LA-U dell'OLIVO
Aprile 25, 2024, 11:16:25 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: BASTA con le visioni marxiane della società del futuro!!  (Letto 6529 volte)
Admin
Administrator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 30.380



Mostra profilo WWW
« inserito:: Marzo 01, 2023, 12:27:41 pm »

Distinguerci tra Noi Democratici e le Tesi di contrasto volute da Sfascisti antiStato; sarà sempre più indispensabile.

Per la Pace sociale.

Localismi elaborati al peggio, fedi o ideologie mercificate per interessi di parte, faranno sempre più MALE alla serenità della Popolazione Italiana di ogni Regione.

ggiannig
Registrato

Admin
Admin
Administrator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 30.380



Mostra profilo WWW
« Risposta #1 inserito:: Marzo 28, 2023, 04:11:44 pm »

Gianni Cuperlo
 
Oggi all’assemblea nazionale del Partito Democratico sono intervenuto e ho detto alcune cose che, come sempre, vi riporto qui (se avete voglia).


Un abbraccio

*
Penso che solo una cosa oggi ci sia proibita.
Ed è sprecare l’occasione di guidare la sinistra fuori dalla crisi di questi mesi.
Alle spalle abbiamo due stagioni, e due segreterie, che non hanno retto la prova degli eventi.
Non è stata una colpa dei singoli, ma una responsabilità comune.
Oggi, però, un terzo rovescio non ci è consentito.
Perché non lo reggerebbe questa comunità.
E perché al potere c’è la destra peggiore.
Quella che appalta le libertà in cambio di consenso e potere.
Quella che vuole disunire il paese.
Spezzarne l’unità che non è data solo da una lingua, ma dal sentimento profondo, unico, di una nazione che nel bisogno sa camminare assieme.
Che sa piangere e rispettare i morti.
Mentre loro neppure questo sembrano in grado di fare.
“C’è un tempo per demolire e un tempo per costruire” è scritto nell’Ecclesiaste.
Penso che noi abbiamo demolito abbastanza.
E che ora sia il tempo del riscatto.
Abbiamo fatto un congresso sincero.
Ognuno ha speso le parole, le idee, che sentiva giuste.
Le mie – le nostre – erano nella volontà di arricchire la partecipazione e la democrazia.
È avvenuto in uno spirito di rispetto tra noi.
E anche questo conta.
Poteva non bastare, perché per settimane siamo stati oggetto di critiche e sarcasmi.
C’era chi intimava di scioglierci giudicando fallito il progetto e spenta la speranza.
Poi, accade che un milione esca di casa in una domenica piovosa.
Tante e tanti più del previsto, pronti a investire in questo progetto e in molti scorgendo nella guida di una donna giovane la rottura di una prassi durata evidentemente anche troppo a lungo.
Accade questo e il giorno dopo gli stessi – quelli del “dovete sciogliervi” – di colpo cambiano accento e messaggio.
Io dico, grazie!
Vorrei solo dire che non ci sentivamo orfani della speranza neppure prima.
E tanto meno lo siamo adesso.
Qui ci sono una leader, un partito, una comunità, consapevoli che la ricostruzione non sarà semplice né breve.
Consapevoli soprattutto che l’unità di questa forza chiederà fatica e molta buona volontà.
Per prima cosa nell’unire i due affluenti che sono stati decisivi per arrivare dove siamo: gli iscritti al Partito Democratico e la platea larga delle primarie.
Oggi c’è una nuova direzione legittimata da un voto che ha rovesciato l’esito dei circoli.
Non è una ferita, tutt’altro.
Sono le nostre regole.
Ma è certamente una responsabilità in più.
Che assieme dobbiamo gestire anche per rispettare la passione di chi ha creduto e ancora crede nell’impegno per sé.
In una militanza vissuta.
Qualche anno fa da un palco di Piazza Navona Nanni Moretti sferzò la sinistra con un’accusa severa.
Disse “Con questi dirigenti non vinceremo mai”.
Oggi alcuni fuori da qui vorrebbero parafrasare la stessa formula spiegando che, “con questi iscritti non avreste mai vinto”.
Credetemi, sarebbe una sintesi sciocca e offensiva.
Perché quegli iscritti sono il patrimonio di questa comunità.
A loro dobbiamo dire che c’è un partito disposto a cambiare davvero.
E allora, benissimo aprire il tesseramento, ma per bloccare la deriva di questi anni bisogna che a circoli e iscritti venga restituita una quota di potere vero.
Ascoltandoli.
Consultandoli sulle scelte di fondo.
E facendo in modo che la direzione di federazioni, regionali, quella nazionale, eviti da ora in avanti doppi o tripli incarichi e non sia più affidata solamente a chi siede nelle istituzioni.
Oggi però – e lo ripeto – la novità è grande.
Il Pd ha una segretaria.
Che è la segretaria di tutte e di tutti.
Degli iscritti che l’hanno votata e di chi non lo ha fatto.
Il punto è che l’unità tra noi si costruirà mattone sopra mattone perché la discontinuità dovrà fondarsi sui contenuti.
E per farlo – perché quel riscatto diventi una alternativa alla destra – penso che avremo bisogno di due cose.
La prima saranno le battaglie sui diritti strappati a chi ne ha più bisogno.
Un lavoro.
Un reddito.
Lo studio.
E sopra a tutto il diritto a curarsi.
Su questo si plasmerà il sentire comune delle opposizioni.
Nella spinta di movimenti, associazioni, delle piazze come quella di sabato a Firenze.
Assieme a questo a noi servirà l’anima – un pensiero coraggioso sui tormenti e le risorse di un mondo che non è mai stato simile a com’è ora.
Anche questo sarà un lavoro lungo, e allora sarà bene partire subito.
Io penso che lo si debba fare muovendo dal capitolo più drammatico che questo tempo ci ha messo dinanzi e che una volta ancora è la guerra.

