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Autore Discussione: Conversazione con Adriano Sofri Il cardinal Ravasi, la nostalgia dei veri atei  (Letto 2230 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Dicembre 10, 2022, 12:46:29 am »


Fabrizio Pesoli ha commentato.

Conversazione con Adriano Sofri
 
Il cardinal Ravasi, la nostalgia dei veri atei, e il Papa senza parole
Devo essere anch’io pieno di rancore, come si usa, al punto che qualche giorno fa mi prende una ribellione a Gianfranco Ravasi, cardinale e uomo mite – benché tutt’altro che cedevole. Succede per un titolo: “Io sui social per annunciare il Vangelo, anche Gesù twittava”. E’ quel “Gesù twittava” che mi fa perdere la pazienza. Quell’inversione dell’Imitatio Christi. Non siamo più noi a (provare di) imitare Cristo, ma Cristo a imitare noi: a twittare. Naturalmente è un pretesto, ho solo voglia di prendermela con qualcuno. Per giunta io e Ravasi abbiamo parecchio in comune – siamo coetanei, per cominciare – e molto di più a dividerci: lui crede a Gesù vero Dio e vero uomo, io all’uomo. Al suo modo di parlare e alle cose che diceva. Al suo modo così umano di piangere. Al fatto così strano che non ride mai, o non ce lo dicono. Al suo modo di tacere, come quando scarabocchia per terra per prendere tempo mentre i furiosi stanno per scatenare la sassaiola contro l’adultera. Dev’essere per questo che ho sempre diffidato dei tentativi di mettere in bocca a Gesù altre parole oltre a quelle riferite dagli evangelisti. Dostoevskij curò di non far dire una sola parola al Gesù ritornato di Siviglia: Gesù e l’Inquisitore stanno uno di fronte all’altro, nel dialogo più sconvolgente della letteratura universale, e il più paradossale. Un dialogo in cui uno parla e uno tace – serbandosi, ben più che l’ultima parola, il bacio sulle labbra esangui del vecchio attonito. Ecco, ora mi è più chiaro il fastidio per l’espressione del Gesù che twitta. Ma è un capriccio, si capisce che cosa intendesse Ravasi, o il Papa che, lui sì, twitta e imita Cristo.
Per penitenza, e perché da un po’ non seguo Ravasi – va’ a mettergli il sale sulla coda del resto: vedo il Breviario settimanale sul Sole 24 Ore, era più facile con il Mattutino quotidiano, lui sull’Avvenire, io in galera – do un’occhiata, e trovo la notizia sul suo ultimo libro, “Breve storia dell’anima” (Il Saggiatore). C’è, per “IlLibraio.it”, una bella intervista con lui di Antonio Sanfrancesco – si chiama così - e intanto leggo quella. (“Lei twitta spesso”. “Due volte al giorno... TikTok ancora no”). Ravasi si vuole come un uomo “che sta sulla frontiera” – “methorios”. “I piedi ben piantati sul proprio terreno, quello della fede, ma continuando a guardare ciò che sta al di là”. Si capisce che in questa postazione di sentinella, o di traghettatore, prediliga e rimpianga “i veri atei”, e deplori gli indifferenti che oggi prevalgono, gli “apateisti”. Dice del mondo di oggi quello che gli ex dicono del PD – si è solo ex, nel PD: che ha smarrito l’anima, e non se ne duole, contento di corpi che esultino senz’anima. Il vero ateo sfidava la teologia sul suo terreno, era ghiacciato o bollente, non tepido come l’apatico – uso alla rinfusa anche un po’ di parole mie. Bisogna