supreme, presidenza della Repubblica in testa. Civati guarda allo spazio politico di Sel, vampirizzata alle europee dalla lista Tsipras. Lavora intanto al fianco dei 'movimentì storicamente diffidenti verso la Ditta, diffidenza ampiamente ricambiata, e cerca sponda nel sindacato pronto a scendere in piazza il 25 ottobre. Un'area che va da Landini a Rodotà, Zagrebelsky, Libertà e Giustizia, Sel, i verdi rimasti. "Più o meno un dieci per cento dell'elettorato", stima Civati raddoppiando la valutazione di Renzi. Quanti siano nel Paese si vedrà al momento del voto: intanto è interessante sapere quanti sono al Senato, e se per caso la loro defezione al momento di votare le riforme possa portare, appunto, al voto anticipato e quel che ne consegue.

Ecco il nodo di dicembre. I sondaggi danno il Pd in lieve crescita rispetto al 40 e la fiducia in Renzi in ascesa. Al Presidente del Consiglio  -  che non è passato da un voto politico ma ha avuto una legittimazione per così dire postuma, con le europee  -  converrebbe andare a votare al più presto, lo sa e lo dice. Per liberarsi dalla zavorra del dissenso interno e ricalibrare le forze rispetto a Forza Italia e a Berlusconi, in declino  -  quest'ultimo  -  personale e di consensi. C'è tuttavia il vincolo del patto del Nazareno che prevede, tra l'altro, un accordo per l'elezione del prossimo Presidente da farsi con questo Parlamento. Giorgio Napolitano ha fin dalla rielezione immaginato di dimettersi per i suoi 90 anni, a giugno. Renzi vorrebbe "che fosse lui ad inaugurare l'Expo 2015". Ma neppure il presidente del Consiglio sa con certezza se a maggio ci sarà questo o un altro Parlamento. Ivan Scalfarotto, sottosegretario alle Riforme, renziano: "Ai dissidenti non conviene andare a votare, parecchi metterebbero a rischio la propria rielezione. E' piuttosto triste, inoltre, assistere ad un'alleanza fra D'Alema e Civati in chiave anti-renziana. D'Alema e Bersani incarnano una sinistra conservatrice: operaista fuori tempo massimo, tutta schiacciata a garantire un mondo in estinzione, il loro mondo. Non li abbiamo mai visti in piazza a difendere le finte partite Iva dei giovani senza garanzie, né dei precari. Hanno governato, non hanno fatto quel che potevano e dovevano.

Civati, mi duole dirlo, finisce per ingrossare le fila di quella sinistra minoritaria e identitaria, quella che sta sempre e solo all'opposizione felice di occupare una riserva indiana in cui tutti sono puri e sono amici, si conoscono. La polemica lessicale dell'altro giorno in direzione  -  se gli imprenditori siano 'padronì o 'datori di lavorò  -  sembrava una riedizione dello scontro fra Occhetto e Berlusconi". Padroni che sfruttano i lavoratori, diceva Fassina. Datori di lavoro che partecipano al destino dei loro dipendenti, insisteva al contrario Renato Soru. Pippo Civati: "Partirei da Soru, che ha avuto problemi col fisco e siede al Parlamento europeo mentre i lavoratori dell'Unità di cui era editore sono in cassa integrazione: fossi in lui parlerei d'altro, non di rapporti societari e aziendali.


Quanto al rischio scissione: certo che esiste. Oggi è il lavoro, domani sarà la legge di stabilità: che cosa facciamo, continuiamo a votare contro, restiamo dentro in dissenso dalle scelte fondamentali? Non mi pare possibile".

Sull'altro fronte, quello della Ditta, due sono i livelli di frattura con Renzi. Quello evidente della vecchia guardia, D'Alema e Bersani ostili. Poi quello generazionale e "ministeriale": i giovani ex dalemiani, figli di quegli anziani padri, oggi al governo del paese e del partito  -  ministri, capigruppo, presidenti  -  che proiettano su Renzi la loro personale traiettoria politica. Orfini, Orlando, Speranza, Martina. Il Ragazzo e la sua capacità di vincere trascinano nell'orbita renziana i più giovani della Ditta.

Queste le divisioni cellulari interne al Pd. Più seria e più grave, tuttavia, è l'unica divisione di cui Renzi dovrebbe aver timore: il solco che si è creato fra il vertice del partito che dirige e la sua base, quel che ne resta nell'emorragia di iscritti. Esiste il mondo della direzione del Pd, esiste il mondo di Twitter e Facebook, poi esiste il mondo fuori. C'è un'Emilia in cui vanno a votare alle primarie solo i politici di professione, una Puglia che fa accordi con il centrodestra incomprensibili ai militanti. Una Toscana che ha lasciato Livorno ai Cinquestelle, c'è Venezia commissariata, il sindaco eletto dal Pd travolto dagli scandali. C'è un Pd che si sfalda, sul territorio, una disillusione che cresce nell'ironia feroce e nella rabbia. Renzi parla al Paese, non al partito. In questo senso l'unico che davvero, per ora, ha mostrato di potere e volere "uscire dal Pd" è stato lui.

© Riproduzione riservata 05 ottobre 201

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/10/05/news/il_ragazzo_e_la_ditta_due_partiti_in_uno_il_futuro_dei_democratici_alle_prove_dautunno-97358701/?ref=HRER2-1
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« Risposta #96 inserito:: Novembre 03, 2014, 05:13:41 pm »

Non è successo nulla
Di CONCITA DE GREGORIO

01 novembre 2014
   
QUINDI non è stato nessuno. Quindi, come dice sua madre guardandoti diritto negli occhi, "visto che non è successo niente stasera torniamo a casa e lo troviamo vivo che ci aspetta".

Perché la questione è molto semplice, ed è tutta qui. Non c'è da ripercorrere le indagini, sostituirsi a chi le ha fatte, commentare la sentenza provare a indovinarne le ragioni. Meno, molto meno. Quello che rende la storia di Stefano Cucchi la storia di tutti è nelle semplicissime parole di sua madre: c'era un giovane uomo di 31 anni e non c'è più, era nelle mani dei custodi della Legge lo hanno ammazzato ma non è stato nessuno dunque non è successo niente.

Vada a casa signora, ci dispiace. Suo figlio è morto mentre era nelle strutture dello Stato, una caserma poi un'altra, una cella di sicurezza poi un'altra, un ospedale poi un altro. È stato picchiato, è vero. Aveva le vertebre rotte gli occhi tumefatti: lo sappiamo, le perizie lo confermano, non potremmo d'altra parte certo negarlo. Le sue foto avete deciso un giorno di renderle pubbliche e da allora le vediamo ogni volta, anche oggi qui, ingigantite, in tribunale. Un ragazzo picchiato a morte. Ma chi sia stato, tra le decine e decine di carabinieri e agenti, pubblici ufficiali e dirigenti, medici infermieri e portantini che in quei sei giorni hanno disposto del suo corpo noi non lo sappiamo. Dalle carte non risulta. Nessuno, diremmo. Anzi lo diciamo: nessuno.

Dunque vada a casa, è andata così. Dimentichi, si dia pace. Questo è un esercizio più facile per chi voglia provare a mettersi nei panni: nessuna madre, né padre, né sorella può dimenticare né darsi pace del fatto che un figlio debole, infragilito dalla droga come migliaia di ragazzi sono, ma deciso a uscirne, un figlio amato, smarrito, accudito possa essere arrestato una sera al parco con 20 grammi di hashish, portato in caserma e restituito cadavere una settimana dopo. È anche difficile sopportare in aula l'esultanza e il giubilo dei medici e degli infermieri assolti, perché comunque quel ragazzo stava male, è morto che pesava 37 chili e quando è entrato ne pesava venti di più. Sembra impossibile poter perdere 20 chili in sei giorni ma se non mangi e non bevi perché pretendi un legale che non ti danno, se hai un problema al cuore e vomiti per le botte forse succede, di fatto è successo e qualcuno deve aiutarti a restare in vita. Uno a caso, dei cento che sono passati davanti ai tuoi occhi in quei giorni e hanno richiuso la cella. È difficile per un padre leggere il comunicato di polizia Sap che con soddisfazione dice "se uno conduce una vita dissoluta ne paga le conseguenze senza che altri, medici o poliziotti, paghino per colpe non proprie". Perché, ricorda sommessamente Giovanni Cucchi, "ho rispetto per tutti, ma vorrei precisare che chi ha perso il figlio siamo noi".

