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Autore Discussione: Negli ospedali pieni si muore di più.  (Letto 2950 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Gennaio 22, 2023, 10:47:49 pm »

Dai medici di famiglia agli infermieri, ecco tutte le carenze di personale che rischiano di frenare il Pnrr e far franare il Ssn.

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« Risposta #1 inserito:: Aprile 03, 2023, 10:55:55 am »

Negli ospedali pieni si muore di più

Negli ospedali, la mortalità aumenta di circa il 2% al giorno una volta superata una certa soglia di occupazione, secondo uno studio dell'Università di Basilea. Keystone / Gaetan Bally

Quando l'occupazione dei letti aumenta, il tasso di mortalità negli ospedali cresce, a volte ancor prima che la struttura abbia raggiunto la capacità massima, secondo uno studio svizzero. Il fenomeno colpisce maggiormente i piccoli ospedali.

Questo contenuto è stato pubblicato il 23 gennaio 2023
23 gennaio 2023
8 minuti

È uno dei dati di cui si è parlato più spesso durante la pandemia di Covid-19: il tasso di occupazione dei reparti di terapie intensive e più in generale degli ospedali. Finché ci sono ancora dei posti letto disponibili, è possibile fornire un'assistenza sanitaria adeguata alle persone ricoverate, si potrebbe pensare. Ma è davvero così?

Per trovare una risposta, l'Università di Basilea ha indagato la relazione causale tra l'occupazione dei letti e il tasso di mortalità dei e delle pazienti, analizzando i dati riguardanti oltre 1,1 milioni casi di ricovero provenienti da 102 ospedali svizzeri. Il suo studioLink esterno pubblicato alla fine del 2022 è giunto alla conclusione che la mortalità aumenta di circa il 2% al giorno una volta superata una certa soglia di occupazione.

"In alcuni casi, la mortalità aumenta significativamente prima che venga raggiunta la piena capacità della struttura", afferma a SWI swissinfo.ch Michael Simon, responsabile dello studio e professore all'Istituto di scienze infermieristiche dell'Università di Basilea.
Più fluttuazioni negli ospedali piccoli

La soglia critica di occupazione sopra alla quale aumenta il rischio di mortalità varia da un ospedale all'altro e può andare dal 42,1% al 95,9% della capacità massima, secondo lo studio.

"In alcuni casi, la mortalità aumenta significativamente prima che venga raggiunta la piena capacità della struttura."

Michael Simon, Università di Basilea
End of insertion

Tra i fattori determinanti vi è la dimensione della struttura. Nei piccoli ospedali, che hanno in media un tasso di occupazione del 60%, la soglia critica è più bassa ed è raggiunta più rapidamente rispetto a istituti più grandi, dove il tasso di occupazione medio è del 90%, spiega Michael Simon.

La ragione è da ricercare nelle maggiori fluttuazioni del numero di pazienti che si osservano, non sempre ma spesso, negli ospedali più piccoli. Per fare un esempio, una clinica con dieci letti che ospita in media sei pazienti l'anno ha un tasso di occupazione del 60%. Ciò significa che ci possono essere giorni con due pazienti e altri con dieci, una situazione "difficile da gestire", secondo Simon. Nelle strutture più grandi quali gli ospedali universitari, invece, la variabilità è minore.

Quindi, dal punto di vista della persona ricoverata, è meglio trovarsi in un ospedale di grandi dimensioni? Non necessariamente, spiega Simon. "In linea di principio, sono le strutture con un tasso di occupazione più alto, e quindi più costante, a rappresentare probabilmente la migliore soluzione per i pazienti e le pazienti. Tra queste ci sono anche ospedali di piccole e medie dimensioni", afferma.

La relazione tra l'occupazione dei letti e il tasso di mortalità ospedaliera è complessa, puntualizza l'esperto. Oltre alla quota di letti occupati vanno considerati anche altri fattori, tra cui la gravità media della malattia o del motivo del ricovero, il rischio individuale di morire o ancora l'età e il sesso della persona ricoverata.
Perché si muore in ospedale?

Una volta superata la soglia critica di occupazione di un ospedale c'è il rischio che diagnosi o trattamenti non vengano eseguiti o vengano effettuati con un certo ritardo, rileva Michael Simon. Nonostante le forti fluttuazioni del numero di pazienti, l'effettivo del personale medico e infermieristico rimane infatti relativamente stabile.

