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Autore Discussione: Concita DE GREGORIO  (Letto 87265 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Giugno 13, 2009, 09:31:03 am »

11/06/2009 22:45

Concita De Gregorio


Ombre e palme

Mentre il leader beduino Gheddafi attraversava Roma paralizzata dalla sua visita a bordo di una limousine color sabbia del deserto, le tendine decorate da palme - un'ambulanza, tre camionette dei carabinieri, sedici auto di scorta contenenti tra l'altro decine di amazzoni al seguito - duecento metri più in là, a Montecitorio, l'aula del Parlamento italiano che a differenza di quello libico rappresenta una democrazia votava una legge voluta dal premier e dettata dal suo ministro Alfano che impedisce, di fatto, di usare per le indagini le intercettazioni telefoniche, uno dei più efficaci strumenti di lotta al crimine in un'epoca in cui i piccioni viaggiatori non si usano più e le lettere di carta sono parecchio in disuso, pizzini a parte. Mentre il presidente di tutte le Afriche intratteneva il sindaco Alemanno, in origine componente del medesimo partito fascista che uccise l'eroe di cui Gheddafi porta la foto appesa al petto, dicendo che «l'America nell'86 non si è comportata diversamente da Bin Laden» - affermazione sulla quale alcuni potranno trovarsi eventualmente d'accordo, difficile che ci rientrino Frattini e Berlusconi - 21 parlamentari dell'opposizione nascosti dal voto segreto contribuivano ad approvare quella che l'Associazione nazionale magistrati chiama la legge bavaglio. «Avremo le mani legate», dicono i giudici. Il Parlamento approva. Mentre il colonnello invocava il dialogo coi terroristi e proponeva di abolire i partiti «aborto della democrazia» (poi fermava il chilometrico corteo per salutare una coppia di sposi con lui festosissimi, un tifoso della Roma gli regalava la sua maglia) tre consiglieri del Csm, in un palazzo vicino, si dimettevano dai loro incarichi per protesta contro le parole del ministro della Giustizia, il medesimo Alfano di cui sopra. In aula, intanto, boati e cartelli dai banchi dell'opposizione: la libertà di informazione è morta oggi.


È stata una giornata così: molto materiale per i tg, parecchio folklore cupo, sirene spiegate e cartelli, urla e sit in, il mondo fuori e il mondo dentro il Palazzo. La visita di Gheddafi si conclude oggi con l'incontro con centinaia di donne imprenditrici e «di successo», non è una battuta, è vero. Lui poi ripartirà, avendo lasciato a chi ci governa in cambio di tanto imbarazzato silenzio almeno qualche promessa di contratti miliardari. Sempre a parlare di soldi si finisce, sempre quello il motore e il bavaglio. In fondo nel nostro piccolo sappiamo di cosa si tratta.


In redazione abbiamo invitato ieri i giovani delle scuole di formazione politica per un forum a chiusura della serie «Le belle bandiere» - proposte e critiche, voci delle nuove generazioni per «il partito che vorremmo». Mai come in questo momento (all'indomani delle elezioni, alla vigilia di un nuovo cantiere da aprirsi in vista del congresso) c'è bisogno di ascoltare e capire le indicazioni di chi si è sentito ed è stato finora escluso. Le soluzioni che propongono, la strada che indicano. Scrivono Federica Fantozzi e Mariagrazia Gerina che i giovani chiedono un ritorno al partito «porta a porta», non modello Vespa: modello Pci. Parlano dei nonni, meno dei padri. D'Alema intanto indica in Pier Luigi Bersani il suo candidato. La partita, ufficialmente, è aperta.


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« Risposta #31 inserito:: Luglio 01, 2009, 06:01:43 pm »

Congresso Pd, Chiamparino rinuncia: «Troppo solo»

di Concita De Gregorio


«Ci ho pensato seriamente fino a stamattina. Ero a un passo dall’accettare questa candidatura che in così tanti, soprattutto dal popolo democratico, mi chiedevano. Poi mi sono fermato un momento, una breve pausa di solitudine, e ho sentito uno strano silenzio. Il silenzio della politica, perché c’è un’aspetto emotivo importante - quando si deve prendere una decisione come questa - e c’è un aspetto politico decisivo. Avrei corso per vincere, naturalmente, non per fare da candidato di colore in una partita a due. E per vincere c’è bisogno del sostegno del popolo democratico, naturalmente, degli amici e dei compagni ma soprattutto c’è bisogno del partito. Così mi sono messo in attesa di qualche telefonata rivelatrice. Non sono arrivate. Non ho sentito non dico Letta ma neppure Fioroni, non ho sentito nessuno di coloro che stanno preparando il congresso, né D’Alema, certo, né Fassino: da Piero, per meglio dire, non ho sentito una parola chiara e poiché ci conosciamo e ci stimiamo da quarant’anni, ho capito».

Sergio Chiamparino è nel suo ufficio di sindaco. «Sto guardando la posta. Può sembrare una sciocchezza, ma è decisivo, per me, rispondere ai cittadini. Lo faccio ogni giorno. Se fossero mancati pochi mesi alla scadenza del mandato, anche un anno, avrei potuto tirare la carretta ma due anni no, due anni sono tanti e non si può fare il segretario e il sindaco di una città come questa. Così se mi fossi candidato - lo avrei fatto, ripeto, per vincere - avrei dovuto interrompere il mandato. Non è il momento, non mi pare proprio che lo sia. Sarebbe stato un rischio lasciare Torino adesso, con queste condizioni politiche al Nord. Non abbiamo bisogno di interrompere quello che funziona.

«Certo, servirebbe anche un grande slancio alla guida del Pd. Di un rinnovamento vero, di un progetto deciso. È per questo che sono stato tentato. Ho creduto che la mia candidatura, se adeguatamente sostenuta, avrebbe potuto sbloccare un meccanismo fatale, far uscire questa campagna precongressuale dalla logica dello scontro frontale, degli eserciti schierati per cui l’unica domanda che si sente è “tu con chi stai” e non “tu cosa vuoi, come intendi realizzarlo”. Mi pare che sia questo invece che si vuole: lo scontro. Io avrei potuto mettermi al servizio del partito per evitarlo, non ho nessun interesse a fare il terzo uomo di facciata per avere un po’ di visibilità. Non ne ho davvero bisogno. Ho molto da lavorare, non mi basta il tempo. Ho sentito forte la spinta che viene dal basso. Capisco e vedo quanto grande sia l’area del malcontento, di quelli che non vogliono andare ad una conta che replica vecchi schemi e antichi dualismi. Ma un partito nuovo e un progetto forte non si fanno mettendo insieme il malcontento. Non serve e non basta.

Ci vuole coraggio, coesione, bisogna che le forze si uniscano e non si dividano: bisogna, bisognerebbe che ciascuno si chiedesse qual è il bene comune, l’obiettivo che lo realizza, e che si mettesse al servizio di quella causa persino suo malgrado. Non siamo ancora pronti. Il partito è insieme fluido e rigido. Potrebbero essere due virtù, risultano due difetti. È fluido laddove avrebbe bisogno di struttura, è rigido dove servirebbe elasticità. Ho capito, nelle ore del mattino, che la mia candidatura sarebbe stata funzionale alla legittimazione del duello e non sarebbe servita ad evitarlo. I candidati sono entrambe persone di grandissimo valore.

Non capisco perché si debba procedere per eliminazione e non per unione delle forze. So che moltissimi dei giovani che si affacciano oggi alla vita politica e molti dei meno giovani che se ne sono allontanati disillusi si aspettavano da me un gesto e mi dispiace non poter soddisfare la loro aspettativa ma in queste condizioni si sarebbe rivelata un boomerang. Avrebbe portato all’ennesima frustrazione. La speranza è un sentimento positivo, non le si può lasciare un angolo come palestra. Bisogna investire sulla forza di chi si aspetta da noi scelte chiare e coraggiose. Avere coraggio e chiarezza nel farlo. Verrà il tempo. Ho altri due anni da sindaco di una città magnifica, molto lavoro e nessun risentimento».