essere – parole sue – “spina nel fianco”. Dice: “Una volta il sociologo canadese Charles Taylor mi disse: ‘Se oggi arrivasse Cristo in piazza e cominciasse ad annunciare la sua Parola – che era fuoco vero – cosa accadrebbe? Al massimo gli chiederebbero i documenti’.” Il vecchio Tolstoj aveva detto prima: “Se venisse Cristo e desse alle stampe il Vangelo, le signore gli chiederebbero l’autografo. E niente più”. Ravasi ha i suoi esempi vicini e perduti: Pasolini, Turoldo, Balducci... Forse però i forti credenti, in ogni cosa, in ogni epoca, hanno sentito prevalere l’indifferenza. Carlo Michelstaedter scrisse: “Se Cristo tornasse oggi, non troverebbe la croce ma il ben peggiore calvario d’un’indifferenza inerte e curiosa da parte della folla ora tutta borghese e sufficiente e sapiente – e avrebbe la soddisfazione di esser un bel caso pei frenologi e un gradito ospite dei manicomi”. Credo di sapere perché Ravasi vuole star saldo sulla frontiera e insieme cercare di là con lo sguardo un ateo agonistico, è qui un fondo del cattolicesimo, della predilezione per il grande peccatore, a costo di una mortificazione del figlio non prodigo e delle 99 pecorelle non smarrite. Nessuno è vicino alla conversione quanto il grande peccatore: l’Innominato, non il futile don Rodrigo. Ma anche qui c’è una tentazione, un rischio di reciprocità. C’è un corpo a corpo: può prevalere il cardinale, può prevalere l’Innominato. Molti dei più accaniti persecutori del paradiso sulla terra si sono convertiti alla vera miscredenza, combattiva e vendicativa. La frontiera è trafficata.
Però la requisitoria di Ravasi mi coinvolge. Sono stato un “vero ateo”, e ora lo sono meno, o non lo sono più affatto. La guerra d’Ucraina, come un colpo di grazia, mi ha tolto, per così dire, la voglia di non credere in Dio. Tanto meno mi sento apateista. Ho uno spirito ruggente, che può degradarsi a farsi rabbioso o intollerante. Forse perché mi sembra di non avere più tempo, o perché il tempo sconfessa l’investimento nel negoziato col lato religioso della frontiera. Un’impazienza forte per l’ecumenismo: mai è stato così brutale l’abuso di Dio, soprattutto del Dio unico, da parte degli oppressori dell’umanità. In Iran, in Cina, in Russia, in Indonesia, in Turchia... Il dialogo non è una spina nel fianco: lo presta, il fianco. La vicenda di Kirill e di Francesco è un disastro esemplare. Bisogna puntare sulla forza e la fiducia nella forza del Vangelo, dice Ravasi, è quello che ha fatto il papa Francesco, con la Fratelli tutti sulla convivenza umana, con la Laudato si’ sull’ecologia... Ma perché dal 24 febbraio le parole dell’imitatio Christi, dei loghia evangelici, di Francesco, suonano loro tepide e, più che disarmate, caricate a salve? Ascolto la motivazione sulla prudenza lungimirante che vuole custodire una possibilità futura di mediazione per la pace. Riservarsi per la pace, alla lunga diventa un’avarizia. Si risparmia per il futuro, si rischia di essersi risparmiati. Le parole di Francesco vanno rincarandosi ora, accostano il holodomor all’aggressione russa, la shoah alla sofferenza dell’Ucraina, perché la promessa e l’illusione della mediazione vanno svanendo, e un bruto come Erdogan fa l’offerta più plausibile.

