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Autore Discussione: L'Ucraina, la persecuzione, la resistenza: le cose che qualcuno sapeva.  (Letto 1155 volte)
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« inserito:: Novembre 03, 2022, 11:27:04 am »

Giuseppe Ravera
Adriano Sofri

L'Ucraina, la persecuzione, la resistenza: le cose che qualcuno sapeva.

Andrea Graziosi (Roma, 1954) è uno dei più importanti studiosi internazionali della storia sovietica e in particolare dell’Ucraina nel Novecento. Il suo nome e la sua faccia sono diventati familiari al grande pubblico: un buon effetto collaterale della guerra. C’è una questione tormentosa per tutti noi: dell’Holodomor, il genocidio di milioni di ucraini nella Grande Carestia, o non abbiamo saputo, o, che forse è peggio, abbiamo saputo ma senza capire e sentire, e senza trarne conseguenze. Graziosi racconta un episodio esemplare. Alla fine degli anni ’80 trovò i rapporti segreti dei diplomatici italiani in Urss sulla carestia ucraina (e di altre regioni) del 1932-1933. Erano testi così forti – destinati a restare segreti, e a essere letti da Mussolini - che per un po’ li tenne fermi, poi ne curò un’edizione accademica in francese. Nel 1990 decise di proporli a Einaudi. Dagli storici della casa editrice venne un rifiuto fermissimo. “Una sera raccontai a Vittorio Foa la storia, credo al ristorante kosher vicino a Piazza Vittorio dove andavamo allora, e c’era anche Natalia Ginzburg, che mi chiese di farglieli leggere. Mi chiamò due giorni dopo dicendo che quelli erano matti, e che li avrebbe pubblicati lei negli Struzzi dove non potevano dirle di no. Le Lettere finirono così per uscire in una collana di letteratura e non di storia, e furono per questo più lette (anche se non troppo...)”. Erano le “Lettere da Kharkov: La carestia in Ucraina e nel Caucaso del Nord nei rapporti dei diplomatici italiani. 1932-33”, Torino, 1991. Sono state ripubblicate quest’anno in appendice alla riedizione de “La grande guerra contadina in Urss. 1918-1933”, Officina Libraria. E’ anche a quella lettura che si deve la conoscenza sconvolgente di almeno un dettaglio: il “cannibalismo” suscitato fra quei milioni di contadini affamati a morte da una carestia deliberata per annientarne la renitenza alla collettivizzazione forzata e l’attaccamento nazionale.
Ora è uscito un altro libro di Graziosi, intitolato a “L’Ucraina e Putin tra storia e ideologia” (per Laterza, pp.200, ill.,16 euro). Rifonde e aggiorna scritti e lezioni di tempi diversi, infittiti da quando il tema ha rotto gli argini e si è imposto come lo spartiacque fra due epoche della storia d’Europa – almeno. Autore ed editore hanno ignorato l’obiezione che viene dalla mutevolezza dell’oggetto. Chiuso alla fine di agosto, il testo ignora per esempio una svolta come la controffensiva ucraina nella regione di Kharkiv: l’Ucraina, che aveva sorprendentemente mostrato nei primi giorni di poter resistere all’invasione, mostrava ora di poter vincere sul campo. Ma l’evoluzione drammatica della guerra è affare della cronaca quotidiana, la quale non riesce a dar conto della posta in gioco. Farò una cosa indebita senza chiedere permesso: una specie di antologia parziale e ricucita di notizie e pensieri del libro, a scapito di altre parti che lascio ai lettori.
L’indipendenza dell’Ucraina, voluta dal già comunista Leonid Kravchuk, primo presidente, votata dal parlamento ucraino e poi, il 5 dicembre 1991, dalla stragrande maggioranza degli elettori insieme alla secessione dall’Urss, fu la fatidica premessa della dissoluzione dell’Urss, firmata il 9 dicembre a Belaveža da Kravchuk, Eltsin, e il presidente della Bielorussia a sua volta indipendente dal settembre, Šuškevič.
L’Ucraina era stata anche all’origine della guerra civile dopo l’Ottobre bolscevico del 1917. Dopo la rivoluzione democratica del febbraio, la Rada di Kyiv rivendicò ampia autonomia nel governo dei territori a maggioranza etnolinguistica ucraina. Proprio la concessione di questa autonomia avrebbe provocato a luglio la crisi del governo di Pietrogrado e scatenato il primo tentativo bolscevico di conquistare il potere. Di fronte al successo di ottobre la Rada, anch’essa dominata da forze socialiste, dichiarò l’indipendenza e chiese di negoziare un patto tra eguali. Lenin e Stalin risposero con l’invasione. La guerra civile russa cominciò così nel dicembre 1917 con l’aggressione della Repubblica socialista russa alla Repubblica socialista ucraina: il primo conflitto iniziato dal nuovo potere bolscevico, come denunciò il leader del Bund, il partito socialista ebraico. L’Ucraina fu invasa “da forze straniere che si diedero a fucilazioni e massacri, per esempio di giovani ginnasiali nazionalisti”.
