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Autore Discussione: DEMOCRATICI INDIPENDENTI e LA FALANGE dell’Ulivo Selvatico.  (Letto 9220 volte)
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« inserito:: Novembre 07, 2022, 09:45:21 pm »

Falange (militare)
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Ricostruzione della falange oplitica greca. In realtà l'equipaggiamento dei soldati non era uniforme, tranne che a Sparta, dato che ognuno doveva procurarsi da solo le armi e decorarle
La falange è un'antica formazione di combattimento composta da fanteria pesante i cui soldati sono armati di lance o picche, scudi e spada.
Tipica del mondo greco ed ellenistico, venne adottata anche da altri popoli che ne modificarono le caratteristiche e le funzioni fino all'epoca rinascimentale, dove con l'avvento delle armi da fuoco perse di importanza.
Certo è che la compattezza della falange greca venne utilizzata negli eserciti mercenari fin dai tempi del faraone Psammetico I. Successivamente, però, essa subì numerose modifiche, fra cui la più popolare fu quella che generò la falange macedone.

Origini
La più antica rappresentazione di una formazione di una falange si trova in una stele sumera (Stele degli avvoltoi), dove le truppe di Lagash sono armate con lance, elmi e larghi scudi che coprivano tutto il corpo.
Frammento della Stele degli avvoltoi con evidenziati in rosso le harpai, un tipo di arma, in giallo il copricapo reale ed in azzurro il kaunakes, un tipico abito
Anche la fanteria egizia utilizzò questa tattica. Tuttavia, gli storici non sono riusciti ad accordarsi se esista o meno correlazione tra la formazione greca e questi esempi precedenti.

Falange greca
Molti storici datano la nascita della falange greca all'VIII secolo a.C., anche se secondo altri la datazione andrebbe posticipata al VII secolo a.C., periodo nel quale secondo il poeta spartano Tirteo, si preferisce l'utilizzo di formazioni coese a scapito delle gesta eroiche dei singoli. È la città di Argo a introdurre questa innovazione tattica e ad armare i suoi uomini con aspis argivo, definito hoplon.
L'hoplon divenne la caratteristica principale delle unità militari greche di fanteria pesante, i cui componenti vennero così chiamati opliti.

Le truppe venivano addestrate per avanzare in formazione allineata, creando un'impenetrabile foresta frontale di lance, difesa da un muro di scudi che coprivano le parti più vulnerabili del corpo.
La falange greca tradizionale era disposta su due file di opliti, armati con lance (dory) e spade (xiphos), indossavano un elmo (kranos), un'armatura di lino pressato o di bronzo che non proteggeva l'inguine e le cosce, e gli schinieri. Questo corredo da combattimento era chiamato panoplia e, ad eccezione che per gli spartiati, variava da soldato a soldato, poiché gli opliti si dovevano procurare autonomamente l'equipaggiamento e avevano quindi una certa libertà di personalizzazione nello stesso.
La falange tendeva a spostarsi verso destra durante le marce e questo era dovuto alla tendenza dei soldati di coprire il proprio corpo con lo scudo di chi era posto alla propria destra. Questo modo di avanzare poteva risultare pericoloso poiché permetteva ai nemici di accerchiarli sul fianco sinistro, e fu anche per questo che solitamente gli uomini migliori e maggiormente esperti venivano posti sul fianco destro della falange, divenuto così posto d'onore.
Senofonte ci mette a conoscenza del fatto che i più esperti venissero posti invece in prima linea e nelle retrovie per mantenere l'ordine della formazione.
I giorni che precedevano lo scontro venivano scanditi dalle urgenze religiose, con i sacrifici mattutini, compiuti insieme allo stato maggiore da re, strateghi o beotarchi che fossero; seguiva il primo pasto della giornata, detto ariston, la trasmissione della parola d'ordine e gli ordini per la giornata.
Ad Atene l'attendente dell'oplita veniva chiamato portatore di bagagli, skenophoros, e di solito era un parente giovane dello stesso al fine di fare esperienza di guerra.
La dieta attica verteva di sale aromatizzato con il timo, cipolle, pesce salato in foglie di fico, il tutto conservato in un paniere di vimini detto gylios; era poi indispensabile uno spiedo dove arrostire la carne fresca acquisita con la paga fornita dalla città già dal 462 a.C.
Quando due falangi oplitiche si affrontavano, le due formazioni prediligevano un terreno piatto e libero da alberi, adatto per mantenere la formazione unita e compatta (un terreno più accidentato invece rendeva gli opliti più vulnerabili). Esse si avvicinavano al passo, cantando il peana di guerra e giunte a uno stadio di distanza, allo squillo di tromba si caricavano a vicenda. Vi era uno scontro tra prime linee in cui ognuna delle due formazioni spingeva contro gli scudi dell'altra e intanto cercava di fare affondi di lancia.
Lo scontro fra falangi oplitiche era in pratica essenzialmente uno scontro d'attrito e pressione. Le due schiere opposte di opliti facevano affidamento sulla propria forza di spinta, facendo perno sui loro larghi scudi (i quali contemporaneamente proteggevano il corpo da spade o lance) e soprattutto sulla compattezza della formazione, più che su di uno scontro corpo a corpo "libero" come nella tradizione più arcaica. Non contavano le gesta individuali del singolo soldato, ciascuno era subordinato al gruppo e si ragionava in termini di reggimento e unità. Questo proprio per mantenere il più possibile unita la formazione: infatti era necessario che i soldati rimanessero coesi formando un muro di scudi, altrimenti un punto vulnerabile avrebbe potuto mettere a repentaglio l'intero gruppo. Una falange scompaginata e disunita era facile bersaglio per cavalleria (detta hippikon) e fanteria leggera (toxotes e peltasti). Ma in condizioni in cui i fianchi erano protetti e il fronte compatto, la falange si rivelava micidiale, soprattutto per le cariche di cavalleria. Solitamente durante l'impatto fra falangi non c'erano molte vittime, che sopraggiungevano in quantità invece quando uno dei due eserciti entrava in rotta, generando a quel punto le reali uccisioni. La prima delle due formazioni che si rompeva, infatti, causava lo scompaginamento dell'intero schieramento e la fine della battaglia.

Finito lo scontro avveniva la spogliazione dei morti da parte dei vincitori; panoplie e valori facevano parte del bottino, poi venivano permesse le esequie ai vinti.
Battaglie contro soldati non inquadrati nella falange oplitica vedevano invece il nemico costretto a far i conti contro le lance puntate, rischiando di finire trafitto, o contro la solidità del muro di scudi, che poteva così avanzare e schiacciarlo.
L'arte ossidionale non era molto diffusa: sebbene già esistessero arieti e scale d'assalto, si preferiva prendere le città per fame. È per questo motivo che si preferiva entrare in guerra durante il periodo del raccolto di frumento.
La falange oplitica aveva funzione offensiva ed era alla base della forza e supremazia militare di Sparta; ebbe fama di imbattibilità fino alla battaglia di Leuttra (371 a.C.), quando fu travolta dalla falange obliqua tebana adottata da Epaminonda, mentre alcune riforme del generale Ificrate misero in luce alcune debolezze tattiche degli opliti.
Il più famoso esempio sul campo di una falange oplitica è dato dalla Battaglia delle Termopili, in cui secondo la tradizione 300 spartani guidati da Leonida assieme a diversi contingenti alleati (circa 5100, secondo lo storico Erodoto) riuscirono a tenere testa ad un esercito di migliaia di persiani prima di soccombere. Per via del ristretto spazio in cui erano posizionati, nelle Termopili gli opliti riuscirono a reggere con efficacia l'urto frontale dei soldati nemici e a spingerli via, uccidendone molti soprattutto per calpestamento o per "compressione" (di coloro i quali, presi dal panico per non esser riusciti a sfondare il muro di scudi, cercavano di fuggire dalla falange, ma si ritrovavano i compagni che invece stavano caricando).