Il Papa misura le parole, o le alterna, precisa, rettifica. E ora ha detto anche: “Penso poi a voi, giovani, che per difendere coraggiosamente la patria avete dovuto mettere mano alle armi anziché ai sogni che avevate coltivato per il futuro”. Un mezzo Rubicone. Hanno dovuto metter mano alle armi, come non aiutarli? Un cristiano non può che astenersi dalle armi? O chiedere, come un avvocato del popolo, se siano difensive o offensive? In Ucraina le religioni costituite sono esplose come la Seconda Internazionale allo scoppio della Prima guerra: e ora il governo, sotto la pressione schiacciante di una guerra vile e indiscriminata, rischia di ridurne una fazione a una chiesa del silenzio. L’Ucraina al freddo e al gelo – scesa dalle stelle – non sa commuoversi di sentirsi dire martoriata. Il Papa restituirebbe calore, fuoco, alle parole che ripete se confessasse la sua sconfitta de profundis, e se ne facesse forte. La sconfitta del Tutti fratelli, del Laudato si’. Qualcosa come il lamento di Paolo VI: “Tu non hai esaudito la nostra supplica...”.
I giornali l’altro giorno avevano presentato una “enciclica” papale sull’Ucraina. Ero stato distratto, mi sono chiesto se davvero ci fosse un’enciclica, sono corso a cercarne il testo. Era un libro, in vendita come i libri, la raccolta dei tanti discorsi dedicati da Francesco alla guerra, curata dal vaticanista del Fatto quotidiano, Francesco Antonio Grana, proprio con quel titolo: “Un’enciclica sulla pace in Ucraina”, TS edizioni. L’introduzione firmata dal Papa ringrazia così: “Sono particolarmente grato a Francesco Antonio Grana perché ha raccolto tutti i miei appelli per la pace in Ucraina. Sono ugualmente grato al suo giornale, ilfattoquotidiano.it, perché, fin dall’inizio di questo conflitto, ha sempre dato ampia risonanza a queste mie parole”. Il Fatto, sull’Ucraina, ha sempre dato ampia risonanza alle parole di Mini, Orsini, Di Cesare, e all’arrendevole altruismo di Travaglio. Ampia risonanza.
Volontari cattolici pacifisti hanno creduto – si sono illusi, illusione buona – che la coraggiosa presenza personale e l’aiuto concreto, inerme, alla gente ucraina, avrebbe offerto un’alternativa esemplare alla fornitura d’armamenti. Ma la gente ucraina ha visto nella carità inerme una carità disarmante. Il collega di Ravasi, Konrad Krajewski, prefetto del Dicastero per il servizio della carità, ha portato in Ucraina il gesto che l’aveva fatto amare in uno scantinato romano: l’interruttore riacceso per dare la luce a un condominio romano occupato. In Ucraina gli occupanti hanno sparato addosso a lui, e hanno bombardato tutte le centrali elettriche del paese. Restituire luce e calore all’Ucraina d’inverno non è più affare di carità, a meno che ritorni un Bambin Gesù del Vangelo di Tommaso. Dovrebbe il Papa invocare il sostegno armato all’Ucraina? No. Ma non dare alibi alla viltà che si crede o si finge cristiana e gelosa della pace.
Caro cardinale Ravasi, in ognuno dei mattatoi del mondo provocati dalle guerre che ho avuto il privilegio di frequentare, le vittime inermi, delle più diverse fedi religiose, per maledire i loro persecutori li chiamavano “senza Dio”. E’ il cimento più arduo cui viene messo il vero ateo. E’ anche la versione più vicina a quell’altra sentenza celebre di Dostoevskij: “Se Dio non c’è, tutto è permesso”. Naturalmente il vero ateo non lo pensa. Oltretutto gran parte dei mattatoi si compiono in nome di qualche Dio. (Mercoledì a Teheran hanno impiccato il primo giovane manifestante, per il reato di inimicizia con Dio, poi se ne sono vantati). Eppure, conta che le vittime sentano così. Quando tutto sprofonda, può succedere che le vittime dicano a se stesse: Se tutto è permesso, Dio non esiste.
Il papa Francesco, temo, è stato tradito dal successo retorico della formula della “guerra mondiale a pezzi”. Ora ha superato anche qui un Rubicone, e ha detto che “questa terza guerra mondiale a pezzi è drammaticamente diventata, sotto i nostri occhi, una terza guerra mondiale totale”. Non è vero. Può succedere? Sì. Tutto può succedere, è l’unica ineluttabile lezione della famosa storia. Ma non è successo, e dirlo è solo un modo per rimanere presto senza parole.