Il capitolo della pace e della guerra.
Della capacità di convivere o della volontà di distruggere l’altro.
“C’è un tempo per uccidere e un tempo per guarire”.
Anche questo è scritto nell’Ecclesiaste.
Giorni fa ho letto un piccolo testo prezioso di Edgar Morin, filosofo che ha varcato il secolo di vita.
La guerra mondiale, l’ultima, lui l’ha attraversata.
Vi ha combattuto.
Noi oggi sappiamo dalla televisione delle bombe russe sulle città ucraine.
Lui, allora, aveva vissuto la distruzione di Dresda.
1.300 aeroplani inglesi e americani.
2.430 tonnellate di bombe.
300.000 morti.
C’era da abbattere il nazismo?
Sì, certo.
Ma la guerra porta sempre con sé il peggio che l’umanità è in grado di determinare.
E noi da più di un anno con quella atrocità conviviamo.
Angosciati quando leggiamo chi la tragedia te la racconta nella voce, negli occhi, nei corpi delle vittime.
Ma al fondo, sempre noi, come assuefatti all’idea che poiché esiste un aggressore e un aggredito non si possa dire nulla più di quanto si continua a ripetere da giorni, settimane, mesi.
Mentre un paese finisce dilaniato.
E a migliaia continuano a morire.
Dinanzi a quelle immagini, certa informazione si cura solo di capire se la nuova leadership del Pd cambierà linea.
E magari se questo potrebbe avvantaggiare l’altra opposizione ferma oggi nel dire No all’invio di nuove armi.
La nostra segretaria ha risposto.
Ha usato parole nette e rivendicato le scelte compiute.
Ma il punto non è negare ciò che abbiamo detto e fatto sinora.
Il punto è altrove.
Lo dico così.
Possiamo noi – possono la sinistra di questo paese e la sinistra in Europa – subire il ricatto di quanti scomunicano chiunque invochi o insegua una tregua necessaria e una pace possibile?
Io credo di no.
E penso che un nuovo pensiero coraggioso trovi esattamente qui, sul terreno più terribile ma decisivo, il suo banco di prova.
Ancora Morin spiega perché “ogni guerra racchiude in sé manicheismo, isteria bellicosa, menzogna”.
E soprattutto “preparazione di armi sempre più mortali”.
Per questo dinanzi agli orrori della guerra non è consentito banalizzare.
Perché poi c’è differenza tra chi semplifica e chi banalizza.
Aldo Moro quel concetto lo spiegava benissimo.
“Chi semplifica – diceva Moro – toglie consapevolmente il superfluo.
Chi banalizza toglie inconsapevolmente l’essenziale”.
Io mi chiedo: che cosa è accaduto in questi tredici mesi che ha spinto tanti – troppi – a togliere inconsapevolmente l’essenziale?
Lo sappiamo.
La Russia questa guerra non può e non la deve vincere.
E quindi aiutare anche militarmente l’Ucraina a difendersi prima che necessario è un obbligo politico e morale.
Ma cosa significa stare da una parte – nel caso nostro, la parte giusta – “fino alla fine”?
Se siamo la sinistra e se pensiamo che il 6 agosto del 1945 abbia cambiato per sempre il corso della storia con un’etica che solo pazzi, autocrati o dittatori hanno rifiutato: se tutto questo è vero, compito nostro è ricollocare nella storia il concetto della pace e delle azioni utili a perseguirla.
Dobbiamo farlo perché leggere il mondo nella sua complessità è la prima garanzia per non cedere alla banalità.
Lo facciano altri, ma noi non possiamo indossare lenti che riducono il mondo a una contrapposizione tra il Bene e il Male.
La cultura forse rimane la risorsa principale che quella deriva può impedire.
Nei mesi passati c’è stato persino chi, anche nel nostro paese, ha pensato di annullare un corso universitario su Dostoevskij.
Come se le opere di Puškin, Tolstoj o Čechov possano essere imputabili di collusione coi crimini di Putin.
Sono le scorie di una regressione che la guerra produce da sempre.
Al culmine della loro follia, i nazisti misero al bando la cultura francese e quella russa.
Tutta.
Musica, libri, espressioni dell’arte.
Ma davanti al plotone nazista che lo avrebbe fucilato le ultime parole di Jacques Decour, militante comunista della resistenza e cultore della letteratura tedesca, furono solo: “Imbecilli, è per voi che muoio”.
Ma noi?
Io penso che il tema per noi sia come riprendere un pensiero che non sia solamente la distinzione sacrosanta tra aggredito e aggressore, ma che ridia senso all’interrogativo decisivo che oggi è: “per chi muoiono le centinaia di migliaia di donne e uomini di questa guerra che ci appare senza una fine?”.
Lo chiedo qui – in questa giornata importante per la nostra ripartenza – perché dalla risposta che daremo dipende la certezza su cosa voglia significare “andare fino in fondo”.
Viviamo una terza guerra mondiale a pezzi, ha detto la voce più autorevole che parla al mondo.
E quella in Ucraina è già una guerra dalle implicazioni globali.
Per le ricadute che ha sul cibo e non solo.
Perché può accelerare il conflitto tra Washington e Pechino.
Ma se è così radicalizzare quel conflitto – decifrarlo rinunciando alla sua complessità – può condurre a esiti ancora più devastanti.
Penso che questo non possiamo permettercelo.
E non possiamo perché noi siamo la democrazia – la democrazia liberale e occidentale – mentre la Russia è un regime dispotico.
Ed è questa differenza a consentirci analisi che lì sono perseguitate e represse.
Noi possiamo dire che la strategia degli Stati Uniti verso Mosca è stata negli anni contestata anche da voci autorevoli della stessa diplomazia americana.
Noi possiamo dire – perché degli Stati Uniti siamo alleati, non succubi – che l’Europa sino a qui ha avuto una voce flebile.
O quasi nessuna voce.
Si dice che Putin non ha alcun interesse a parlare con noi.
E nemmeno con Macron e Sholz.
Ma è l’Europa che ha un interesse a parlare con la Russia di oggi e di domani.
Ed è l’Europa che per non sprofondare nel passato peggiore ha bisogno di risvegliare la sua potenza diplomatica e politica.
Non è un interesse condiviso da tutta l’Europa, ma è tempo di dire che questo oggi è il nostro interesse.
E allora parlare in ogni contesto, interno e internazionale, di una tregua, di negoziati, della ricerca testarda di una pace futura, non può più essere descritta come una complicità con le azioni criminali di Putin.
Con i dittatori non si discute?
Li si abbatte e basta?
Ma nella sua storia, l’Occidente ha negoziato con molti dittatori.
E a dirla tutta lo ha fatto con maggiore slancio quando in gioco erano i nostri interessi economici.
Industriali.
Militari.
Oggi fermare questa carneficina è interesse nostro come del mondo intero.
Credo che collocare il nuovo Partito Democratico su questa frontiera – l’Ucraina deve difendersi, la pace ha da imporsi – sia il messaggio più potente per una sinistra che voglia tenere assieme le culture che sedici anni fa a questo partito – e al suo splendido nome – hanno dato vita.
Facciamolo e la ripartenza diverrà riscatto di un’etica della politica che prima di quanto pensiamo ci aiuterà a battere la destra e ad aprire una speranza per l’Italia.