L'Associazione svizzera delle infermiere e degli infermieri (ASI) denuncia da anni dei carichi di lavoro eccessiviLink esterno e una carenza cronica di personale curante negli ospedali. La professione ha perso di attrattività e circa un terzo delle persone che hanno seguito una formazione infermieristica abbandona il settore dopo appena alcuni anni di lavoro, deplora Sophie Ley, presidente dell'ASI. Un esodo accentuato dalla pandemia di Covid-19Link esterno che può incidere negativamente sulla qualità delle cure e accrescere il rischio di complicazioni o di decessi prematuri.

>> Leggi: L'effetto "devastante" della pandemia sulle infermiereLink esterno

Statisticamente, circa il 2,3 % delle persone ricoverate in Svizzera muore durante il soggiorno in ospedale, afferma Michael Simon. Considerando che le persone ospedalizzate sono circa un milione all'anno, i decessi possono essere stimati a circa 23'000. "Nella maggior parte dei casi, una persona muore perché è giunta la sua ora. Nessuno può salvarla, ad esempio dopo un grave incidente stradale o a causa di una grave malattia", dice Simon.

Le morti causate da errori medici sarebbero invece tra le 2'000 e le 3'000 all'anno, secondo una stima dell'Ufficio federale della sanità pubblica.
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Ospedali svizzeri nella media

Lo studio dell'Università di Basilea su occupazione dei letti e mortalità ospedaliera è il primo nel suo genere ed è stato reso possibile dal fatto che in Svizzera, a differenza di altri Paesi quali la Germania, sono disponibili tutti i dati riguardanti i/le pazienti, secondo Michael Simon. Le conclusioni possono però valere anche per altri sistemi sanitari nazionali, aggiunge.

La Svizzera è lo Stato europeo col più alto numero di infermieri/e pro capiteLink esterno (18 ogni 1'000 abitanti nel 2019). In termini di numero di letti disponibili rispetto alla popolazione e di tasso di occupazione degli ospedali, la Confederazione si situa invece nella media o poco sopra, come illustrano i due grafici seguenti:
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Soluzioni per ridurre la mortalità

Per Michael Simon, il problema dell'aumento della mortalità può essere affrontato riducendo le fluttuazioni del numero di pazienti e dotando gli ospedali di personale adeguato. "Le politiche sanitarie devono iniziare a riflettere a come ridurre la volatilità e a come rendere il sistema di cure più resiliente", afferma.

Le soluzioni potrebbero essere una più stretta collaborazione tra nosocomi, una migliore pianificazione ospedaliera e il raggruppamento delle cliniche più piccole, secondo il professore. Questo eviterebbe non solo di raggiungere un'occupazione eccessiva negli ospedali, ma anche di ritrovarsi in una situazione in cui ci sono troppi letti liberi, con un conseguente spreco di risorse.

"Idealmente, sarebbe meglio avere pochi letti con un personale curante adeguato piuttosto che una struttura con molti letti, ma a corto di personale", afferma Simon.
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« Risposta #2 inserito:: Aprile 06, 2023, 06:58:52 pm »

In pronto soccorso per 1'000 euro a notte

Nei pronto soccorsi italiani sono sempre di più i medici "a gettone".
Copyright 2020 The Associated Press. All Rights Reserved

A causa della carenza sempre più grave di personale, in alcuni ospedali italiani i medici possono guadagnare fino a 1'000 euro a notte per coprire un turno dalle 20 alle 8.
Questo contenuto è stato pubblicato il 29 marzo 2023