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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 19, 2022, 09:52:22 pm »

Le 5 giornate di Milano
Ogni sabato mattina approfondimenti di cronaca, politica, cultura e costume con le firme della redazione del Corriere Milano

Ben ritrovati lettori del Corriere Milano,
torna l'appuntamento del sabato mattina con la newsletter Le cinque giornate di Milano.


Giampiero Rossi, nella settimana dell'anniversario della strage di Piazza Fontana, racconta un luogo simbolo sempre più utilizzato come ribalta per rivendicazioni anziché come spazio di memoria.
Dopo l'inchiesta sulla "locale" di Pioltello, Cesare Giuzzi descrive il volto nuovo della mafia infiltrata in Lombardia, ben modellata alla realtà imprenditoriale del Nord.
Le feste si avvicinano e per il 31 dicembre non è previsto alcun evento organizzato in piazza del Duomo.
Dopo i disordini dello scorso anno, con le molestie a diverse ragazze, è un'occasione persa di presidio del territorio: ne scrive Massimo Rebotti.
La cultura arriva in periferia grazie a un palinsesto ad hoc: un articolo di Francesca Bonazzoli.
Infine, i consigli di Eleonora Lanzetti per il tempo libero: conto alla rovescia per il nuovo anno a teatro.

Buona lettura

  L'ANNIVERSARIO
Piazza Fontana, un luogo della memoria "occupato" da rivendicazioni ingombranti
 di Giampiero Rossi
 Piazza Fontana non è soltanto una piazza, il 12 dicembre non è soltanto una data e la commemorazione della strage del 1969 non è soltanto un rito. Tutti insieme rappresentano un pilastro della memoria collettiva di questa città e del Paese intero. Quel giorno e quel luogo, dunque, hanno acquisito una sorta di sacralità laica, sancita anche dalle lapidi e dalle formelle che ricordano tutti insieme e uno per uno i 17 morti della bomba neofascista esplosa quel venerdì di 53 anni fa alla Banca nazionale dell’agricoltura.
Succede però che al di là dei revisionisti in malafede - cioè quelli che per ragioni di casacca politica vorrebbero strappare qualche pagina scomoda dal grande libro che racconta cosa e chi si sia mosso dietro alla madre di tutte le stragi – quando arriva il 12 dicembre c’è chi non resiste alla tentazione di utilizzare quella piazza come palcoscenico per qualcosa d’altro, qualcosa di proprio, qualcosa che comunque non c’entra  nulla con la testimonianza instancabile dei familiari delle vittime e di tutti coloro che non smettono di adoperarsi per custodire e rafforzare la memoria di ciò che è stato e che tutte le generazioni dovrebbero sapere.
Quest’anno, cioè lunedì scorso, sono stati gli anarchici che, in modo palesemente premeditato, hanno scelto proprio il momento dei comizi per portare all’attenzione del mondo la vicenda di Alfredo Cospito, detenuto in regime di 41 bis. Ogni volta che il sindaco Giuseppe Sala iniziava il suo discorso gli hanno coperto la voce con urla e slogan. Lo stesso Sala e uno dei familiari delle vittime hanno chiesto rispetto per i morti, ma i disturbatori hanno lasciato il campo soltanto dopo aver tenuto la scena per qualche minuto ancora.

Un anno fa, però, era stato lo stesso primo cittadino a usare l’occasione del 12 dicembre per un messaggio che nulla aveva a che fare con la circostanza: accennando allo sciopero proclamato da Cgil e Cisl per pochi giorni dopo, lo ha definito «sbagliato», suscitando la reazione di non pochi tra i partecipanti alla manifestazione ingaggiando lui stesso un battibecco con alcuni di loro: «Non dico cazzate, rispetto innanzitutto». Andò molto peggio, tuttavia, nel 2009, quando si celebrava il quarantesimo anno dalla strage: tra le autorità chiamate a intervenire c’erano il sindaco Letizia Moratti e il presidente della Regione Roberto Formigoni e la contestazione, tutta politica, nei loro confronti fu tale che nemmeno l’appello di Paolo Silva, figlio di uno dei morti della bomba nera e vicepresidente dell’associazione dei familiari, sortì alcun effetto. E a dover lasciare la piazza furono proprio i parenti delle vittime e le istituzioni.
E allora per il futuro valga un appello, forse temerario e ingenuo, ma di buon senso civico e storico: piazza Fontana, il 12 dicembre e quella memoria non sono e non possono essere usati come un qualsiasi «speaker corner»: sono un patrimonio collettivo importante ma delicato. Quindi da rispettare e tutelare.