Delle immagini di ieri, sentenza di assoluzione, restano le grida di esultanza degli imputati le lacrime dei familiari e i volti chiusi dei magistrati tra cui molte donne, volti rigidi. Dicono, da palazzo di giustizia, che le prove fossero "scivolose", le perizie e le consulenze decine, tutte contraddittorie. Dev'essere stato difficile anche per i magistrati, è lecito e necessario supporre, prendere una decisione così.


Ci si augura che sia stato un rovello terribile, una via per qualche ragione patita e obbligata. Perché altrimenti diventa difficilissimo per ciascuno di noi continuare ad esercitare con scrupolo e dovizia la strada impopolare e impervia, ma giusta, della responsabilità individuale e personale. Quella che se non paghi una multa ti pignorano casa, ed è giusto, se dimentichi una scadenza sei fuori dalle graduatorie, ed è giusto, se commetti un'imprudenza o violi una norma sei sottoposto a giudizio, ed è naturalmente giusto.

Bisogna però essere certissimi, ma proprio certissimi, che non esista un'omertà di Stato per cui se è chi veste una divisa o ricopre un pubblico ufficio, a violare le norme, nessuno saprà mai come sono andate le cose perché si coprono fra loro nascondendo le carte e le colpe. Bisogna essere sicuri che se sono io ad ammazzare di botte una persona inerme prendo l'ergastolo e che se lo fa un esponente dello Stato in nome del diritto prende l'ergastolo lo stesso. Perché altrimenti, se così non è, viene meno in un luogo remoto e profondissimo il senso del rispetto delle regole e le conseguenze non si possono neppure immaginare. Altrimenti vale la legge del più forte e non si sa domani in quale terra di nessuno ci potremmo svegliare, tutti e ciascuno di noi, in quale selva che ci conduce dove. Disorienta e mina le fondamenta del vivere in comunità, una sentenza così. Servirebbe un gesto forte e simbolico, comprensibile a tutti. Ci sono giorni che chiamano all'appello l'umanità e l'intelligenza di chi, sovrano, incarna le istituzioni. Questo è uno.

© Riproduzione riservata 01 novembre 201

DA - http://www.repubblica.it/cronaca/2014/11/01/news/non_successo_nulla-99490047/?ref=HREC1-1
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« Risposta #97 inserito:: Giugno 17, 2015, 05:21:28 pm »

Soldi, corruzione, potere: tutto in cinque regole.
Così è finito il Pd romano

Nel partito capitolino c'è un filo trasversale che lega le correnti. Ma tutto nasce con la vittoria di Alemanno

di CONCITA DE GREGORIO
15 giugno 2015

ROMA. L'incredibile e triste storia del Pd romano, a raccontarla a chi vive per esempio a Gallarate o Ragusa e di Mirko Coratti e Daniele Ozzimo non ha mai sentito parlare, si riduce ad una pozza di reciproci risentimenti, ritorsioni e ricatti fra i per così dire vertici - qui di alto non c'è nulla, solo alcuni conti in banca  -  del piccolo potere politico locale a cui è sfuggito di mano un poderoso gioco di ruolo. Il cui obiettivo, come in ogni gioco, è quello di conquistare il potere con ogni mezzo. Lecito e illecito, in questo caso. Dell'illecito si occupano con grande solerzia le procure. Ci sono i reati, i guerci e gli infiltrati, gli sprovveduti e i lestofanti. Poi c'è un sistema politico  -  il campo di gioco  -  che non è molto diverso da quello di tanti altri luoghi che non sono Roma, un sistema collaudato su base nazionale. Cambiano i nomi, ma le regole sono quelle. Cinque, le regole. Tre i livelli di difficoltà. Vediamoli.

Uno. Si sta sempre con chi vince. Delle famose correnti, cordate, filiere di potere è impossibile ricostruire nel tempo 'chi sta con chi'. Fare le squadre, insomma. Cambiano secondo la convenienza. Le due grandi famiglie, veltroniani e dalemiani, hanno generato nel tempo bettiniani, marroniani, orfiniani, montiniani, bersaniani (dai nomi dei leader locali di riferimento, a Roma). Ora, per esempio, la maggioranza è renziana, nel senso di orfinian-renziana perché Matteo Orfini, una volta dalemiano, è oggi renziano: da Renzi infatti incaricato di bonificare il partito che assai ben conosce. Due anni fa erano tutti bersaniani, prima bettiniani, o veltroniani. L'impressione  -  disse e ripete il ministro Marianna Madia, tra le prime a denunciare due anni fa il Pd romano come "associazione a delinquere"  -  è che le divisioni siano solo di facciata. Ci sono, per carità: controllano pacchetti di iscritti e di voti sul territorio. Ma al momento delle decisioni si riuniscono "in camera di consiglio" e si spartiscono la torta. Tutte le cariche elettive, tutti i centri di spesa. Ti può capitare di vederli uscire, alla vigilia delle elezioni, dalla stessa stanza. Cinque o sei persone, sulla carta correnti rivali ma in realtà pronti a concordare cosa tocca a chi. Una camera di consiglio, per usare un'espressione soave. Si sta con chi conviene, con chi comanda, e al momento di decidere si decide insieme.

Due. Segui i soldi. Follow the money, diceva la gola profonda del Watergate in "Tutti gli uomini del presidente". E' molto semplice. Dove ci sono molti soldi e non si sa da dove vengano c'è qualcosa che non va. Pierpaolo Bellu, segretario dello storico circolo San Giovanni, anno di fondazione 1949, oggi 250 iscritti da rinnovare, perché il tesseramento è stato dai commissari azzerato: "No, davvero non lo so quando è cominciato tutto. Io ti direi che è sempre stato così. Ma lo sapevano tutti: quando in un quartiere c'è un candidato che invita a cena al ristorante cento persone, paga lui, e un altro che porta la pasta fredda da casa nel cortile del circolo. Quando uno mette cinquemila manifesti e un altro cinquecento. Quando all'improvviso da un circolo che non fa attività compaiono 200 tesserati". Le cene, i manifesti, le tessere nei circoli fantasma. I paesi dove vota più gente di quanti siano i vivi. Una tessera su cinque è falsa, hanno detto i commissari. 16 mila nel 2013. 9 mila nel 2014. "Anche Marco Miccoli, quando era segretario cittadino, poteva indagare, volendo". Miccoli ora è parlamentare. Non c'era bisogno di Barca, insomma. Volendo.

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15 giugno 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/06/15/news/soldi_corruzione_potere_tutto_in_cinque_regole_cosi_e_finito_il_pd_romano-116877547/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_15-06-2015
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« Risposta #98 inserito:: Novembre 09, 2015, 05:16:37 pm »

Le anime perse del Pd romano: "Ora rischiamo di essere azzerati"

 Circoli spesso chiusi, militanti sconcertati per la cacciata del sindaco, Orfini assediato su Fb: "Fateci parlare".
E l'accusa di una ex assessora: "I capibastone ancora tutti lì, vivi e vegeti"

Di CONCITA DE GREGORIO
09 novembre 2015

ROMA. Anticorpi no, però c'è il sole. Un sindaco no. Le sedi del Partito democratico chiuse, però si sta in maglietta e c'è il mercatino biologico, stamani. Molte coppie, bimbi in monopattino, anziani in panchina vicino alla fontana. Scusate, la sede del Pd? "E' tanto che è chiusa". Sì ma quella nuova? "Non so, chieda a loro". Due operai fumano una sigaretta davanti al cancello dove in un tempo ormai remoto lo studente Matteo Orfini, oggi presidente del Partito democratico, uscito da scuola andava ad ascoltare Massimo D'Alema: la storica sezione Mazzini, quartiere Prati. Al posto del circolo c'è il magazzino di una farmacia, "ma è tanto". Sì. Ma quella nuova? "Dice che ora l'hanno accorpata a Trionfale, come le scuole quando restano vuote". Trionfale, a piedi, sono venti minuti a passo svelto. Chiuso. Sul portoncino del circolo Pd (l'anta di sinistra, quella di destra è di Sel) c'è un cartello: "Aperto il martedì dalle 18 alle 20, o su appuntamento". Segue numero di telefono urbano. Squilla a vuoto. Il circolo Pd Trionfale-Borgo ora anche Mazzini-Prati copre un'area che va dal Vaticano allo Stadio Olimpico, dalla collina dei grandi alberghi alla sede della Rai. E' come se Pisa, tutta, avesse un solo circolo Pd. Chiuso però. Riceve su appuntamento. Se chiami non risponde.

