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Autore Discussione: Bruno Gravagnuolo. Dietro Feltri un Cavaliere  (Letto 6240 volte)
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« inserito:: Gennaio 12, 2008, 03:11:30 pm »

Rifiuti: a Cagliari la destra aizza la protesta


La protesta della destra a CagliariIl giardino della villa del presidente della Regione sarda, Renato Soru, vicino alla Basilica di Bonaria, è stato cosparso giovedì notte di rifiuti scaricati dai cassonetti della zona.

Numerosi sacchetti sono stati sistemati anche di fronte al cancello d'ingresso e sul muro di recinzione. Sull'episodio indagano agenti della Digos della Questura di Cagliari che hanno, fra l'altro, avuto notizia che in città vi è un tam-tam che invita ad un raduno per le ore 23 davanti alla villa del Presidente della Regione.

È stato soltanto identificato e poi rilasciato Antonangelo Liori, consigliere regionale di Alleanza nazionale, una delle persone fermate dalle forze dell'ordine nel corso degli scontri nell'area del Porto Canale durante le operazioni di sbarco dei rifiuti campani dal traghetto «Italro-ro Three».

Sarebbe stato lo stesso esponente di An - salito su un furgone cellulare sventolando una bandiera di partito - a chiedere di avere lo stesso trattamento riservato alle altre persone bloccate da Polizia e Carabinieri. Una parte (e tra questi Liori) sono state portate in Questura, dove sono state identificate e poi rilasciate.

Sono 45 le persone accompagnate negli uffici di polizia, tutte - come detto - identificate e rilasciate.

Tra le persone accompagnate in Questura, oltre a Liori, c'era un altro leader indipendentista, Bustianu Cumpostu, di Sardigna Natzione. Altre dieci persone sono state sottoposte a identificazione, fra le quali il leader di Indipendentzia Repubrica de Sardigna (Irs), Gavino Sale.

Il questore di Cagliari, Giacomo Deiana, ha detto che le forze dell'ordine sono riuscite a gestire la situazione nel miglior modo possibile, considerata la situazione logistica e la pericolosità del luogo dove avveniva lo sbarco dei camion carichi di rifiuti. A sostegno di questa tesi, fonti della Questura hanno sottolineato che nessuno, nè fra i manifestanti nè tra le forze dell'ordine, ha dovuto far ricorso alle cure dei medici.

La prima nave piena di rifiuti ha attraccato giovedì sera a Cagliari dopo ore di trattative e blocchi.
Polizia e carabinieri hanno sgomberato i manifestanti. Il leader di indipendentzia Repubrica de Sardigna, Gavino Sale e altri militanti sono stati fatti salire su un cellulare della Polizia.
L'arrivo era stato bloccato al molo Grendi del porto canale di Cagliari della nave Italroro Three che trasporta oltre 500 tonnellate di rifiuti provenienti dalla Campania, dal vice sindaco di Cagliari, Maurizio Onorato, Forza Italia. Accompagnato dal comandante del corpo di Polizia municipale, Mario Delogu, ha notificato ai dirigenti del servizio di ordine pubblico nel porto canale di Cagliari l'ordinanza, emessa nel 2006 e mai revocata, del sindaco del capoluogo sardo, Emilio Floris, che vieta la movimentazione di rifiuti extraregionali nel territorio comunale.


L'ordinanza del sindaco di Cagliari ha validità sul territorio comunale che comincia fuori dal cancello nella parte del porto canale occupata dalla Grendi che ha i suoi impianti nel territorio del Comune di Assemini.

In Campania, intanto, lo scenari sembra volgere alla normalità: le strade del quartiere vanno ripulendosi e anche la viabilità è tornata quasi del tutto normale. Ne ha risentito positivamente il lavoro di vigili del fuoco: solo una ventina gli interventi effettuati nella notte tra Napoli e provincia per spegnere i roghi appiccati ai cumuli di rifiuti.


Pubblicato il: 10.01.08
Modificato il: 11.01.08 alle ore 16.16   
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« Risposta #1 inserito:: Febbraio 21, 2008, 03:59:17 pm »

Se An riscopre il Duce

Bruno Gravagnuolo


Le voci di dentro inquietano An.
E così si scopre che quella del «voto utile» non è l’unica parola d’ordine o lo slogan prevalente del partito che confluisce ormai sotto le insegne del Biscione. Ce ne è un altro di argomento forte, per cementare la volontà unitaria degli ex post-fascisti, e sedarne le ansie di sparizione all’ombra della fusione elettorale decretata da Fini. È l’argomento, distillato sul Secolo d’Italia di ieri, è: il «listone» porta bene. Appartiene alla «nostra» storia.

E già una volta ci consentì di vincere: «questione di leadership, egemonia e vocazione maggioritaria».
Sì, così sta scritto sul quotidiano di An, in prima pagina, proprio sotto il resoconto dell’intervento di Fini a «Radio Anch’io», e titolato sul «voto utile» e i «cittadini che non scelglieranno chi non ha possibilità di governare»: con Casini nel mirino ed eventualmente Storace e Santanché. Già, ma a che «listone» e a che «memoria» si ispira «Gil» nel suo corsivo in bella mostra sotto Fini? Presto detto: il listone del 1924, che grazie alla legge Acerbo consentì a Mussolini e al suo blocco nazionale di rastrellare il 75% dei seggi. In virtù del premio di maggioranza che scattava dal 25% in su, nonché grazie al manganello. E la suggestione di memoria arriva dopo che l’articolista registra bonariamente tutti i tormenti interiori di An, dinanzi all’operazione Fini-Berlusconi. «Mi dicono - scrive Gil - che sta diventando un tormentone, la base mugugna...il listone è uno choc per la nostra base...».