Falange Spartana
L'unità di base era la enomotia, formazione composta da 24 opliti posti su 3 file di 8 uomini, comandati da 2 ufficiali detti enomotarchi posizionati in prima fila e uno detto ouragos posto in ultima fila;
Due enomotiai formavano una pentecoste comandata da un pentecontarco;
Quattro pentecoste formavano invece un lochos, 100 uomini al comando di un lochagos.
Senofonte fa menzione di lochoi composti da 144 elementi dove l'enomotia era formata da 3 file di 12 opliti o da 6 file di 6 opliti.
Quattro lochoi (400 uomini) erano organizzati in una mora, comandata da un polemarco;
Sei morai componevano un esercito.
Erodoto non parla mai di mora, quindi si presume che i lochoi potessero essere unità anche maggiori.
La mora era anche l'unità di cavalleria aggregata alla fanteria, formata da 60 uomini e comandata da un hipparmostés; venne in seguito divisa e ampliata in 2 unità di 50 uomini comandate da un oulamos, posizionate ai fianchi degli opliti, in 10 file da 5 elementi ciascuna, e denominate pempàs.
Vi era poi un contingente composto dall'élite militare spartana i cui 300 uomini venivano aggregati alla prima mora e fungevano da guardia del corpo del re. Essi venivano infatti selezionati da 3 hippagretai scelti a loro volta dagli efori.
Le reclute venivano inquadrate in un'apposita enomotia e posizionati nella mora di sinistra.

In occasione delle campagne militari gli efori, chiamati alle armi i coscritti, davano incarico al re di trarre gli auspici: se favorevoli un tedoforo portava il fuoco sacro ai confini della Laconia, dove spostato l'esercito ripeteva il sacrificio.
La marcia al di fuori della Laconia, scandita da una tromba o un corno, prevedeva che gli sciritai (montanari della Laconia armati alla leggera) svolgessero il compito di ricognizione; assistiti dopo le guerre persiane anche da un contingente di cavalleria.
In campo aperto procedevano in quadrato con la prima linea disposta a falange, come pure la retroguardia, mentre ai lati si marciava in colonna a protezione delle salmerie poste al centro. Mentre nelle strettoie si passava disposti in 2 colonne divise dalle salmerie, con i rispettivi lochoi disposti in 4 file.
Ogni combattente veniva seguito da un ilota, con fiocchi d'avena e orzo, formaggio, cipolle e carne salata per il sostentamento per 20 giorni. All'interno del proprio oplon vi era l'occorrente per dormire oltre al cambio d'abito; nelle salmerie vi era anche l'occorrente di fabbri, carpentieri e dottori.
Durante le soste non veniva costruito un campo fortificato, ma si prestava attenzione che gli iloti non rubassero le armi.
A ciascuna mora veniva assegnato uno spazio nell'accampamento, che nessuno era autorizzato a valicare nemmeno per gli esercizi fisici mattutini e serali. Al centro dell'accampamento vi era posizionato il re e lo stato maggiore, 3 spartiati vigilavano sulla sua incolumità; vicino vi erano le tende di dottori, indovini, polemarchi, suonatori di flauto, araldi, 2 pythii (coloro che consultavano l'oracolo di Delfi) e la guardia del corpo, gli hippeis.
Nel 400 a.C. circa, l'esercito spartano contava circa 4000 opliti Spartiati, meno della metà di quanti ve ne fossero tre secoli prima.

Innovazioni di Epaminonda e Ificrate

In basso: La tattica di Epaminonda a Leuttra. L'ala sinistra rinforzata avanza mentre la destra più debole si ritira o segna il passo. I blocchi in rosso indicano il posizionamento delle truppe di élite nello schieramento.
Ciò che rappresentava il punto di forza della falange oplitica, cioè la sua compattezza per generare un muro umano impenetrabile, si rivelava una medaglia a due facce, poiché restringeva la manovrabilità e la mobilità dei reggimenti. Era così essenziale che la falange fosse adeguatamente supportata in modo da non essere colta di sorpresa ai fianchi o alle spalle (suoi talloni d'Achille), che non affrontasse l'avversario in un terreno ripido o in un bosco (dove era difficile mantenere unita la formazione) e che non venisse coinvolta in schermaglie o battaglie per logoramento.
L'ateniese Ificrate intuì che per quanto impenetrabile e composta da soldati valorosi, una falange oplitica poteva essere trattata sfruttando la sua stessa caratterizzazione contro sé stessa. Ificrate fece affidamento sulle truppe leggere che agivano da schermagliatori bersagliando di giavellotti il nemico, evitando così lo scontro diretto. I peltasti, originari della Tracia, furono la sua punta di diamante e grazie ad essi riuscì in maniera quasi indolore a distruggere persino un contingente di spartani, considerati i migliori soldati dell'antichità, semplicemente decimandoli pian piano senza che questi potessero far valere la propria superiorità nel corpo a corpo. Ificrate tentò anche di riorganizzare gradualmente gli stessi opliti, in modo da renderli meno vulnerabili a questi colpi e più flessibili dal punto di vista tattico sul campo di battaglia.
Innanzitutto, iniziò rendendo le lance più lunghe portandole a 3,6 metri, aumentandone il raggio d'azione. Successivamente dotò gli opliti di spade leggermente più grandi, scudi un po' più piccoli per una maggiore leggerezza ed elmi di tipo trace, che davano maggiore visibilità. Infine vennero in parte riorganizzati i ranghi per poter agevolmente mantenere una posizione difensiva anche dove era più difficile compattare la falange. Da questo modello di partenza si aggiunsero via via altre innovazioni come l'uso dello scudo ovale (thureos, soprattutto dopo le incursioni dei Galati), più maneggevole del classico aspis offrendo al contempo una buona protezione al corpo per gran parte della sua altezza.
Queste riforme resero gli opliti più efficaci sul campo di battaglia ed ispirarono lo sviluppo della falange macedone e di soldati come i tureofori. Gli opliti ificratei ottennero successi contro Persiani, Illiri, Traci e persino Romani, ma spesso non vennero adottati dalla maggior parte delle polis greche, diffidenti verso la riforma e maggiormente propense a mantenere l'oplita sullo stesso modello che combatté alle Termopili, tradizionalmente visto come esempio del libero greco in arme che combatte per la propria libertà e la propria civiltà. Forte diffidenza v'era soprattutto verso i peltasti per via del loro modo di combattere, di schermaglia, visto come poco onorevole (così come il combattere con archi e frecce). Opliti modellati sulle idee di Ificrate divennero in ogni caso mercenari importanti presso molti eserciti dal IV al II secolo a.C., ma rimasero in numero esiguo perché l'avvento della falange macedone prima e delle legioni romane poi imposero gradualmente nuovi metodi di battaglia sempre più efficaci e sempre più dominanti.
La reale scossa d'assestamento sul piano tattico venne data dal tebano Epaminonda, che sfruttò il fatto che gli opliti facessero affidamento sulla propria spinta rendendo più profondo il fianco sinistro della falange per potenziarla. Epaminonda non ebbe mai troppa fiducia verso il modello ificrateo, nonostante anch'egli dotò i suoi opliti di lance leggermente più lunghe (e persino di armature come la Linothorax), e preferì adottare lo schema della falange obliqua mostrato nell'immagine qui di fianco, grazie al quale la falange otteneva una spinta più massiccia sulla sinistra potendo così rompere più facilmente e velocemente i ranghi nemici. Epaminonda ottenne importanti successi, a Leuttra e a Mantinea, e le sue tattiche ispirarono il re di Macedonia Filippo II.

Falange macedone
Magnifying glass icon mgx2.svg   Lo stesso argomento in dettaglio: Falange macedone.
La falange tebana fu così perfezionata da Filippo II di Macedonia. Egli portò il numero dei soldati del corpo principale (pezeteri) a 16.384 e innovò radicalmente l'equipaggiamento. Il simbolo della falange macedone era la sarissa, una lancia lunga 3 metri ma che in alcune varianti poteva raggiungerne anche 4. In marcia e durante l'attacco le file erano distanti 1 m l'una dall'altra, mentre solo 0,5 m nelle fasi difensive. Quando i falangiti combattevano, le file direttamente dietro quella in prima linea potevano abbassare le loro lance creando una fitta foresta di picche impenetrabile, ancora più letale di quella oplitica, mentre gli ordini inferiori mantenevano le sarisse alzate (potendo anche oscurare eventuali movimenti di truppe alle loro spalle). La sarissa era molto lunga e per questo necessitava di essere impugnata con entrambe le mani, il che però impediva di portare uno scudo troppo grande. Ogni soldato venne perciò dotato di un piccolo scudo (pelta) legato all'avambraccio che copriva parte del suo corpo e metà del corpo del compagno alla sua destra. Ogni soldato così faceva forte affidamento sul compagno per proteggersi e l'ordine compatto diventava ancora più imprescindibile.
Con la falange macedone, il problema del fianco sinistro vulnerabile si ripresentò aumentato notevolmente, proprio per questo motivo: utilizzando lo scudo per coprire il più possibile il torso del soldato alla propria destra, non potendo usarlo con destrezza essendo il braccio sinistro impegnato a reggere la sarissa, lo "spostamento" lento e inesorabile di una falange verso destra in un campo di battaglia ne risultava accentuato e il fianco sinistro ancora più esposto.
Solitamente generali come Alessandro Magno, figlio di Filippo, o i suoi successori arginarono il problema ponendo delle truppe scelte d'élite, gli Ipaspisti, scelti fra i migliori soldati e posizionati direttamente alla sinistra della falange dove combattevano secondo un ordine oplitico oppure brandendo spade per il corpo a corpo. Contemporaneamente fanteria leggera formava ulteriori ali a supporto della falange.
La vera forza della falange macedone in ogni caso non era data dalla falange stessa in una lotta per pressione come in quella oplitica, ma dall'utilizzo della stessa come "incudine" su cui stallare il nemico, che veniva poi colpito con violenza alle spalle da un "martello". Questo era composto dalla cavalleria, la cui punta di diamante era composta dai Compagni o eteri, nobili macedoni che formavano l'élite delle truppe a cavallo alessandrine, col compito di distruggere la cavalleria nemica e poi caricare alle spalle la fanteria. La tattica che ne conseguiva era difatti definita come quella dell'incudine e del martello.