01 luglio 2009
da unita.it
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« Risposta #32 inserito:: Luglio 02, 2009, 06:14:53 pm »

«Una candidatura anti apparato»

di Concita De Gregorio


Il tavolo di Ignazio Marino è coperto di lettere, mail, biglietti. «Sono consigliere e sindaco, ho contribuito a fondare il Pd, non ho ancora preso la tessera: aspetto, per farlo, la sua candidatura». «Sono una studentessa universitaria, la prego, Marino, abbiamo bisogno di lei». Il tenore è questo. Elettori e simpatizzanti del Pd, delusi o disillusi in attesa di ricredersi, persone con un piede sulla soglia: prendo la tessera solo se lei si candida, dicono. «Sento molto forte la spinta che viene dall’elettorato, davvero è qualcosa di palpabile: c’è un grande desiderio di rinnovamento e di nuovo inizio, parole chiare sui valori e sulle scelte, niente più logica della “posizione prevalente”. Sento bisogno di coraggio. Le persone che incontro nelle piazze, negli ospedali, nelle scuole chiedono di essere ascoltate, vogliono essere rappresentate da qualcuno che sfugga alla logica tutta autoreferenziale degli apparati e delle oligarchie. Del resto non c’è chi non veda come questo tipo di confronto allontani il consenso. È come chiudersi in una stanza mentre fuori, in piazza e per strada, se ne stanno andando tutti».

In queste ore Marino è molto preoccupato dalla notizia, anticipata ieri nella rubrica «Il congiurato» de l’Unità, del patto stretto da Gianni Letta con le gerarchie vaticane: un patto che anticipa la discussione sul testamento biologico da ottobre a luglio in modo tale da far passare quel «progetto dissennato» nel silenzio e col favore dell’estate. Sarebbe questa, si dice a Palazzo, la prima moneta di scambio che il clero ha preteso dal governo come condizione per ricucire con il Berlusconi degli scandali sessuali e del Bari-gate. «Ecco che di nuovo si fa un gioco di potere e di interessi sulla pelle dei cittadini. E l’opposizione? Lo denuncia, si prepara alle barricate? Non mi pare».

In effetti c’è uno strano silenzio attorno all’ufficio del senatore a Sant’Ivo alla Sapienza. I notabili di partito sono molto, molto intimoriti da una sua eventuale decisione. La notizia, filtrata sui giornali in queste ore, di una possibile alleanza fra Marino e la generazione dei quarantenni (Pippo Civati e gli altri del Lingotto) nel nome del cambiamento e contro l’eterno conflitto fra Ds e Margherita, fra Ds e Ds, la possibilità che chi non ha conti personali da saldare possa unirsi in una campagna comune cresce nel tam tam delle stanze di chi prepara il congresso. Marino è molto tentato, moltissimo. «Giorni fa fuori dalla sala operatoria mi sono messo a scrivere un testo, una sorta di indice delle questioni sulle quali mi piacerebbe che il congresso discutesse».

Una sorta di manifesto programmatico, in verità. Si parla di diritti civili, di meritocrazia e di laicità. Comincia così: «Come molti ragazzi della mia generazione preparavo gli esami di medicina in compagnia di un mito, un medico anche lui, Che Guevara, un poster nella mia camera. Crescendo ho affiancato a quella la foto di Berlinguer pubblicata da l’Unità nel giorno in cui morì. In quegli stessi anni in cui si formava la mia coscienza di adulto consolidavo le mie convinzioni di credente su principi che non escludevano la partecipazione al fermento sociale degli anni Settanta. Anni dopo, vivendo e lavorando negli Usa, mi sono ritrovato a curare con il trapianto di fegato decine di veterani del Vietnam, soldati contro i quali avevo manifestato da ragazzo». Il Foglio ha pubblicato il testo dicendo che si tratta di «una requisitoria che vale come una candidatura». Non c’è dubbio che sia così. «Dove sono finiti i temi che riguardano la vita di ognuno? Il diritto al lavoro, a un salario dignitoso, alla casa, la gestione dei rifiuti nelle grandi aree metropolitane, i treni per i pendolari, i cinquecento ospedali a rischio sismico, il milione di persone che ogni anno emigra dal sud al Nord per curarsi, gli oltre 200 mila precari di una scuola sempre più povera, la giustizia senza risorse che costringe le persone nel limbo dell’incertezza?».

Il Pd, dice Marino, non è il fine, ma lo strumento: il fine è il bene del Paese. Dunque si candiderà? Il senatore sorride, chiede ancora qualche ora di tempo: «Vorrei fare qualcosa di utile per tutti, portare il mio contributo fuori dalle logiche di potere. I meccanismi congressuali blindano i movimenti di chi non sia già irregimentato. Però forse qualcosa si può fare. Mi lasci ancora un paio di giorni, ho una paziente che aspetta un trapianto: vado, torno e poi ne parliamo».

02 luglio 2009
da unita.it
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« Risposta #33 inserito:: Luglio 02, 2009, 11:47:54 pm »

01/07/2009 22:34

Un premier due morali

Concita Di Gregorio


Chissà. Forse è l'ennesimo complotto. O una specie di maledizione. Ma di nuovo - mentre s'interroga sull'ennesima tragedia causata dall'incuria e dal caos normativo - il paese è costretto ad occuparsi della doppia morale del presidente del Consiglio. Lo schema è sempre lo stesso. Il Noemigate ci ha fatto constatare che il sostenitore del family day, l'uomo che bacia la mano al papa, l'ispirato difensore dei valori della cristianità non disdegna d'accompagnarsi a ragazze delle quali potrebbe essere il nonno e di trascorrere una notte con una squillo pagata da altri. Ieri abbiamo abbiamo dovuto scoprire che il fustigatore delle «toghe rosse», il castigatore dei pubblici ministeri che partecipano a dibattiti di carattere politico, il perseguitato dalla giustizia, intrattiene rapporti amichevoli e conviviali con i magistrati che dovranno decidere sulla legittimità costituzionale della legge che l'ha reso immune dalla giustizia medesima. Quel «lodo Alfano» che, tra l'altro, è all'origine di una delle sentenze più innovative della storia giudiziaria italiana: la punizione di un corrotto (l'avvocato Mills) ma non del suo corruttore. La notizia era filtrata qualche tempo fa. Ieri è stata solennemente confermata dal governo. Nelle prime settimane dello scorso mese di maggio il presidente del Consiglio è andato a cena a casa del giudice costituzionale Luigi Mazzella il quale, per tenergli compagnia, si era premurato di invitare anche Paolo Maria Napolitano, un altro dei giudici che dovranno decidere sulla legittimità della più famosa delle leggi ad personam. Si trattava, naturalmente, di una bicchierata tra amici e non si è parlato nel modo più assoluto del lodo Alfano. E infatti c'erano persone totalmente disinteressate alla questione, Gianni Letta, il senatore Carlo Vizzini e anche, casualmente, il ministro della Giustizia Angelino Alfano. Non è finita. Perché ieri, dopo che era scoppiata la polemica sulla reale natura del party, il giudice Mazzella ha fatto sentire la sua voce. Si è cosparso il capo di cenere per la sconcertante gaffe? Si è dimesso? Figuriamoci. Il giudice Mazzella - per sottolineare la sua indipendenza - ha scritto una vibrante lettera alla presidenza del Consiglio dei ministri. Parole di fuoco: «Caro Silvio, siamo oggetto di barbarie ma ti inviterò ancora a cena». Lo racconta Claudia Fusani.
Inauguriamo oggi le pagine di Unità Estate al centro del giornale. Seguendo il filo del riavvicinamento fra generazioni (più di tutti ci piace quello fra nonni e nipoti) abbiamo provato a mescolare le culture, portare i vecchi e i giovani sullo stesso terreno e vedere se si parlano, in cosa si capiscono. Nel «Calendario del popolo» abbiamo chiesto alle nostre firme più illustri di declinare in modo semplice e chiaro una «parola da salvare». Oggi trovate «Libro» di Vincenzo Cerami. Giovanni Nucci racconta Shakespeare a chi non l'ha letto o l'ha dimenticato. Comincia con Giulio Cesare, in tema di complotti. Due pagine sono dedicate allagrafic novel su Peppino Impastato, la prima di una serie di storie che pubblicheremo a puntate. Accanto le rubriche di Andrea Camilleri, Fortebraccio, Jovanotti. Molto altro arriverà.