E per sedarli quei tormenti, l’articolista la prende da lontano.
E cita Tatarella, che voleva andare «oltre il Polo». Poi fa l’avvocato del diavolo di sé stesso, e si autorisponde, evocando possibili obiezioni :«beh, il predellino di Berlusconi è un po’ leggerino, qui c’è in ballo l’identità storica, il sangue e l’acciaio, serve di più...». Allora, prosegue «Gil», pensate ad Almirante, «all’apertura del Msi» al governo nel 1972 . Ma, nuova autobiezione: no, quella storia finì con la «destra nazionale» e «l’alleanza coi monarchici»! Troppo poco, non basta, visti pure i risultati. Dunque, ancora nessun «grumo di emozioni». Nessun sussulto da «far alzare le serrande di sezione» ai militanti e mandarli a votare con romana volontà. Oltretutto proprio oggi, con questo clima, quando anche «Casini cita El Alamein»... E allora?

E allora Il Secolo cala l’asso di bastone, la briscola che vale.
E che fa «giocare sul sicuro». Ovvero, il fatidico 1924 e «la madre di tutti i listoni», quello che permise ai fascisti, sdoganati dal Re dopo la Marcia su Roma, di conquistare i «due terzi dei seggi» muovendo da un partito del 6%. Pure lì, scrive Gil, «c’era chi storceva il naso per l’ammucchiata coi liberali, democratici, nazionalisti, ex popolari espulsi dal partito, demosociali e sardisti». Ma - qui l’asso di bastone - «finì come finì... e il partito unico si sa chi se lo è preso. Questione di leadership, egemonia etc...». Segue battuta maramalda. Gli obiettori malpancisti post fascisti evocati, «sgranano gli occhi, si guardano intorno, abbassano la voce». E dicono: «sai che non ci avevamo pensato?». Chiosa finale del corsivista: «E poi dicono che c’hanno il culto della memoria...»

Perciò, ricapitoliamo.
An va alla fusione col Cavaliere, con eventuale «patto di staffetta» tra il signore di Arcore e Fini stabilmente secondo, come aspirante premier per interposto Berlusconi. La base di An recalcitra e vuol vederci chiaro, mentre «le voci di dentro» in cantina filtrano in alto. Ma dall’alto giungono la spiega e il fervorino. Con argomenti «corazzati», che sono musica soave per una base già stranita e spaesata nella nuova foggia d’ordinanza del Ppe, e in quella arcoriana di una San Babila ormai «azzurra». Sicché arriva l’elisir di lunga vita, per sedare l’ansia di sparizione: siamo noi, siamo noi, i campioni dell’Italia siamo noi! Ieri come oggi, indefettibilmente e lungo un filo nero che continua malgrado le apparenze. La svolta di Fiuggi? Una trovata. La democrazia? l’antifascismo non tutto da buttare? E il viaggio di Fini a Gerusalemme? Tutte trovate inessenziali, e buone a «sdoganarsi» per continuare a stare in campo, nel nuovo campo inaugurato dall’«apripista» Berlusconi.

Eccola la medicina «realistica» e indorata che calma le voci di dentro.
Non importa che per calmarle quelle voci, le si lasci poi sfuggire dal seno, vellicandole ed esaltandole. Con il richiamo a una stagione infame della storia d’Italia. Quella che precede immediatamente il delitto Matteotti e le leggi eccezionali del 1925. Punteggiata di soprusi e violenze, secondata da classi liberali e Monarchia. E che schiuse al paese le vie di quel regime dalla cui colpe l’An post fascista ha detto in lungo e in largo di volersi smarcare. Bene, sono venuti fuori un’altra volta «al naturale», benché condiscano il loro «realismo» con termini colti come «egemonia», «maggioritario» e «leadership». Con una differenza però rispetto al passato. Stavolta saranno in ogni caso comprimari e mazzolati (simbolicamente»), più che mazzolatori. Il «capoccione» del Listone è un altro e si chiama Berlusconi.

Pubblicato il: 21.02.08
Modificato il: 21.02.08 alle ore 12.39   
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« Risposta #2 inserito:: Marzo 18, 2008, 12:29:41 am »

Nazismo, l'onda di ritorno in Germania

Paolo Soldini


Datemi delle persone mediamente acculturate, come ad esempio una classe di studenti di liceo, una realtà istituzionale fortemente strutturata, diciamo una scuola, e una personalità dotata di un certo carisma come può essere un bravo e stimato insegnante e in una settimana vi creo il nazismo in laboratorio. È la tesi, anzi: la trama, di «Die Welle» (L’onda), un film che esce in questi giorni in Germania. Il regista Dennis Gansel ne ha fatto un’opera di fantasia, con una conclusione tragica e simbolicamente pedagogica: la classe di «nazisti artificiali», trasformatasi in setta assassina, viene sterminata.

Ma la storia è avvenuta davvero, con una conclusione meno truculenta ed è raccontata in un libro dell’americano Morton Rhues che è un classico della letteratura pedagogica e viene letto nelle scuole statunitensi nell’ambito dei programmi di storia ed educazione civica, così come viene proiettato un documentario che ne venne tratto. Rhues, che negli anni 60 insegnava in una scuola superiore di Palo Alto (California), per convincere gli studenti di una nona classe del fatto che sbagliavano a pensare che un’esperienza autoritaria tipo il nazismo fosse «inconcepibile» in una società libera come quella americana, organizzò un singolare esperimento: chiese ai ragazzi di adottare certi riti sociali (come il saluto con il braccio destro che mima il movimento di un’onda) e certe uniformità di comportamento in fatto di linguaggio e gerarchie. Poi ordinò di isolare e di punire chi si rifiutava. Nel giro di qualche giorno la classe si era trasformata in una piccola società di gregari pronti a tutto. Quando, un giorno, Rhues si accorse che persino il preside lo salutava con «l’onda», ebbe paura di essere andato troppo in là e interruppe bruscamente l’esperimento (nel film di Gansel ambientato in Germania l’insegnante, Rainer Wenger, non ci riesce e i giovani precipitano nella tragedia).