da FB del 12 marzo 2023
Registrato

Admin
Admin
Administrator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 30.380



Mostra profilo WWW
« Risposta #2 inserito:: Aprile 10, 2023, 02:18:31 pm »

La società-fabbrica

di Lelio Demichelis

 È in libreria e online (anche in e-book) il nuovo saggio del sociologo Lelio Demichelis. Titolo: La società-fabbrica. Digitalizzazione delle masse e human engineering (Luiss University Press, pag. 360). Ovvero, la fabbrica – e non l’impresa secondo l’ideologia neoliberale dominante – è il vero e reale modello di organizzazione del mondo e del nostro dover vivere. E a governare/ingegnerizzare la società trasformata in una fabbrica a ciclo continuo/h24 e a mobilitazione totale sono imprenditori e manager, finanza, marketing e tecnocrati e oggi soprattutto gli algoritmi e l’intelligenza artificiale, i nuovi meneur des foules con le loro tecniche sempre più raffinate di human engineering.
Perché il tecno-capitalismo ci vuole sempre più produttivi e consumativi e a pluslavoro crescente per la massimizzazione del profitto/plusvalore privato. Ma realizzare una società-fabbrica era l’obiettivo non tanto del capitale, quanto della razionalità strumentale/calcolante-industriale che predetermina e produce e incessantemente riproduce l’accrescimento tendenzialmente illimitato sia del capitalismo, sia il sistema tecnico. Ponendosi evidentemente in conflitto strutturale con la biosfera e la società e con il dovere di rispettare responsabilmente il concetto di limite. Il vero cambio di paradigma da realizzare è allora quello di uscire da questa (ir)razionalità strumentale/calcolante industriale e positivistica e costruire invece una ragione illuministica, ma umanistica ed ecologica. Un tema che riguarda soprattutto la sinistra, troppo positivista e industrialista nella sua storia.
Per gentile concessione dell’Editore, ne anticipiamo alcuni estratti.
* * * *
[…] E la polis viene sempre più governata da algoritmi/macchine portandoci alla realizzazione ormai (quasi) compiuta di una società automatizzata e amministrata (Horkheimer), cioè a una forma di totalitarismo tecno-capitalista indipendente dai regimi politici, in cui l’uomo è alienato da se stesso e dalla biosfera al crescere della sua formattazione psichica/comportamentale secondo la razionalità strumentale/calcolante-industriale.