da unita.it
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« Risposta #34 inserito:: Luglio 03, 2009, 10:16:17 am »

Pd, Marino: pronto l'appello agli elettori


di Concita De Gregorio


L’appuntamento è stasera a Verona. Pippo Civati e una delegazione di giovani democratici, quelli del Lingotto, incontra Ignazio Marino. Vanno da lui nell’ospedale dove opera, vanno a parlare della struttura da dare a un cammino comune: la terza candidatura prende forme in queste ore. Marino è pronto. Il suo "manifesto" è già in rete, si sta studiando un appello agli elettori: i giovani portano in dote la speranza in un partito “aperto” che sappia rianimare la passione in chi l’ha smarrita, il senatore il suo carisma e la sua credibilità, una visione “americana” di partito dei talenti, l’essere «estraneo alla logica delle correnti» come sottolinea il suo consigliere Goffredo Bettini che giusto ieri al Caprainica, seduto ad ascoltare Veltroni, diceva di lui: «Macché solo un chirurgo, è molto più abile politicamente di quanto si possa pensare, è una persona onesta e libera ma insieme acuta e sottile, doti che difficilmente si coniugano. Il mio cuore batte per lui, per l’amore che porto allo spirito del progetto del Pd».

Mentre Bettini parlava al Capranica del «suo candidato» Ignazio Marino limava il testo di un appello agli elettori che vedrà la luce nelle prossime ore. La saldatura col gruppo dirigente di “giovani” (i quarantenni in questo paese sono considerati tali) parte, sul piano strategico, da un appello al tesseramento. «Contiamoci», dicevano i democratici del Lingotto. «Facciamo un passo l’uno incontro all’altro», dice Marino. Si rivolge agli elettori, ai sostenitori, ai delusi: a tutti quelli che sono con un piede sulla soglia dell’impegno politico. «Potremmo incontrarci a metà del ponte, noi e chi ci chiede con forza di impegnarci: un passo a testa. Noi verso l’impegno, loro verso il sostegno a questo impegno. Dobbiamo essere in tanti, solo così potremo partire». Il primo passo sarà dunque un appello al tesseramento. Una cosa del tipo: tutti quelli che chiedono un rinnovamento del partito battano un colpo adesso, mostrino di esserci. Vadano al circolo vicino e prendano la tessera.

In questo modo la candidatura di Marino e il sostegno di Civati e del gruppo del Lingotto assumerebbe due segni: il primo, quello di un obiettivo contributo al tesseramento che langue a quota 300 mila (qualcuno dice 400, non esistono dati ufficiali) e che rafforzerebbe la consistenza degli iscritti al Pd, cosa che a nessuno può dispiacere. Il secondo, quello di «contare» davvero la quota dei sostenitori del “terzo uomo” e di consentirgli di avere accesso al congresso, dove solo gli iscritti voteranno i candidati alla segreteria. Al congresso serve un numero minimo di consensi (un pacchetto di tessere) che in questo momento Marino e Civati non hanno, essendo entrambi estranei alle correnti che controllano e sollecitano il reclutamento. Chiamare al tesseramento chi altrimenti - nello scontro frontale fra Bersani e Franceschini, quello che Anna Finocchiaro definisce «una guerra ad eccessivo tasso di testosterone» - non avrebbe aderito al Pd è quindi la porta d’accesso di Marino al congresso e ad una sua successiva presenza alle primarie. E’ chiaro che poi, alle primarie appunto, la voce degli elettori può rovesciare l’esito del congresso. Siamo al primo passo. Marino e i quarantenni di Civati da una parte, i loro sostenitori dall’altra. Una settimana e sapremo quanti sono.


03 luglio 2009

da lastampa.it
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« Risposta #35 inserito:: Luglio 04, 2009, 12:18:02 pm »

03/07/2009 22:17

Come tra fratelli

Concita De Gregorio.


Dunque Ignazio Marino è sceso in campo. Un «terzo uomo» corre alla segreteria del Partito democratico accanto a Franceschini e a Bersani. È un outsider, non solo perché la sua storia professionale - è un chirurgo di fama internazionale - è ben più lunga e più ricca di quella politica. Lo è, soprattutto, perché la sua breve storia politica non affonda le radici nelle organizzazioni fondatrici.

È ancora presto per un bilancio, ma dai primi segnali non si può dire che la sua discesa in campo sia stata accolta con una standing ovation. Franco Marini, uno dei padri nobili del partito, ha manifestato con franchezza il timore che questo «terzo uomo» determini una radicalizzazione dello scontro interno. In generale tra gli ex popolari si è diffusa la preoccupazione che lo scienziato Ignazio Marino sposti l'asse culturale del Partito democratico sul tema della laicità facendone non una «condizione» ma un «contenuto» dell'agire politico (così Pier Luigi Castagnetti). Di certo la candidatura di Marino non avrebbe suscitato queste preoccupazioni (e forse non ci sarebbe nemmeno stata) se, per esempio, il Pd fosse stato in grado di assumere una posizione chiara sul tema del testamento biologico. Né se lo stesso Marino - nel pieno del caso di Eluana Englaro - non fosse stato sostituito come relatore di minoranza nella discussione della legge.
Dunque non c'è alcun dubbio che lo scontro interno possa radicalizzarsi. D'altra parte, in questi ultimi giorni - e Marino ancora non era candidato - abbiamo assistito ad asprezze dialettiche e anche a colpi bassi che già sono stati abbondantemente utilizzati ed enfatizzati dai telegiornali e dalla stampa di destra. La prospettiva di trascorrere così i quattro mesi che ci separano dal congresso fa rabbrividire. E, prima di ogni altra cosa, c'è da augurarsi che tutti - «giovan»i e «vecchi» - dedichino le loro energie al dibattito sui contenuti e sulle regole, anziché sulle persone. L'alternativa è, chiunque vinca, una vittoria amara e, in definitiva, il fallimento o la mutilazione del progetto.

Un primo passo in questa direzione costruttiva sarebbe leggere per intero il «manifesto» di Ignazio Marino. In particolare la parte finale: «Il fiume deve scorrere dentro gli argini e ogni persona per contare si deve iscrivere al Partito democratico e partecipare con il proprio voto alla fase congressuale, e scegliere il candidato». In altre condizioni sarebbe un'assoluta ovvietà. Un tale si candida alla segreteria di un partito e lancia un appello affinché la gente si iscriva. Ci mancherebbe altro. Se non fosse che, nello specifico del Partito democratico, quell'appello dice una banale verità. Dice che c'è una parte del Pd (dei suoi potenziali elettori, dei suoi potenziali futuri dirigenti) che ancora non ha trovato la porta d'ingresso. Ha un forte potenziale non simbolico a questo proposito il sostegno a Marino che viene da Pippo Civati e dei giovani del Lingotto.

E dunque apriamo, spalanchiamo, quella porta. E litighiamo, anche ferocemente, ma come si litiga tra fratelli. I nemici sono altrove.