Lenin si convinse che non era possibile vincere senza riconoscere l’identità ucraina. In una lettera segreta di fine 1919 raccomandava: “la più grande attenzione nei riguardi delle tradizioni nazionali, la più stretta osservanza della pari dignità della lingua e della cultura ucraina ecc.; ...lanciare una campagna di propaganda per la completa fusione dell’Ucraina con la Russia (in maniera velata); per il momento creare una Repubblica Sovietica Ucraina strettamente federata a quella russa; non affrettarsi a estrarre surplus dall’Ucraina per la Russia; trattare gli ebrei (dirlo educatamente), la piccola borghesia ebraica e gli abitanti urbani dell’Ucraina in maggioranza russi con il guanto di ferro, trasferendoli al fronte e non permettendogli l’accesso agli uffici pubblici...”.
Subito dopo la Rivoluzione russa del 1905 l’Accademia delle scienze aveva riconosciuto lo stato di lingua all’ucraino. Ma tanto la lingua, che comunque non venne introdotta nei corsi scolastici, quanto il movimento nazionale, ebbero poco tempo per svilupparsi, prima della guerra. Dopo il 1923, la guerra civile e le decisioni di Lenin su come controllare l’Ucraina sconfitta, consentirono un forte sviluppo della cultura ucraina, che non era ancora stata ridotta, come dopo la Seconda guerra, al bilinguismo. Per questo sviluppo pericoloso, connesso con la resistenza contadina alla collettivizzazione, nell’estate del 1932 Stalin decise di assestare alla Repubblica ucraina il doppio colpo di una carestia sterminatrice e dell’eliminazione sistematica della sua élite.
E la Crimea, quella che oggi si descrive come da sempre russa? La seconda guerra l’aveva quasi svuotata, dopo le purghe del 1937-38 contro le comunità greche e persino italiane, cui si aggiunsero lo sterminio nazista degli ebrei, la fuga dei vecchi coloni mennoniti coi tedeschi in ritirata, e la deportazione dei tatari nel 1944, decisa da Stalin per punirli collettivamente del sostegno offerto da alcuni ai tedeschi. Alla fine della guerra, dopo aver ricevuto dal Comitato antifascista ebraico la richiesta di costruire nella penisola una Repubblica autonoma ebraica, trasferendovi i sopravvissuti all’Olocausto, richiesta che affrettò la decisione di liquidare il Comitato e i suoi leader, Stalin ripopolò la Crimea con coloni russi che perciò nel 1954, quando arrivò la cessione all’Ucraina, costituivano il 75% dei suoi abitanti.
Quel primo presidente Kravchuk (è morto nel 2022) “avrebbe poi confessato di essersi convinto della necessità di staccarsi da Mosca leggendo negli anni ’80 i documenti sulla grande carestia del 1932-1933”: l’Ucraina aveva subito un deliberato sterminio. Il ritardo nel recupero di quella memoria è appena meno impressionante se lo si paragona con quello nei confronti della memoria della Shoah. Anche Yushchenko si impegnò a fare dell’Holodomor il fondamento della legittimazione del paese.
Con l’indipendenza la cittadinanza fu concessa a tutti i residenti, compresi quelli che si dichiaravano di nazionalità russa. Etnicità, lingua e religione in Ucraina non coincidevano. Per questo è difficile ricorrere alla lingua d’uso per farsi un’idea affidabile della questione nazionale nell’Ucraina post-sovietica. Nell’ultimo censimento sovietico dell’89, ancora su base etnica, gli ucraini con circa 37 milioni rappresentavano il 75% della popolazione, seguiti da russi, circa 11 milioni, pari al 21%, ebrei 500.000, bielorussi 440.000, e altri. Dal punto di vista linguistico la popolazione si divideva in tre e non due grandi gruppi etno-linguistici: gli ucraini ucrainofoni 40%, quelli russofoni 34%, e i russi naturalmente russofoni al 21%. Il gruppo decisivo era quindi evidentemente il secondo. Putin ignora che le lingue veicolari spesso cessano di essere strumenti identitari: malinteso che gli ha fatto vedere nei russofoni che rifiutavano la madre Russia altrettanti traditori da raddrizzare o liquidare.
Poroshenko dedicò la Presidenza (2014-2019) alla conferma di un orientamento occidentale. I provvedimenti maldestri, anche perché facilitavano la propaganda putiniana, sulla repressione dei russi e del russo, erano in realtà blandi. Soprattutto non abbandonarono il perseguimento di un ideale civico di cittadinanza, come dimostrò nel 2016 la nomina a primo ministro di Volodymyr Hrojsman, l’ex-sindaco di Vinnycia di origine ebraica.