Razionalità che è il meta-livello di governo del mondo, con la sua specifica Carta costituzionale di fatto. Il cui unico articolo recita: “Il mondo è un sistema tecno-capitalista fondato sulla razionalità strumentale/calcolante-industriale. I diritti fondamentali sono solo quelli del capitale e della tecnica ed essi valgono come diritti pre e sovra-statuali. Essi sono riconosciuti da stati e individui come pre-esistenti e come indisponibili, immodificabili, incontestabili, impermeabili al potere politico democratico, e universali”.
 Il totalitarismo antropologico della società-fabbrica
Conseguentemente – e secondo quanto disposto da tale meta-livello – la fabbrica è divenuta la forma e la norma di questa organizzazione totalitaria del mondo e del dover vivere di tutti e di ciascuno secondo la razionalità strumentale/calcolante-industriale. Una (ir)razionalità che è appunto il meta-livello di governo (government e governance; discipline e biopolitica; human engineering) della vita; che è il contesto in cui devono avvenire i processi di soggettivazione/assoggettamento; che è la superstruttura (infra) del mondo; che è ciò che produce e riproduce (che ingegnerizza, appunto) il divenire dell’esistenza umana e naturale adattandola alle esigenze del tecno-capitalismo. Una (ir)razionalità che è insieme (usando Gilbert Simondon) il preindividuale e il transindividuale ma anche, aggiungiamo, il superindividuale: che non produce però alcuna reale individuazione del soggetto umano bensì la sua negazione/alienazione nell’eteronomia oggi digitale, offrendola tuttavia come il massimo della libertà individuale e della possibilità stessa di individuazione (ormai solo macchinica e calcolabile), perché appunto si adatti flessibilmente – dopo essere stata anch’essa suddivisa in parti funzionali – alle esigenze del capitale e della tecnica (Demichelis 2018). Su tutto, questa pseudo-razionalità genera la crescente subordinazione e sussunzione (oggi nella forma/norma anche dell’onlife) dell’essere psichico a questa razionalità irrazionale. Perché l’istituzione della societa- fabbrica – come della fabbrica che ne è il modello – è inconcepibile senza l’ingegnerizzazione dell’inconscio individuale e collettivo [si chiamano management e marketing…], sul quale si appoggia ma che in realtà produce, organizza, comanda e sorveglia. […]
E allora, per immaginare processi di emancipazione/liberazione dell’uomo occorre guardare non solo al potere del capitale/capitalismo, ma soprattutto al potere della tecnologia/tecnica. Perché se il capitalismo (soprattutto l’ultimo, quello neoliberale) è una rivoluzione antropologica che ha modificato nel profondo il farsi/istituirsi/individuarsi/viversi dell’individuo secondo il progetto e il piano politico-pedagogico capitalistico di ingegnerizzazione della psiche umana per la sua piena e totalitaria valorizzazione capitalistica come forza-lavoro, analogamente procede la rivoluzione antropologica prodotta dalla tecnica/tecnologia [che non è mai neutra], per la piena e totalitaria sussunzione dell’individuo/forza-lavoro nel sistema tecnico/macchinico e oggi algoritmico-digitale. Perché se l’essenza del totalitarismo politico era (è) l’integrazione di tutto e di ciascuno nell’Uno totalitario (ieri) politico, questa è anche l’essenza della tecnica (e del capitalismo) e del suo totalitarismo: l’integrazione/sussunzione (oggi) di tutto e di ciascuno nell’Uno totalitario, però capitalistico-macchinico, automatizzato e amministrato oggi da algoritmi. Ricordando sempre che capitalismo e tecnologia sono parti della stessa razionalità strumentale/calcolante-industriale.
La società-fabbrica, dunque: con il tecno-capitalismo che realizza per sé ciò che il comunista Antonio Gramsci nel 1920 immaginava per una società comunista, “la necessità che tutto il mondo sia come una sola immensa fabbrica, organizzata con la stessa precisione, lo stesso metodo, lo stesso ordine che egli [il proletario] verifica essere vitale nella fabbrica dove lavora” – senza dimenticare che già Marx aveva definito il socialismo come la fabbrica meno il capitalismo (in Bauman 2018) e che per Weber anche il socialismo aveva la sua origine nella disciplina di fabbrica.
Il proletariato diviene però non il campione del comunismo, come credeva Gramsci, ma del tecno-capitalismo [noi tutti, produttori, consumatori e generatori di dati ne siamo cioè il proletariato/forza-lavoro, salariata o, peggio, a lavoro gratuito] – dimostrandosi come capitalismo e comunismo siano fondati sulla medesima (ir)razionalità strumentale/calcolante-industrialista quale paradigma per l’intera società. Una fabbrica uscita da tempo dalla sua forma fisica e materiale otto-novecentesca facendosi – teleologicamente, ontologicamente e teologicamente (e gramscianamente) – società-fabbrica. Producendo non uno sviluppo ulteriore della societa industriale (Aron 1962) o il passaggio a una societa postindustriale (Touraine 1970) – concezione completamente ideologica che maschera la vera struttura di potere dominante, scriveva Marcuse nel 1974 in Marxismo e nuova sinistra (2007) – bensì una società totalmente industrializzata, ma nella forma e con la norma di organizzazione, comando e controllo della fabbrica. […]
 