Non possiamo permetterci di essere nemici di noi stessi.

da unita.it
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« Risposta #36 inserito:: Agosto 30, 2009, 10:37:15 am »

29/08/2009 22:07


La guerra lercia

Concita De Gregorio


Un assaggio della guerra che ci aspetta in autunno. Non sporca, lercia. La battaglia finale di un uomo malato, barricato nel delirio senile di onnipotenza che sta trascinando al collasso della democrazia un paese incapace di reagire: un uomo che ha comprato col denaro, nei decenni, cose e persone, magistrati, politici e giornalisti, che ha visto fiorire la sua impunità e i suoi affari dispensando come oppio l'illusione di un benessere collettivo mai realizzato. Dall'estero guardano all'Italia come un esempio di declino della democrazia, una dittatura plutocratica costruita a colpi di leggi su misura e di cavalli eletti senatori. Vent'anni di incultura televisiva - l'unico pane per milioni - hanno preparato il terreno. Demolita la scuola, la ricerca, il sapere. Distrutte l'etica e le regole. Alimentata la paura. Aggrediti i deboli.
È una povera Italia, un piccolo paese quello che assiste impotente all'assalto finale alle voci del dissenso condotto da un manipolo di body guard del premier armate di ministeri, di aziende e di giornali. L'ultimo assunto ha avuto il mandato di distruggere la reputazione del "nemico". Scovare tra le carte gentilmente messe a disposizione dei servizi segreti, controllati dal premier medesimo, dossier personali che raccontino di figli illegittimi e di amanti, di relazioni omosessuali, come se fosse interessante per qualcuno sapere cosa accade nella vita di un imprenditore, di un direttore di giornale, di un libero cittadino. Come se non ci fosse differenza tra il ruolo di un uomo pubblico, presidente del Consiglio, un uomo che del suo "romanzo popolare" di buon padre di famiglia ha fatto bandiera elettorale gabbando milioni di italiani e chi, finito di svolgere il suo lavoro, va a letto con chi vuole - maggiorenne, sì - in vacanza con chi crede. La battaglia d'autunno sarà questa: indurre gli italiani a pensare che non c'è differenza tra il sultano e i suoi sudditi, tra il caudillo e i suoi oppositori. Non è così: la parte sana di questo paese lo sa benissimo.
Un anno fa arrivavo in questo giornale scrivendo che avrei voluto diventasse "il nostro posto". Non immaginavo sarebbe stata una trincea di montagna. Mentre cresceva, l'Unità è stata oggetto di una campagna denigratoria portata avanti dal presidente del Consiglio e dai suoi alleati, da giornali compiacenti non solo - purtroppo - nel centrodestra. Anziché difendersi e reagire compatto il fronte dell'opposizione si è diviso in guerre fratricide. Mentre si alimentano i veleni e le calunnie su di noi i nostri lettori sono cresciuti, negli ultimi mesi, del 25 per cento, caso unico nel panorama editoriale. I cittadini ci sono: leggono, capiscono. Mentre l'aggressione diventava personale (scritte intimidatorie sotto casa, telefonate notturne, le nostre vite sotto scorta) ci venivano offerte da emissari dei poteri opachi videocassette e carte contenenti "le prove" di gesta erotiche dei nostri aggressori. Materiale schifoso, alcove filmate all'insaputa dei protagonisti. Naturalmente le abbiamo respinte. Il sesso tra adulti, di chi non lo baratti con seggi e presidenze, non ci interessa. Questo è quello che ci aspetta, però. Sappiatelo. Una guerra lercia.

da unita.it
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« Risposta #37 inserito:: Ottobre 11, 2009, 10:10:57 am »

10/10/2009 22:24

La ricetta dell'unita'


Concita De Gregorio

Oggi il Pd va al congresso. Lo chiude, per meglio dire: la convenzione chiude il congresso che si è svolto nei circoli e proclama i candidati alle primarie: i tre che conoscete. È il primo atto di un processo che si concluderà con la scelta del leader dell'opposizione, cioè l'uomo (avremmo voluto poter scrivere «o la donna») che dovrà affrontare e possibilmente sconfiggere Silvio Berlusconi. Un passaggio fondamentale per il Paese. Ecco, diciamocelo: la tensione politica, l'attesa, l'aria che si respira, non corrisponde alla portata dell'evento. Di certo perché il complicato regolamento che il Pd si è dato sposta tutto alle primarie alle quali potranno partecipare tutti, iscritti e non. Forse perché, ancora, la dilagante per così dire personalità del presidente del Consiglio è riuscita a oscurare oltre che l'immagine del nostro paese nel mondo anche la nostra capacità di concentrarci, quando occorre, sugli obiettivi per il futuro. È il momento di farlo.

Seguiremo minuto per minuto i giorni che ci separano dal 25 ottobre: se le donne, tutte le donne che a migliaia hanno spedito ieri la nostra cartolina per il premier, le donne rassegnate e disilluse sapranno ribellarsi dipenderà soprattutto dal loro voto - come è accaduto nel recente passato - l'esito delle primarie e, di conseguenza, della capacità di portare l'opposizione al governo di questo Paese. Vi proponiamo con Pietro Spataro una sorta di guida, un vocabolario del Pd. Attenzione alla lettera U. Non solo perché la parola prescelta coincide con la testata del nostro giornale. Ma perché davvero oggi, davanti all'irresponsabile e violenta aggressività di chi governa, l'Unità è indispensabile. Non si può fare senza.

Ovvio, certo. Facile a dirsi. Eppure sul giornale di oggi proponiamo in qualche modo un metodo. È il trentesimo compleanno di Bobo, il personaggio di Sergio Staino che rappresenta le ambizioni, le frustrazioni, le speranze e le rabbie di ciascuno di noi. Bene. La prima notizia "unitaria" è che Bobo ha un mucchio di amici. È questa la «festa a sorpresa» che vi abbiamo annunciato ieri. I migliori scrittori satirici e vignettisti italiani tornano oggi o si affacciano per la prima volta sulle nostre pagine.
Bobo, col suo fare burbero e col suo candore ha avuto la capacità di farli ritrovare. Bobo con la sua fatica e i suoi sorrisi amari. Bobo che da trent'anni guarda il mondo sgombro da pregiudizi. A partire dai valori che lui - un personaggio immaginario - ha saputo mantenere più saldi di tanti personaggi reali che, tra l'altro, avrebbero il dovere istituzionale di farlo. Anche ieri pomeriggio Bobo prima di entrare nella sua vignetta qui accanto ha letto in anteprima il giornale che avete nelle mani: l'intervista in cui Tullio De Mauro, oggi che il Tar boccia il ministro Gelmini, spiega la «pandemia del lavoro precario» che da vent'anni ammala la scuola.

L'ironia con cui Goffredo Fofi racconta il proliferare consolatorio di festival della cultura. La piazza contro l'omofobia, i lavoratori dell'Innse che rientrano in fabbrica.