29 marzo 2023
I concorsi ci sono, mancano però candidate e candidati e così, in assenza di altre soluzioni, i pronto soccorso di numerose località italiane ricorrono ai cosiddetti medici "a gettone". Si tratta di professioniste e professionisti che invece di farsi assumere per un posto fisso o di aprire un proprio studio, scelgono di lavorare per una cooperativa e svolgere il proprio mestiere a turni su chiamata.
È il caso, per esempio, dell'ospedale Erba-Rinaldi di Menaggio, che deve fare i conti con una carenza sempre più grave di personale. Qui, a parità di lavoro, chi svolge un turno di 12 ore durante il quale si occupa di urgenze di varia natura, viene pagato 1'000 euro a notte. Dottori e dottoresse a gettone hanno diritto di svolgere 12 turni al mese e questo dà loro la possibilità di guadagnare, dopo le diverse deduzioni, fino a 8'000 euro per 144 ore di lavoro.
Guadagnare di più lavorando in Svizzera
La carenza si fa sentire in particolare nelle regioni di frontiera in particolare, a causa della concorrenza del mercato del lavoro svizzero. Le condizioni salariali elvetiche vantaggiose sono una delle ragioni che spinge numerose persone a scegliere di lavorare in  Svizzera. Nel solo Canton Ticino, ogni giorno 5'000 operatori e operatrici sociosanitari attraversano il confine per lavoro. La situazione si è esacerbata durante la pandemia e da tempo ormai Svizzera e Italia si contendono il personale sanitario.
Secondo gli ultimi dati raccolti dall'Ufficio federale di statistica, risalenti al 2018, i medici specialisti liberi professionisti conseguono un reddito mediano annuo di 257'000 franchi, che possono raggiungere i 697'000 nel settore della neurochirurgia.
Il compenso di specialisti e specialiste dipendenti arriva a 197'000 franchi annui.
La Svizzera, ricorda una statistica pubblicata proprio in questi giorni, dipende molto dalla manodopera proveniente dall'estero. Oltre al personale infermieristico di ospedali, case di cura, cliniche e case per anziani, dottori e dottoresse che si sono diplomati dall'estero rappresentano il 40% dei 40'000 medici che nel 2022 erano in attività nella Confederazione. Di questi, il 23% è in possesso di un titolo di studio emesso in Italia.
Se Svizzera e Italia si contendono il personale sanitario
Questo contenuto è stato pubblicato il 08 gen. 2023 08 gen. 2023 La carenza di professionisti e professioniste nel ramo medico e infermieristico, esacerbata dal Covid, non concerne solo il confine italo-svizzero.

Un quadro normativo incerto
Ma torniamo ai medici a gettone. L'esternalizzazione di questi servizi crea molto malumore: recentemente, sulle pagine del quotidiano ticinese la Regione, la portavoce del Comitato per la difesa dell'ospedale Erba-Rinaldi di Menaggio Giovanna Greco dichiarava: "Continuando a esternalizzare i servizi a Menaggio resteranno solo i muri. Ci chiediamo anche se i medici a gettone sono in possesso della necessaria specializzazione in medicina di emergenza-urgenza o titolo equipollente."
Con questo sistema si è venuta a creare una situazione paradossale: medici che si licenziano dal settore pubblico e che scelgono il sistema a gettone, per loro più conveniente. Ma non per chi li impiega: le strutture che devono ricorrere ai loro servizi si ritrovano in effetti a dover spendere molto di più per le stesse prestazioni.
Il quadro normativo incerto, poi, non aiuta: non esistono infatti regole che impongono limiti alle strutture che ricorrono a questo tipo di servizi.
Il budget che le strutture possono spendere per questi servizi non è definito e non esiste un periodo massimo nel corso del quale ricorrervi. In teoria, quindi, la situazione si può protrarre a oltranza. I costi però rischiano di diventare insostenibili e, di fatto, i servizi offerti rischiano di essere ridotti all'osso in molte regioni.
Si sta creando, insomma, una situazione di far west, che nemmeno l'autorità nazionale anticorruzione italiana (ANAC) riesce a controllare, proprio a causa dell'assenza di regole precise. È per questo motivo che, a fine 2022, si è rivolta al Governo, chiedendo ai ministeri dell'economia e della salute, come pure alla Conferenza delle regioni di fissare una serie di criteri generali. Nella lettera, firmata dal presidente dell'ANAC Giuseppe Busia, si parla di "problematica di rilevanza sociale, oltre che di grande impatto economico sulla spesa pubblica". Le aziende sanitarie sono "indotte ad aggiudicare appalti e a corrispondere compensi particolarmente elevati per ciascun turno, anche prevedendo, come criterio di scelta del contraente, quello del prezzo più basso".