Una nuova dialettica
Contro il totalitarismo tecno-capitalista occorre recuperare quel diritto/dovere di resistenza contro il potere che era nato già tra Cinquecento e Seicento ed è diventato poi reale e concreto soprattutto con la Rivoluzione francese e poi con la Comune di Parigi - la riflessione politica e filosofica avendo iniziato allora a porsi non solo ex parte principis (ad esempio Machiavelli, per il quale compito del Principe è soprattutto quello di conservare il potere), ma anche ex parte populi, popolo/demos cui si riconosce appunto un diritto di resistenza e di disobbedienza, il diritto di non obbedire a un ordine o a una scelta politica o di sistema del sovrano (Bobbio, 2021). E che oggi diventa soprattutto diritto/dovere di resistenza/disobbedienza ex parte delle future generazioni e della biosfera […] insieme producendo una rivoluzione etica per un’altra antropologia/ecologia (la rivoluzione da intendere cioè come dissoluzione e ricostruzione; Bobbio). Detronizzando il sovrano assoluto della razionalità strumentale/calcolante-industriale verso il quale invece – usando ancora le Lezioni di filosofia politica di Bobbio – abbiamo compiuto (ed è la delega che diamo appunto oggi alla tecnica/algoritmi/i.a.) una totale translatio imperii, abbiamo cioè trasferito a questa razionalità in realtà irrazionale l’organizzazione della vita, il comando e il controllo su di essa, alienandoci da noi stessi, dalla Terra e dalla ragione: noi non avendo più alcun potere reale, avendolo trasferito/ceduto alla tecnica e al capitale, il sovrano tecno-capitalista potendo fare della nostra vita e della biosfera ciò che vuole; noi avendo rinunciato a ogni diritto di resistenza individuale e collettiva. Diritto/dovere che invece occorre urgentemente ri-trovare e ri-esercitare […]. Diritto individuale, certo; ma anche ricordando, con Bobbio e non solo, che riuscirai a trasformare la società quando sarai veramente riuscito a trasformare l’uomo.
Disobbedendo/resistendo invece e piuttosto come Antigone, in nome di una verità diversa da quella del sovrano e della doxa. Una disobbedienza – in nome delle ragioni del cuore e della giustizia [oggi ambientale e sociale], contro le leggi del potere – una disobbedienza che vuole contestare la legge ingiusta, che infine smuove tuttavia anche il coro, “che in questa tragedia più che mai […] è la palude: conformista, timoroso, pronto alla disapprovazione della hybris, dell’eccesso definito ‘follia della parola, furia della mente’ e condivide grettamente le ragioni della prudenza, dello status quo” (Bazzicalupo 2011). Invece, quello di Antigone è un gesto performativo, perché “così sono i veri gesti di libertà. Con la sua insistenza nel voler dare funerali dignitosi al fratello morto, Antigone sfida – coraggiosamente – la rappresentazione dominante, dunque la verità, su ciò che è Bene. […] ma la doxa dominante è destinata a cambiare. […] Forse dapprima le persone non credono possibile o realizzabile qualcosa, per esempio disobbedire all’editto ingiusto di un potere forte.
L’atto di libertà è performativo perché cambia i parametri stessi del possibile. […] Antigone ci dice che è la libertà a decidere ciò che è Bene – e forse era questo che intendeva Kant – la legge morale non è conformarsi al Bene, ma trasgredire le norme per una nuova, miracolosa forma di ciò che è indicato come Bene” (ivi). Antigone è dunque il modello per il nostro disobbedire/resistere agli editti ingiusti/irrazionali della razionalità strumentale/calcolante-industriale.
 
La Fabrik-politik del tecno-capitalismo
Fabbrica (e management), dunque; che meglio del concetto neoliberale di impresa definisce i modi con cui il tecno-capitalismo è uscito dalla fabbrica chiusa da quattro mura (che non è certo scomparsa), pervadendo l’intera società e appunto trasformandola in fabbrica integrata globale a ciclo continuo e a mobilitazione totale. […] Se dunque Foucault scriveva che per il neoliberalismo (una ideologia in realtà dalle molte varianti: neoliberista, ordoliberale, conservatrice, individualista e insieme comunitarista, globalista, nazionalista, populista, accelerazionista, fascista ecc.) si trattava di generalizzare, diffondendole e moltiplicandole quanto più possibile, le forme impresa per fare del mercato, della concorrenza […] e dunque dell’impresa stessa la potenza che dà forma alla società […] in realtà la vera potenza che dà forma alla società è la fabbrica nelle sue diverse e possibili forme: ed è così che il tessuto sociale e la vita dell’uomo possono scomporsi, suddividersi, frazionarsi secondo la grana dell’operaio/forza-lavoro e della divisione scientifica (oggi algoritmica) del lavoro; attraverso quindi non una Gesellschaftpolitik, bensì una Fabrikpolitik del tecno-capitalismo ma, prima ancora, della razionalità strumentale/calcolante-industriale. L’ordine della fabbrica (organizzazione, comando e sorveglianza) – l’ordo-macchinismo ben superiore all’ordo-liberalismo (Demichelis 2020) – diventa (è diventato) l’ordine sociale e insieme la sua vitalpolitik, producendo la totale subordinazione dell’operaio a coloro che dirigono la fabbrica. […]
E vale ricordare come già nel 1942 il francofortese Max Horkheimer scrivesse del regolamento della fabbrica ormai esteso all’intera società – anche se lo riferiva allo stato autoritario e al capitalismo di stato, mentre oggi lo decliniamo come norma del management/marketing degli uomini nel totalitarismo tecno-capitalista, dove anche lo stato è al servizio (è servo) della fabbrica integrata e globale del capitale e della tecnica. […] Mentre Raniero Panzieri scriveva, nei primi anni ’60: “la fabbrica si generalizza, tende a pervadere e a permeare tutta la società civile”; si tratta allora “di afferrare il fatto che la fabbrica scompare come momento specifico. Lo stesso tipo di processo che domina la fabbrica, caratteristico del momento produttivo, tende [però] a imporsi a tutta la società e quindi quelli che sono i tratti caratteristici della fabbrica […] tendono a pervadere tutti i livelli della societa”.
Come accade ancora di più oggi, tra capitalismo/taylorismo digitale & capitalismo/taylorismo della sorveglianza.

da - https://www.sinistrainrete.info/societa/25301-lelio-demichelis-la-societa-fabbrica.html
Registrato

Admin
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.754


Mostra profilo
« Risposta #3 inserito:: Aprile 10, 2023, 06:17:27 pm »