Ancor prima di uscire, «Die Welle» ha sollevato un’infinità di discussioni e di polemiche che ruotano, in larga parte, sullo stesso pre-giudizio che fu alla base dell’esperimento di Palo Alto: da noi, nella Germania democratica, liberale e fin troppo individualista in cui crescono i giovani del 2000, «non potrebbe mai succedere». Si parla molto, ma è bizzarro come a nessuno (per quanto ne sappiamo noi) sia venuto in mente di notare che la discussione su «Die Welle» è straordinariamente simile a quella che scosse il paese dodici anni fa, quando uscì «Hitlers willige Vollstrecker», l’edizione tedesca di «Hitler’s Willing Executioners» in cui lo storico americano Daniel Jonah Goldhagen sosteneva una tesi che è, a ben vedere, una sorta di trasposizione in grande delle tesi alla base dell’esperimento di Palo Alto: invece della classe, l’intera nazione tedesca; al posto della scuola, lo Stato e, come figura carismatica, non uno stimato professore ma un diabolico demagogo privo di scrupoli. La «follia» nazista, agli occhi di Goldhagen, non deriva né dalla corruzione né dalla devianza di una parte della società tedesca, ma le è, per così dire, connaturale. Una volta data l’esistenza delle tre condizioni - identità comunitaria, organizzazione politica dello Stato, dittatore in grado di esprimere un «Führerprinzip» - il nazismo viene «da solo» e porta con sé il suo frutto più disperatamente perverso: l’esclusione e l’odio per gli altri, i «diversi», i «non tedeschi», i «non ariani», i «deviati». Esclusione e odio che traggono elemento dall’antisemitismo diffuso nella società della Germania come in quella di tutta Europa, ma solo in Germania sfociano in un universo criminale di annientamento degli ebrei cui - questo è l’aspetto più duro e controverso delle tesi che Goldhagen argomenta con indubbia efficacia nel suo libro - partecipa consapevolmente e con entusiamo l’intera società tedesca.

Forse non è tanto strano che la discussione sui temi evocati da Goldhagen non sia stata rievocata nel momento in cui si attende l’uscita di «Die Welle». Su quei temi ha operato, da subito (e per anni) un meccanismo di rimozione che, insieme con certi aspetti molto forti dell’opera dello storico americano, figlio di un ebreo di Czernowitz sopravvissuto all’Olocausto, ha teso a seppellire molti lavori scientifici sul rapporto della «normale» società tedesca con la Shoah usciti in Germania a metà degli anni 90: dal celebre «Ordinary Men, the Reserve Police Battaillon 101» di Cristopher Browning sulla partecipazione entusiastica di pacifici e miti pensionati della polizia di Amburgo agli orribili eccidi degli Einsatzgruppen nei Paesi Baltici, in Bielorussa e in Ucraina, agli studi di Louis Begley, Elie Wiesel, Götz Aly e tanti altri. Nel dibattito è stato evocato, invece, Jonathan Littell con il suo «Les Bienveillantes», il romanzo di stile biografico che è stato il caso letterario dei mesi scorsi e che, dopo molte esitazioni, sta per uscire anche in tedesco presentandosi un po’ come l’altra faccia della medaglia dei Vollstrecker di Goldhagen: tutti i tedeschi hanno, a loro modo, partecipato, sostiene il secondo; chiunque, messo nelle condizioni di Max Aue, l’ufficiale delle SS protagonista de «Le benevole», avrebbe potuto, secondo il primo, compiere gli stessi crimini considerandoli espressione del proprio ruolo e del proprio dovere verso lo Stato. Tutte e due le posizioni confinano in modo assai significativo, come si vede facilmente, con le scelte della classe di «Die Welle». Non è un caso neppure, allora, che il dibattito sul film sia andato ad arenarsi su un punto che è importante ma, in fin dei conti, non è il più importante e che, soprattutto, aggiunge poco a una discussione che data dalla fine della seconda guerra mondiale e, almeno, dal Processo di Norimberga: quanto sapevano e quanto potevano non sapere i tedeschi «normali» della Shoah e dei crimini nazisti? Domanda oziosa quant’altre poche alle orecchie di chiunque abbia avuto un minimo di frequentazione con i luoghi dell’Olocausto o abbia un minimo di conoscenza, anche indiretta, dei rapporti che si creano tra il fronte e la madrepatria nei periodi bellici. Il Lager di Buchenwald funzionò per otto anni, producendo almeno 30 mila morti, nella foresta di Etterberg, che domina Weimar, la capitale della omonima Repubblica e della Germania letteraria e artistica tra le due guerre. È impensabile che i 100mila e più abitanti della città e dei dintorni non si siano accorti di quanto accadeva nei boschi in cui, normalmente andavano a passeggiare e organizzavano picnic. Un altro dato: alla campagna contro l’Unione Sovietica parteciparono diverse centinaia di migliaia di soldati della Wehrmacht, che furono tutti testimoni delle uccisioni di massa degli ebrei nei territori occupati. Dal fronte i militari potevano scrivere liberamente a casa e lo facevano: quanti milioni di testimonianze raggiunsero la Germania solo per questa via?

Che i tedeschi non potessero non sapere è un dato storicamente acquisito. Le riflessioni su «Die Welle» dovrebbero fissarsi intorno a un altro dato. Quello originario, che motivò l’esperimento di Rhues, l’idea che «qui da noi in America non potrebbe succedere» e la sua versione europea anni Duemila: «Oggi qui da noi non potrebbe succedere». Ma ad Abu Ghraib e a Falluja c’erano dei soldati americani, dal massacro, «tutto europeo», di Srebrenica sono passati solo tredici anni e per le strade di Berlino, di Parigi e di Roma ricompaiono svastiche e croci celtiche, e si «sdoganano» fascisti e nazisti. «Da noi non succede»: ne siamo così sicuri?