Chi? Dove? Quanto?
Stando a una recente statistica di Dataroom, nel 2022 nel Nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia-Romagna), sono stati appaltati ai medici a gettone oltre 100'000 turni. Principalmente questo personale viene assunto per coprire i turni in pronto soccorso, anestesia e rianimazione, ostetricia, ginecologia e pediatria.
Liberi professionisti, medici in pensione, stranieri, giovani laureati: un quadro variegato, quello dei medici a gettone. © Keystone / Gaetan Bally
Ma… chi sono? Sempre secondo i dati raccolti da Dataroom, il quadro è variato: neolaureate e neolaureati in attesa di entrare nelle scuole di specializzazione, medici in pensione, liberi professionisti con doppio lavoro, persone che si sono licenziate dagli ospedali pubblici, medici stranieri che, non essendo in possesso della cittadinanza italiana o di un passaporto dell'Unione Europea, non sono ammessi ai concorsi pubblici.
Chi ricorre maggiormente alle loro prestazioni sono i piccoli ospedali, che avendo pochi pazienti fanno spesso fatica ad attirare personale medico specialistico.  I sindacati inoltre denunciano un calo della qualità del servizio: "La competenza e la lucidità dei turnisti dipendono solo ed esclusivamente dal livello di serietà delle cooperative che li selezionano", si legge sul sito sindacalmente.org. Spesso, inoltre, capita che queste persone si ritrovino a dover effettuare operazioni per le quali non sono state formate e a risentirne sono i e le pazienti. 
A farla da padrone, però, alla fine di tutto, sono i soldi. Sempre stando all'analisi di Dataroom, in media un medico ospedaliero assunto da più di 15 anni guadagna 52 euro lordi all’ora, per 6 ore e 20 minuti al giorno da contratto (che però vengono sempre superate) per 267 giorni l’anno, per un salario annuo totale di 85'000 euro. Un medico a gettone guadagna la stessa somma facendo 84 turni da 12 ore, essendo il compenso minimo in pronto soccorso e in anestesiologia di 87 euro lordi. La differenza sta nel fatto che i "gettonisti" devono farsi autonomamente carico di ferie e malattie. In sostanza, per arrivare più o meno allo stesso salario annuo, chi è sotto contratto deve lavorare 267 giorni contro gli 84 turni di chi lavora su chiamata.

Solo una questione di soldi? Non proprio.
Non è d'accordo con questa analisi Fabrizio Comaita, il direttore sanitario della cooperativa Pedicoop di Domodossola, che riunisce 600 specialiste e specialisti che prestano i loro servizi in 140 ospedali di tutto il Nord Italia in pediatria, neurologia, cardiologia, per citarne solo alcuni. Tutta questa contrarietà ai "gettonisti", ci dice, "è uno scandalo ridicolo". Anche perché "i 100 euro all'ora che guadagnano vengono tassati al 60%". Cosa spinge allora professionisti e professioniste ad affidarsi a una cooperativa piuttosto che a un ospedale, gli chiediamo: "Nel 2004 è entrato in vigore il blocco delle assunzioni nel settore pubblico per contenere la spesa sanitaria. I concorsi sono rari e quando vengono indetti non ci sono candidati a causa dei salari offerti, che sono troppo bassi". Da Pedicoop l'età media del personale medico è di circa 60 anni, ma si spazia dai ventenni ai 70enni: "Sono pochi gli stranieri. Il 90% sono cittadine o cittadini italiani o dottori e dottoresse iscritti all'albo dei medici stranieri in Italia".   
Intanto, in attesa di una regolarizzazione da parte del Governo, le Regioni interessate maggiormente dal fenomeno cercano delle soluzioni tampone: Veneto, Piemonte ed Emilia-Romagna hanno aumentato la paga oraria del personale sotto contratto, portandola da 60 a 100 euro.  In Lombardia, invece, vengono promossi accordi grazie ai quali i camici bianchi già dipendenti del servizio sanitario nazionale vengano compensati, per i turni aggiuntivi che vorranno effettuare in pronto soccorso, con 100 euro orari. Un modo per rendere un contratto fisso più attraente e per ridurre la necessità delle strutture di ricorrere alle cooperative.

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Resta ora da vedere se queste misure basteranno per contrastare non solo dottori e dottoresse a gettone, ma anche la fuga di professionisti verso la Svizzera, attrattiva sia dal punto di vista salariale, che della soddisfazione professionale. "In Italia, i giovani medici devono fare gavetta, hanno poca autonomia e dipendono molto dai superiori in tutto quello che fanno", spiega Fabrizio Comaita. "Non è così in Svizzera – ma nemmeno in Francia o nel Regno Unito – dove sono operativi fin da subito. È sicuramente più soddisfacente".
Oltre ai compensi più attrattivi, c'è poi la questione della carenza di personale, che non interessa solo l'Italia, ma che è un problema che si fa sentire sempre di più anche nella Confederazione. E la concorrenza tra Ticino e Italia, tra i cantoni francofoni e germanofoni di confine con, rispettivamente, la Francia e la Germania o l'Austria è agguerrita.

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