E' cambiato tutto, dall'estate, e non è cambiato nulla. C'è il sole, sempre. Quel che è successo negli ultimi cinque mesi, da quando Fabrizio Barca ha consegnato la relazione sullo stato del Pd romano, è difficile da spiegare a chi non viva a Roma. A chi cioè non la sappia tiepida distratta e accogliente come il dehor di un grand hotel: porte girevoli e prego accomodatevi in giardino, cosa possiamo offrire. C'è posto per il papa argentino, per il presidente fiorentino, per Daniel Craig di passaggio sul set, per Marino che esce e per il prefetto di Milano che entra, per la scuola in gita scolastica e per i vecchi potenti al solito tavolo, il loro tavolo, invisibili alla luce del sole. "I capibastone sono tutti lì, vivi e vegeti" dice Marta Leonori, ex parlamentare pd ex assessore capitolino avvilita per essere stata trattata "dopo due anni e mezzo di lavoro durissimo come un'imbecille in un branco di imbecilli. Ma non ne faccio un fatto personale. Prima che ingiusto è stato un errore politico. Ora aspettiamo il dream team di Malagò, meno male. Scusi, la devo lasciare, sto entrando al cinema". Cosa va a vedere? "Un cartone, mi distraggo. Comunque ha ragione Barca: è un favore fatto al 'Pd cattivo'. A quelli del 'potere per il potere', come diceva la sua relazione. Quelli non hanno mai mollato, sono al loro posto. Ora Renzi ha detto che a Roma di politica non si deve più parlare fino a marzo. Mah. Lo ha detto a Porta a Porta. Orfini ha postato l'ultimo messaggio su FB il 31 ottobre. Per sapere che succede devi guardare Vespa o controllare Facebook".

L'ARTICOLO INTEGRALE SU REPUBBLICA IN EDICOLA E REPUBBLICA+

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09 novembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/11/09/news/le_anime_perse_del_pd_romano_ora_rischiamo_di_essere_azzerati_-126937853/?ref=HREC1-2
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« Risposta #99 inserito:: Dicembre 17, 2015, 07:20:01 pm »

Intervista a Gelli: "Guardo il Paese, leggo i giornali e dico: avevo già scritto tutto trent'anni fa"
"Giustizia, tv, ordine pubblico è finita proprio come dicevo io"


Dal nostro inviato CONCITA DE GREGORIO

AREZZO - Son soddisfazioni, arrivare indenni a quell'età e godersi il copyright. "Ho una vecchiaia serena. Tutte le mattine parlo con le voci della mia coscienza, ed è un dialogo che mi quieta. Guardo il Paese, leggo i giornali e penso: ecco qua che tutto si realizza poco a poco, pezzo a pezzo. Forse sì, dovrei avere i diritti d'autore. La giustizia, la tv, l'ordine pubblico. Ho scritto tutto trent'anni fa". Tutto nel piano di Rinascita, che preveggenza. Tutto in quelle carte sequestrate qui a villa Wanda ventidue anni fa: 962 affiliati alla Loggia. C'erano militari, magistrati, politici, imprenditori, giornalisti. C'era l'attuale presidente del Consiglio, il suo nuovo braccio destro al partito Cicchitto: allora erano socialisti.

Chi ha condiviso quel progetto è oggi alla guida del paese. "Se le radici sono buone la pianta germoglia. Ma questo è un fatto che non ha più niente a che vedere con me". Niente, certo. Difatti quando parla di Berlusconi e di Cicchitto, di Fini di Costanzo e di Cossiga lo fa con la benevolenza lieve che si riserva ai ricordi di una stagione propizia. Sempre con una frase, però, con una parola che li fissa senza errore ad un'origine precisa della storia.

Quel che rende Licio Gelli ancora spaventosamente potente è la memoria. Lo si capisce dopo la prima mezz'ora di conversazione, atterrisce dopo due. Il Venerabile maestro della Loggia Propaganda 2 è in grado di ricordare l'indirizzo completo di numero civico della prima casa romana di Giorgio Almirante, l'abito che indossava la sua prima moglie quel giorno che gli fece visita a Natale, i nomi dei tre figli di Attilio Piccioni e da lì ricostruire nel dettaglio il caso Montesi che vide coinvolto uno dei tre, ricorda il numero di conto corrente su cui fece quel certo bonifico un giorno di sessant'anni fa, la targa della camionetta di quando era ufficiale di collegamento col comando nazista, quante volte esattamente ha incontrato Silvio Berlusconi e in che anni in che mesi in che giorni, come si chiamava il segretario di Giovanni Leone a cui consegnò la cartella coi 58 punti del piano R, che macchina guidava, se a Roma c'era il sole quella mattina e chi incontrò prima di arrivare a destinazione, che cosa gli disse, cosa quello rispose.

Questo di ogni giorno dei suoi 84 anni di vita, attualmente archiviata in 33 faldoni al primo piano di villa Wanda, dietro a una porta invisibile a scomparsa. "Ogni sera, sempre, ho scritto un appunto del giorno. Per il momento per fortuna non mi servono, perché ricordo tutto. Però sono tranquillo, gli appunti sono lì".

Il potere della memoria, ecco. Il resto è coreografia: il parco della villa che sembra il giardino di Bomarzo, con le statue le fontane i mostri, la villa in fondo a un sentiero di ghiaia dietro a un convento, le stanze con le pareti foderate di seta, i soffitti bassi di legno scuro, elefanti di porcellana che reggono i telefoni rossi, divani di cuoio da due da tre da sette posti, di velluto blu, di raso rosa, a elle e a emiciclo, icone russe, madonne italiane, guerrieri d'argento, pupi, porcellane danesi, un vittoriano buio con le imposte chiuse al sole di settembre, scale, studi, studioli, sale d'attesa coi vassoi d'argento pieni di caramelle al limone. Ma lei vive qui da solo? "Sì certo solo". E questi rumori, le ombre dietro le porte di vetro colorato? "La servitù".

Commendatore, gli sussurra una segretaria pallida porgendogli un biglietto: una visita. "Mi scusi, mi consente di assentarmi un attimo? E' un vecchio amico".

Gelli è in piena attività. Riceve in tre uffici: a Pistoia, a Montecatini, a Roma. Oltre che in villa, naturalmente, ma fino ad Arezzo si spingono gli intimi. Dedica ad ogni città un giorno della settimana. A Pistoia il venerdì, di solito. A Roma viene il mercoledì, e scende ancora all'Excelsior. Le liste d'attesa per incontrarlo sono di circa dodici giorni, ma dipende. Per alcuni il rito è abbreviato. Al telefono coi suoi segretari si è pregati di chiamarlo "lo zio": "La regola numero uno è non fare mai nomi - insiste l'ultimo di una serie di intermediari - Lei non dica niente, né chi la manda né perché. La richiameranno. Quando poi lo incontra vedrà: è una persona squisita. Solo: non gli parli di politica". Di poesia, vorrebbe si parlasse: perché Licio Gelli da quando ha ufficialmente smesso di lavorare alla trasformazione dell'Italia in un Paese "ordinato secondo i criteri del merito e della gerarchia", come lui dice, "per l'esclusivo bene del popolo" ha preso a scrivere libri di poesia, ovviamente premiati di norma con coppe e medaglie, gli "amici" nel '96 lo hanno anche candidato al Nobel.

"Vorrei scivolare dolcemente nell'oblio. Vedo che il mio nome compare anche nelle parole crociate, e ne soffro. Vorrei che di me come Venerabile maestro non si parlasse più. Siamo stati sottoposti a un massacro. Pensi a Carmelo Spagnolo, procuratore generale di Roma, pensi a Stammati che tentò di uccidersi. E' stata una gogna in confronto alla quale le conseguenze di Mani Pulite sono una sciocchezza. In fondo Mani pulite è stata solo una faccenda di corna. Lei crede che la corruzione sia scomparsa? Non vede che è ovunque, peggio di prima? Prima si prendeva facciamo il 3 per cento, ora il 10. Io non ho mai fatto niente di illegale né di illecito. Sono stato assolto da tutto. Le mie mani, eccole, sono nette di oro e di sangue".

Assolto da tutto non è vero, dev'essere per questo che lo ripete tre volte e s'indurisce. Indossa un abito principe di Galles, cravatta di seta, catena d'oro al taschino, occhiali con montatura leggerissima, all'anulare la fede e un grosso anello con stemma. Questo avrebbe detto dunque a Montecatini, a quel convegno a cui l'hanno invitata e poi non è andato? Dicono che Andreotti l'abbia chiamata per dissuaderla. "E' una sciocchezza. Andreotti non è uomo da fare un gesto simile. Si vede che lei non lo conosce".