Pubblicato il: 17.03.08
Modificato il: 17.03.08 alle ore 8.57   
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« Risposta #3 inserito:: Marzo 18, 2008, 12:49:14 am »

Ora ci spostiamo dall’altra parte dell'Europa , ad ovest , vicino ad Amburgo in Germania , dove esisteva il Campo di concentramento di Neuengamme .

Qui la triste storia dei bambini della scuola di Bullenhuser Damm prende avvio . Il medico Kurt Heissmeyer , nato a Magdeburgo il 26 dicembre 1905 in una famiglia di medici . Nella sua limitata carriera medica , lavora dapprima in varie cliniche ospedaliere poi venne infine impiegato all'ospedale delle SS di Hohenlychen . La sua aspirazione era di diventare docente universitario , e per giungere a questo , si doveva produrre un lavoro scientificamente apprezzabile da presentare a una commissione d'esame. Nel 1943 , a 38 anni , aveva svolto sempre ruoli di secondo piano nella sua attività . Già molti medici erano impegnati a condurre ricerche su cavie umane nei Campi di concentramento . Ad Heissmeyer questa possibilità parve un'ottima scorciatoia per conseguire finalmente la cattedra universitaria. Aveva un cugino generale delle SS e capo dell'Associazione del Reich per i bambini delle famiglie numerose , ed era in amicizia con Oswald Pohl, il potente capo dell'amministrazione dei campi di concentramento . Decise così di sviluppare i suoi studi sulla tubercolosi servendosi del "materiale" umano detenuto nei lager nazisti . Alla fine di aprile 1944 Heissmeyer si insediò a Neuengamme e iniziò in assoluta segretezza i suoi esperimenti su 32 prigionieri sani di guerra russi . Non avendo una sostanziale preparazione medica sulla tubercolosi , l’esperimento risultò un fallimento . I suoi aiutanti erano altri due medici delle SS, Enno Lolling e Hans Klein . Questo primo fallimento non lo scoraggio e decise di proseguire con maggiore vigore e determinatezza . Adesso aveva bisogno di altre cavie , visto che nel precedente esperimento , molti morirono dopo l'inoculazione della tubercolosi . Si rivolse all’amico Oswald Pohl per un altro carico di cavie umane . Pohl fece richiesta ad Auschwitz . Furono scelti venti bambini di diversa nazionalità , tutti Ebrei , 10 maschi e 10 femmine , di età fra i 4 e i 12 anni , fra loro c'era anche un bambino italiano , Sergio de Simone . I bambini , accompagnati dalla dottoressa Paulina Trocky , viaggiarono alla volta della Germania in un normale treno passeggeri , il 29 novembre 1944 , giunsero a Neuengame . Al loro arrivo gli internati cercarono subito di aiutare questi bambini , e visto che il natale si stava avvicinando , prepararono dei dolci in loro onore . Tristezza ed amarezza colpì la già bassa morale del Campo . Il 9 gennaio 1945 , tutto era pronto per dare inizio a questi nuovi esperimenti sulla TBC . Heissmeyer si fece aiutare da due medici internati di nazionalità francese : Gabriel Florence e Rene Quenouille . Ai bambini vengono introdotti i bacilli della TBC allo scopo di raccogliere gli anticorpi e preparare un vaccino . Dopo circa due mesi , il 3 marzo , i 20 bambini vengono operati : gli vengono asportate le ghiandole linfatiche (Le ghiandole linfatiche, o linfonodi, sono strutture predisposte alla sorveglianza di eventuali infezioni ed alla produzione di anticorpi per contrastare le stesse , conosciute più come tonsille) per constatare se nel frattempo si erano sviluppati degli anticorpi . Il patologo Hans Klein (era a conoscenza della provenienza del materiale umano , e studiò le ghiandole dei bambini inviate da Heissmeyer . Non soltanto non ebbe problemi con la giustizia ma, anzi, divenne professore universitario all'Università di Heidelberg) le prese in esame e dichiarò nullo l'esperimento . I bambini poi vennero fotografati . Gli alleati inglesi erano ormai vicini , da Berlino arrivò l'ordine di far sparire i bambini , era necessario far sparire ogni traccia relativa agli esperimenti .