ControPiede
 
Sito di informazione politica
 
Perché Elly: alla rinascita della sinistra serve un’ideologia
POSTED ON: 2 Marzo 2023 COMMENTS: 0 CATEGORIZED IN: Politica Italia WRITTEN BY: Contributo a Contropiede
Un contributo di Nadira Haraigue. Lunedì 27 febbraio, the day after, è stata una giornata passata a leggere. Leggere la gioia, l’incredulità ma anche commenti velenosi fino alla mancanza di rispetto sull’impresa epica della nuova Segretaria del PD. Quelli dell’estrema destra sono ovvi. Ma quelli che gravitano nell’area centrale sempre meno attraente (le urne, tutte, lo confermano). Poi si razionalizza e si pensa che vabbè sarà che brucia. Non tutti sappiamo perdere e anche chi sa perdere, magari non lo sa fare sempre. Soprattutto quando tutti i sondaggi sono a favore e quando tutti i pianeti paiono perfettamente allineati per il raggiungimento di quell’obiettivo.
Tralascio anche la fuoriuscita “perché il PD è diventato di sinistra” di Fioroni che, con tutto il rispetto, avevo perso dai radar come se fossi stata colpita dall’amnesia di Dori la pesciolina blu. Ma poi arriva la dichiarazione di Gori (come sapete tutti i riflettori erano puntanti su di lui perché avrebbe dichiarato – uso il condizionale perché lui dice che è stato mal interpretato – che sarebbe uscito qualora avesse vinto Elly Schlein). Tutto la norma e tutto in linea con il Gori pensiero niente di così eclatante. Tranne per questo trafiletto in foto.
Vado in ordine:
1.   “Elly si trova di fronte un partito con diverse fratture, tra Nord e Sud, generazionali, ma anche di culture politiche”. Ma Gori che è dirigente del PD da anni, esattamente cosa ha fatto per sanare la frattura tra Nord e Sud? Non è stato quello che ha votato il referendum per l’autonomia della Lombardia nel 2017? La frattura generazionale, lo sa che Elly Schlein ha aggregato un mondo che dal PD non si è mai avvicinato perché è un partito senza identità? E non sto parlando dei GD o dell’operazione di Brando Benifei con “Coraggio PD”. Sto parlando di quei ragazzi dei FFF o altri ancora anonimi che sono venuti a votare o che hanno fatto votare i propri genitori perché ancora under 16? Cosa ha fatto il PD nel quale milita Gori da anni per questi giovani se non dare loro dei contentini? E ancora, le fratture sulla cultura politica, che posizione ha tenuto Gori nei confronti delle persone con orientamento più socialdemocratico che liberaldemocratico se non quello di bollarli come “sinistra” ma nel senso dispregiativo del termine. O ancora dal palco dire “non bisogna vergognarci di parlare di ricchezza” quando noi parliamo di povertà o di disuguaglianza. Cosa hanno fatto coloro che la pensano come Gori e che non hanno preso bene la sua vittoria se non etichettare Elly come Corbyniana o Sandersiana?
2.   “Deve avere la capacità di ricucire”. Cercate di leggere più volte questa frase. Cioè il PD ha passato anni a fare le barricate (per citare un termine usato per commentare la vittoria di Elly) tra bande, a contare le percentuali per piazzare i propri, a usare il manuale Cencelli anche per distribuirsi gli strapuntini e mettere le bandierine nei territori, a fare le larghe intese in nome di una responsabilità sempre più spiccata (e sempre più imbarazzante) pur di stare attaccati al potere, nonostante il malcontento dei militanti che sono diminuiti sempre di più e Elly “deve” avere la capacità di ricucire? E lo deve fare perché lo dice Gori, con questo far paternalistico tipico di chi non accetta che un/a giovane spicca il volo, altrimenti cosa succede? Non sarà capace? Ma se avesse vinto Bonaccini, questo pensiero gli sarebbe venuto in mente? Elly Schlein ha vinto e ha avuto un mandato dal popolo del PD e con questo saprà, come dichiarato da lei, essere la Segretaria di tutte e tutti.
3.   “Dipenderà da lei se terrà o non terrà il PD nella sfera atlantica, se terrà o no la posizione di Letta sulla guerra in Ucraina, se affronterà con pragmatismo il tema del lavoro”. Ora, premettiamo che lei ha vinto le primarie parlando del suo programma che era un reale manifesto e quindi da qualche parte, è stata giudicata più vicina alle persone che l’hanno votata rispetto a Bonaccini. Questo significa che lei deve rispettare questo patto con i propri elettori e non deve seguire le orme di Letta o di nessuno perché è lei la Segretaria. Ma Gori lo ha letto il suo programma? Tralascio il punto sulla sfera atlantica perché è un’insinuazione veramente imbarazzante per chi la esprime perché presta il fianco a coloro che si sono affrettati a chiamarla “Mélenchon”. Il passaggio sulla guerra in Ucraina nel programma lo ha letto? Lo scrivo qui: “Il sostegno di tanti Paesi ha permesso all’Ucraina di continuare a esistere senza capitolare. Serve un maggiore sforzo politico e diplomatico dell’Unione europea, insieme ai nostri alleati e in seno alla Comunità internazionale, per creare le condizioni che portino ad un cessate il fuoco e all’avvio di una Conferenza di pace multilaterale che possa portare alla fine della guerra. Sosteniamo e sosterremo il popolo ucraino con ogni forma di assistenza necessaria a difendersi, per ristabilire il diritto internazionale e i principi su cui si fonda la convivenza pacifica fra i popoli. Senza però rinunciare alla nostra convinzione che le armi non risolvano i conflitti, e che non possiamo attendere che cada l’ultimo fucile per costruire la via di una pace giusta”. Ci sono ambiguità? Parlare anche di Pace non significa