LE INFILTRAZIONI DEI CLAN
 
La 'ndrangheta è viva, anzi in ottima salute. E si è ben adattata al modello economico lombardo
 di Cesare Giuzzi
 Più di cinquanta arresti in venti giorni. La conferma che la ‘ndrangheta è viva e – purtroppo – in ottima salute anche nel difficile periodo del post pandemia. Ma le inchieste della squadra Mobile sui “locali”, le cellule della mafia, di Rho e Pioltello hanno una caratteristica interessante. I cognomi degli indagati, almeno nelle posizioni di vertice, sono gli stessi di quindici anni fa. Prima, insomma, della maxi retata Infinito che nel 2010 ha portato all’arresto e alla condanna di quasi 300 affiliati. La circostanza non deve stupire perché decenni di indagini confermano, specie per la mafia calabrese, che i legami criminali e familiari sono spesso inscindibili. E anche, va detto, l’inefficacia degli strumenti “rieducativi” in carcere e fuori.
Ma se i nomi sono gli stessi (Bandiera e Maiolo), cambia e tantissimo il modo di agire della ’ndrangheta oggi. In una intercettazione dell’inchiesta su Pioltello uno degli affiliati consiglia “stai fermo, stai fermo, non fare la guerra”. E sì che nell’indagine sono molti gli episodi violenti documentati, compreso il tentato omicidio di un albanese. Però oggi le cosche guardano soprattutto agli affari, leciti e illeciti. La droga resta il core business, ma è il mondo delle imprese a fare gola. Anche quello di altissimo livello, come i rapporti con il colosso delle spedizioni Gls. “La ‘ndrangheta si è modellata alla realtà imprenditoriale lombarda”, scrivono gli inquirenti: “Gli indagati adottano tecniche operative e commettono illeciti tipici del settore economico con cui vengono in contatto, apprendendo il modus operandi della criminalità economica”.
Quindi “il virus brutto e cattivo della mafia che ha contagiato il Nord” (riprendendo uno stereotipo molto in voga nella passata narrazione) non solo ha trovato un terreno fertilissimo a Milano e in Lombardia, evidentemente prive di anticorpi, ma una certa gestione imprenditoriale nostrana ed eticamente molto carente ha perfino favorito l’evoluzione e il potere della ‘ndrangheta padana. La mafia è un mostro che si adatta, apprende, si evolve, e impara dai propri errori. Mentre noi, purtroppo, non lo facciamo mai.

LA SICUREZZA
 Il concerto in piazza del Duomo "spento" dal caro bollette: un'occasione di presidio persa (si poteva inventare qualcosa)
 