Senz'altro lei lo conosce meglio. "Se Andreotti fosse un'azione avrebbe sul mercato mondiale centinaia di compratori. E' un uomo di grandissimo valore politico". Come molti della sua generazione. "Molti, non tutti. Cossiga certamente. Non Forlani, non aveva spina dorsale. Naturalmente Almirante, eravamo molto amici, siamo stati nella Repubblica sociale insieme. L'ho finanziato due volte: la seconda per Fini. Prometteva molto, Fini. Da un paio d'anni si è come appannato". Forse un po' schiacciato dalla personalità di Berlusconi. "Può darsi. Berlusconi è un uomo fuori dal comune. Ricordo bene che già allora, ai tempi dei nostri primi incontri, aveva questa caratteristica: sapeva realizzare i suoi progetti. Un uomo del fare. Di questo c'è bisogno in Italia: non di parole, di azioni".

Vi sentite ancora? "Che domanda impertinente. Piuttosto. L'editore Dino, lo conosce? Ha appena ripubblicato il mio primo libro: Fuoco! E' stata la mia opera più sofferta, anche perché ha coinciso con la morte di mio fratello nella nostra guerra di Spagna. E' un edizione pregiata a tiratura limitata, porta in copertina il mio bassorilievo in argento. Ci sono due altri solo autori in questo catalogo: il Santo padre, e Silvio Berlusconi". Anche Berlusconi col bassorilievo d'argento? "Certo, guardi". Il titolo dell'opera è "Cultura e valori di una società globalizzata". Pensa che Berlusconi abbia saputo scegliere con accortezza i suoi collaboratori? "Credo che in questa ultima fase si senta assediato. E' circondato da persone che pensano al "dopo". Non si fida, e fa bene.

E' stato giusto bonificare il partito, affidarlo a un uomo come Cicchitto. Cicchitto lo conosco bene: è bravo, preparato". Il coordinatore sarebbe Bondi in realtà. "Sì, d'accordo. Credo che anche Bondi sia preparato. E' uno che viene dalla disciplina di partito". Comunista. "Non importa. Quello che conta è la disciplina e il rispetto della gerarchia". Ha visto il progetto di riordino del sistema televisivo? "Sì, buono". E la riforma della giustizia? "Ho sentito che quel Cordova ha detto: ma questo è il piano di Gelli. E dunque?

L'avevo messo per scritto trent'anni fa cosa fosse necessario fare. Leone mi chiese un parere, gli mandai uno schema in 58 punti per il tramite del suo segretario Valentino. Pensa che chi voglia assaltare il comando consegni il piano al generale nemico, o al ministro dell'Interno? Ma comunque non è di questo che vogliamo parlare, no? Vuole anche lei avere i materiali per scrivere una mia biografia? Arriva tardi: ho già completato il lavoro con uno scrittore di gran fama". Su una poltrona è appoggiato l'ultimo libro di Roberto Gervaso. La scrive con Gervaso? "Ma no, ci vuole una persona estranea ai fatti. Se vuole le mostro lo scaffale con le opere che mi riguardano, le ho catalogate: sono 344". Certo: il burattinaio è un soggetto affascinante. "Andò così: venne Costanzo a intervistarmi per il Corriere della sera. Dopo due ore di conversazione mi chiese: lei cosa voleva fare da piccolo. E io: il burattinaio. Meglio fare il burattinaio che il burattino, non le pare?".

Sembra che ce ne siano diversi di burattinai in giro ultimamente. "Il burattinaio è sempre uno, non ce ne possono essere diversi". E adesso chi è? "Adesso? Questa è una classe politica molto modesta, mediocre. Sono tutti ricattabili". Tutti? Mettiamo: Bossi. "Bossi si è creato la sua fortezza con la Padania, ha portato 80 parlamentari è stato bravo. Ma aveva molti debiti... Per risollevare il Paese servono soldi, non proclami. Ho sentito che Berlusconi ha invitato gli americani a investire in Italia: ha fatto bene, se qualcuno abbocca?

Ma la situazione è molto seria. L'economia va malissimo, l'Europa è stata una sventura. Non abolire le barriere, bisognava: moltiplicarle. Fare la spesa è diventato un problema, il popolo è scontento. Serve un progetto preciso". Per la Rinascita del Paese. "Certo". C'è il suo: certo forse i 900 affiliati alla P2 erano pochi. "Ma cosa dice, novecento persone sono anche troppe. Ne bastano molte meno". Allora quelle che ci sono ancora bastano, tolti i pentiti. "Nessuno si è pentito. Pentiti? A chi si riferisce? Costanzo, forse. L'unico. Con tutto quello che ho fatto per lui. Guardi: io non devo niente a nessuno ma tutti quelli che ho incontrato devono qualcosa a me. Ci sono dei ribelli a cui ho salvato la vita, ancora oggi quando mi incontrano mi abbracciano". Ribelli? "Sì, i ribelli che stavano sulle montagne, in tempo di guerra. Io ero ufficiale di collegamento fra il comando tedesco e quello italiano. Ne ho salvati tanti". Intende partigiani. "Li chiami come crede. Eravamo su fronti opposti, ma quando sei di fronte ad un amico non c'è divisa che conti.

L'amicizia, la fedeltà ad un amico viene prima di ogni cosa". L'amicizia, sì. La rete. Cossiga l'ha citata giorni fa, in un'intervista. Ha detto: chiedete a Gelli cosa pensava di Moro. "Da Moro andai a portare le credenziali quando ero console per un paese sudamericano. Mi disse: lei viene in nome di una dittatura, l'Italia è una democrazia. Mi spiegò che la democrazia è come un piatto di fagioli: per cucinarli bisogna avere molta pazienza, disse, e io gli risposi. Stia attento che i suoi fagioli non restino senz'acqua, ministrò". Anche in questo caso tragicamente profetico, per così dire. Lei cosa avrebbe fatto, potendo, per salvare Moro? "Non avrei fatto niente. Era stato fascista in gioventù, come Fanfani del resto, ma poi era diventato troppo diverso da noi. Lei ha visto il film sul delitto Moro?" Quello di Bellocchio? "No, l'altro. Quello tratto dal libro di Flamigni.

Ma le pare che si possa immaginare un agente dei servizi segreti che con un impermeabile bianco va a controllare sulla scena del delitto se è tutto andato secondo i piani?". Gli agenti dei servizi sono più prudenti? "Lei conosce Cossiga? Proprio una bravissima persona. E poi un uomo così colto, uno capace di conversare in tedesco. Un uomo puro, un animo limpido. Dopo la morte di mia moglie mi mandò un biglietto: "Ti sono vicino nel tuo primo Natale senza di lei", capisce che pensiero? Vorrebbe farmi una cortesia? Se lo incontra, vuole porgergli i miei ricordi, e i miei saluti?".

(28 settembre 2003)

http://www.repubblica.it/2003/i/sezioni/politica/gelli/gelli/gelli.html?ref=HREA-1
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« Risposta #100 inserito:: Febbraio 04, 2016, 05:10:43 pm »

Gli insulti del web a "mamma" Meloni
Quasi mai chi attacca sa davvero di cosa parla.
Lo fa per il gusto di tirare un sasso insieme agli altri.
Il branco si muove così

Di CONCITA DE GREGORIO
02 febbraio 2016
   
NON c'entrano destra e sinistra, uomini e donne, gay o etero. C'entra la logica del branco. La violenza e l'ignoranza, sorelle gemelle: forze deboli, le prepotenze. Un rumore di fondo incessante spacciato per libertà che della libertà è l'esatto contrario, invece.

Porterebbe lontanissimo, a volerci andare, un momento di attenzione sull'ultima esibizione muscolare dei 'commentatori' della Rete. Un'altra volta, magari. Oggi non facciamo fatica. Restiamo seduti qui al bar di Facebook, diamo un'occhiata alle scritte sui bagni di Twitter. Giusto per farsi qualche domanda, il tempo di un caffè. La vittima oggi è Giorgia Meloni, leader della destra di Fratelli d'Italia, molto nota anche perché molto assidua in tv. Un'esponente politica che conosce i meccanismi della comunicazione, non esattamente un ragazzino di terza media aggredito dal gruppo su Whatsapp per i suoi pantaloni lilla. Dunque Giorgia Meloni annuncia la sua gravidanza mentre partecipa al Family day, lo fa nel corso di un'intervista video parlando di politica con molti giornalisti. Una notazione personale, che lei ritiene in quel momento di condividere. La quantità e il tenore di commenti che suscita sui social network sovrasta quasi subito la notizia, di per sé non così interessante e comunque comune a milioni di donne in questo preciso istante. Giorgia Meloni viene coperta di insulti, la maggior parte dei quali violentissimi e irriferibili, volgari e spesso penosi per chi li fa più che per chi li riceve. Decide di sospendere la sua attività sui social. Il meccanismo mediatico prevede a questo punto che si commenti la valanga di insulti, disapprovandola - naturalmente. Dunque c'è chi attacca la sinistra illiberale che difende i diritti dei gay e non quelli delle madri, le femministe che scendono in campo solo a difesa delle donne di sinistra e giù giù fino alle formule passe-partout: il popolo del web, gli squadristi del web, le lobby gay, i radical chic e il resto del repertorio. La cui caratteristica è di usare formule completamente vuote e sempre insensate capaci tuttavia di scatenare, al contatto, reazioni nucleari.