Siamo ormai alla fine della guerra ed alla liberazione del Campo . I 20 bambini , insieme ai medici-prigionieri Florence e Quenouille , a 6 prigionieri russi e a due infermieri olandesi , furono fatti salire su un camion e diretti verso il centro di Amburgo nella scuola ormai abbandonata di Bullenhuser Damm . Con loro c'erano alcune ss ed il medico di Neuengamme Alfred Tzebinski . Dopo un bombardamento e l'abbandono della scuola da parte degli scolari , le ss la occuparono per trasformarla in una prigione . Il gruppo , dopo il suo arrivo , furono condotti nella cantina della scuola . Poco dopo i bambini dovettero svestirsi ed entrare in un'altra stanza della cantina . Li attendeva il dottore ss Tzebinski che fece ai bambini un iniezione di morfina , quando furono in stato di incoscienza vennero impiccati con dei ganci appesi al muro . Stessa sorte ai due medici e agli infermieri olandesi . Furono in seguito portati al Campo e cremati . Quella stessa notte , altri 24 prigionieri russi arrivarono alla scuola , sei di loro scapparono , gli altri 18 furono impiccati . Migliaia di bambini sono morti nei lager nazisti senza lasciare alcuna traccia . La storia triste di questi 20 bambini , venne alla luce , grazie ad un medico prigioniero danese , Henry Meyer , che ne trascrisse i nomi e consegno la lista alla Croce Rossa .
Ecco in elenco i nomi dei bambini di Bullenhuser Damm :
Georges-André Kohn (francese) nato a Parigi, il 23 aprile 1932 ;
acqueline Morgenstern (francese) nata a Parigi, il 26 maggio 1932 ;
W. Junglieb (iugoslavo ?) nato a ?, ? 1932 ;
Roman Zeller (polacco) nato a ?, ? 1932 ;
Eduard (Edo) Hornemann (olandese) nato a Eindhoven, il 1 gennaio 1933 ;
Marek Steinbaum (polacco) nato a Radom, ? 1934;
Bluma (Blumele) Mekler (polacca) nata a ?, ? 1934 ;
Surcis Goldinger (polacca) nata a ?, ? 1934 ;
Ruchla (Rachele) Zylberberg (polacca) nata a Zawichost, il 6 maggio 1936 ;
Sergio de Simone (italiano) nato a Napoli, il 29 novembre 1937 ;
Riwka Herszberg (polacca) nata a Zdunska Wola, il 7 giugno 1938 ;
Lelka Birnbaum (polacca) nata a ?, ? 1932 ;
H. Wasserman (polacca) nata a ?, ? 1937 ;
Marek James (polacco) nato a Radom, il 17 marzo 1939 ;
Mania Altmann (polacca) nata a Radom, ? giugno 1940 ;
Roman Witonski (polacco) nato a Radom, 8 giugno 1938 ;
Eleonora Witonski (polacca) nata a Radom, il 16 settembre 1939 ;
Alexander (Lexje) Hornemann (olandese) nato a Eindhoven, il 31 maggio 1936 ;
Lea Klygerman (polacca) nata a Ostrowicz, ? 1937 ;
Eduard Reichenbaum (polacco) nato a Kattowitz, il 15 novembre 1934 ;


da lager.it/bullenhuser_damm
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« Risposta #4 inserito:: Marzo 22, 2008, 09:49:50 pm »

Secchiate di fango da Il Giornale : spariti i regali a Prodi premier


Il Giornale di Berlusconi continua a gettar fango su Romano Prodi. Ma stavolta è arrivato a inventarsi le cose pur di insultare il premier. E così è scattata la querela. Proprio le prime tre pagine del quotidiano ordierno sono dedicate con dovizia di particolari alla fantomatica scomparsa di tutti i doni ricevuti da Prodi nello svolgimento delle funzioni del premier, soprattutto di quelli con un valore superiore ai 300 euro, che proprio in virtù di una norma promossa da Prodi devono essere devoluti allo Stato.

“Prodi, dove sono finiti i gioielli?” si chiede un articolo un articolo a firma di Gian Marco Chiocci, col sottotitolo: “Una parure di diamanti, due statue, un fucile, un orologio prezioso: tutti i regali ricevuti dal premier sono spariti”. Dovrebbero essere in una stanza a Palazzo Chigi, precisa l’articolo, ma la stanza è vuota. “Ecco le foto e gli imbarazzi dei funzionari” sono le didascalie alle foto che incorniciano le due pagine interne dedicate al “mistero dei regali di Prodi”.

L’articolo è falso e una pioggia di smentite è caduta sul giornale del fratello di Silvio Berlusconi, oltre la querela annunciata dal portavoce del governo, Silvio Sircana: «Il Presidente del Consiglio ha dato incarico al suo legale di sporgere querela nei confronti del Giornale, visto il chiaro intento diffamatorio dei suoi ripetuti articoli». «Il Giornale prosegue in una campagna tesa evidentemente a denigrare l'immagine del Presidente Prodi - afferma Sircana -. Non sembra avere imparato nulla dalle infelici conclusioni di sue precedenti “storiche” campagne come quella basata sulle dichiarazioni del “supertestimone” Igor Marini», riferendosi al faccenderie che vantava di possedere documenti compromettenti sull’affare Telekom Serbia contro alcuni politiche del centrosinistra, ma che fu poi arrestato il 29 luglio 2003 per associazione a delinquere finalizzata a truffe internazionali.

«L'articolo fornisce una ricostruzione alterata e fuorviante – spiega con tono duro il segretario generale di palazzo Chigi in una lettera all'Avvocatura generale dello Stato - delle vicende inerenti alla conservazione dei doni di Stato ingenerando nel lettore la convinzione che non vi sia stata una corretta gestione da parte della presidenza del Consiglio dei ministri dei doni di Stato ricevuti dal presidente del Consiglio dei ministri e dallo stesso consegnati alla medesima amministrazione». «La strumentalità della ricostruzione - prosegue la lettera - emerge dalla circostanza che, come noto al giornalista, i doni di valore eccedente i 300 euro ricevuti dal presidente Prodi sono stati, a norma del decreto del presidente del Consiglio dei ministri 20 dicembre 2007, dallo stesso consegnati con dichiarazione di non volerli trattenere, come risulta da atti protocollati tra il maggio 2007 e il febbraio 2008, e si trovano nella cassaforte di un Dipartimento della presidenza del Consiglio in attesa dell'allestimento del sito definitivo di conservazione. La ricostruzione fatta eccede il legittimo esercizio del diritto di cronaca e di critica giornalistica, che deve essere connotato dai presupposti della veridicità, della continenza e della proporzionalità. Le circostanze di un “mistero dei regali”, che dei doni “non c'è traccia”, di “reticenze e imbarazzi dei funzionari” sono smentite dagli stessi elementi raccolti dal giornalista, che invece li rappresenta in modo distorto e strumentale per giungere ad una fantasiosa ricostruzione che ingenera la suggestione di comportamenti scorretti o di indebita copertura da parte della pubblica amministrazione».

