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Autore Discussione: Vito Mancuso UN INTERMEDIARIO INGOMBRANTE  (Letto 935 volte)
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« inserito:: Dicembre 13, 2022, 10:56:00 pm »


Vito Mancuso
UN INTERMEDIARIO INGOMBRANTE
L’incontro con Gesù è il più difficile. Lo è sostanzialmente per due motivi, il primo dei quali è di natura soggettiva ed è legato alla condizione della mente occidentale, e il secondo è di natura oggettiva ed è costituito dalla peculiarità delle fonti che parlano di lui. La difficoltà dell’incontro con Gesù deriva anzitutto dalla precomprensione che inevitabilmente accompagna la mente occidentale alle prese con lui e che si chiama cristianesimo, un intermediario abbastanza ingombrante. Da Socrate non è derivato nessun socratismo; il buddhismo del Buddha, per quanto sempre più attuale, rimane per la mente occidentale una religione lontana; sul confucianesimo di Confucio i cinesi stessi discutono se sia o no una religione ed è comunque una faccenda che riguarda loro, nessuno di noi sarà mai, immagino, confuciano. Il cristianesimo di Gesù invece ci riguarda tutti, volenti o nolenti; come disse Benedetto Croce, che non era credente, noi «non possiamo non dirci cristiani». Chi di noi si dice ateo è giunto al suo ateismo negando il Dio del cristianesimo; e chi si dice agnostico ha sospeso il suo giudizio sempre ragionando sul Dio del cristianesimo. Questa religione ci indigna o ci appassiona, l’amiamo o l’odiamo, la conosciamo o l’ignoriamo, ma è la nostra; magari ha finito per annoiarci e neppure la consideriamo più, ma i suoi segni sono ancora in mezzo a noi, entra nelle nostre scuole, i suoi dirigenti (chiamati pastori) hanno ancora una rilevante importanza sociale e talora anche strettamente politica; e poi rimane il fatto che comunque ognuno di noi, a prescindere da come oggi si rapporti a questa religione (io per esempio mi definisco postcristiano, nel senso che spiegherò più avanti), viene da lì. Qualcuno ne gioisce, qualcuno avrebbe voluto farne a meno, qualcuno ne ha fatto già a meno tagliando ogni legame con questa sua radice e trapiantandosi altrove, ma il dato di fatto rimane: la radice dell’Occidente deriva anche dal cristianesimo, e dico anche perché l’altra radice è il mondo greco-romano (alcuni aggiungono l’illuminismo e la scienza, ma questi sono già l’albero e i frutti; altri integrano parlando di radice ebraico-cristiana e a mio avviso si tratta di un’integrazione legittima). 
È questa la ragione per la quale Jaspers collocò Gesù tra le personalità decisive della filosofia: non per la profondità filosofica, ma per le conseguenze storiche e filosofiche del suo pensiero, le quali si chiamano cristianità e cristianesimo, e di cui ognuno di noi è una propaggine. Può piacere o meno, ma le cose sono andate così: i nostri padri greci e latini finirono per diventare tutti cristiani, e così pure i popoli che essi chiamavano barbari, sia quelli coevi come i celti e i galli, sia quelli che arrivarono dopo come i goti, gli unni, gli slavi: tutti cristiani, tutti seguaci di Gesù. #VitoMancuso #iquattromaestri
da Facebook il 10 dicembre 2022
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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 17, 2022, 09:54:07 pm »