Chi parla degli squadristi del web sarà attaccato il giorno dopo dai libertari del web. Chi parla di lobby gay sarà fulminato. Così si potrà fare il giorno dopo un nuovo commento, e usare altre formule. Il caso dell'attacco - schifoso, per restare nel clima lessicale e dirlo chiaro - a Giorgia Meloni potrebbe essere però una piccola buona occasione per lavare e asciugare le parole, vederle pulite. Non è vero che solo le donne di destra restano indifese di fronte agli attacchi, ricordo per tutti il caso degli auguri massicci di decapitazione a Laura Boldrini appena insediata che le valsero la prima seria ondata di astio mediatico di ritorno, con l'accusa di voler censurare il libero web. Non è vero che solo le donne celebri, anche - vado a memoria - Gianni Morandi Fiorello e Muccino, di recente. Non è vero che solo le donne, il corpo delle donne. Prevalentemente, certo. Ma questo non accade solo sul web: anche a casa, in ufficio, sull'autobus. Non è vero che solo i famosi. Centinaia di ragazzini sono vittime di cyberbullismo. È vero, piuttosto, che fa molta impressione che ad attaccare Giorgia Meloni si siano subito uniti i paladini delle nuove libertà e dei nuovi diritti: chi le augura di avere figli gay fa un torto gravissimo alla causa delle libertà, plurale, di tutti e alle proprie. Trasforma inoltre in una sorta di malaugurio una condizione che vorrebbe riconosciuta come naturale, neutra, con questo rinsaldando e confermando il pre-giudizio. Non si può pretendere il diritto proprio negando quello altrui, siamo all'abc. E però anche qui, per restare alle parole: c'è differenza fra satira, ironia, insulto. Quando Luciana Littizzetto dice che "andare al Family day in lode della famiglia tradizionale" esibendo una gravidanza senza essere sposati "è come partecipare a un festival vegano e dire di amare la fiorentina" fa satira.

Può far ridere o no, ma fa il suo mestiere. Quando qualche blogger ironizza sul nome del bambino, un quotidiano di destra lancia un referendum: è la Rete, bellezza. C'è di tutto. Gli insulti, invece - i cattivi auspici, la ferocia - hanno la caratteristica della crudeltà e dell'ignoranza che si autoalimentano a valanga. Fateci caso: quasi mai chi attacca sa davvero di cosa parla. Lo fa per il gusto di tirare un sasso insieme agli altri: su una frase sentita dire, su un film non visto, un libro non letto. Il branco si muove così. Dice: basta non dargli peso. Non ascoltare. Difficile. Viviamo tutti perennemente on line, capaci solo di attenzione parziale, vittime di incidenti anche pedonali da sguardo fisso sullo smartphone, le assicurazioni non li censiscono ma non li risarciscono. Il flusso incessante ti chiama a stare dentro, o ti spinge a stare ai margini. Reagire, rispondere a tono, stare al gioco o andarsene. Ecco, un commento interessante da leggere sarà quello sulla libertà di essere off line, sempre più diffusa anche - inaspettatamente - tra i ragazzi. Provate a chiedere a figli e nipoti, provate ad ascoltarli. I primi a reagire saranno loro. Intanto, molti auguri a Giorgia Meloni. Coraggio e figlie femmine. Smile. Cuoricino.
 
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02 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/02/02/news/gli_insulti_del_web_a_mamma_meloni-132524253/?ref=fbpr
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« Risposta #101 inserito:: Aprile 21, 2016, 05:18:27 pm »

La favola del chirurgo che fermò l'attimo fuggente
Paul Kalanithi, il chirurgo che ha scritto il libro "Quando il respiro si fa aria", pubblicato postumo negli Usa e ora anche in Italia da Mondadori. In vetta alle classifiche Usa il libro postumo in cui un chirurgo, Paul Kalanithi, racconta se stesso dopo la diagnosi di cancro ai polmoni. Un inno alla vita “qui e ora”

Di CONCITA DE GREGORIO
19 aprile 2016
   
QUANDO vi sentite opprimere dalla mancanza, di qualcuno o qualcosa, quando pensate che la fatica dei giorni sia al di sopra delle vostre forze, ingiusta per giunta, e comunque vana. Quando non trovate il coraggio o ne avete avuto troppo, e pensate — ho sbagliato, osando: ecco, è questo il momento in cui il libro di cui parliamo sarà il vostro alleato segreto. Un vero amuleto. Ed è questa la ragione per cui, credo, “Quando il respiro si fa aria” di Paul Kalanithi è da settimane in vetta alle classifiche negli Stati Uniti: un mercato infernale e impietoso che macina non di giorno in giorno ma di ora in ora migliaia di titoli di una sterminata produzione. Cosa ci fa tra un libro di ricette e uno di diete (ingrassare e dimagrire, le due stelle polari dell’editoria: la metà del lettori vuole mangiare, l’altra anela a non farlo)?

Cosa ci fa tra un libro su come addormentare i bambini e uno su come svegliare dall’inerzia gli adolescenti, cosa ci fa in questa bipolare selva di manuali di vita quotidiana un’autobiografia sulla malattia e la morte di un medico di origine indiana? Non un celebre medico, non una star tv: un trentaseienne specializzando in neurochirurgia, brillante, promettente, che da un giorno a un altro — è sempre così, no? Ricordate “L’anno del pensiero magico” di Joan Didion? «La vita cambia in un istante» — scopre di avere un tumore ai polmoni e un orizzonte che si avvicina come un temporale portato dal vento anziché, come sempre ci sembra quando rincorriamo i propositi, allontanarsi. Cos’ha di magnetico questo racconto?

Nella forma ha l’eleganza, l’austerità e la serenità della prosa: è un semplice, musicale e poetico scritto che chiunque può leggere senza sentirsi inadeguato, non abbastanza colto, impreparato. Al contrario: nei silenzi della voce narrante, frequenti come le pause di una ballata o di una favola, ciascuno può sentire la propria voce, i propri pensieri. Entrare dentro, riconoscersi e vedersi. È un medico che parla: qualcuno che conosce la vita la malattia e la morte, qualcuno a cui ci si affida — quando serve — per sperare, per guarire. Perché ci dica come si fa. Ma ci sono volte in cui non si fa.

Tutti lo sanno: ci sono volte in cui non si può far altro che guardare negli occhi il proprio destino, che non è affatto sempre e tutto nelle nostre mani. Un neurochirurgo, per giunta: qualcuno cioè in grado di illuminare come funziona la macchina più strabiliante e misteriosa mai vista in azione, il cervello degli uomini. Come nascono i pensieri, le intenzioni, la memoria e le emozioni. Dove abitano, come si formano, che direzione prendono e come si guastano, quando accade, perché accade. Si guastano, spesso.

"Feci scorrere le immagini della Tac, la diagnosi era chiara". La storia inizia così. Il dottor Kalanithi, tranquillamente, ci porta nella stanza di ospedale in cui insieme alla moglie Lucy, medico anche lei, osserva una lastra. "Negli ultimi sei anni avevo esaminato decine di scansioni analoghe. Ma quella era diversa: era la mia". La osserviamo con loro, quella Tac sullo schermo luminoso. Conosciamo l’apprensione con cui si attende un verdetto. "Lucy chiese sottovoce, come se stesse leggendo un copione: 'Secondo te c’è anche solo una possibilità che sia qualcos’altro?'. 'No', risposi".

Da questa stanza, nei mesi che precedono la nascita di Cady, la loro bambina, e di poco la morte di Paul ci trasferiamo sulla poltrona davanti alla vetrata che dà sul parco di Stanford. Da qui vediamo bene, piano, come sono andate le cose in questi 36 anni: l’infanzia con due fratelli maschi nel deserto dell’Arizona, dove il padre cardiologo ha deciso di trasferirsi da New York per avere un ambulatorio solo suo. La madre, che in India aveva studiato per diventare fisiologa, preoccupata che i figli, in provincia, perdano opportunità negli studi.