«La fiducia nelle istituzioni risulta gravemente danneggiata da tale attacco giornalistico proprio nel momento in cui esprime una pratica di corretta gestione della cosa pubblica -prosegue il segretario generale di palazzi Chigi-. Da ciò il danno all'immagine che colpisce la presidenza del Consiglio dei ministri. In considerazione di quanto esposto, si trasmette copia de “Il Giornale” per la parte che qui interessa e s'invita codesta Avvocatura Generale dello Stato -conclude la lettera- a valutare la sussistenza degli elementi per la proposizione della domanda di risarcimento del danno».

Una risposta puntuale arriva anche per tutta quella sfilza di domande, che l’articolo si pone su chi avrebbe allungato le mani sui regali di Prodi. «I regali ricevuti da Prodi sono al Dis, tutto il resto è pura illazione», replica il segretariato generale di palazzo Chigi, Carlo Malinconico. «Tali doni, dopo le opportune perizie e come dimostrato da documenti ufficiali e protocollati, sono stati devoluti a suo tempo dal presidente Prodi all'amministrazione e presi in carico temporaneamente- puntualizza la presidenza del consiglio- dagli uffici del Dis, nella persona del generale Giuseppe Cucchi, in attesa che venga allestita una apposita stanza blindata a palazzo Chigi». Dunque, «ogni altra illazione, considerazione malevola o tentativo di mettere in cattiva luce l'operato istituzionale e personale del presidente Prodi e della presidenza del Consiglio va condannato con fermezza e valutato nelle sedi competenti».

«Le parole attribuitemi nell'articolo del “Giornale”, alterano il senso ed il testo della mia risposta», dice Massimo Sgrelli, capo Dipartimento cerimoniale di Stato di palazzo Chigi. «Confermo infatti il valore altamente simbolico di un decreto che limiti il valore dei doni ufficiali, da noi sempre auspicato. Fra l'altro, la domanda del giornalista non riguardava la restituzione dei doni ufficiali ma la loro elencazione e custodia ed il fatto che non comporta al mio ufficio conferma soltanto che è curata da altri uffici della presidenza», aggiunge Sgrelli.

Il Giornale del fratello di Silvio Berlusconi ha tentato anche una difesa alle polemiche, diffondendo un comunicato in cui si dice: «La confusione sembra regnare a Palazzo Chigi». Ma dopo le sonore smentite, seguiranno i procedimenti giudiziari. Un mistero però rimane. Come ha fatto "Il Giornale" della famiglia Berlusconi ad entrare a Palazzo Chigi e scattare le foto ad una cassaforte cui dovrebbe essere impedito l'accesso a tutti?

Pubblicato il: 22.03.08
Modificato il: 22.03.08 alle ore 18.51   
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« Risposta #5 inserito:: Marzo 23, 2008, 08:48:06 am »

2008-03-22 22:59

Germania: fondi segreti a Alto Adige

Der Spiegel, sostegno etnico in anni '60 e '70


 (ANSA) -BERLINO, 22 MAR- Il governo tedesco per anni ha versato finanziamenti segreti ai sud tirolesi di lingua tedesca all'insaputa dell'Italia, scrive Der Spiegel.

Il settimanale lo afferma sulla base di documenti pubblicati dal ministero degli Esteri che parlano di milioni di marchi inviati all'Alto Adige.

L'invio dei fondi per quella che Der Spiegel indica come 'una politica a sostegno di una etnia nazionale con mezzi cospirativi' e' avvenuta 'in maniera strettamente riservata, evitando i provvedimenti di bilancio'. 
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« Risposta #6 inserito:: Marzo 23, 2008, 09:43:55 am »

Candidato premier con Forza Nuova dopo la latitanza per una condanna a banda armata

Fiore e il «contagio fascista»: un passato che non passa nonostante il doppio petto

«Mai stati filonazisti. Shoa? Roba da storici.

Pronti ad appoggiare Berlusconi, come alle Regionali '05»

 
Roberto Fiore un moderato? Difficile definirlo così, a giudicare il suo passato in Terza Posizione, la condanna per banda armata, la lunga latitanza e la simpatia per il fascismo. Ora però ci sono le elezioni in arrivo. Fiore ha indossato il doppio petto e si candida a guidare il Paese con Forza Nuova. Da qualche giorno lo si può trovare nei salotti buoni della tv, da Vespa e al Tg7, a discettare con toni pacati di immigrazione e aborto. E pazienza se i sondaggi gli danno lo 0,6 per cento scarso.

Che Forza Nuova sia un partito normalizzato, da «arco costituzionale», come si diceva una volta, è una tesi discutibile. Un bel documentario in uscita, di Claudio Lazzaro (Nazirock), racconta «il contagio fascista tra i giovani italiani» e mostra un «Campo d’azione» di Forza Nuova del 2006. Svastiche, foto di Rommel, negazionismo sulle camere a gas. Tra i partecipanti, gli ex terroristi Luigi Ciavardini (strage di Bologna) e Andrea Insabato (attentato al Manifesto).