escludere l’aiuto. Oppure dobbiamo esprimerci solo di guerra per essere credibili? Sul lavoro, il piano di Elly è chiarissimo ed è estremamente pragmatico. Magari non piace a Gori, ma questo è un altro discorso. “Voltare nettamente pagina dopo gli errori del “Jobs Act” e del “decreto Poletti” sulla facilitazione dei licenziamenti e la liberalizzazione dei con¬tratti a termine. È necessaria una lotta serrata alla precarietà e allo sfruttamento, ponendo fine alla concorrenza al ribasso sul terreno delle tutele e dei salari. Bisogna limitare il ricorso ai con¬tratti a tempo determinato a partire da quelli di brevissima durata, come hanno fatto in Spagna coinvolgendo organizzazioni datoriali e sindacali, e rendere strutturalmente più convenienti per le imprese i contratti stabili”. Forse non è pragmatico perché parla prima dei lavoratori e non delle imprese? O forse perché bisogna superare il Jobs act? Gori forse non si è accorto che questo era scritto anche nel nostro programma elettorale alle politiche e, sì, non siamo stati votati perché non eravamo credibili. Perché allora non l’ha detto a Letta che doveva essere più pragmatico? Infine, la Spagna sembra a Gori un pericoloso paese di estrema sinistra? Nel programma di Elly si parla di aumentare i contratti a tempo indeterminato per combattere la precarietà come fa la Spagna.
La realtà è questa, Elly Schlein non doveva vincere e invece ha vinto. Come ha detto lei a caldo “e anche questa volta non ci hanno viste arrivare”. (viste con la e). È riuscita nell’impresa di portare gente a votare. Gente fuori dal PD, quelli che non ci votavano più. Ha invertito il risultato uscito dalla convenzione dei circoli che ha visto Bonaccini vincere – ma non stravincere – con la partecipazione di 150.000 iscritti. E tra questi 150.000 vi sono anche i pilotati dai padroni delle tessere, dei circoli e dei territori. Togliamo il velo dell’ipocrisia e diciamocele le cose. Abbiamo visto numeri imbarazzanti in alcune zone dove i capibastoni sono degli imperatori. Ma più di un milione di persone hanno partecipato alle primarie e noi vogliamo puntualizzare sul fatto che i primaristi hanno ribaltato la situazione come per delegittimare Elly Schlein? Proprio quando, per anni, il PD ha lamentato un disamoramento micidiale e un allontanamento del proprio elettorato di riferimento.
Gli elettori, legittimati dallo statuto – ancora in vigore – hanno deciso, sfidando la pioggia e il vento e mettendosi in fila con in mano documenti e 2 euro, che la persona più credibile fosse Elly Schlein. E cioè, senza mettersi d’accordo, senza ascoltare nessuno, hanno deciso di comunicare al PD qual è la rotta da seguire: la radicalità. E chi avrà il coraggio di sovvertire questo mandato, si prenderà questa responsabilità e dovrà poi avere il coraggio di andare di nuovo dinnanzi ai cittadini a chiedere il voto.
È l’ora della radicalità e del cambiamento. E gli elettori hanno deciso che, a guidare l’opposizione contro Donna Giorgia, ci volesse un’altra Donna, Femminista, Progressista, Ecologista. Una donna dalle mille sfaccettature culturali e valoriali. Una donna che conosce perfettamente lo scenario nazionale e internazionale, che sa benissimo quale blocco sociale rappresentare, e che urla dai palchi: “mai più il PD dovrà approvare il memorandum con la Libia”. (punto sul quale Bonaccini non ha mai dato una risposta e punto mai così attuale). Una donna che non ha bisogno di un padrino o del permesso di un uomo per salire la difficile strada verso l’apice. L’ha fatto e ci è riuscita.
Per anni il PD ha teorizzato la fine delle ideologie permettendo ai peggio populisti di ogni schieramento di farsi strada e permettendo alle destre di teorizzare la loro e vincere. È stato un errore e i primaristi, nostri elettori, sono venuti a dircelo sbattendocelo in faccia in un silenzio surreale, con una sola croce sul nome Schlein.
Elly Schlein sa che il partito deve rigenerarsi e la rigenerazione chiede un cambiamento radicale, qualcosa di totalmente nuovo, totalmente diverso da quello che c’era prima. Lo sguardo femminile e femminista è la novità che serve perché è sempre mancato. Ed è dannatamente pragmatico, caro Gori.
È tempo che la sinistra si trasformi in qualcosa di forte e che abbia idee molto chiare sull’uguaglianza, sull’economia, sulla libertà, la giustizia, e questo significa avere ideali e piattaforme lontane dall’inerzia e dalla tiepidità a cui siamo stati abituati per troppi anni. Il partito del “ma anche”.
È tempo, quindi, di uscire dal letargo perché i tempi nuovi, i nostri tempi, sono già iniziati. È l’occasione giusta per ritrovare vitalità e la carica che non è andata perduta ma che, in questi anni, non si è manifestata.
La sinistra di Elly consiste nel rappresentare ciò che non rappresentavano più i politici, ed è esattamente questo che gli elettori hanno capito. Più di 1.000.000 persone sono venute a votare e, di queste, quasi 600.000 hanno scelto Elly Schlein. Sono nostri elettori e non possiamo dire loro che il loro voto non vale quanto quello degli iscritti. Finché non si cambia lo statuto. E finché ci interessa che non voltino le spalle per andare altrove.
Gli elettori hanno scelto una linea precisa e tutti, la famosa classe dirigente, devono lavorare con umiltà e mettersi a disposizione per ricucire, non il PD, ma il contatto con la realtà e con i bisogni dei cittadini tutti.
“Può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla”. (Martin Luther King)