I rapporti fra l’Ucraina e i paesi anglosassoni di emigrazione, nonché con l’UE, hanno due componenti essenziali: una forte diaspora, portatrice di valori liberaldemocratici nutriti dalla lotta per il riconoscimento dell’Holodomor, e la nuova emigrazione ucraina verso l’UE - un milione e più in Polonia prima della guerra, e centinaia di migliaia in Italia Francia Germania. L’Ucraina è così tra i pochi paesi dove sia possibile fare un confronto diretto di massa tra la vita e il lavoro in Russia e nell’Unione Europea.
L’identità ucraina aveva due possibili opzioni. La prima costituita dalla grande tragedia nazionale della carestia sterminatrice del 1932-33. La seconda rappresentata dalla accanita resistenza opposta dall’Ucraina occidentale già asburgica e polacca, all’occupazione sovietica del 1944. Il suo movimento partigiano è stato forse il più compatto e duraturo dell’Europa del XX secolo. Grazie all’appoggio contadino, esso riuscì a sostenere la lotta armata fino al 1950 circa. A renderla inutilizzabile era l’ideologia: un esasperato nazionalismo che aveva causato rovina nella storia europea e mal si attagliava al contesto culturale in cui il nuovo Stato cercava di inserirsi. Non stupisce quindi che malgrado i tentativi ripetuti di elevare Stepan Bandera e quella resistenza a simboli dell’Ucraina indipendente, alla fine la scelta sia caduta sull’Holodomor. Ad esso il nuovo Stato ha dedicato il suo più importante monumento, e su di esso si è costruito già negli anni ’90, ma soprattutto a partire dal 2004, il suo discorso di identificazione. Ma scegliere come simbolo della nuova Ucraina un genocidio (e per Graziosi che scrive lo è stato senza dubbio) voleva dire anche riorientarla: non più un paese che si allineava alla tragica esperienza europea del nazionalismo integrale, ma piuttosto un paese che si presentava come vittima del crimine più efferato contro un popolo. Un paese che quindi guardava alle altre vittime di genocidi come a fratelli, fossero essi ebrei, armeni o tatari: anche qui affonda le sue radici la possibilità di scegliere un primo ministro di origine ebraica e poi di votare in massa per un presidente come Zelensky.
Benché il paragone fra la Russia degli anni ’90 e la Germania degli anni ’20 sia del tutto infondato, parte dei gruppi dirigenti russi si convinse di un’umiliazione che era solo nelle loro menti. Le idee contano: così il sogno di un nuovo Mondo Russo di Putin - anche i malvagi, infatti, non sono sempre cinici. Parlando della più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo Putin dimenticò che Washington aveva provato fino all’ultimo a salvare l’Unione sovietica e che la Russia di Eltsin, di cui era l’erede, aveva invece giocato un ruolo cruciale nella sua dissoluzione. Alla Russia non fu imposta alcuna riparazione e non fu tolto alcun territorio. Venne ammessa nel club dei grandi, nel 1997 il G7 fu ribattezzato G8, e al suo esercito non fu imposto alcun tetto. Quanto alle proteste di Putin sull’espansione della NATO, nel 1994 la Russia ricevette, grazie al sostegno americano, le circa 4000 testate nucleari ucraine, oltre a quelle kazake, in cambio delle quali si impegnò a garantire i confini della Repubblica sorella. La storia è cruciale perché indica quali fossero i sentimenti filo-russi degli Stati Uniti negli anni ’90, rivela la malafede della Mosca odierna, e suscita amarezza in una Kyiv che si fidò allora degli impegni di russi americani e inglesi, i garanti degli accordi di Budapest.
Il pericolo reale è quello costituito dall’Unione Europea e dalla sua cultura, contro cui la Mosca di Putin combatteva da tempo, sostenendo e finanziando i movimenti sovranisti. Putin ha giustificato l’operazione militare speciale anche con la necessità di fermare il genocidio in corso da 8 anni nel Donbass. Nella regione ci sono però dal 2014 centinaia di osservatori Osce e i loro dati parlano chiaro. Le vittime civili, di entrambe le parti, sono state 2084 nel 2014, l’anno della guerra aperta, 954 nel 2015, 112 nel 2016, 117 nel 2017, 55 nel 2018, 27 nel 2019, 26 nel 2020, e 25 nel 2021.
“Bisogna tenere presente quello che l’invasione russa ha messo in evidenza: anche le élite di altri continenti pensano che l’ordine del mondo debba essere riscritto, ancorché non certo da un paese in crisi come la Russia. Una Russia la cui, spero temporanea, perdita per l’Europa è una delle grandi cause della nostra oltre che della sua debolezza.

Soprattutto è sbagliato ragionare solo in base alla dicotomia ‘the West and the rest’, e non solo per la crisi di quel West che malgrado la sua fortunata riapparizione al fianco dell’Ucraina non c’è più nei termini in cui c’era stato. Il futuro dell’occidente che speriamo possa rinascere ancora una volta, vale a dire il futuro della libertà, sta in primo luogo nella nostra capacità di rispettare e riconoscere l’altro da noi, dove la vita oggi pulsa. Per l’Europa, soprattutto nell’Africa subsahariana, con cui bisogna dialogare ponendo fine alla faccia oscura del “mondo bianco”.

da Facebook 1° novembre 2022

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