Fiore, nel film si vede uno grande striscione stampato: «Più nazifascismo».
«Come? No, è impossibile»
Ci sono le immagini.
«Non è vero, non accetteremmo mai in un nostro campo uno striscione simile».
A giudicare dal merchandising, sembrate piuttosto filonazisti.
«Personalmente non ho mai avuto nessuna simpatia per il nazismo».
Eppure la effe e la enne incrociate di Forza Nuova somigliano a una svastica.
«Attenzione, il nostro simbolo elettorale è diverso. E comunque anche la croce celtica viene utilizzata ogni tanto, ma cosa c’entra? Forza Nuova vuole essere giudicata per le sue idee».
Nel film si parla a lungo di un libro di Carlo Mattogno: Auschwitz: fine di una leggenda. 
Roberto Fiore (Ansa)

«Non l’ho letto».
Auschwitz è una leggenda?
«Guardi, io sono perché gli storici facciano il loro dovere e indaghino in modo indefesso. Poi se poi qualcuno è stato ucciso per il fatto di essere ebreo o per altro motivo, questo è un crimine grave».
Ma c’è stato un genocidio? Sono esistite le camere a gas?
«Noi siamo radicalmente contrari ai genocidi».
Sì, ma la shoah?
«Moltissimi ebrei sono stati uccisi. Certo, non solo loro. Comunque siamo nel 2008 e dobbiamo parlare degli italiani».
Voi nei vostri Campi vendete spille di Hitler e del Duce.
«Comuni interi fanno profitti sui gadget, come Predappio. Non è questo il punto. Vuole sapere la mia opinione sul fascismo?».
Sì.
«Non ho difficoltà a dirle che ho simpatia per certi aspetti: le leggi sociali, l’italianità, le grandi costruzioni architettoniche, le bonifiche pontine».
Turigliatto da Vespa se n’è andato al suo arrivo.
«Assurdo, è un rigurgito del passato. Sono stato compagno di scuola di Piero Marrazzo, Andrea Colombo, dei figli di Berlinguer. Io con i comunisti ci parlo da quando avevo 14 anni».
Ci parla e non solo. Ha una condanna per banda armata.
«In primo grado a 5 anni e in secondo a 3 e mezzo. Poi è arrivata la prescrizione. Ammetto quello che devo ammettere: sono stato attivo in senso radicale nella destra fino a 21 anni».
In senso radicale che significa? Con una banda armata?
«Con Terza posizione. Il clima era quello che era. Decine di giovani hanno attraversato la soglia della galera. Ma il cuore della battaglia fu positivo».
Positivo? Ci furono vittime e stragi orrende in quel periodo, da piazza Fontana alla Stazione di Bologna.
«Certo, ci fu terrorismo da una parte e dell’altra. Ma c’era anche la spinta romantica di una gioventù alla ricerca di una verità. Non si può criminalizzare quel periodo».
Nel campo di Marta, i Legittima Offesa cantano: “Il vostro sangue ci disseta. Frana la curva, frana sulla polizia italiana”.
«Eh, io non ascolto questo tipo di musica nel mio tempo libero. Ma è assurdo, mica vado a contestare i 99 Posse se parlo con Veltroni, no?».
Però potrebbe prendere le distanze dalla violenza negli stadi.
«Certo, non condivido l’idea di far crollare le tribune sulla polizia».
Un vostro volantino recita: «Un’Italia senza extracomunitari si può fare». Non è razzismo questo?
«No, non siamo contro i popoli che soffrono. E non sosteniamo che ci sia una differenza ontologica tra le razze. Io non ho problemi con gli stranieri: sono sposato con una spagnola e abbiamo dieci figli. Ma dico no agli immigrati extraeuropei e ai Rom».
Perché respingere un ingegnere etiope?
«Ma il caso singolo va bene, figuriamoci».
Voi siete contro l’aborto.
«Sì, guardiamo con interesse a Ferrara. Che però non chiude il suo ragionamento: va cambiata la legge 194».
Come?
«Stabilendo che l’aborto è un omicidio e come tale va trattato. In questo modo diminuiranno».
Per la verità sono in dimuzione da anni.
«È falso. Diminuiscono solo perché stanno diminuendo i concepimenti».
La destra è frammentata. Ciarrapico era con voi al Campo di Cerveteri del 2007 e ora è con il Pdl, con la Mussolini. Poi ci sono Santanché e Storace. Perché bisognerebbe votare voi?
«Perché noi abbiamo un programma più duro, più tosto. Ma siamo disponibili a collaborare e allearci con un governo Berlusconi».
Del resto vi eravate accordati con lui alle Regionali del 2005.
«Sì. E con la Mussolini è rimasto un buon rapporto. Ma voterà per noi anche molta gente di sinistra».
Di sinistra? E perché dovrebbe?
«Molti elettori dei ceti bassi, del popolo, sono con noi. Il proletariato è rimasto senza rappresentanza. E non ne può più degli immigrati».

Alessandro Trocino
21 marzo 2008(ultima modifica: 22 marzo 2008)

da corriere.it
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« Risposta #7 inserito:: Marzo 28, 2008, 05:16:36 pm »

Dietro Feltri un Cavaliere

Bruno Gravagnuolo


Nella feroce campagna propagandistica che Libero sta conducendo in questi giorni contro i «papponi di stato», c’è un aspetto politico che merita di essere segnalato alla pubblica opinione con particolare attenzione.

Al di là delle contumelie e della virulenza corriva con cui il quotidiano di Feltri sta «addentando» il tema. Che ieri ha lanciato una nuova goliardica trovata: il mazzo di carte della «Casta» con le caricature dei politici. Si tratta dell’attacco diretto e personale di Libero e del suo direttore alla figura del capo dello Stato Giorgio Napolitano. È un azione di picconamento in piena regola, che chiama in causa il Presidente, prima con accuse generiche di proteggere «i furbetti» e di essere acquiescente ai privilegi della Casta. Poi con la taccia più specifica e diretta di essere addirittura il «Capo della casta». Infine, con crescendo persecutorio, addirittura con l’accusa di essere reo di «cresta» sui rimborsi ai danni dei contribuenti, e difendere il malcostume e i priviliegi della politica.