Gli studi. L’amore per la letteratura e di pari passo quello per la medicina, poesia e scienza, tanto spesso tante volte passioni gemelle negli esseri umani illuminati. L’amore, il matrimonio, la semplice vita coniugale: bella e difficile, come quella di chiunque. La vita in corsia e la dedizione ai pazienti. «In fondo, uno dei primi significati di paziente è “colui che sopporta le avversità senza lamentarsi”». Come dire a chi sta morendo che sta morendo e come essere davvero certi di poterlo dire, perché la vita scappa dalle previsioni e dalle statistiche, tante volte lo fa. Si ostina. La malattia: ospite sgradito dentro di te, ma un fatto, una presenza. Qualcosa (qualcuno?) con cui entrare in confidenza, dialogare e combattere come con chiunque altro al mondo, fuori dal tuo corpo. Qualcuno o qualcosa che però, al contrario di chiunque altro, dà misura e peso al tempo e al valore dell’esistenza. Fino a qui, ti dice. Probabilmente fino a qui e non oltre.

Sono precise e struggenti le pagine dedicate alla forma verbale dei tempi: posso dire, sapendo che non tornerò al lavoro, "sono", o "ero", o "sono stato" un neurochirurgo? Adesso, da vivo: in quale punto sono nella grammatica dei verbi? A mia figlia, pensando al ricordo che non ha, adesso, non può averlo, ma che avrà di me, un giorno.

Una neonata che è solo futuro. Cosa posso dirle di quello che un giorno sarà il suo passato, qualcosa che sta accadendo nel presente. "Nella tua vita ti prego — le scrive — di non tralasciare un giorno, quando dovrai dare descrizione di te, il fatto di aver riempito le giornate di un moribondo con una gioia appagata, una gioia che non avevo mai conosciuto prima, una gioia che non è perennemente insaziabile ma si riposa, soddisfatta. Ora, in questo preciso istante, è qualcosa di immenso".

In questo preciso istante. Perciò, lettore. Non esitare, se hai qualcosa di importante da dire a qualcuno: fallo, non rinviare. Non dolerti di ciò che non sia davvero essenziale. Metti a fuoco, trova il coraggio. Decidi, scegli. È in definitiva, questa lente d’ingrandimento sul senso della vita, un racconto sul tempo. Fin dal titolo, che comincia con “quando”. Dopo aver scritto, nel 2014, un articolo sul New York Times intitolato Quanto tempo mi resta, condiviso e commentato da migliaia di lettori, e prima di iniziare questo libro, completato dalla moglie e uscito postumo, Kalanithi ha scritto un saggio breve, sulla rivista Stanford Medicine, sul concetto di tempo. Bellissimo: un testo scientifico e letterario insieme.

Cos’è ciò che noi chiamiamo tempo, cosa è prima e cosa dopo. Cos’è l’attesa, cosa la memoria, e cosa invece il presente, adesso. Quando il respiro si fa aria, fra un manuale di cucina e uno di pediatria, sta lì in vetta alle classifiche a dire a tutti una cosa semplicissima: la vita non ti aspetta. Chiede che tu sia qui con lei, ora.
 
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19 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2016/04/19/news/la_favola_del_chirurgo_che_fermo_l_attimo_fuggente-137963531/?ref=HRER2-1
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« Risposta #102 inserito:: Aprile 30, 2016, 05:08:10 pm »

Fortuna, il palazzo delle bugie

Di CONCITA DE GREGORIO
30 aprile 2016

TUTTO è bugiardo, in questa storia, a cominciare dai nomi delle cose. In un posto che si chiama Parco Verde e che non è un parco ma un serpente di palazzi e non è verde - di verde ha solo i calcinacci dell'intonaco sbrecciato - una bambina di sei anni a cui hanno messo nome Fortuna viene spinta giù dal terrazzo condominiale, otto piani, perché ha detto di no, questa volta, all'incredibile serie di violenze "croniche e reiterate", si legge nelle carte del tribunale, di un uomo di 44 anni: il padre della compagna di giochi e di pianerottolo da cui passava i pomeriggi. Quali giochi, che pomeriggi.

Tra i primi a piangere il cadavere scende un altro inquilino dello stabile, accusato mesi prima insieme alla moglie di violenza su minori. Quali lacrime. Così dunque passavano i giorni, nel palazzo: almeno due coppie, ma forse di più dice oggi chi indaga, violavano i bambini. Tutti sapevano: la donna che ha nascosto una scarpina di Fortuna "per proteggere dalle accuse il figlio agli arresti domiciliari" - documentano le intercettazioni - , la convivente poco più che ventenne di Raimondo Caputo, arrestato solo ieri e in passato già accusato del medesimo tipo di violenze. Sospettati di pedofilia e violenza su minori, indagati, accusati e poi di nuovo a casa. Di nuovo lì, con i bambini, nella stanzetta coi cuscini a forma di cuore. Dall'isolato 3 del Parco Verde i bambini volavano dai balconi e dai terrazzi: prima Antonio, 3 anni, un anno dopo Fortuna, 6. Incidenti. Silenzio. Antonio, figlio della convivente di Caputo, è volato nel 2013. Fortuna a giugno del 2014. Ieri, due lunghissimi anni dopo, Raimondo Caputo è stato arrestato con l'accusa di omicidio. Una rete di omertà e di complicità lo ha protetto sinora. Sono stati i bimbi a parlare alla fine. Gli altri bimbi del palazzo. Una bambina, in particolare. Un'amica di Fortuna.

Siamo a Caivano, cintura di Napoli, terra dei fuochi. Questo è un posto dove le esalazioni tossiche dei rifiuti bruciati dalla camorra ammalano di tumore donne e bambini prima ancora di nascere. Il prete del quartiere, don Patriciello, è l'unica voce che si sente: dal pulpito, sui giornali, in tv. Aiutateci, dice.

Nascere a Caivano è una condanna a morte. Ci sono anche tante persone perbene in mezzo a questa discarica di rifiuti e di umanità invisibile. Venite a vedere, scrive sui libri e predica il prete. Silenzio. Parole perse. Nessuno che abbia responsabilità di governo, nazionale o locale, si è visto. Non una visita ufficiale di quelle con le foto e i pranzi nel tinello del presidente del comitato di quartiere, non un cenno. Niente. Eppure è Italia anche questa, anche a Caivano dovrebbero arrivare la buona scuola e gli incentivi alle start up per i nativi digitali, anche qui una bambina di sei anni con i ricci biondi dovrebbe poter diventare astronauta come Samantha Cristoforetti, il bell'esempio dell'Italia che vola. Nello spazio, non dal tetto.
Degli abusi e delle violenze su bambini in età da asilo non si può dir niente. Non si riesce. Sarebbe facile chiedere a chi volta la testa dall'altra parte e si dirige verso un importante impegno istituzionale di immaginare che Antonio e Fortuna siano figli suoi. Proprio di provare ad immaginare come hanno vissuto i loro pochi anni, vedendo e sopportando che cosa. Sarebbe demagogia pretendere che chi governa un territorio, una regione, un Paese andasse di tanto in tanto, per qualche tempo, ad abitare quei luoghi. Immaginate: per i prossimi tre mesi il presidente del Consiglio, della Regione, del municipio trasferisce la sua residenza al sesto piano dell'isolato 3. Così, tanto per capire e per testimoniare. Un gesto simbolico, i simboli sono importanti. Lo Stato è assente, dice il prete. Si faccia presente, dunque. Venga a salvare la vita di questi bambini volanti.

Poi, certo. Le colpe sono individuali e i criminali ne portano la responsabilità. Però è più facile che restino impunite, e addirittura coperte e protette, le colpe, in luoghi dove non c'è altro che tutto quello che manca: dove si respira veleno, non si va a scuola, non si lavora, dove il capo bastone della famiglia di camorra comanda e qualche volta si candida, eletto. "Bisognerebbe decretare lo stato di calamità criminale per minori", ha detto ieri l'avvocato della famiglia Fortuna. Qualcuno, intanto, tirava una molotov alle persiane della finestra dove Marianna Fabbozzi, 26 anni, compagna dell'arrestato Raimondo Caputo (e madre di Antonio, il bambino morto tre anni fa, di una ragazzina dodicenne vittima di violenze e di altri due figli, una delle quali amica di Fortuna) è agli arresti domiciliari. Anche la vita di Marianna, solo a fare i conti dell'età dei figli e della sua, si immagina come un inferno. Una mano anonima, la molotov. Vile, in fondo, dopo tanto silenzio. Un fuoco che comunque si è subito spento da solo, diversamente da quelli perpetui delle discariche all'orizzonte.