Ecco la ricetta per l'unità. Ed ecco anche la ricetta de l'Unità. Parlare chiaro. Parlare forte. Non avere paura delle proprie idee, né delle proprie paure.

da unita.it
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« Risposta #38 inserito:: Dicembre 19, 2009, 11:39:55 am »

17/12/2009 22:36

Le ragioni del dissenso

Concita de Gregorio

Disturba se parliamo dell'Italia? Ora che il presidente del Consiglio è tornato a casa possiamo distogliere l'attenzione dai bollettini medici del San Raffaele, augurargli pronta guarigione e riprendere a dire quel che succede nelle nostre vite. Senza essere accusati di essere anti-italiani, mi auguro. Senza rischiare di finire nella lista dei cattivi, dei terroristi, dei mandanti morali solo perché - stando ai fatti, come ogni giornale dovrebbe fare, poi commentandoli - raccontiamo il terribile disagio di un numero crescente di cittadini. Sofferenza e a volte disperazione responsabili, quelle sì, di un clima esasperato che la sottovalutazione di chi governa - «povertà percepita», ricordate? «disfattisti, menagrami» - non fa che enfatizzare. In Parlamento ieri i dipendenti del ministero di Giustizia lamentavano di non avere gli strumenti per lavorare. Nei giorni precedenti hanno manifestato per strada i pompieri, i poliziotti, gli insegnanti, gli agricoltori, i ricercatori, la guardia di finanza, i lavoratori del pubblico impiego. La lista è lunghissima. Nel terzo trimestre dell'anno sono scomparsi 500 mila posti di lavoro. Mezzo milione di persone a casa senza stipendio. Sui tetti, sulle gru, sui moli, ai cancelli delle fabbriche ci sono in queste ore i lavoratori della Merloni, della Fiat di Pomigliano d'Arco, della Fincantieri, della Yamaha di Lesmo. I 49 pionieri della Innse hanno fatto scuola. In ogni città se alzate gli occhi vedete striscioni, cartelli. La flessibilità ha aumentato le differenze sociali, dice il rapporto sulle disuguaglianze economiche presentato ieri al Nens: il 10 per cento delle famiglie possiede la metà della ricchezza del Paese. La metà degli italiani ne possiede il 9,7 per cento. Una forbice sudamericana d'altri tempi, cifre da paese in via di sviluppo. In questo contesto il governo proroga fino al 30 aprile lo scudo fiscale concepito per far rientrare a prezzo di una mancia i denari di chi ha evaso le tasse nascondendo all'estero le sue ricchezze. Chi ha pagato regolarmente sta dentro quella metà di italiani che vive onestamente, spesso con poco o pochissimo. Chi non ha pagato sta in quel 10 per cento che vive disonestamente con molto o moltissimo. Siamo di nuovo al punto: non servono, in Italia, nuove leggi. Basterebbe applicare quelle che ci sono e controllare che siano rispettate, eventualmente punire chi non lo fa. Basterebbe volerlo. Basterebbe non essere della partita di chi evade.
All'origine del dissenso verso chi governa c'è normalmente una condizione materiale vissuta come ingiusta e diseguale. Il dissenso, la critica sono strumenti di espressione dati in democrazie a chi altri non ne ha. A chi non dispone di televisioni e di giornali, per esempio: ai cittadini. Quando Schifani dice che Facebook diffonde il terrorismo peggio che negli anni Settanta mette un'altra pietra all'edificio della censura, quella di cui Lukashenko, a cui Umberto De Giovannangeli dedica la seconda puntata sugli amici imbarazzanti del premier, è maestro. A Repubblica, ad Anno Zero ai colleghi del Fatto auguriamo di continuare a fare il loro lavoro con libertà. Ce lo auguriamo per noi, il vostro straordinario sostegno ci rafforza di giorno in giorno. Grazie.

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« Risposta #39 inserito:: Gennaio 11, 2010, 10:14:09 am »

Virzì, ridare le parole alle cose negli anni dell'Italia perduta

di Concita De Gregorio


Non c'è niente di cui abbiamo più bisogno. Ridare un nome alle cose. Daccapo, rinominarle come quando dopo un'epidemia, una perdita di memoria collettiva arriva un superstite con le etichette e le attacca alle cose: tavolo, sedia, lampada, penna. Guardate: pen-na. Serve a scrivere. Ecco. In un tempo in cui davvero non sappiamo più di cosa parliamo quando parliamo d'amore (di Chiesa e di carità cristiana? di regole e diritto di famiglia? di politica per farci un partito?) Paolo Virzì ha fatto un film che riassegna un posto ai sentimenti: il loro posto.

Confuso eppure chiarissimo, scalcinato e indistruttibile, agrodolce, semplicissimo, definitivo, talmente piccolo da contenere una persona sola e così grande da farci entrare tutti. Un film che parla di vita mentre racconta la morte, di cose che funzionano al collasso, di bellezza inconsapevole, la bellezza senza silicone e senza restauri quella delle donne che «intrampolano» sui tacchi e scoppiano nei vestiti, che ridono e piangono ma mai in favore di telecamera, sempre e solo per sé, quella dei palazzi quadrati in una città di vento, dei giardinetti spelacchiati e dei tinelli con la specchiera dove i bimbi crescono di quello che c'è, pazienza se è poco.

Un posto qualunque che però è un posto preciso e vero invece, è Livorno: la più anonima e scalcagnata delle città, la più brutta di Toscana - «cosa c'ha che non ti piace Livorno?». «Tutto» - e invece liquida e lucida nelle notti sui Fossi, ariosa dei giorni, una città che è un posto di transito dove tutto passa e tutto in qualche storto modo resta e a chi ci vive sembra sempre di ballare. Di fare il bagno al mare, «che fa tanto bene».

Mentre la politica avvilisce, il Paese imbruttisce, i sentimenti collettivi intorpidiscono e la direzione di marcia (dove si va, con chi, chi guida?) è così vaga che è meglio non pensarci e andare al bar a far colazione col cornetto esce "La prima cosa bella", l'ultimo film di quello che i critici indicano come il vero erede della grande tradizione della commedia all'italiana, il regista che ci ha raccontato gli scontri di classe quel che resta della borghesia gli operai di provincia la chimera del successo tv la paranoia macabra dei call centre. E dunque cosa fa oggi Virzì, in questa landa desolata? Un film di denuncia, un film sulla politica del malaffare e delle leghe, un film sulla crisi economica? Nemmeno per sogno. Fa (con Francesco Bruni, coautore di sempre, e con Francesco Piccolo) l'unica cosa che abbia senso: fa reset, come col computer.

Daccapo. Ricominciamo da capo. Una storia vera e semplicissima che comincia negli anni Settanta e arriva a stamattina, parte dalla Castiglioncello di Dino Risi e Mastroianni e ci torna adesso, sul lungomare di libeccio dove sono rimaste solo le tamerici e i cavalloni, quelli uguali. Dice: mare, desiderio, vergogna, paura, bellezza, morte, zucchero, fratelli. Ci mette l'etichetta. Una mamma bellissima che ti rovina la vita e te la riempie, un padre che di suo ci mette le botte della gelosia, due bambini da tirarsi dietro scappando sempre per mano, sempre cantanto, via bimbi si canta? Non è nulla, cantiamo.

Stefania Sandrelli così brava non l'avete vista mai: a letto nell'hospice un momento prima di morire che fa ridere e innamora, che scappa per andare al cinema e al figlio quarantenne dice ti serve nulla amore? Mutande, calzini?, poi mangia lo zucchero filato. Michela Ramazzotti, la madre da giovane, è un fiore selvatico una tromba d'aria al largo dell'Elba, uno spettacolo della natura che uno la guarda e dice: da dove viene, a chi somiglia? I due fratelli, Claudia Pandolfi e Valerio Mastrandrea, sono bravi da sembrare veri: belli mentre sono brutti, pieni di dispetto nell'amore e di segreti facili da riconoscere anche per chi non li nomina mai, i segreti di ciascuno.

Tutti gli attori sono diretti così da risultare tagliati al millimetro, Dario Ballantini e Marco Messeri, i livornesi: il giornalista lacchè col parrucchino Emanuele Barresi, il vicesindaco Giorgio Algranti, la professoressa di liceo Lucilla Serchi. Alcuni di loro sono davvero questo nella vita. Una professoressa, una cassiera del cinema, un medico di cure palliative, un regista, un portuale. I costumi, di Ella Pescucci, un capolavoro dell’anima: dev’essere stato bello per una superstar come lei tornare sul lungomare di Rosignano da dove è partita.