dahttps://www.contropiede.eu/2023/03/02/perche-elly-alla-rinascita-della-sinistra-serve-unideologia/?fbclid=IwAR0qvdi9-hERw4CLWZF2AOXdalx1btnGzN49I6PSCv-OJjgkKdA6TUKaJwY
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.754


Mostra profilo
« Risposta #4 inserito:: Aprile 10, 2023, 06:25:59 pm »

Roberto Cocchis
ponroedStsu2m071l6af2hl1107920g3u3ah79cmhti823ml4 a41mi5l0at  ·
 
Uno dei concetti che ci sono stati inflitti con maggiore frequenza negli ultimi trent'anni dalla più ripugnante politica clientelare e corrotta ogni volta che veniva colta con le mani nella marmellata e finiva sotto inchiesta è quello dell'uso politico della giustizia, in riferimento soprattutto alle "toghe rosse" e ai giudici iscritti a Magistratura Democratica.
Trent'anni?
In realtà, anche se all'epoca non lo sapevamo perché nessuno dei soggetti coinvolti controllava metà dell'informazione televisiva nazionale, gli anni sono più di quaranta.
Praticamente tutti i piduisti infiltrati nelle istituzioni, ogni volta che sono finiti sotto inchiesta, hanno basato la loro difesa sulla delegittimazione dei magistrati che dovevano giudicarli, accusandoli appunto di uso politico della giustizia e non di rado denunciandoli per interesse privato in atti pubblici. Queste denunce non hanno avuto mai il minimo seguito, ma sono servite a ottenere la ricusazione dei giudici, finché la relativa causa non finiva nella competenza di un magistrato piduista, che ovviamente la insabbiava immediatamente.
Contro questi magistrati piduisti rei di pesanti ma subdoli illeciti non sono mai stati presi provvedimenti, perché la corte che avrebbe dovuto occuparsi della loro disciplina, quella di Perugia, era a sua volta presieduta da un altro piduista. Che successivamente è stato rimosso e condannato per questo.
C'è infine da aggiungere che televisioni e giornali dei Berlusconi cominciarono ad attaccare, tentando di delegittimarlo, il pool di Mani Pulite parecchio prima che il capo risultasse minimamente inquisito. Si ricorda benissimo, infatti, l'episodio per cui Indro Montanelli preferì dimettersi dalla direzione del Giornale e fondare un altro quotidiano, La Voce (che durò pochissimo), pur di non diventare il braccio armato della corruzione contro il terzo potere dello Stato.

DA fb 10 aprile 2023
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.754


Mostra profilo
« Risposta #5 inserito:: Aprile 10, 2023, 06:46:47 pm »

GAFFE COLOSSALE DEL NOSTRO PROFESSORE PREFERITO – il Prof. ORSINI

 Autore
Elio Truzzolillo

Testo integrale: “Siccome l’idea di spiccare un mandato di cattura contro Putin è probabilmente l’idea più cretina della storia universale, unitamente all’idea di processarlo per crimini di guerra, cioè di processare per crimini di guerra il presidente in carica di uno Stato che ha diritto di veto in seno al Consiglio di sicurezza dell’Onu e 6000 testate nucleari, abbiamo il problema di rispondere alla domanda: perché? Com’è possibile che l’Unione Europea sia caduta così in basso al punto da farci vergognare tutti? Perché Ursula von der Leyen e Roberta Metsola si umiliano attraverso una produzione così copiosa di idee cretine? La risposta è semplice: per nascondere il fatto di non contare niente. Siccome non contano niente; siccome la Commissione europea è un gruppo di passacarte di Biden; siccome non è in grado di proteggere nemmeno i propri gasdotti bombardati da un Paese alleato che però sono stati sei amici sul pattino, allora cercano di gettare fumo negli occhi con iniziative talmente cretine da far apparire intelligenti persino i piccioni come la designazione della Russia come stato sponsor del terrorismo (respinta pure dagli Usa).
Ci penseranno poi i propagandisti delle radio e delle televisioni italiane a far passare un’idiozia gigantesca per un’idea intelligente da applaudire. Ecco che cosa intendo dire quando dico che la classe dirigente europea è completamente corrotta in senso paretiano. Ursula von der Leyen appartiene semplicemente a una classe dirigente morta. Era morta ben prima del 24 febbraio 2022, altrimenti gli accordi di Minsk 2 non sarebbero naufragati e l’Ucraina non sarebbe una base della Nato da molti anni. L’invasione della Russia ha semplicemente reso evidente la decomposizione di un corpo che si è spento di nascosto. Quando pensate alla Commissione europea, pensate a un gruppo di falliti politici. Pensate alla Commissione europea come la più grande vergogna della civiltà europea. Pensate a un corpo morto che, essendo pesantissimo, ci porta tutti a fondo.
Forza, Commissione europea, proponi o sostieni un’altra idea cretina.
Facci ridere.”

Qui Orsini é finito.

da Fb del 3 aprile 2023

Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!