"Stato di calamità criminale per minori" è una formula spaventosa. Non si potrebbe dire più precisamente cosa sia la sventura di nascere a Caivano. Come vittime di una catastrofe, un'alluvione un terremoto. Solo che non è la natura, qui: sono gli uomini a portare la morte. Non è meno colpevole di chi violenta e uccide un bambino chi, mentre quel bimbo muore, si volta altrove e parla d'altro. Non si può essere fieri di un Paese in cui esiste, come se non esistesse, Caivano. Prato Verde, isolato 3.

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30 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2016/04/30/news/il_palazzo_delle_bugie-138756984/?ref=HREA-1
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« Risposta #103 inserito:: Febbraio 21, 2017, 12:17:14 am »

La nebulosa della sinistra: sigle, nomi e tribù
Da Rifondazione agli ex dc, il mondo progressista è diviso. Ecco come

Di CONCITA DE GREGORIO
19 febbraio 2017

CHI STA con chi. Per andare dove. Per fare cosa. Il disorientamento dei lettori di questo giornale e degli ostinati elettori del centrosinistra è lo stesso di tutti quelli, fra noi, che non siano cultori della materia o interessati a un seggio, spesso entrambe le cose. Nel giorno in cui si chiude il congresso di Sinistra Italiana e il Pd si riunisce in assemblea proviamo a fare una mappa, certamente in difetto di distinguo. La trasformazione dei partiti novecenteschi di sinistra in nebulosa mediatica prevede una certa approssimazione, ce ne scusiamo. Da sinistra verso destra.

Rifondazione comunista. Esiste, resiste e si avvia al decimo congresso: a Spoleto dal 31 marzo al 2 aprile. La guida ostinato Paolo Ferrero: piemontese, ex Democrazia proletaria, ministro della Solidarietà sociale nel secondo governo Prodi. Nel periodo della campagna per il No ha riconquistato visibilità, ricontattato settori del sindacato di base e associazioni storiche come l'Anpi. Conta sull'energia di Eleonora Forenza, europarlamentare barese, eletta con più di 20 mila preferenze ai tempi della lista Tsipras. Riferimento di movimenti universitari, ricercatori precari. Completamente assente da alcuni territori, ne governa altri. Ha una filiera istituzionale di consiglieri e assessori. A Palermo, per esempio, è forza di governo a sostegno di Leoluca Orlando.

Dema. Il movimento del sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, si ispira al manifesto delle città ribelli: capofila Barcellona di Ada Colau. Joan Subirats, ideologo del neo-municipalismo: "Gli Stati sono finiti. Saranno le città ribelli a cambiare l'Europa". In collegamento col movimento di Varoufakis, ambisce a diventare la Podemos italiana o almeno il riferimento della sinistra civica: comitati per la casa, ambientalismo, beni comuni. Stefano Rodotà sarà il 21 febbraio all'istituto per gli studi filosofici di Marotta. Molto seguito da Micromega, coniuga effervescenza giovanile e intellettualità. Nuovo meridionalismo. Neopopulismo antisistema che mostra capacità di governo. Interessante il rapporto fra De Magistris e Michele Emiliano, spesso insieme nelle foto. Per Emiliano una sorta di ‘certificazione di sinistra', all'opposto di quello che fu la foto di Vasto per Vendola e Di Pietro.

Sinistra Italiana. A congresso a Rimini. SI (ex Sel) è stata finora un gruppo parlamentare senza partito, rischia di uscire dal congresso come partito senza gruppo parlamentare. A contendere la segreteria al delfino di Vendola, Nicola Fratoianni, c'era infatti Arturo Scotto che fino a fine gennaio ha fatto tesseramento con il suo gruppo: Ciccio Ferrara, Marco Furfaro Michele Piras, Massimiliano Smeriglio. A fine gennaio il contrordine compagni: il gruppo è uscito per unirsi al movimento di Pisapia che, insieme a quello di D'Alema, potrebbe formare un gruppo parlamentare e comunque assicura in caso di elezioni un maggior numero di seggi. Pontiere con Pisapia è Ciccio Ferrara, napoletano, storico uomo macchina di Vendola, in ottimi rapporti con Bersani. All'uscita del gruppo Claudio Fava ha scritto "not in my name". Attivi al congresso Cofferati, Mussi, Landini, D'Attorre e Tomaso Montanari. Da seguire, oggi, l'intervento dell'ex sindaco di Molfetta Paola Natalicchio in una foto altrimenti per soli uomini, con la notevole storica eccezione di Luciana Castellina.

Possibile. Di Pippo Civati, antesignano del dissenso al renzismo. A fine gennaio affollata assemblea a Parma, in prove di dialogo con Pizzarotti. Molto attiva e amata Beatrice Brignone, Senigallia, subentrata in Parlamento a Enrico Letta. Luca Pastorino, sindaco ligure, ha ottenuto un eccellente risultato alle regionali portando tuttavia alla vittoria di Toti.

Campo Progressista. Tandem Pisapia-Boldrini, raggiunto dalla porzione di SI traghettata da Ferrara e Smeriglio, braccio destro di Zingaretti, ex Rifondazione, ex Sel, sinistra laziale post veltroniana presente in quasi tutte le assise del momento, siano D'Alema Pisapia o Emiliano. Una confluenza, questa, che porta al gruppo una quindicina di parlamentari. Inoltre: Maria Pia Pizzolante dai giovani di Tilt, Simone Oggionni, 1984, da Esse Blog. Dalla Puglia Dario Stefàno, dalla Sardegna Luciano Uras in singolare coincidenza di destinazione col suo antagonista Michele Piras. I rapporti del gruppo Pisapia con Renzi sono buoni, ottimi quelli con D'Alema, sospesi quelli con SI. Decisivo capire se si farà il gruppo parlamentare con quelli di ConSenso, in caso di scissione Pd.

Campo aperto. Gianni Cuperlo. La voce ferma, coerente della sinistra Dem. Per il Sì al referendum, contro la scissione del partito.

ConSenso. I comitati per un nuovo centrosinistra lanciati da D'Alema il 28 gennaio scorso sono il fulcro della galassia. Scissione o no passa da lì. La forza di D'Alema e quella di Pisapia possono formare subito un gruppo parlamentare e contano su almeno venti seggi in caso di elezioni, dice chi fa i conti. D'Alema era ieri alla riunione di Emiliano ma non sarà oggi all'assemblea Pd.

Democratici socialisti. Triangolo di opposizione a Renzi: Enrico Rossi Michele Emiliano Roberto Speranza. Emiliano, presidente Puglia, è motivato alla scalata. Si presenta da sinistra, su scala nazionale, dopo aver praticato le larghe intese in Puglia: la stagione post-Vendola è cresciuta sul bilico post ideologico caricando pezzi organici e storici del centrodestra locale. Una sinistra marsupiale, che tiene dentro e nutre - così zittisce - l'opposizione. Negli enti, nei consorzi, nelle partecipate.

Giovani turchi/1. Andrea Orlando. Ligure, radici nel Pci. Da tenere molto d'occhio nel suo lavoro di tessitura silenzioso. In dialogo con gli ex popolari e con l'area Dem di Dario Franceschini. Orlando, ministro di Giustizia sia con Renzi che con Gentiloni, è uno dei più quotati antagonisti per il dopo Renzi, in alternativa a Emiliano.

Giovani turchi/2. Matteo Orfini, ex braccio destro di D'Alema ora renzianissimo, dal gruppo Rifare l'Italia alla presidenza del partito passando per l'operazione Roma, affossamento di Marino e consegna della città al M5S. Con Francesco Verducci, in ascesa, vengono dal gruppo della fondazione Gramsci. Scuola Vacca. Studiosi, strutturati, prudenti.

Area Dem. Dario Franceschini dà le carte, e da molto tempo. Ora in asse con Gentiloni e Mattarella, radici cattoliche. Istituzionali. Con Debora Serracchiani sono l'ossatura di un possibile Pd post-renziano e centrista, il vero ostacolo all'operazione D'Alema. Il vero nemico di chi tenta di scalare il partito da una, vera o presunta, sinistra.