La falange nei diadochi
Alessandro, che venne detto poi il Grande, sfruttò la falange macedone e la sua cavalleria per conquistare l'Impero Persiano, ma morì a soli 32 anni lasciando il suo impero sgretolarsi fra i propri generali, detti diadochi, ciascuno dei quali si accaparrò delle regioni. Questo periodo, detto ellenistico, vide l'incontro della civiltà greca con quella orientale, e anche gli usi e costumi militari ne furono influenzati.
Mentre alcune sporadiche città persiane e armene tentarono di formare (senza successo) propri contingenti di opliti, gli eserciti dei diadochi e dei loro successori integrarono fra le proprie fila elementi nativi, dapprima come ausiliari, ma ad un certo punto anche inquadrandoli nelle stesse falangi.
Gli stati successori erano costantemente rivali fra loro, sfociando spesso in aperti conflitti in cui grandi dispiegamenti di falangi erano la norma. Questo portò i generali dei regni ellenistici a sviluppare ulteriormente le loro tecniche di guerra in funzione dello scontro fra falangi. L'innovazione fu data dalla diminuzione della lunghezza delle sarisse delle prime file e dall'aumento della lunghezza di quelle delle ultime file. In questo modo, quando le picche venivano abbassate, si generava un'ancora più fitta foresta di punte tutte questa volta posizionate più o meno nello stesso punto. Questa formazione, frontalmente, diveniva così ancora più impenetrabile e dotata di maggior spinta, caratteristiche perfette per affrontare un avversario che si basava anch'esso su falangi. In realtà l'evoluzione fu anche a suo modo una "involuzione" poiché il rovescio della medaglia era dato dal fatto che le falangi divenivano così notevolmente più rigide e statiche, necessitanti di maggior supporto ai fianchi e ancora più vulnerabili se prese alle spalle. Finché gli avversari principali dei successori furono altri successori, il problema non si pose. Tipi di soldato come il tureoforo vennero introdotti per conferire maggiore flessibilità tattica (soprattutto in risposta agli scontri con le popolazioni celtiche che nel III secolo invasero Tracia e Anatolia), ma molti diadochi erano riluttanti ad adottarli perché ciò avrebbe comportato una rivalutazione della tradizionale arte bellica greca a scapito di quella macedone. Il nucleo di ogni esercito rimaneva la falange dotata di sarisse, persino la cavalleria diminuì di numero, andando a indebolire il "martello" delle tattiche alessandrine.
Di conseguenza, le falangi di tipo macedone si specializzarono troppo verso un determinato tipo di combattimento ma si ritrovarono svantaggiate contro eserciti molto più mobili e sviluppati per il corpo a corpo, come ad esempio quello romano, il che si sarebbe in seguito rivelato fatale per la sorte degli stessi stati ellenistici. Tentativi di riforma vennero introdotti dai successori dopo gli scontri con Roma, ma arrivarono troppo tardi e quando questi stessi stati erano ormai reduci da anni di guerre, svuotamento delle casse e spopolamento, mentre nemici sempre più potenti e agguerriti premevano alle frontiere (Roma ad ovest, dove era diventata una potenza forte e ricca, i Parti ad est, insediandosi in Persia mentre i Seleucidi arretravano).

Le falangi presso altri popoli
Gli Etruschi adottarono le falangi oplitiche dalle colonie greche in Italia e le diffusero presso i popoli centro italici come i Sabini o i Latini. Anche i Romani costituirono le loro legioni sul modello oplitico, ma dopo la Battaglia delle Forche Caudine, nella quale i Sanniti sfruttarono le asperità del territorio e le loro tattiche di guerriglia per circondare e costringere alla resa i romani, riorganizzarono il proprio esercito sul modello manipolare, abbandonando formazioni oplitiche (solo i veterani che componevano il reggimento di triarii continuarono a combattere come opliti ancora per un breve periodo).
Fra i Cartaginesi, la falange oplitica era utilizzata sia dalle milizie cittadine che dalle truppe scelte della Banda sacra, ma erano una componente marginale dell'esercito perché fino alle riforme di Santippo i cartaginesi preferivano affidarsi maggiormente su truppe mercenarie (libiche, numide, iberiche). Vi sono casi sporadici anche di utilizzo di falange macedone, come corpo d'élite composto principalmente da veterani libici, ma in numero estremamente esiguo e dal ruolo marginale. L'ultima testimonianza di un loro utilizzo è nella battaglia di Zama.
I Parti, popolazione di origine iranica, quando si insediarono in Persia e Mesopotamia reclutarono anch'essi alcune falangi di tipo macedone fra i coloni ellenici, ma unicamente per impiegare questi per compiti di guarnigione. I Parti infatti erano una popolazione dalle origini nomadi e il cuore del loro esercito era la cavalleria pesante, mentre ogni sorta di fanteria era marginale se non inesistente negli eserciti partici.
Generalmente in ogni caso nessun popolo non-successore costituì eserciti basati sulla falange macedone. L'unica eccezione era il regno del Ponto, che però si era formato in Asia Minore ed era ispirato alla civiltà ellenistica e improntato proprio su armate modellate secondo quelle dei vicini stati successori.

Declino
Magnifying glass icon mgx2.svg   Lo stesso argomento in dettaglio: Tattiche della fanteria romana.
Dopo aver raggiunto il proprio apice nelle conquiste di Alessandro Magno, la falange come formazione militare iniziò un lento declino, rispecchiato anche da quello degli stati successori macedoni stessi. Le tattiche combinate utilizzate da Alessandro e suo padre vennero gradualmente rimpiazzate da un ritorno a semplici cariche frontali tipiche della falange oplitica.
Il declino dei Diadochi e della falange era strettamente connesso all'ascesa di Roma e della legione romana, dal III secolo a.C. Prima della formazione della Repubblica romana, i Romani impiegarono loro stessi delle falangi (di tipo oplitico), ma gradualmente svilupparono tattiche più flessibili risultanti nella legione a tre linee del periodo repubblicano centrale. La falange continuò ad essere utilizzata dai Romani solamente per la loro terza linea militare, quella dei Triarii, riserve di veterani armate con hastae o lance. Roma avrebbe alla fine conquistato tutti gli stati successori macedoni e le varie città-stato e leghe greche. Questi territori vennero incorporati nella Repubblica Romana, e dal momento in cui gli stati ellenici cessarono di esistere, così fecero gli eserciti basati sull'impiego della tradizionale formazione a falange. Di conseguenza, soldati reclutati da queste regioni dai Romani vennero equipaggiati e combatterono in linea con il sistema manipolare romano.
Comunque, la falange, come tattica militare, non scomparve. È discutibile se la falange fosse obsoleta alla fine della sua storia. In alcune delle principali battaglie fra l'esercito romano e le falangi ellenistiche, come a Pidna (168 a.C.), Cinocefale (197 a.C.) e Magnesia (190 a.C.), la falange si comportò relativamente bene contro le forze romane, inizialmente respingendone la fanteria.


Tuttavia, a Cinocefale e Magnesia, il fallimento nel difendere i fianchi della falange condusse alla sconfitta finale, mentre a Pidna, la perdita di coesione della falange per inseguire i soldati romani in fuga consentì a questi di riorganizzarsi e penetrare la formazione ellenica, dove poterono sfruttare il proprio vantaggio nel corpo a corpo rivelatosi poi decisivo.
Truppe dotate di lance continuarono ad essere importanti elementi in tutti gli eserciti fino all'avvento di armi da fuoco affidabili, ma non combatterono più nello stile della tradizionale falange macedone.
Tuttavia, un significativo paragone può essere fatto fra la falange e le formazioni di picchieri del basso medioevo. Tuttavia, tatticamente (essendo utilizzate principalmente contro la cavalleria) e organizzativamente erano chiaramente distinte dalla falange ellenica.