Facciamo un piccolo riassunto delle puntate precedenti. Si tratta di una megainchiesta a puntante firmata da un ex deputato verde, non più ricanditato. Nella quale l’autore, ex leghista anti-immigrati, sfoga la sua «delusione» sulla politica in Parlamento. Denunciandone le vuote giornate, gli sprechi e le assurdità. Con contorno di «pianisti» complici di assenti che intascano indennità. Degustazioni di prodotti tipici, compravendite sotterranee e raccomandazioni, passerelle di «miss» e quant’altro. Un quadro tragicomico da «animal haus», con la fatidica denuncia del «mercato delle vacche». Tipica - e qui il discorso si fa serio - di tutta la tradizione antipolitica e antiparlamentare che da sempre accompagna le offensive illiberali e populiste contro le iniquità del sistema parlamentare. È a questo punto però che scatta la vera operazione di Libero: chiamare in causa il garante di quel sistema. Il capo dello Stato. Rimproverato inizialmente di avere criticato da Santiago del Cile l’antipolitica corrente, che rischia di affossare gli istituti rappresentativi. E subito dopo, con le grida di Feltri che abbiam visto, di essere il vero «capo della casta». Uno che per di più lucra sui rimborsi dei viaggi. E l’episodio citato è il seguente. Nel 2004 Napolitano, per raggiungere Bruxelles usò un volo low cost della Virgin Air, al prezzo di 90 Euro. Ma percepì a rimborso la cifra di 800 Euro, come diaria burocraticamente dovuta per uno spostamento di tal genere, ovvero Roma-Bruxelles. L’episodio è stato ripetutamente chiarito e spiegato, dalle autorità di Bruxelles e da Napolitano stesso, a seguito di un servizio tipo le jene di una rete tedesca. E cioè, essendo quel giorno indisponibile il volo di linea belga, per il fallimento della compagnia di bandiera, il deputato prese quel solo volo disponibile. Per essere presente alla seduta della comissione esteri, da lui presieduta. Nessuna cresta, ma rimborso di ufficio in virtù di un’assurda regola «forfettaria» da cancellare, ma di cui Napolitano non profittò di proposito, e di cui non si valse né prima nè dopo.

Dunque capo di imputazione pretestuoso e strumentale, da parte di un giornale che gioca a senso unico nelle sue «liste» sulla casta e ha ben altri trascorsi da farsi perdonare (il caso Betulla). Scelto però sul filo di una campagna martellante contro la persona, che non si ferma qui. Perché a seguire arriva l’altra picconata. Specifica e ideologica. Libero infatti ha pubblicato come editoriale, a partire dalla prima e a girare, un lungo articolo del 20 febbraio 1974, sempre di Napolitano su l’Unità. Nel quale l’allora responsabile della sezione culturale del Pci, interveniva sul caso Solzenicyn. Sostenendo in quell’occasione che l’esilio dello scrittore perseguitato in Urss, il suo uscire dal paese senza danni, era l’unica soluzione auspicabile, in una situazione in cui i rapporti del narratore con le autorità erano ormai ingestibili. Una considerazione amara quella di Napolitano, condita da giudizi inequivoci sulla libertà di espressione negata in Urss, sul dissenso in materia tra Pci e Pcus, e anche sull’inasprimento di quella questione di libertà in un quadro internazionale segnato dalla ripresa di guerra fredda. Non mancavano è vero, notazioni critiche anche sull’atteggiamento di Solzenicyn e sul suo approccio frontale e politico contro il regime sovietico. Nondimeno il senso dell’intervento era chiaro, sia pur con qualche sfumatura diplomatica. Ma anche il senso della «citazione» di Libero è chiaro: Napolitano stalinista mascherato. Uomo dell’Urss, nonché omertoso profittatore di regime. Erede del comunismo italiano e della «sua» repubblica parlamentare. Pertanto non altezza del suo ruolo, e inabilitato a rappresentare una Repubblica di suo già corrosa e da spiantare.

Eccolo allora il veleno nella coda e nella testa: proprio la biografia di chi presiede «queste» istituzioni fa corpo con la necessità del loro superamento. Esige un mutamento di fondo. Corroso quel capo dello stato, corroso questo stato. Bene, ma come e quando il mutamento? Adesso, al culmine della crisi antipolitica e di legittimazione della Repubblica. E sulla quale Libero soffia con dovizia. Anticipando a suo modo le linee di un futuro «governo costituente Berlusconi», sulle ali della sperata vittoria elettorale. E il progetto di «nuova repubblica» suona: Presidenzialismo, o semi Presidenzialismo. Con superamento del regime parlamentare, riscrittura della divisione dei poteri ed elezione diretta del Presidente o del Premier. Un progetto molto caro alla destra, a Fini più di tutti, ma non solo. E che prevede tregua con il centrosinistra e la sinistra. Rimodellamento delle regole a rafforzare l’esecutivo (plebiscitato). E da ultimo la transizione di Berlusconi al Quirinale, con spostamento magari di Fini a Palazzo Chigi, oppure di qualche eminenza di fiducia del Cavaliere, magari già spendibile in fase transitoria. Il tutto ovviamente dopo le dimissioni di Napolitano, che ha incarnato viceversa e con chiarezza le ragioni della repubblica parlamentare, sia pur riveduta e corretta. Qui perciò il significato della campagna di Libero: preparare il terreno per questo scenario. Nel cavalcare al contempo un cavallo di battaglia elettorale antipolitico, elettoralmente fruttuoso e coerente al fine. Ma è qui che le antenne devono scattare. In anticipo. Non concedendo spazio agli equivoci, magari solo col silenzio. Innanzitutto respingendo l’aggressione al capo dello stato, come intollerabile e destabilizzante. E poi bruciando sul nascere ogni tentazione costituente del tipo che abbiamo descritto. Non è questa infatti la «nuova Repubblica» che il Pd può voler contribuire ad instaurare, nè in tutto nè in parte. Anche perché, con Berlusconi al Quirinale, sarebbe la corda a cui impiccarsi per sempre.

Pubblicato il: 28.03.08
Modificato il: 28.03.08 alle ore 8.31   
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