Così quando il film finisce si canta "la prima cosa bella" per una settimana, ci si sente che anche quando va male si può sempre dire «però ci siamo tanto divertiti», si pensa che bisognerebbe ritelefonare alla zia Lina e tornare a casa, ogni tanto. La casa di quando eravamo bambini. Perché non ha proprio senso arrendersi, mai. Né davanti alla chemio né davanti al fallimento di un progetto né davanti alla vita quando il mondo fuori è quello che è, dove niente è più al suo posto e non si sa come farcelo tornare. Ecco come: ricominciando da dove siamo partiti, dal nostro posto, prendendo i bimbi per mano e attraversando la strada di notte, non importa se è buio e se fa vento. La luce è dentro, basta accenderla.

11 gennaio 2010
da unita.it
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« Risposta #40 inserito:: Gennaio 22, 2010, 09:51:34 am »

«Sanità pubblica non è ufficio di collocamento»

di Concita De Gregorio

La sanità pubblica non è un ufficio di collocamento per il personale politico né un bacino di denaro per il mondo degli affari: esiste in funzione dei cittadini, della loro salute. Se i medici e i dirigenti sono reclutati con criteri che prescindono dal merito è molto probabile che non siano bravi medici né bravi dirigenti: la qual cosa può essere un problema giudiziario, è certo un problema politico ma prima di tutto è un problema di tutti gli italiani che saranno curati peggio di come potrebbero. Questo dice Ignazio Marino alla fine di una giornata passata a ripetere che non è solito pensare ai complotti, che non crede ce ne sia stato uno ai suoi danni, che con Bersani presenterà a febbraio il suo progetto di riforma sui criteri di nomina di direttori generali e primari e che questo deve diventare un punto qualificante della politica del Pd perché certo che c’è un problema, un problema molto serio, ed è l’intreccio fra sanità politica e affari che induce i nostri uomini migliori ad andarsene dall’Italia e che rende la vita molto difficile a quelli, di valore, che restano.

Senatore Marino, cos’è successo col Sant’Orsola di Bologna? Può ripeterci quel che ha testimoniato in procura a dicembre?
«Sono stato sentito ed ho portato le mail che ho qui. Il carteggio col direttore generale Augusto Cavina. Nella primavera del 2009 avevo ricevuto un’offerta dal Sant’Orsola per andare ad operare da loro. A giugno ho avuto una proposta di contratto molto dettagliata: una volta alla settimana, il lunedì mattina, nessun compenso dovuto in caso di prestazioni in regime di libera professione ed altre specifiche. Nello stesso periodo ho deciso di candidarmi alle primarie, sono stato preso da altri impegni e ho tenuto il contratto nel cassetto. A metà agosto ho scritto al direttore scusandomi per il ritardo e dicendomi pronto a firmare. Mi ha risposto il giorno stesso: lavori di ristrutturazione alle sale chirurgiche consigliavano di soprassedere fino a ristrutturazione avvenuta. Ho chiesto quando sarebbe avvenuta la ristrutturazione, mi ha risposto: nell’autunno del 2010. Ho capito, ho risposto cordiali saluti. Mi sono preoccupato a quel punto di trovare un altro luogo dove operare i miei pazienti».

Nelle intercettazioni si legge che in un colloquio il direttore le avrebbe parlato di ragioni politiche.
«Non abbiamo mai avuto colloqui dopo la proposta di contratto, solo scambi via mail. Non mi ha mai parlato di politica».

Cosa pensa che sia successo fra giugno e agosto?
«Ho parlato con Bersani. Non ho mai neppure pensato che un uomo dei suo calibro possa immaginare di impedire ad un medico di operare malati di cancro al fegato, è assolutamente fuori discussione. Non è così. Presenteremo insieme il mio ddl nei prossimi giorni».

Dunque crede che in autonomia i dirigenti sanitari emiliani abbiano cambiato idea? Nel caso: perché?
«Hanno cambiato idea. Sul perché non ho una risposta».

Cosa dice il suo ddl?
«Che i direttori sanitari devono essere nominati sulla base dei titoli, scelti da un albo a cui devono iscriversi. Oggi hanno 18 mesi di tempo per dimostrare che hanno i requisiti. Dovranno mostrarli prima. Dice poi che i primari devono essere selezionati da una commissione di 4 loro colleghi estratti a sorte fra un elenco di specialisti della stessa disciplina che lavorano in altre regioni. Oggi il direttore generale propone una rosa di tre nomi, poi la politica sceglie».

Le è mai capitato da quando è in politica di avere pressioni?
«Al principio mi chiedevano appuntamento persone che avevano in corso un concorso per primario, mi manifestavano simpatia politica e chiedevano appoggio. Ho preparato una lettera standard da indirizzare ai dirigenti: “Vi chiedo, sulla base della verifica dei titoli e dello stato di servizio, di scegliere il migliore”. Dopo qualche tempo non ho avuto più richieste di appuntamento».

21 gennaio 2010
da unita.it
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« Risposta #41 inserito:: Marzo 08, 2010, 08:50:56 am »

06/03/2010 22:08

Umiliati gli onesti

Concita De Gregorio


Il partito del fare e del malaffare, del fare un po' come gli pare - dell'abuso e del condono, del sopruso e del perdono, della cricca che sono - ha digrignato i denti e sfoderato braccia tese, ha minacciato mostrando la bava, «non ci fermeremo davanti a niente», poi ha fatto la voce sottile e il pianto da vittima quando del danno era artefice. Ha infine preteso, battendo i pugni, di cambiare le regole in corsa. Prima della Costituzione (articolo 72, nessun decreto in materia elettorale) ha infranto, gettandolo a terra tra risa di disprezzo, quel che resta del senso dello Stato. Ha insultato milioni di persone per bene che vivono ogni giorno nel rispetto delle regole pagandone il prezzo. Li ha - ci ha - resi ridicoli, sudditi a capo chino di un tiranno. Costoro, le persone per bene, sono furibonde ed hanno ragione: chi sta in fila a affoga tra le carte per un permesso di soggiorno, un'iscrizione a scuola, un concorso, un bollo scaduto, il rinnovo di un contratto, una concessione edilizia avrà da oggi la possibilità di sanare per decreto irregolarità burocratiche e ritardi? Certo che no. Eppure ciascuna di queste regole da rispettare corrisponde ad un diritto. Il diritto alla cittadinanza, all'istruzione, al lavoro, alla casa. Si potrà dire, da domani, che dovendo scegliere tra un ritardo nell'iscrizione a scuola e il diritto ad andarci prevale il secondo? No. Chi ritarda di mezz'ora sarà escluso. L'elasticità vale solo per chi può imporla con l'abuso. Dunque gli italiani onesti sono furenti: se fosse accaduto alla sinistra avremmo avuto un decreto del governo? Difficile. Pagheranno una multa i ritardatari come si paga la mora sulle bollette? Non sembra proprio. La regola vale per il deboli, l'arbitrio per i forti. Forse Milioni quello del panino è stato radiato dal Pdl per manifesta incompetenza? No, lo si è visto anzi in queste notti dalle parti di Palazzo Chigi. Dunque era un disegno, l'ennesima furbizia per alzare fumo? Che triste giorno, il 5 marzo. Un nuovo 8 settembre, scriveva ieri Alfredo Reichlin. «Fino a che punto siamo consapevoli che l'Italia è arrivata all'appuntamento con la storia?». Ecco, lo siamo?
Il presidente della Repubblica ha agito, si deduce dalle sue parole, secondo la logica del male minore: tra i due beni - il rispetto delle norme e il diritto dei cittadini a votare - ha scelto il secondo. Una scelta di quelle in cui si perde comunque. L'astuta truffa - il quesito del premier - era questo: o la democrazia o la legge. Ma la democrazia e la legge sono la stessa cosa, solo la banda di governo crede di no. Napolitano ha agito anche per timore delle conseguenze possibili: chiede che «tutti si rendano conto» dell'acuirsi di tensioni «non solo politiche ma istituzionali». Abbiamo titolato, l'altroieri, «Gulp di stato». Oggi possiamo dirlo in chiaro: colpo di stato, è questo il pericolo. Siamo sull'orlo e adesso tocca a noi. Spiazziamoli. Non sbagliamo la mira. Non cadiamo nel tranello, di nuovo, di assegnare ad altri - peggio che mai ad uno solo - compiti, colpe, responsabilità. La storia è nelle nostre mani e si cambia in un solo modo: non coi decreti ma col voto. Spiazziamoli, sì. Scendiamo in piazza e saremo noi a umiliarli: col voto delle persone oneste. Sono o no la maggioranza del Paese, annidate in tutti i partiti? Vediamo. Contiamole.

da unita.it
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« Risposta #42 inserito:: Aprile 05, 2010, 12:15:33 am »

«Lavori in corso», apriamo il cantiere della sinistra

di Concita De Gregorio


Da dove cominciamo, Nadia Urbinati, a parlare del risultato elettorale e dello stato della sinistra in Italia? Dal Partito democratico? Dal cantiere dei lavori fatti e da fare, dall'analisi degli errori e dalle fondamenta di una nuova proposta? Cominciamo dal successo di Vendola, da Grillo?
«Cominciamo dall'Emilia».