Medioevo e Rinascimento
Tra il XV e il XVI secolo le fanterie olandesi, spagnole, svizzere e tedesche assunsero formazioni simili a quelle delle antiche falangi greche, con nutrite schiere di picchieri, col ruolo principale di contrastare la cavalleria. La formazione di stampo falangitica forse più famosa ed efficace di tutto il medioevo fu lo schiltron scozzese.

Bibliografia
Victor David Hanson, L'arte Occidentale della Guerra Descrizione di una battaglia nella Grecia classica, Garzanti - gli elefanti storia, 2009 ISBN 978-88-11-67846-5

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(EN) Falange / Falange (altra versione), su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 13, 2022, 10:07:52 pm »

Gianni Gavioli ha condiviso un link.
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Io ho già scritto in fb la mia decisione!
Giudicando indegna la candidatura di non pochi competitori, non soltanto di destra, io non andrò a votare.
Soltanto un rapido impegno di tutti (feccia compresa) davanti a Mattarella e agli Elettori, per un governo del presidente Draghi e per un suo programma, subito dopo il 25 settembre, cambierò parere.
Votare oggi significa essere complici dello SFASCISMO imposto dalla Federazione Russa, con l'inganno di partiti antiStato e Antioccidentali.

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« Risposta #2 inserito:: Novembre 18, 2022, 10:36:14 pm »

Il valore dei FATTI, ben comunicati in chiarezza alla popolazione.

Condivisi non tra ubriachi nel NULLA delle falsità, ma tra cittadini consapevoli.
Cancellano le diversità e fanno superare le EMERGENZE.

Dopo il benessere della serenità, portato al popolo, sofisticare sulle diversità di parte, sarà ACCADEMIA!!

La signora Meloni, resta mia avversaria, ma ce la può fare!
A quel punto, con l'Italia risanata, non ci saranno avversari ma Differenti!

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« Risposta #3 inserito:: Novembre 24, 2022, 11:10:59 pm »

Perché Falange?
Era una arma sostanzialmente di difesa, ma se occorreva anche d’attacco.
La sua forza si esprimeva soprattutto contro la cavalleria.

Il concetto di Gruppo di cittadini e di Organizzazione era ai massimi livelli.
È durata secoli in molte realtà sociali diverse.

Perché usarla per il nostro Gruppo?
Era composta da molte picche, portate in battaglia da Gruppi con molti cittadini fianco a fianco, per una difesa reciproca.
Collegata ai nostri BASTA Perché?
Perché sono talmente numerosi i BASTA, che ognuno di noi dovrebbe esprimere, che per renderli efficaci occorre essere in molti, ben raggruppati e organizzati e con molte "sarisse lunghe da 5 a 7 metri", per far sentire come siamo capaci di "pungere" (ma senza uccidere) la parte guasta della nostra "cavalleria predona" e mal guidata.

ggiannig

P.S.: ma anche, dato che siamo dei DEMOCRATICI, per non far usare oggi quella definizione da elementi che, come nel recente passato, usino il termine da partiti e movimenti che proprio democratici non sono.
LA FALANGE DEI BASTA (SATIS) sarà la parte attiva sul territorio che dovrà favori soprattutto con l’esempio, la diffusione del nostro pensieri dei diversi Gruppi di DEMOCRATICI, sul territorio, in futuro riuniti come CONFEDERAZIONE.
ggiannig

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« Risposta #4 inserito:: Novembre 25, 2022, 09:41:06 pm »

FALANGE DEI BASTA. Gruppo di Democratici Indipendenti!

Gianni Gavioli · prteSdnoos1f0s025hoi9td8m190a5A79g15ccus68eiai54m865t775tagc

Basta alle pensioni che non danno SERENITA'!
Pensioni Minime miserrime confermate.

Pensioni Medie non rivalutate alla realtà, sono di fatto una erosione dei risparmi delle famiglie.
Punto!

ggiannig

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« Risposta #5 inserito:: Dicembre 03, 2022, 12:35:59 pm »

"Tutte uguali le macerie" - E' FALSO.

Le tragedie naturali, che l’uomo rende Mortifere con il pessimo comportamento delle istituzioni corrotte, sono, in ogni caso, diversissime dalle azioni degli assassini e distruttori di massa, del vertice della Federazione Russa.

Confondere con intenzione, le DIVERSE Cause con le COMUNI Conseguenze, delle tragedie dell'umanità è fare pessima disinformazione di parte cattolica.

ciaooo

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« Risposta #6 inserito:: Dicembre 18, 2022, 12:31:07 pm »

Gli italiani, il bene individuale e il bene di comunità

Un’analisi che parte da alcune premesse antropologiche generali e da un excursus storico, per chiedersi come mai nella società italiana sia storicamente assente l’affezione alla dimensione comunitaria.

Daniele Barni 16 dicembre 2022

Fra benessere e ricchezza: una premessa antropologica
L’esistenza delle donne e degli uomini, come di ogni altro animale, procede per continui contrasti, contrapposizioni, conflitti tra l’impotenza e l’impossibilità, da una parte, e, dall’altra, la possibilità e la potenza. Tra la potenza e la possibilità di ottenere il necessario a sopravvivere e, pure, a vivere riccamente, e l’impotenza e l’impossibilità di ottenerlo. Il necessario a sopravvivere e a vivere riccamente consiste nel cibo e nel riparo del corpo, nell’affetto, nella considerazione e nel rispetto degli altri, fino all’abbondanza e al lusso ben oltre, incontentabilmente, il necessario stesso. Non solo le donne e gli uomini si comportano così, ma anche molti animali. Anch’essi hanno bisogno di cibo e di riparo per il corpo, e dell’affetto, della considerazione e del rispetto degli altri individui del branco. Inoltre, anche in essi è riscontrabile la propensione all’abbondanza e al lusso: infatti, dato che la brucazione, la ricerca, la raccolta e la predazione sono attività non sempre certe e sicure, ma che richiedono sforzo e tempo, tanti animali si preoccupano di occultare o accumulare scorte di cibo, oppure di garantirsi il possesso di ampi territori. Fra gli insetti, ad esempio, la formica scava magazzini da far traboccare di chicchi e bestiole; fra gli erbivori l’ippopotamo persegue una territorialità feroce, e lo scoiattolo gremisce la tana di frutti di ogni tipo; fra i carnivori la volpe imbosca le galline che non riesce subito a consumare. Lo stesso cane, fra gli animali domestici, imbosca sornione il suo osso. Tutto ciò rivela che l’abbondanza e il lusso a cui ogni specie propende non celano altro che il timore per i loro contrari, ovvero per la penuria e per la miseria.

L’impotenza e l’impossibilità generano nella specie umana, e in molte altre specie, il bisogno di protezione e di sicurezza: sicurezza di ottenere il necessario a sopravvivere e a vivere riccamente; e protezione da tutto ciò che potrebbe impedirlo e che potrebbe costituire un pericolo per la vita stessa. La potenza e la possibilità, invece, generano il potere e la ricchezza: la ricchezza consiste nel possesso di beni materiali e sentimentali-emozionali, come terre, immobili, strumenti e oggetti di valore, o amicizia, amore, autorevolezza e onore; il potere consiste nel possesso di persone e di animali, cioè nell’autorità, conquistata o ricevuta, sulla loro volontà e sui loro beni. Nella storia umana il potere si è mostrato sia nella sua nudità sia in diversi travestimenti: la schiavitù è un esempio di potere nudo; il rapporto di dipendenza lavorativa è un esempio di potere travestito, in tal caso da utilità o da beneficio sociali; le relazioni familiari sono un esempio di potere travestito dall’emozione e dal sentimento.

La radice del termine “potere” è “pa/po”, che significa “dominare, proteggere”: da cui il latino “pater”, “padre, signore della casa”, o “compos”, “padrone”; e da cui il greco “pósis”, “marito, signore della moglie”, o “despótēs”, “sovrano, signore della città”. Affine è la radice del termine “possedere”: o “por”, “pos” per assimilazione, “sopra, presso, contro” (da cui il termine “porre”), più il verbo “sedere”, o, come sopra, “pa/po” più lo stesso verbo “sedere”; dunque, o “sedere sopra” o “sedere da padrone”.