di Massimo Rebotti
 “Nessun concerto in piazza Duomo per l’ultimo dell’anno. Gli ultimi soldi disponibili li abbiamo usati per le luminarie”. Per tempo, era il 1 di dicembre, il sindaco Beppe Sala aveva avvertito milanesi e turisti. Con un’argomentazione strettamente legata ai magri bilanci e alle necessità di Feste più sobrie ha così chiuso il discorso: “Anche i fondi del Comune, come quelli di ogni famiglia, sono in grande difficoltà”.
Eppure, dopo il periodo del Covid e le molestie di gruppo nella notte di Capodanno dell’anno scorso, la piazza “vuota” di quest’anno merita una riflessione in più. Il motivo economico è certamente solido ma la festa pubblica in piazza Duomo la notte dell’ultimo dell’anno era diventata una consuetudine e la sua cancellazione non è un fatto come un altro.
L’anno scorso, a causa del Covid, il concerto non si fece. Migliaia di persone scelsero comunque di vivere il passaggio d’anno nel centro di Milano: festeggiare collettivamente in piazza invece che in luoghi privati è comune a molte città europee, un modo di stare insieme anche tra sconosciuti. Purtroppo a Milano il Capodanno del 2022 in piazza Duomo e dintorni è stato segnato anche da una serie di gravi episodi di molestie di gruppo ai danni di donne. Non a caso, infatti, il sindaco, mentre annunciava il no al concerto, aggiungeva che quest’anno la zona sarà “molto presidiata” dalla polizia.
Ora, non è affatto detto che un evento pubblico in piazza scongiuri il rischio di episodi di violenza, ovviamente. Ma non è detto nemmeno il contrario, e cioè che una piazza vuota di eventi garantisca di per sé una serata più tranquilla. Negli ultimi anni il concerto di fine anno era filato via liscio, senza grandi problemi e con la partecipazione di migliaia di persone (nel 2019 suonò  Gabbani, nel 2020 Myss Keta e lo  Stato sociale). Nessuno nega le ristrettezze di budget, ma forse un’idea, anche al risparmio, si poteva tentare. A Torino, per dire, quest’anno ci saranno i Subsonica.

NON SOLO SCALA
L'anima della periferia che fa vivere la cultura e la cultura che fa vivere l'anima della periferia
 
di Francesca Bonazzoli
 Dal centro fino ai quartieri che si espandono oltre la circonferenza disegnata dalla linea 90/91 (candidata a entrare prima o poi nella mitologia milanese per le storie della sua malafama), il percorso della cultura non dovrebbe essere difficile. Milano si autocelebra come una città con eventi di richiamo europeo, eppure l’impresa di raggiungere i margini di un centro molto piccolo rispetto ad altre metropoli rappresenta ogni anno una conquista all’interno di una battaglia finale non ancora vinta.
Quest’inverno la tradizionale mostra natalizia gratuita allestita a Palazzo Marino dove sono esposti lavori di Filippo Lippi, Sandro Botticelli e Tino da Camaino (già visitata da circa 11.500 persone) si estende anche alle biblioteche di zona degli otto municipi che ospitano altrettante tele sul tema: quattro del Seicento e quattro dell’Otto/Novecento.
Se pure molto lontano dalla qualità di quelle accolte in centro, lo sforzo fatto per esporre queste opere va apprezzato, anche se tutto sommato non è gran cosa rispetto all’impatto culturale. Piuttosto merita maggior encomio l’aver portato la prima della Scala in spazi sempre più diversi della città, come avvenuto quest’anno.
Ma soprattutto, la direzione giusta è stata presa dal cantiere “Milano è viva”, varato la scorsa estate e finanziato ad hoc con 2,5 milioni di euro dal Ministero della Cultura. La sovvenzione statale ha supportato più di 50 rassegne e festival con 1.150 eventi distribuiti su oltre 80 quartieri dei 9 municipi della città. Un ottimo rodaggio per l’edizione invernale ripartita a dicembre e che, fino al 6 gennaio, raggiungerà con più di 150 eventi anche i quartieri esterni come Dergano, Baggio, Casoretto, Forze armate, Quintosole, Stadera, Quarto Oggiaro, Crescenzago, Chiaravalle, Giambellino, Gratosoglio.
Non solo, dunque, ci saranno più teatro, musica, danza, cinema e arti visive ai bordi della città, ma, altrettanto importante, le associazioni culturali e le cooperative coinvolte hanno avuto la possibilità di lavorare e attivarsi nel territorio. Questo aumenta il coinvolgimento della cittadinanza e delle giovani energie creative che spesso non trovano spazi e quindi fanno fatica a sopravvivere. È proprio questo, alla fine, lo scopo di un palinsesto culturale che non si appoggi ai soliti attori del centro (sia nel senso di artisti che di spazi).
L’impegno del Comune per la cultura dovrebbe essere quello di aiutare la crescita di nuovi talenti e imprese culturali; quello di individuare e mettere a disposizione spazi a basso costo, creare punti di riferimento sempre aperti per la creatività dei giovani, avvicinare allo spettacolo chi non può permettersi i biglietti del centro. In periferia c’è tanta energia ma non ci sono i luoghi per metterla in circolo. Berlino era rinata proprio con questa ricetta ai tempi della riunificazione. Poi anche lì la speculazione edilizia ha finito per espellere la creatività e dunque l’anima della città.
 