Vito Mancuso
  ·
L'ETICA COME ARCHITETTURA SOCIALE l'art. del prof.#VitoMancuso
su #LaStampa del 12.12.2022
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Definisco l’etica “architettura sociale” perché ritengo che senza un'etica condivisa non si possa dare un'effettiva società, ma solo una massa più o meno informe di individui. Società viene dal latino societas e rimanda a socius, e noi ci dobbiamo chiedere che cosa rende soci tra di loro gli esseri umani così da formare un'effettiva societas. Una prima risposta è l'economia, e infatti si hanno al riguardo una serie di aggregazioni umane di tipo economico dette per l'appunto società: società per azioni, a responsabilità limitata o di altro tipo ma comunque società. Queste società basate sull'interesse economico possono essere molto stabili, ma è ovvio che non sono tali da poter generare una società nel senso civile del termine, perché l'interesse degli uni è spesso in naturale concorrenza con l'interesse degli altri. Dal punto di vista del livello sociale hanno più valore performativo la politica e la religione, le quali già nel loro nome contengono la dimensione sociale: politica deriva da polis, città; e religione da religio che contiene la radice “lg” da cui logica, legame, legge, le quali sono la base della relazione e quindi della società. Oggi però tutti noi vediamo quanto la politica e la religione siano ben lungi dal poter generare un reale tessuto sociale. Si impone allora la domanda: dove ritrovare il fondamento del nostro vivere insieme, del nostro essere o poter essere una società?
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Vi sono giorni in cui si avverte con un brivido quanto il tessuto sociale si vada progressivamente sfilacciando. Le possibilità per contrastare questo declino sono due, solitamente poste in alternativa tra loro: il sangue o la cultura. Ius sanguinis contro ius culturae. Da un lato la nazione, dall’altro la comunità internazionale. Da un lato la fratellanza basata sulla patria (che però suppone necessariamente uno straniero, quando non addirittura un nemico), dall’altro la fratellanza basata sul sentimento universale di umanità (che però suppone altrettanto necessariamente una tendenziale ostilità verso l’identità che procede dal territorio e dalla nazione). La prima via è più facile, la seconda più difficile, perché la prima è naturale in quanto si basa sull'istinto, mentre la seconda è culturale in quanto si basa sull'educazione. Politicamente parlando, è lo scontro tra destra e sinistra.
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Io penso però che, scendendo più in profondità nell’esercizio del pensiero, si possa percepire che si tratta di una contrapposizione non solo improduttiva, perché divide in due la società che invece necessita di essere riunificata, ma anche ultimamente falsa dal punto di vista teoretico. La contrapposizione tra natura e cultura, tra istinto ed educazione, è infatti teoreticamente inconsistente.
Ragioniamo sull’educazione: educazione a che cosa? Io sono convinto che l’unica risposta giusta sia questa: alla nostra vera natura. E la nostra vera natura non è quella di superficie determinata dall’essere nati in un luogo piuttosto che in un altro, ma è quella ben più profonda che deriva dal nostro essere un insieme armonioso di miliardi di miliardi di relazioni, a partire da quelle delle particelle subatomiche che formano i nostri atomi, dalle cui relazioni si generano le nostre molecole, da cui le nostre cellule, e sempre più su fino all’armonia dell’organismo e della personalità.
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Capire che noi in quanto individui non siamo una sostanza unitaria, ma un insieme sempre rinnovantesi di relazioni, significa capire la nostra vera natura. La quale consiste nella relazione ed è relazione. Per questo, quanto più siamo capaci di istituire relazioni vere e leali, tanto più siamo fedeli a noi stessi e stiamo bene e siamo felici. Vedi alla voce amore. Non è questione, come qualcuno ironizza, di buonismo. È questione di intelligenza nel capire la nostra vera natura e di saggezza nel corrisponderle. I più grandi esseri umani l’hanno capito e insegnato da sempre, così Socrate, Buddha, Confucio, Gesù. Dante l’ha cantato in modo indimenticabile: “Considerate la vostra semenza”, aggiungendo che tale “semenza” ci porta a vivere non secondo la bruta natura che ci fa simili alle bestie che marcano il territorio, ma per quella natura che è cultura in quanto ricerca del bene e del sapere: “Fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”. Per questo l’etica è architettura sociale e perseguirla significa preparare nel modo migliore la casa futura per noi e i nostri figli.
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Ovviamente, però, si può dare etica come architettura sociale solo se al contempo si dà un’etica come architettura individuale. Introduco in questo modo un concetto un po’ scomodo, forse persino lesivo della privacy e di cui ben pochi parlano, che ha però un decisivo rilievo esistenziale: la conversione. Non necessariamente a Dio, ma a un dio sì. Laddove dicendo “dio” intendo una realtà avvertita come più grande e più importante del proprio io.
Questo “qualcosa più importante” si può chiamare in molti modi, ma il punto essenziale è che, percependolo, si viva per un valore diverso e superiore rispetto a sé. Diceva Norberto Bobbio, spesso ripreso dal card. Martini: “La vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa”. In prospettiva di etica individuale la frase diventa: la vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi supera se stesso e chi riporta tutto a sé.
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Quando Creonte ingiunse ad Antigone di obbedire alla legge che le vietava di seppellire il fratello, lei rispose: “Non sono nata per condividere l’odio, ma l’amore”. E pagò con la vita. Il suo esempio costituisce una domanda: io, per che cosa sono nato? La risposta ha un livello teorico e uno pratico. Il livello teorico consiste nel dichiarare l’ideale per il quale si vive, per esempio Dio-patria-famiglia, oppure bellezza, giustizia, pace, ricerca scientifica, cura della natura. Il livello pratico consiste nell’agire quotidiano dove si manifesta concretamente se l’ideale dichiarato a parole è veramente autentico. Può capitare infatti che uno dichiari di vivere per Dio e poi di fatto ne utilizzi il nome solo per il potere. O che dichiari di essere per la famiglia tradizionale e poi di fatto viva in modo alquanto diverso, per non dire opposto. Per questo al livello pratico la questione diventa: esiste per me qualcosa più importante di me e del mio gruppo di appartenenza (sia esso economico, politico o religioso)? La vera differenza, infatti, non è tra crede e chi non crede, ma tra chi supera se stesso e chi no. Tra chi conosce un dio, e chi solo il proprio io.

da FB del 14 dicembre 2022
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