L’esistenza delle donne e degli uomini, infatti, come di molti animali, è potere e possesso: cioè, dominio degli individui sugli altri individui e anche sulle altre specie; oppure, sedere sopra il necessario a vivere o, addirittura, sopra l’abbondanza e il lusso, così come sedere da padrone nelle situazioni. Ciò produce inevitabilmente contrasto, contrapposizione e conflitto. Per due ragioni. Innanzitutto, perché la possibilità e la potenza di un individuo si compie sempre contro altri individui: la nutrizione, ad esempio, non consiste in altro se non nell’uccisione e nell’incorporazione da parte di un essere vivente di altri esseri, viventi o inorganici, come minerali, vegetali o animali; e gli affetti non consistono in altro se non nella disponibilità, nel senso di possesso e di possibilità di uso e di godimento, da parte di un essere vivente di un altro essere vivente, da cui si finisce per pretendere attenzioni, forza ed energia. Mentre l’impotenza e l’impossibilità di un individuo lo espongono sempre all’attacco di altri individui: ad esempio, la denutrizione, con il conseguente indebolimento, di un essere vivente lo rendono più vulnerabile all’attacco di altri esseri, inorganici o viventi, come predatori, batteri o inquinanti; e gli affetti rendono gli esseri viventi disponibili, nella speranza del contraccambio, a cedere attenzioni, forza ed energia ad altri esseri viventi. Si è potenti, insomma, sempre a danno di qualcuno o di qualcosa; mentre si è impotenti sempre a vantaggio di qualcosa o di qualcuno. Mai in maniera neutrale. Poi, perché la potenza e la possibilità si trasformano continuamente in desideri, ambizioni e voglie incontentabili; mentre l’impotenza e l’impossibilità in continui timori, trepidazioni e terrori di perdere ciò che si è preso. E ciò non causa stasi, cioè pace, ma instancabili contrasti, contrapposizioni e conflitti.

Bene individuale, bene di comunità
Per tentare di superare o almeno di alleviare questo stato di conflitto e di timore, le donne e gli uomini hanno concepito lo Stato. O meglio, essi hanno capito che il riunirsi in gruppi o comunità, oltrepassando l’individualità, avrebbe consentito loro di difendersi con più efficacia dall’impotenza e dall’impossibilità e di conquistare con più facilità la potenza e la possibilità. Ovviamente, a patto di imparare a condividere i vantaggi della nuova condizione con gli altri individui del gruppo. E, soprattutto, a patto di imparare la differenza tra il potere e la ricchezza, da una parte, e, dall’altra, il benessere. Il potere e la ricchezza, infatti, implicano egoismo, ingiustizia e violenza e interessano l’individuo o, al massimo, dei gruppi ristretti che potrebbero essere coperti semanticamente, ma solo in parte, dai termini stranieri “elites” o “lobbies” o, ancora meglio, dal termine italiano “potentati”; mentre il benessere implica condivisione, giustizia e solidarietà e riguarda la comunità nella sua interezza e integrità. L’individuo e il potentato perseguono naturalmente il proprio bene, nel senso di vantaggio, utile, tornaconto, persino in opposizione e a danno della stessa comunità. Quindi, il potere e la ricchezza possono anche essere definiti come beni individuali e di potentato; mentre il benessere come bene di comunità. Il bene di comunità, invece, consiste in quei possedimenti, strutture e servizi di proprietà e allestimento comuni che la comunità stessa, attraverso le sue istituzioni, mette a disposizione dei singoli secondo regole e leggi: come il territorio, l’ambiente e le loro ricchezze; come gli ospedali, le scuole, le strade e ogni infrastruttura; come la tutela dell’incolumità, della felicità, delle aspirazioni di ognuno, ecc… Il singolo può contribuire al bene di comunità in due modi: con le tasse e con il comportamento. Con le prime egli cede le proprie ricchezze che, moltiplicate per tutti i contribuenti, gli ritorneranno indietro, enormemente accresciute, in beni che altrimenti non si potrebbe permettere: ad esempio, basti considerare il costo, insolvibile per il singolo, di beni necessari come un parco, un ospedale o una stazione di polizia. Con il secondo, invece, egli cede il suo potere: infatti, il rispetto, la dedizione, la solidarietà che il singolo rivolge agli altri e alle cose di tutti, magari a discapito delle proprie cose e di sé stesso, ritorneranno indietro, ancora moltiplicati, in benefici di nuovo enormemente accresciuti.
Quest’ultimo, forse, rappresenta un concetto di difficile comprensione, alla cui esemplificazione, però, potrebbe essere d’aiuto la condizione estrema delle terre di mafia a paragone di quella dei paesi più solidi e solidali: i trilioni di euro e il comando del mafioso, in terra di mafia, sono come (amo ripetere questo paragone) borracce piene d’oro, e non di acqua, in mezzo al deserto; mentre i mille euro in un paese dove i servizi funzionino, l’ambiente sia accogliente e ci sia la solidarietà fra le persone fanno infinitamente di più la felicità. Dunque, il bene di comunità, cioè il benessere, è inversamente proporzionale al bene individuale o di potentato, cioè al potere e alla ricchezza: più questo diminuisce e deperisce più quello si rafforza e aumenta, e viceversa. Ciò perché la comunità è stata concepita proprio in opposizione all’individuo e al potentato. In altre parole, ogni concentrazione di potere e di ricchezza negli individui o nei potentati mina la robustezza e la stabilità della comunità: perciò, per il bene di questa, quella dovrebbe essere impedita o limitata. A scanso di equivoci, il concetto di bene e di benessere di comunità non è un concetto morale, ispirato dal Bene e dalla bontà, ma un concetto politico, ispirato dalla paura dell’impotenza e dell’impossibilità, e dalla smania di potenza e di possibilità. Ma è comunque un concetto utile a rendere più vivibile il consorzio umano, che altrimenti tenderebbe alla giungla. Tuttavia, la smania di potere e di ricchezza, insieme alla paura di smarrirli, degli individui e dei potentati rimane un tarlo che continuamente corrode e corrompe le fondamenta della comunità, e che occorre neutralizzare con prontezza, se si vuole che l’edificio comune non pericoli o non crolli.

Anche all’interno dello Stato, beninteso, rimane una certa quantità di conflitto fra individui e gruppi ristretti o potentati, e di conseguente incertezza. Anzi, essa è addirittura, oltre che naturale, necessaria al buon progresso di ogni cosa. Ma, proprio grazie alla costituzione dello Stato stesso, il conflitto, di necessità violento ed eslege, è trasformato in competizione, più che altro agonistica e, soprattutto, regolata dalle leggi e dalle regole.

Le donne e gli uomini, però, non sono giunti subito al concepimento e alla costruzione dello Stato, ma sono saliti attraverso livelli intermedi, come la famiglia, il clan e la stirpe. Tali livelli o piani intermedi, poi, non sono scomparsi, ma spesso sono rimasti imprigionati nelle nuove strutture statali, stratificandosi nel tempo, e oggi contribuiscono, al meglio, al sostegno dello Stato stesso, e, al peggio, ne marcano la debolezza strutturale e, addirittura, ne possono causare la rovina. Sono questi piani intermedi, gruppi o comunità di un tempo, a costituire, oggi, i gruppi ristretti o potentati della comunità statale moderna. La famiglia, senza dubbio, ha rappresentato il primo gruppo in cui, in età preistorica, gli individui si sono aggregati. In età storica, le famiglie con antenati comuni si sono aggregate a loro volta in clan, come le gentes che troviamo nel Lazio alla fondazione di Roma; i clan, poi, si sono aggregati in stirpi o popoli, come quelli delle genti germaniche che da sempre hanno premuto ai confini dell’Urbe. Nel Medioevo in Italia, oltre alle famiglie, erano presenti nelle comunità vari potentati, come le consorterie, le corporazioni, a Firenze chiamate anche arti, e le fazioni: le consorterie erano aggregazioni di famiglie nobili, di ceppo identico o anche diverso, che perseguivano gli stessi scopi di dominio, come delle specie di famiglie politiche e militari; le corporazioni erano aggregazioni di individui che svolgevano lo stesso mestiere e che perseguivano gli stessi interessi; e le fazioni erano i partiti politici, fortemente identitari, che conducevano la lotta politica con ogni mezzo, anche violento (infatti, il termine è passato a significare pure “fatto d’arme”). Nel Cinquecento, Seicento e Settecento le famiglie, le consorterie, le corporazioni e le fazioni si sono appannate, lasciando sempre più evidenza ai ceti, cioè ai grandi potentati sociali che, all’interno dello Stato, cominciavano a perseguire, in prime forme di concerto, il proprio utile. Tra le due Rivoluzioni Industriali, nell’Ottocento in tutta Europa, anche a seguito dei nuovi rapporti e delle nuove condizioni del lavoro, oltre che delle teorie marxiste, i ceti si sono evoluti in classi, ovvero in potentati organizzati, strutturati, con idee opposte di comunità, in lotta esplicita fra di loro.
Nel Novecento, infine, e soprattutto in Italia, le classi si sono pian piano sfaldate, divenendo pulviscolo umano tormentato dal soffio di potentati antichi e nuovi.