Movimento lombardo. Il Pd di Milano e lombardo, snobbato dalle cronache, è il più vitale. Esprime pezzi di governo. Maurizio Martina, renziano ma non troppo, bergamasco, ex segretario cittadino poi regionale. Cristina Tajani, Milano In, appena entrata nel Pd da Sel/Si. Pierfrancesco Majorino e Pierfrancesco Maran hanno governato e governano le politiche della mobilità, migranti e urbanistica. Lia Quartapelle, deputata. Un pd che parla inglese, coworking e startup, e dialoga coi piani alti e lavora in basso. Capoluogo politico della sinistra che ha vinto e governa in Comune. La parte viva del Pd.

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Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/02/19/news/titolo_non_esportato_da_hermes_-_id_articolo_6089046-158655580/
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« Risposta #104 inserito:: Ottobre 04, 2017, 11:39:35 am »

Referendum Catalogna: la fragilità e la paura di chi alza scheda bianca
Quella del voto per l'indipendenza della regione autonoma spagnola è la storia di uno scontro politico sfuggito di m
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Di CONCITA DE GREGORIO
01 ottobre 2017

BARCELLONA - Fragilità, paura. Dietro al frastuono delle urla di piazza, dei trattori e degli spari che occupano la scena, amplificati e replicati all'infinito dalle immagini su Internet e in tv, c'è una maggioranza di cittadini disorientata, spaventata dalla via senza ritorno che ha preso lo scontro. Costretta, in un certo senso, a schierarsi. Incredula di fronte all'incapacità di una classe politica che ha fatto di una palla di neve una pericolosissima slavina.

Una classe politica che passerà alla storia per aver trasformato un dosso stradale in un muro, e di aver guidato bendata allo scontro. Per insipienza? Per mala fede? Per nascondere più gravi questioni? Arrivo in centro su un autobus guidato da un cittadino spagnolo di origine peruviana di nome Riccardo: vive e lavora a Barcellona da 14 anni, i suoi figli sono nati qui. Mi dice che andrà a votare scheda bianca. "Pensavo di non andare, l'indipendentismo non mi interessa, ma per come si sono messe le cose: vado". Posso registrare le sue parole? Certo. "Siamo liberi di esprimere la nostra opinione, no? Siamo una democrazia".

In via Laietana (dove sfila oggi un migliaio di catalani sovranisti: Catalogna è Spagna dicono gli striscioni) incontro un avvocato sulla sessantina, esponente della borghesia delle professioni - la colonna dorsale di questa città. Non è indipendendista, non lo è mai stato. Tre mesi fa, in estate, mi aveva tenuta una serata intera a spiegarmi l'insensatezza della causa. Lui, i suoi colleghi, sua moglie, i loro amici: autonomia sì, indipendenza no. Ora, mi dice, bisogna andare a votare. Guarda il corteo: "Ci costringono, non ci si può tirare indietro ". Anche Ada Colau, sindaca della città espressa da En Comù Podem, una costola di Podemos - la novità politica più rilevante degli ultimi anni, arrivata a un passo da governare i Paese - voterà scheda bianca.

L'autista peruviano, l'avvocato borghese, la sindaca venuta dai movimenti. Non tutti i catalani sono indipendentisti, né tutti gli spagnoli sovranisti. Non è un derby, per quanto il Barça sia schierato. E' una storia politica scappata di mano, e bisogna avere la pazienza e l'attenzione di decifrarla. Quando qualcosa accade è perché è già successo. "Niente comincia davvero, tutto è il proseguimento di qualcos'altro", scriveva Martin Caparròs sul New York Times lunedì scorso nella più equilibrata analisi letta fino a oggi. Caparròs, scrittore argentino, fondatore di Pagina 12, vive da anni in Spagna e lavora per il NYT.

Spiega come meglio non saprei dire, provo a riassumere. Nessuno fino all'altro giorno ha mai parlato di indipendenza. Neppure i partiti che oggi la invocano. Il tema è sempre stato l'autonomia - fiscale, culturale, amministrativa: Catalogna ha sempre chiesto lo stesso regime di autonomia dei Paesi Baschi. Perché i Paesi Baschi l'hanno avuta e Catalogna no? Detto male, ma per capirsi: per via dell'Eta, la guerra civile che ha insanguinato la Spagna. Il Paese Basco ha ottenuto uno statuto autonomo quasi da stato federale, Catalogna no. Dopo decenni di lavoro politico nel 2006 si arriva a un accordo: Maragall (l'ex sindaco delle Olimpiadi, amatissimo) presidente della regione e Zapatero al governo, entrambi socialisti, trovano l'intesa per lo Statuto autonomo. Una legge regionale catalana ratificata dallo Stato centrale. La soluzione.

Quattro anni dopo, nel 2010, il nuovo governo di destra guidato da Rajoy, Partito Popolare, porta lo Statuto alla Corte costituzionale (che in Spagna è di nomina politica) che lo cassa. Fine dei giochi, inizio della storia che ci porta a oggi. Nel 2010 in Catalogna c'era la stessa destra catalanista di adesso: non aveva mai parlato di indipendenza, sempre di autonomia. Irrompe però la crisi economica. Tagli alla scuola, alla salute, ai diritti. Casse vuote, corruzione alle stelle. Spiega Miguel Mora, che dirige la rivista Contexto, vive a Madrid ed è stato per anni corrispondente del Pais dall'Italia: "L'indipendentismo è una cortina di fumo delle élites che serve a nascondere la corruzione enorme sia del Partito popolare che di Convergencia e Uniò. Del Partito di Rajoy e di quello di Pujol.

Mentre la gente impoverita scende in piazza, nasce Podemos, le classi politiche tradizionali ugualmente corrotte non trovano di meglio che agitare la facile bandiera della Patria. Le Patrie. Un diversivo. Il sistema economico controlla i media, il Psoe vira verso destra incalzato da Podemos. Il governo di Madrid prova a nascondere gli scandali della sua guerra sporca, una guerra di Stato fatta di dossieraggi contro i catalani e di servizi deviati". La Catalogna, regione ricca, dà a Madrid la colpa dell'impoverimento. La destra catalana per governare si allea a Esquerra repubblicana, forza cattolica borghese di sinistra. Nessun rivoluzionario all'orizzonte. Gli indipendentisti sono una esigua minoranza, ancora, sotto il 20 per cento: tra loro i giovani dei Cup, area centri sociali, necessari al governo catalano. Scrive Caparròs: "La maggioranza dei catalani non può immaginare la sua regione fuori dall'Europa, il suo tenore di vita impoverito e il Barça giocare fuori dalla Liga". Chiaro.

Artur Mas nel 2014 convoca un referendum consultivo: va a votare la minoranza dei catalani. E' il segnale per avviare una trattativa, ma Rajoy si nega. Miguel Mora: "La cocciutaggine e la miopia di Rajoy, accecato dal pericolo di soccombere sotto gli scandali del suo governo, è lampante. Se poi mandi 15 mila poliziotti, arresti funzionari, chiudi i siti internet costringi tutti a scendere in piazza persino per una causa non loro". È pur sempre un paese la cui classe dirigente, a destra, è nipote della dittatura. "Arrivano in piazza le bandiere, che hanno la caratteristica di scappare di mano. Ora l'82 per cento vuole l'indipendenza. È la fine della stagione della classe politica che ha portato alla Costituzione del '78.

Fino a pochi mesi fa non c'erano rivoluzionari, non c'erano indipendentisti. C'era una regione che chiedeva autonomia. Ora siamo sull'orlo di una guerra civile". Nessuno saprà mai cosa avrebbero votato i catalani se li avessero lasciati votare. Non era l'indipendenza la posta in palio. "Io credo che gli stessi dirigenti catalani abbiano paura di vincere, delle conseguenze". Paura, di nuovo. Carles Puidgemont, giornalista pubblicista di Girona, diceva a questo giornale a giugno: "Sono costretto ad arrivare in fondo, ormai". Costretto. Un Simon Bolivar suo malgrado, dicemmo allora. Conservatori cattolici di destra iscritti al ruolo dei rivoluzionari. Conservatori e cattolici anche a Madrid, iscritti alla repressione. La violenza spinge all'illegalità. Doppio fallo, speculare. Il re tace. Podemos si chiama fuori. Astenuti dalla finta contesa, perché non è l'indipendenza la posta, ma chi governerà il Paese nei prossimi anni. Un gioco politico di potere che chiama in piazza il popolo "col vecchio trucco delle Patrie", scrive Martin Caparròs sul New York Times.
Il vecchio pericolosissimo trucco.

© Riproduzione riservata 01 ottobre 2017

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/10/01/news/referendun_catalogna_la_fragilita_e_la_paura_di_chi_alza_scheda_bianca-177025054/?ref=RHPPLF-BL-I0-C8-P1-S1.8-T2
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