Risponde così Nadia Urbinati: c'è bisogno di una discussione larga, ampia, franca e senza paura. Un dibattito come quello che si è sviluppato in questi giorni anche sulle colonne del nostro giornale e soprattutto nel web, migliaia di lettori ci hanno scritto per raccontarci quel che vedono, quel che sperano, quello in cui credono e in cui non credono più. Apriamo davvero il cantiere delle idee, dice la docente della Columbia, appassionata studiosa di politica. Però facciamolo a partire dalla realtà: lasciamo che l'insegnamento ci venga dai fatti.

Dunque l'Emilia, dove da poco è tornata a vivere. «Perchè in queste settimane, da quando sono rientrata in Italia, ho visto nei miei paesi qualcosa che non avevo visto mai. L'Emilia sarà la prossima regione a diventare leghista se non ci sarà un cambio radicale e profondo. In larga parte lo è già. Vedo i militanti della Lega girare per le piazze dei paesi con le roulotte e i camioncini, fermarsi a fare comizi di fronte a sei persone. Senza telecamere, senza microfoni. Senza media al seguito. Li sento scandire parole d'ordine semplici che fanno presa. Vedo le persone a me vicine cambiare. L'Emilia oggi è la frontiera più avanzata, o più arretrata. È Little Big Horne. La Lega ha capito molto bene che è questa la sfida più grande. La rivincita. Il vecchio desiderio democristiano. Quel che non si è tinto di bianco oggi si sta tingendo di verde. I leghisti hanno la capacità di farlo. Hanno militanti che credono, non che dubitano e discutono. Fanno turni, lavorano in modo sistematico, casa per casa. Il modello americano è questo: casa per casa. Non bastano le cene elettorali, quelle sono ad un altro livello. Nelle piazze dell'Emilia profonda il Pd non c'è. A Ferrara ho visto le navette che portano al centro commerciale. Nei paesi sono tutti chiusi dentro le case, con le loro parabole per vedere la tv. E' il Midwest: è qui che si vince o si perde».

«A partire dal linguaggio, sì. Ma dietro il linguaggio ci deve essere un ordine del discorso. Devi prima sapere cosa vuoi poi dire cosa pensi. Farlo in modo chiaro. Parole semplici e narrativa ricca. A Carpi, a Sassuolo. C'è la crisi della ceramica. Ha la sinistra una politica di riconversione industriale da proporre? Le donne della Omsa, senza lavoro perchè la manodopera all'estero costa meno. La risposta non può essere la cassa integrazione per mesi, per anni. Ci vuole un progetto. Quegli impianti devono restare qui, qualcuno sa dire come?
La Lega dice che i neri - gli stranieri - portano via il lavoro. In queste zone è un'affermazione che somiglia alla realtà. Quando il lavoro non c'è la competizione è fra chi resta escluso e chi entra in assenza di regole. Sappiamo dare una risposta?»

«A Modena - continua Nadia Urbinati - ho visto favolose piste ciclabili. Non basta. Ho visto nascere come funghi grandi centri commerciali fatti per dare ossigeno alle coop edili. Hai dato lavoro per qualche tempo agli edili, ma hai finito per portare la gente nei luoghi del berlusconismo. Dentro casa davanti alla tv durante la settimana, al centro commerciale nel week end. L'integrazione con le comunità immigrate non è avvenuta. Ciascuno vive nel proprio ghetto. I bambini vanno insieme a scuola, e cosa fanno dopo? Niente che li porti in un futuro diverso dal passato: rientrano nelle loro comunità di origine, gli adulti si chiudono e si difendono gli uni dagli altri. Sta nascendo un'altra società e la sinistra non ne è consapevole, non sembra esserlo, se lo è è impotente».

«Proviamo in Emilia a ricostruire le sezioni di partito. Non i circoli che si riuniscono una volta al mese, per il resto deserti, nel migliore dei casi i militanti si parlano sul web. È la presenza sul territorio che manca, i giovani hanno bisogno di fare qualcosa, lo chiedono: domandano cosa possiamo fare, dove possiamo andare? Non c'è un luogo. Alle feste dell'Unità la maggioranza è fatta di anziani.
È a questo livello che bisogna ricostruire a partire dai nostri principi, i nostri valori: il buon governo, la legge uguale per tutti, la Costituzione, la crescita di una comunità solidale».

«Il Pd è nato distruggendo i partiti alla sua sinistra. Una parte della sinistra non si riconosce in quel partito, né può farlo.
Ma il modello arcipelago è fondamentale. Se non ti federi con i partiti a te vicini quelli se ne vanno. Gli elettori con loro.
La scelta strutturale di guardare al centro ha conseguenze visibili. Gli elettori che non si riconoscono in questo Pd guardano a Di Pietro, poi a Grillo. Oppure si astengono. È una catena di delusioni progressive. Poi, certo, se guardo ai risultati dei partiti alla sinistra del Pd osservo che l'utopia è parte della politica, e la protesta è necessaria. Serve se è finalizzata a un risultato, se no può diventare dannosa per tutti. Si può stare vicini senza essere identici. Bisogna ascoltare chi protesta, provare a comprendere e non snobbare.
Lo stimolo critico deve essere espresso, ce n'è bisogno. Nader ha determinato la sconfitta di Gore, ma è stato perché la politica di Gore non era abbastanza convincente».

«Il grande problema è avere una classe dirigente solo istituzionale, parlamentare. Sarebbe una buona cosa che il leader dello schieramento non fosse un uomo delle istituzioni. Chi è nella condizione di difendere la sua posizione non è fino in fondo libero. Vivere di politica significa che non si può vivere per la politica. È Weber. Ci vogliono personalità libere di progettare un disegno comune fuori dagli schemi delle convenienze e delle appartenenze. Sarà chi saprà trovare un minimo comune denominatore alle forze della sinistra colui che saprà renderla forte abbastanza da consentirle di governare il Paese».

«Sì, c'è anche una questione di leadership. Dobbiamo consentire di far crescere un'altra generazione, non usarla solo come simbolo senza dargli potere. Se no è il rapporto che c'è tra genitori e figli: i genitori hanno la borsa, tengono i cordoni. I figli hanno bisogno del loro conto in banca. Non hanno lavoro, non hanno autonomia, non hanno peso».

«Berlusconi occuperà anche il web. Ha grande istinto, è capace di arrivare alla gente. Per il Pd il web è burocrazia, un lavoro come il resto. Non rispondono. Io lo uso a volte. Non mi rispondono. Non vedono, non capiscono. Obama ha vinto le elezioni grazie alla rete.
Un dollaro a testa, in milioni e milioni lo hanno finanziato. Qui vai a cene elettorali dove paghi cento euro e il leader non viene. Certo bisogna fare le due cose: ma farle bene, entrambe».