L’Italia e le sue occasioni perdute
E proprio in ciò consiste la magagna, all’apparenza irriducibile, del Belpaese: nel fatto che qui le persone non sono riuscite a concepire il salto, logico e comportamentale, dal potere e dalla ricchezza al benessere, e dal potentato alla comunità. In Italia lo Stato è stato edificato, ma nessuno lo considera la propria casa e tutti lo abbandonano alla rovina. Tutti si riparano, superstiti di se stessi, fra i ruderi dei potentati. I partiti operano con la logica della fazione. Confindustria e le altre Conf con la logica della corporazione, e troppo spesso, purtroppo, operano così anche i sindacati. Le burocrazie, il funzionariato, la Chiesa, l’Esercito, le forze dell’ordine con la logica della consorteria. La criminalità organizzata con la logica del clan. Un po’ tutti gli italiani con logica familistica. La stessa Monarchia, finché c’è stata, ha operato con logica del tutto familistica: in particolare il re Vittorio Emanuele III, il quale, in nome della casata, ha lasciato tracimare, senza fare a essi da argine, i peggiori difetti del popolo che reggeva, finendone egli stesso travolto. Sulle macerie dello Stato i potentati “prosperano”, in conflitto l’uno contro l’altro, o, al meglio, cercando un perno intorno a cui stare in equilibrio: nella storia dell’Italia unitaria tale perno è stato trovato, prima, nel notabilato liberale, poi in Mussolini, poi nella Democrazia Cristiana, poi nella partitocrazia, poi in Berlusconi, poi nei governi cosiddetti tecnici e, infine, in questa destra neo o post fascista; sempre pronti, i potentati, ad abbattere il perno non più funzionale, per sostituirlo con altri meglio oliati.

Eppure, nella storia italiana non sono mancate le occasioni di costruire uno Stato e una comunità solidi e solidali. Ma, per qualche ragione, esse sono sempre svanite. Passeggiando qua e là fra le epoche e gli eventi, mi vengono in mente due momenti e un uomo. Il primo è il Regno degli Ostrogoti in Italia, tra il 493 e il 553 d. C.: esso, dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, era il regno romano-barbarico più potente, persino più di quello dei Franchi. La Penisola era ancora ricca, di persone, di beni e di cultura. La componente latina e germanica, seppure lentamente, si stavano fondendo in compattezza. Forse, lì avrebbero potuto attecchire le radici di un’Italia diversa, migliore, integra. Ma Giustiniano, imperatore romano del superstite Oriente, decise di riconquistare la culla dell’Impero: la guerra avvampò per diciotto lunghi anni, a dimostrazione della coesione di quel regno e di quelle genti, bruciando città, campagne e, forse, anche un sogno. Il secondo è l’età comunale, tra Duecento e Trecento: allora, gli italiani, dopo i Greci di Solone e di Pericle, riscoprirono il governo largo, cioè la democrazia. Le città d’Italia, di nuovo, traboccavano di persone, di beni e di cultura. Ma nessuna di esse riuscì a spiccare e a radunare intorno a sé le altre in una patria. E nemmeno ci riuscì, e riuscì a formarsi, una classe dirigente: le aristocrazie dei comuni italiani, infatti, provenivano dal denaro, non dalla terra e dalla guerra come quelle dei regni europei, e tendevano agli affari e all’intrigo, piuttosto che all’onore. L’uomo è Garibaldi, nell’Ottocento, repubblicano che per necessità si fece spada del re. Forse, se ci fosse stata tanta lungimiranza e, insieme, tanta umiltà da parte del Regno Sabaudo da affidare a lui, al suo coraggio e al suo genio militare le guerre d’indipendenza, magari gli italiani, insieme all’Italia, sarebbero stati forgiati nell’epopea, e non pasticciati nel rocambolesco. E magari, così, essi avrebbero avuto qualche gloria a pretesto per amare il loro paese. Ma, probabilmente, questa è solo una utopia.

da - https://www.micromega.net/gli-italiani-il-bene-individuale-e-il-bene-di-comunita/

« Ultima modifica: Dicembre 26, 2022, 07:34:47 pm da Arlecchino » Registrato

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« Risposta #7 inserito:: Dicembre 30, 2022, 05:45:38 pm »

Maria Farina -- 4 p1ohmcmsl02o61tr2ed  ·

 La vera storia del Memento Audere Semper > Ricordati di osare sempre

Motto creato da G. D'Annunzio come personale interpretazione della sigla MAS dei motoscafi armati per la caccia ai sommergibili

D’annunzio propose il motto ”Motus Animatsi chiamava così dalle iniziali Spes” , poi conia il famoso “Memento Audere Semper”.

Il M.A.S. si chiamava così dalle iniziali ”Motoscafo Anti Sommergibile”.

 Ci sono due errori che ritengo valga la pena di rettificare, e due nomi da ricordare. L’ inventore dei M.A.S., ing. Attilio Bisio, direttore del cantiere S.V.A.N. (Società Veneziana Automobili Nautiche) di Venezia, con le iniziali M.A.S. intendeva dire motoscafo armato silurante, perché il motoscafo aveva un cannoncino da 47, due mitragliatrici COLT e due siluri.

Successivamente, avendo avuto in dotazione bombe antisommergibili, (e Rizzo ne ha assai opportunamente usato un paio a Premuda), è prevalsa questa ultima qualifica.
Negli ultimi mesi del 1915, dopo averne segnata la costruzione nel cantiere SVAN, ebbi il comando del Massa numero 1 che mantenne per quasi due anni.
Pregare il mio fraterno amico avv. Ugo Scandiani di Venezia, valente avvocato, notevole latinista e valoroso ufficiale degli Alpini, di dettarmi un motto latino con le iniziali M.A.S.
Conservo ancora il foglietto nel quale ne scrisse almeno otto. Scelsi “Motum Animat Spes” (non motus!) – la speranza anima il (mio) movimento – che scrissi su una tavoletta posta davanti alla ruota del timone.

Ebbi successivamente all’inizio del 1918 il comando del MAS 96, che fu prescelto dal comandante Costanzo Ciano, con i MAS 95 E 94 per la spedizione di Buccari.
Sul mio MAS 96 si imbarcò lo Stato maggiore: Ciano, Rizzo, D’Annunzio.
Io ho fatto il timoniere per 22 ore di fila. Davanti alla ruota del timone avevo incastrato la fedele tavoletta col motto latino di Scandiani. Durante la navigazione l’ho fatto leggere al poeta soldato, curioso di sentire il giudizio, che fu però negativo. Apprezzo il buon mattino, ma trovo il motto non adatto “alle nostre macchine da guerra che non conoscono speranza, Ma solo ardimento e disprezzo del pericolo”. Osai dirgli allora:” nessuno meglio di lei, comandante può dettarne uno migliore” rimasto un po’ soprappensiero, poi mi disse: “dovresti scrivere invece: Memento Audere Semper – ricordati di osare sempre”.
Non ho mai perso tempo. Ho staccato la tavoletta, Ed in “belle maiuscole” come ha poi scritto D’Annunzio nella “Beffa di Buccari” (che i giovani di adesso dovrebbero leggere), ho scritto per la prima volta il motto diventato giustamente famoso.

A.P. – Dei trenta di Buccari
Fiera di Primerio

P.S. – non desidero vi prego caldamente di non pubblicare il mio nome perché detesto, aborro la pubblicità. A 81 anni suonati mi basta essere noto soltanto ai pochi amici che mi sono rimasti, ed ai pochi compagni ancora superstiti delle nostre imprese del 1915 –’18. Anche il caro amico Scandiani, fervente patriota, è purtroppo scomparso.

Distinti saluti
Tratto da: “LA GRANDE GUERRA” – I servizi speciali della Domenica del Corriere

Da FB 29 dicembre 2021
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« Risposta #8 inserito:: Dicembre 31, 2022, 12:16:48 pm »

LA FALANGE dei BASTA.

È la parte attiva nella società, della: CONFEDERAZIONE GRUPPI DEMOCRATICI INDIPENDENTI.