CONSIGLI PER LA FESTA
Un brindisi lontano dalla tavola imbandita? C'è il menu dei teatri
 
di Eleonora Lanzetti
 A Capodanno si va a teatro. Chi preferisce trascorrere l’ultima serata del 2022 lontano da tavole imbandite e cenoni al ristorante, avrà a disposizione un cartellone di proposte, dal musical ai protagonisti della comicità. Nei teatri milanesi è quasi tutto pronto, per chi all’estenuante maratona di portate e brindisi rinuncia volentieri. 
Ale e Franz saliranno sul palco del Teatro Lirico Giorgio Gaber il 31 dicembre 2022 per due repliche del loro spettacolo “NatAle&FranzShow” in programma alle 17.30 e alle 21.30. Risate anche al Teatro Manzoni con Vincenzo Salemme e il suo nuovo spettacolo dal titolo “Napoletano? E famme ‘na pizza!”, un pamphlet tratto dal suo libro più recente. Anche qui saranno due gli spettacoli in programma, uno alle 17.30 e l’altro alle 21.30.
Come da tradizione, non mancherà il Capodanno allo Zelig Cabaret di Viale Monza: una serata comica che vedrà l’alternarsi di artisti come Davide Paniate, Andrea Carlini, Silvio Cavallo, Federica Ferrero, Corinna Grandi, Cinzia Marseglia, Eddi Mirabella. Un altro grande classico della cultura popolare lombarda in chiave comica? I Legnanesi tornano al Teatro Repower di Assago con il nuovo spettacolo - rigorosamente in dialetto legnanese - bdal titolo Liberi di Sognare che andrà in scena la sera del 31 dicembre 2023 e quella del 1 ° gennaio 2023.
Se il 31 dicembre è già precettato, si può sempre andare a teatro la prima sera del 2023, e iniziare con il sarcasmo irriverente di Checco Zalone, il 1° gennaio sul palco del Teatro degli Arcimboldi con il suo nuovo spettacolo dal titolo “Amore + Iva”. Si chiude con un grande cult del Natale, il musical Sister Act al Teatro Nazionale con la regia di Michele William Barbato e le coreografie di Anna Paggiaro e Giosuè Vettorato.

da - https://api-esp.piano.io/story/estored/313/9307/-1/5383429/490299/vib-clbrk3lhp13ug01h0dqltau97?sig=269726d11ac9622b79c0a0825ed0a912528f7a9b62153dbf7a4ac456d1406b51
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« Risposta #2 inserito:: Dicembre 20, 2022, 12:00:56 pm »

Il papa alla Cgil, siate le sentinelle del mondo del lavoro

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Arlecchino Euristico

lun 19 dic, 16:39 (19 ore fa)
a me

Il Pontefice ha invitato il sindacato a essere "la voce di chi non ha voce, in particolare dei giovani spesso constretti a contratti sottopagati". In questo mondo dominato "da un sistema perverso che si definisce tecnocrazia" è necessario "umanizzare il lavoro e difendere la dignità umana"   -

https://www.agi.it/cronaca/news/2022-12-19/papa-riceve-delegati-cgil-sentinelle-mondo-lavoro-19279273/

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