«Infine direi solo: bisogna andare a riprendere le persone e tirarle fuori da casa, dar loro qualcosa di più interessante della tv. Berlusconi ha costruito il suo potere isolando gli italiani davanti alle sue tv. Ma la Lega non ha tv, usa il modello del Pci di antica memoria. Uno stile premoderno, il camioncino e il megafono, bussano e ti compilano i moduli, ti aiutano a risolvere i problemi minimi che per le persone sono fondamentali. Noi non facciamo né l'uno né l'altro. Vogliamo cominciare a parlarne?».

04 aprile 2010
da unita.it
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« Risposta #43 inserito:: Aprile 21, 2010, 03:11:42 pm »

20/04/2010 22:41

Il Falcon e Ipazia

Due parole sul sobrio titolo del giornale di casa Berlusconi, edizione di ieri: «Non ringraziano chi gli salva la pelle. I tre operatori sanitari rifiutano il volo di Stato», tema svolto dal direttore di quel quotidiano in assoluto disprezzo della realtà, come del resto sovente gli capita salvo poi chiedere scusa, in qualche raro caso, nella pagina delle lettere. Parliamo dei tre operatori di Emergency trattati dalla stampa di destra come terroristi e non ancora rientrati in patria. Come chiunque abbia fonti giornalistiche alla Farnesina sa, e di certo il Giornale ha facile accesso ai collaboratori del ministro Frattini, una delle condizioni poste dal governo di Karzai per la liberazione dei tre era che non «rientrassero da eroi». Che non ci fossero particolari cerimonie al loro arrivo, accoglienza solenne in aeroporto. Che non volassero su aerei di Stato: un rientro discreto, meglio se con tappa intermedia, meglio ancora se separati. La Farnesina, a dispetto dell'atteggiamento a dir poco prudente del ministro, si è attivata difatti fin dal primo giorno per le trattative, due inviati sono stati mandati immediatamente sul posto, quasi subito hanno saputo e riferito come non ci fossero capi d'accusa corroborati da prove di alcun tipo contro i tre operatori sanitari. Alcuni altissimi esponenti del ministero si sono messi in moto, rientrando se del caso anche dalle loro sedi estere, per porre rimedio alle improvvide parole di Frattini («Prego Iddio che siano innocenti») che nel linguaggio della diplomazia suonavano come una presa di distanza e hanno collaborato a mitigare i toni, a scrivere i testi successivi del ministro, a tenere i contatti con il governo di Karzai. Dunque, la trattiva si è conclusa ad alcune condizioni tra cui quella di cui sopra. L'inviato della Farnesina Massimo Iannucci lo sapeva benissimo e si è adoperato in questo senso. Non lo sapeva, evidentemente, il sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto, inviato sul posto da La Russa, che ha "offerto" il passaggio sul Falcon dell'Aeronautica. Difetto di comunicazione fra ministeri? Rivalità fra ministri? Occasione creata ad arte per gettare altro discredito su Emergency? Difficile scegliere l'ipotesi peggiore. La verità per una volta è facile da accertare, certo per chi non sia in mala fede. I tre operatori sanitari non sono stati accusati di alcun reato, dunque sono stati ingiustamente detenuti. Chi è andato a riprenderti ha trattato su condizioni che ha poi rispettato. L'ospedale è stato sottratto al controllo di Emergency, è lecito il sospetto che fosse questo l'obiettivo. Inoltre per la prima volta si parla in documenti ufficiali di interessi nell'aera legati al traffico di droghe. La presunta connivenza coi talebani, l'esserne "oggettivamente complici" per il fatto di curare anche i loro figli - come se medici e militari avessero la stessa missione - oltre che essere tesi che qualifica chi la sostiene risulta in questo caso fuori tema. La partita era un'altra.

P.s.: è nelle sale Agorà, il film che narra la storia di Ipazia - matematica, astronoma e filosofa - lapidata dai cristiani nel 415 dopo Cristo. A decretarne la morte il vescovo Cirillo: una donna, secondo le scritture, non aveva diritto di parola pubblica.

Le cavarono gli occhi, fu fatta a pezzi. Andate a vederlo, se potete.

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« Risposta #44 inserito:: Aprile 26, 2010, 11:33:05 am »

22/04/2010 21:58

Concita De Gregorio

Te lo dico in faccia

Segnatevi questa data perché l'era del superuomo è finita. Certo ci vorrà tempo, mesi forse anni perché il naturale dibattito interno di un partito diventi veleno che lo corrode e lo sfinisce come è accaduto, appunto negli anni, ai partiti che abbiamo conosciuto prima dell'avvento del messia, fossero di destra di centro o di sinistra. Ci vorrà tempo, quello del Pdl si conta da ieri. Il centralismo carismatico su cui è stato costruito a prezzo del sacrificio della destra di Fini - e per buone ragioni, ragioni di marketing elettorale e di posti di potere - ha conosciuto un affronto finora impensabile: come nella fiaba del bambino e del re in mutande. Osanna al re, e nella folla una voce che dice: ma è nudo. A Berlusconi non deve essere mai successo niente di simile, di certo non in pubblico. Il mito del sole in tasca, del venditore fortunato, dell'uomo dei miracoli adorato dalle genti non contempla possibilità di critica. Nessuno fra i suoi ha mai saputo o potuto dire forte: imbrogli, sbagli, menti. Non conveniva. Ha detto ieri Fini: lo facevano solo sottovoce e quando voltava le spalle. L'unica è stata la moglie, ma quella è una vicenda privata e abbiamo visto comunque quanto feroce sia stata e sia ancora l'ira del sovrano e la vendetta: umiliata, ritratta nuda come "velina ingrata" e fatta inseguire dai giornali di famiglia fin nelle isole ad aprile deserte. Ora è Fini, però, che si alza e lo indica col dito dalla platea sbalordita (impagabile la faccia del fido Bonaiuti seduto accanto) e gli si rivolge chiamandolo per cognome: «Berlusconi, te lo dico in faccia». L'elenco di quel dirà è incompleto e sommario, date le circostanze. Tu sai bene come sono andate le cose nelle presentazione delle liste a Roma. I giornalisti "lautamente pagati da tuoi parenti stretti" mi danno la caccia perché dico quello che penso, mi trattano da traditore. Berlusconi è sotto choc. Lo vedete qui come non l'avete visto mai: prende il microfono e strilla tu non sei venuto in piazza San Giovanni, tu non puoi parlare così sei il presidente della Camera. Sottinteso, ma neanche tanto: io te l'ho data e io te la tolgo. Sei roba mia anche tu. Ecco, questo hanno visto ieri milioni di italiani. L'inizio del tramonto del Re Sole. La prima ombra, per le conseguenze vedremo. Potrà comprare i finiani uno ad uno, come ha promesso, ma d'ora in avanti sarà in pubblico. E poi l'esito non dipenderà solo da Fini. Tutto il mondo politico, sinistra compresa, si muove da oggi in uno scenario nuovo. Un'ottima occasione per battere un colpo, volendo anche due.
P.s. Vi diciamo oggi chi sono nove delle famiglie che non hanno pagato la retta per la mensa dei figli, ad Adro. Leghisti e destra si sono sgolati a dire chi non ha soldi non pretenda di mangiare, troppo comodo sperare nei benefattori. Famiglia numero uno: operaio in Cig, coniuge disoccupata, 4 figli (8,4,3 anni e 8 mesi), reddito 2009 tremila euro, affitto mensile 400. Così fino alla nona. Si potrebbe ora sostenere che chi non ha lavoro è meglio che i figli non li faccia. Lo diranno, vedrete. L'unico problema sarà distribuire anticoncezionali alle famiglie operaie: la Chiesa potrebbe ritenerlo contrario alle scritture. Immorale, il preservativo. Per i bambini senza pranzo invece tutto ok. Governo Adro.

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