IDEA, di attività politico-sociale, ancora in formazione, d’ispirazione Democratica, Progressista, Riformista, Europeista e Occidentale.
Lo Studio del come saremo, per fare cosa e con quale Progetto Comunitario, dovrà essere materia elaborata da un Gruppo di Attivisti Differenti, concretamente motivati soltanto dalla volontà di migliorare e correggere le attuali storture che infestano la nostra Società.
Avendo come unico riferimento l’interesse di ogni Singola Persona degna di chiamarsi Cittadina o Cittadino Italiano e i loro problemi irrisolti.
L’obiettivo prioritario, ma non unico, sarà arrivare alla SERENITA’ nella partecipazione ad una Comunità d’ispirazione socialista, ispirata ai fondamenti morali e sociali tradizionali, ma corretti nelle parti obsoleta, colmati nelle carenze, aggiornati e revisionati, per modellarli al futuro.  

ggiannig

« Ultima modifica: Gennaio 01, 2023, 05:51:15 pm da Arlecchino » Registrato

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« Risposta #9 inserito:: Marzo 18, 2023, 05:42:05 pm »

La falange armata in Calabria e in Italia, il network del terrore che pochi conoscono

Paolo Orofino 03 Aprile 2022

Giovanni Spinosa, magistrato, da giudice e pm, durante la sua carriera ha affrontato inchieste delicatissime come quella che portò all’arresto dei componenti della famigerata “banda della Uno bianca” e da presidente del maxiprocesso alla ‘ndrangheta del clan Muto di Cetraro, in provincia di Cosenza. Ha scritto diversi libri e l’ultimo suo lavoro è stato pubblicato pochi giorni fa. Finalmente abbiamo uno strumento per comprendere uno dei peggiori buchi neri della Repubblica. Quello della Falange Armata che ha operato anche in Calabria.

Giudice Spinosa, dal 29 marzo è in libreria il suo nuovo libro, scritto assieme al giornalista Michele Mengoli. Cos’era la Falange Armata di cui il libro racconta la storia mettendo molti brividi a qualunque cittadino lo legga?
“Una rete eversivo-terroristica di “menti raffinatissime”, composta da 50-60 persone – agenti segreti, forze dell’ordine, malviventi, torbidi affaristi – che viene costituita alla fine del 1985 ed è destinata a tessere le trame più nere della Repubblica per quasi un decennio. Inizia a seminare terrore dall’’87. Prende il nome di Falange Armata nel 1990. Quindi, con omicidi, attentati e stragi, comprese quelle del 1992 e 1993, mina le basi della Prima Repubblica stringendo anche un’alleanza con le cosche mafiose. Sono uomini più fedeli alla loro idea di Stato che a quella sancita dalla Costituzione, che hanno voluto imporre al nostro Paese una deriva in chiave plebiscitaria e personalistica refrattaria ai meccanismi di una democrazia basata sulla centralità dei momenti di partecipazione popolare alla formazione del consenso”.

La Calabria è coinvolta nei delitti della Falange Armata in tre occasioni. La prima è l’omicidio del giudice Scopelliti.
“Antonino Scopelliti era il Sostituto Procuratore Generale presso la Cassazione nel maxi-processo istruito da Falcone e Borsellino. Il suo omicidio, avvenuto a Campo Calabro il 9 agosto 1991, potrebbe far pensare a un favore della ‘Ndrangheta a Cosa Nostra. In realtà, nella annuale riunione di ‘Ndrangheta del settembre ’91 alla Madonna dei Polsi, si parla di guerra allo Stato. La Falange Armata, che di questa guerra ha il copyright, nell’agosto del ’91 è nel pieno della seconda fase, quella dedicata alla ricerca di alleanze con gruppi italiani e stranieri. La narrazione falangista svela come l’omicidio Scopelliti sia stato l’atto di adesione della ‘Ndrangheta al progetto eversivo. Infatti, nella rivendicazione del delitto, la Falange Armata ne assume la “paternità politica e morale”, ma non quella “militare””.

C’è poi l’omicidio dell’ispettore Salvatore Aversa e della moglie Lucia Precenzano avvenuto in pieno centro a Lamezia il 4 gennaio 1992, in occasione del primo anniversario della strage del Pilastro a Bologna in cui vennero assassinati 3 carabinieri.
“In effetti, in ossequio alla propria cultura evocativa, la Falange Armata ricorda il delitto del Pilastro nelle prime due rivendicazioni intervenute subito dopo l’eccidio dei coniugi Aversa. Ma la rivendicazione veramente importante è quella del 9 gennaio. Per capirne il significato dobbiamo andare alla notte successiva, quella fra il 5 e il 6 gennaio. A Surbo, in provincia di Lecce, una bomba al tritolo, firmata Sacra Corona Unita, ferma, fortunatamente senza vittime, il treno degli emigranti che tornavano al lavoro in Svizzera e Germania dalle vacanze natalizie. Ebbene, il 9 gennaio, la Falange, con un unicum nei suoi moltissimi comunicati, accomuna l’eccidio dei coniugi Aversa e l’attentato di Surbo nella stessa rivendicazione. Cos’hanno in comune i due delitti? Nelle indagini sull’eccidio di Lamezia, dopo alterne vicende processuali, si individuano i due killer; sono malviventi di Taranto venuti ad uccidere in Calabria. Insomma, killer e bombe della Sacra Corona Unita che, incredibilmente e senza alcuna ragione apparente, la Falange Armata accomuna in una unica rivendicazione”.

Poi ci sono i tre attentati alle pattuglie dei carabinieri in provincia di Reggio Calabria dal 1° dicembre 1993 al 1° febbraio 1994 in cui, il 18 gennaio 1994, vengono assassinati i carabinieri Antonino Fava e Giuseppe Garofalo.
“Siamo nel momento conclusivo della 4° e ultima fase della Falange Armata. È una vicenda complessa squadernata dall’acume e dalla professionalità di investigatori, pubblici ministeri e giudici che hanno operato negli uffici giudiziari di Reggio Calabria. C’è un aspetto che, più di altri, merita di essere ricordato perché pone l’accento sulla unitarietà degli attentati della Falange Armata, dall’11 aprile 1990, quando a Milano viene assassinato Umberto Mormile, al 1° febbraio 1994, data dell’ultimo degli attentati ai carabinieri a Reggio Calabria. Si tratta della singolare assonanza con le vicende della Uno Bianca”.

A proposito di unitarietà, Lei divide le vicende della Falange Armata in quattro fasi; è una sua interpretazione?
“No; è la stessa Falange Armata che, nel comunicato del 27 luglio 1992 con cui rivendica la strage di via D’Amelio, divide la propria attività in varie fasi: la prima, dall’omicidio Mormile all’eccidio dell’armeria a Bologna del 2 maggio 1991, la seconda fino al disarmo del commando falangista che aveva agito in Emilia Romagna avvenuto il 29 agosto 1991, che segna la effettiva fine del periodo terroristico della Uno bianca, la terza, quella della militarizzazione del territorio, che dura fino al 2 febbraio 1993. Quel giorno, un comunicato falangista annuncia la quarta e decisiva fase, che è quella dell’attacco al cuore dello Stato che si conclude con una sorta di “bollettino della vittoria” diramato prima delle elezioni politiche del 27 marzo 1994”.

Qualcuno, in Calabria, si ricorda di lei quando, con alterne fortune, frequentava il circolo scacchistico di Campora San Giovanni. Da scacchista, come giudicherebbe la strategia della Falange Armata.
“Giocatori straordinari, menti raffinatissime in una partita drammatica in cui i pedoni, i cavalli e gli alfieri sono persone innocenti, forze dell’ordine ed eroi borghesi che muoiono davvero. Le torri sono monumenti che vengono effettivamente demoliti, la regina è una Repubblica tradita e il re è un giocatore che abbandona la partita senza nemmeno giocarla”.
(1 Aprile 2022)

Tratto da: 19luglio1992.com

Foto © Emanuele Di Stefano

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« Risposta #10 inserito:: Marzo 18, 2023, 05:51:27 pm »

La falange macedone

Una delle principali ragioni dei grandi successi militari riportati dai Macedoni fu la notevole preparazione e capacità innovativa in campo bellico di Filippo II. Filippo aveva vissuto come ostaggio per otto anni a Tebe e della sua educazione si era occupato Epaminonda, colui che per primo, nella battaglia di Leuttra del 371 a.C., era riuscito a sconfiggere l’esercito spartano. Il sovrano macedone apprese da lui le tecniche di combattimento greche e, a sua volta, perfezionò quel particolare tipo di schieramento di fanti che decretò la supremazia della Macedonia sulla Grecia: la falange macedone (dal greco phàlanx, “rullo”).

Lo schema in cui si disponeva la falange macedone era basato su sedici unità – dette syntàgmata – affiancate tra loro; ogni unità era composta da sedici file di sedici opliti (quindi 256 in tutto) che formavano un blocco compatto. Gli uomini erano protetti da un’armatura pesante e portavano un elmo in bronzo. Ogni soldato era armato di una lancia, chiamata sarìssa, lunga dai 5 ai 6 metri.
Durante la marcia i soldati disponevano le lance in posizione verticale, mentre in battaglia i componenti delle prime file avevano il compito di abbassarle, formando così uno sbarramento impenetrabile alle cariche nemiche. In particolare, le prime sei file di soldati tenevano le sarìsse abbassate rivolte contro il nemico, in modo da opporgli una schiera compatta di punte acuminate; le file seguenti le tenevano rivolte verso l’alto, pronte ad abbassarle e chiudere i vuoti nel caso che soccombessero i soldati che le precedevano.

La superiorità della falange macedone su quella oplitica risultava dunque soprattutto in fase di difesa, perché grazie alla lunghezza delle lance era possibile tenere i nemici a distanza notevole; ma Ciascun fante aveva una lancia, la sarìssa, lunga dai cinque ai sei metri, e uno scudo leggero, di dimensioni ridotte. All’estremità posteriore la lancia era dotata di un contrappeso per renderla più maneggevole, visti il peso e la lunghezza, e di un chiodo per infiggerla nel terreno.
I soldati delle prime file puntavano le lunghe lance contro il nemico creando un’eccezionale forza d’urto. In fase difensiva la muraglia di lance era impenetrabile, in fase offensiva inarrestabile.
I soldati che non erano in prima fila sostituivano i caduti e creavano una cortina protettiva su tutta la falange sollevando le lance a parare la caduta di frecce e giavellotti.
libro più internet la sua forza era notevole anche in fase di attacco, perché le sarìsse permettevano di colpire i nemici in anticipo, prima che potessero reagire.
La formazione a falange era tuttavia per certi versi un po’ rigida e pertanto veniva affiancata da una cavalleria ben addestrata, cui era affidato il compito di proteggerne i fianchi e di attaccare il nemico lateralmente. Il corpo di cavalleria era composto da 8 formazioni di 16 cavalieri per ciascuno dei due fianchi della falange. L’azione coordinata di due tipi di truppe differenti (fanteria e cavalleria), che operavano l’uno in funzione dell’altro come un unico insieme, fu uno dei punti di forza dell’esercito macedone.

Nella battaglia di Cheronea del 338 a.C., ad esempio, all’azione di contenimento svolta dalla falange macedone corrispose l’azione d’attacco e sfondamento delle file nemiche operata dalla cavalleria guidata da Alessandro.
Solo una volta sfondate le linee nemiche, la falange operò in offensiva, per svolgere quella azione di presa del terreno che non poteva essere svolta dalla cavalleria. L’azione della falange era impensabile senza il supporto della cavalleria, e viceversa.

https://www.laterzalibropiuinternet.it/download/tab_online/La_falange_macedone.pdf
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« Risposta #11 inserito:: Aprile 17, 2023, 06:34:05 pm »

Ricevo da ICHINO.

Il Pd pone al centro della propria strategia il ruolo delle strutture pubbliche, ma si oppone a ciò che sarebbe necessario per renderle efficienti
.
Fondo pubblicato l’8 aprile 2023 sulla Gazzetta di Parma – In argomento v. anche Il telefono dell’ente pubblico

.
Dopo essersi vista domenica scorsa addirittura doppiata dalla destra nelle elezioni del Friuli, la sinistra italiana si interroga sulle cause della propria crisi e sui modi per uscirne. Abbiamo un suggerimento da darle.
Essa difende il ruolo delle strutture pubbliche sul presupposto che solo queste siano al servizio del bene comune. Però non si cura della loro efficienza e produttività. Nella nuova Segreteria del Pd annunciata ieri da Elli Schlein non c’è una persona dedicata specificamente alla riforma delle amministrazioni (*).
Il problema è che qualsiasi programma serio in questo campo deve prevedere la responsabilizzazione della dirigenza pubblica in relazione a obiettivi precisi e misurabili; ma per questo occorre che la dirigenza si riappropri delle prerogative manageriali necessarie per responsabilizzare a sua volta le strutture che da essa dipendono. Ora, i sindacati del settore pubblico non gradiscono per niente un siffatto programma. La sinistra è disposta a fare a meno del loro consenso?
La vicenda dei ritardi nell’attuazione del PNRR ha messo in evidenza le inefficienze delle amministrazioni italiane. Non solo nell’adempiere i nuovi compiti affidati loro, soprattutto al sud, ma anche nell’ingaggiare il personale necessario. Gli enti locali, soprattutto al nord, non solo non riescono ad assumere, ma addirittura fanno registrare un calo degli organici cui non sanno reagire. È naturale: sappiamo bene che gli stessi 1.300 euro al mese sufficienti per vivere decentemente in Calabria non lo consentono a Milano o a Parma. Ma è da sinistra che viene il veto a qualsiasi collegamento dei livelli retributivi al livello regionale o locale del costo della vita.
Non è, comunque, solo un problema di quantità: il problema è anche di qualità del personale. I più bravi non vanno a lavorare volentieri nel pubblico, perché lì il merito viene poco valorizzato. Lì vale la regola di uno scambio al ribasso: “ti pago poco e ti chiedo poco”.
Forse, per tornare a crescere, la sinistra italiana deve superare questa contraddizione: essa non può essere al contempo la paladina del settore pubblico e la paladina del sistema attuale di gestione del personale nel settore pubblico.
_________________
(*) Nella nuova Segreteria la materia delle amministrazioni pubbliche è stata assegnata a Stefania Bonaldi insieme a quella delle libere professioni e a quella dell’innovazione tecnologica.

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« Risposta #12 inserito:: Aprile 17, 2023, 06:41:57 pm »

""LA FALANGE, DOPO BASTA"", Tutta da formare!

GRUPPI DEMOCRATICI AUTONOMI, Confederazione tutta da comporre.

Questa mia proposta necessita della partecipazione di persone che, percepito e colto lo scopo della NOSTRA formazione, ne discutano i preliminari formativi e inizino ad operare nei diversi strati sociali e diverse categorie del territorio.
Regione per Regione.
Possibilmente iniziando dalle "Terre di Rango", democratico, superiore.
Poi verrà il resto.
ggiannig ciaooo
CONTATTI unicamente a mezzo mio – ggianni41@gmail.com
Italia - 22 marzo 2023.

---
LA FALANGE "DOPO BASTA".
È la parte attiva nel Territorio Sociale, dei:
GRUPPI DEMOCRATICI AUTONOMI.
Futura CONFEDERAZIONE
Una IDEA, d'origine Ulivista, di attività politico-sociale, ancora in formazione, Democratica, Progressista, da definire come e quanto - Riformista, Europeista e Occidentale.
Lo Studio del come saremo, per fare cosa e con quale Progetto Comunitario, dovrà essere materia elaborata da un Gruppo di Attivisti Differenti, non necessariamente iscritti a Partiti di Centro & Sinistra, concretamente motivati dalla volontà di migliorare e correggere le attuali storture che infestano la nostra Società.
Come unico riferimento l’interesse per ogni Singola Persona, degna di chiamarsi Cittadina o Cittadino Italiani ai loro problemi irrisolti.
L’obiettivo prioritario, ma non unico, sarà arrivare alla SERENITA’ nella partecipazione ad una Comunità Nazionale.
Una Società ispirata ai fondamenti morali e sociali tradizionali di una Democrazia, ma corretti nelle parti obsolete, colmati nelle carenze, aggiornati e revisionati sostanziosamente, per modellarli per la Democrazia Completa del futuro.
ggiannig
Italia – 31/12/2022.
Aggiornata il 4 marzo 2023.

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« Risposta #13 inserito:: Aprile 24, 2023, 06:36:09 pm »

Da oggi LA FALANGE dell'Ulivo Selvatico

È la parte attiva nel Territorio e nel Sociale, dei: GRUPPI DEMOCRATICI INDIPENDENTI.

Futura CONFEDERAZIONE

ggiannig

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« Risposta #14 inserito:: Maggio 18, 2023, 05:39:51 pm »

DEMOCRATICI  INDIPENDENTI e LA FALANGE dell’Ulivo Selvatico.

Questo Gruppo Tematico é stato nascosto, in Facebook, dall'elenco dei miei Gruppi Tematici.

Lo scrivo rassegnato, ai metodi coercitivi del regime Fb, ma non disarmato.

ciaooo

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