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« Risposta #195 inserito:: Settembre 07, 2014, 05:14:04 pm » |
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Trasporti Un mese fa l’odissea dei viaggiatori senza bagaglio per un altro sciopero Aerei cancellati, turisti a terra Le cattive abitudini di Fiumicino Nuovi disagi per l’agitazione dei controllori di volo. L’aeroporto romano è il volto del Paese per milioni di persone che vengono in Italia di SERGIO RIZZO Succede anche nelle migliori famiglie. «Caos nei cieli d’Europa per sciopero controllori Francia», titolava l’Ansa il 25 giugno scorso. E anche allora disagi negli aeroporti di tutta Europa, centinaia di voli cancellati, proteste delle compagnie. Succede, da che esiste l’aviazione civile. I meno giovani ricorderanno come per stroncare lo sciopero degli uomini radar che aveva messo in ginocchio gli Stati Uniti il presidente Ronald Reagan ne licenziò d’un colpo decine di migliaia. Succede. Ma quello che è accaduto in Francia due mesi e mezzo fa, con ripercussioni economiche ben maggiori, non è minimamente paragonabile agli effetti dello sciopero indetto ieri da un paio di sigle sindacali dei nostri controllori di volo. Loro sono la Francia, e noi l’Italia. A loro si perdona più facilmente un disservizio, una protesta, un ritardo. E poi a Parigi, sciopero o no, si ritorna sempre. Mentre a Roma... Giusto un mese fa era in pieno svolgimento a Fiumicino lo sciopero bianco dei lavoratori dell’handling Alitalia contro gli esuberi previsti per l’acquisizione della compagnia italiana da parte dell’araba Etihad. Migliaia di bagagli di viaggiatori appena arrivati all’aeroporto o in partenza dallo scalo romano rimasero a terra, ammucchiati negli androni e nei magazzini. Per restituirli ai legittimi proprietari, la stragrande maggioranza dei quali (ovviamente) turisti, si caricarono su tir e si spedirono in giro per gli aeroporti italiani ed europei mentre il capo della rivolta, intervistato in forma anonima da Repubblica , prometteva lotta senza quartiere. A oltranza. Si trova in una situazione oggettivamente difficile, quel signore, insieme ai suoi colleghi nella lista degli esuberi. Ma qui non vogliamo entrare nel merito delle motivazioni di quell’agitazione di un mese fa, o dello sciopero degli uomini radar. In entrambi i casi si è trattato di proteste tutto sommato limitate. Tuttavia la domanda alla quale si deve rispondere è: con la reputazione che hanno i nostri servizi pubblici, ci possiamo permettere di avere il principale aeroporto del Paese - e molti altri sparsi per tutta la penisola, visto che ieri sono saltati decine di arrivi e decolli da Venezia a Catania passando per Orio al Serio - che per un motivo e per l’altro funziona a corrente alternata? E proprio nei giorni più delicati per gli spostamenti dei turisti stranieri? Andrebbe ricordato come nel 2013, un anno nel quale il turismo mondiale ha registrato un autentico boom con un aumento delle presenze in Europa del 2,6 per cento, l’Italia abbia subito, unica fra i 28 Paesi dell’Unione, un calo di ben il 4,6 per cento. Il che la dice lunga su come funzionano da noi le cose. Allo sciopero di sabato, dicono i dati, ha aderito appena un controllore di volo su quattro. Di più: la protesta era stata anticipata con un congruo anticipo, a differenza di quella del mese scorso. Ma questo non ha impedito alle compagnie internazionali low cost quali Easyjet e Ryanair di cancellare un numero impressionante di voli. Sappiamo come funziona. Le agitazioni vengono anche utilizzate da certe compagnie per risparmiare tagliando rotte anche quando magari non è necessario. E scaricando la responsabilità sulle proteste: in questo caso, sui soliti italiani incapaci e scansafatiche. Fin troppo facile. Gli effetti di un’agitazione come quella di un mese fa o di sabato vanno però ben oltre le loro semplici conseguenze economiche. Certamente rilevanti, se si pensa che per restituire i bagagli non consegnati ad agosto l’Alitalia ha speso oltre un milione, e che soltanto Ryanair ha annullato ieri 96 voli da e per l’Italia (ma nel complesso, solo a Fiumicino, sono stati 130 quelli cancellati). Perché l’aeroporto Leonardo Da Vinci non è soltanto il principale scalo italiano, ma è la faccia del Paese agli occhi di milioni di persone che vengono in Italia. E non è, diciamo la verità, una gran bella faccia per un Paese che già non è considerato al top dell’efficienza. Oggi lo sciopero dei controllori di volo, mentre i turisti ritornano a casa. Ieri i bagagli che restano a terra, proprio nel giorno in cui l’amministratore delegato della Etihad viene a chiudere l’accordo per comprare la nostra compagnia di bandiera sull’orlo del crac. Tutti i giorni, viaggiatori ignari che arrivano e devono scucire un patrimonio per farsi portare dal taxi in città. O rassegnarsi a prendere un trenino che a tutto assomiglia tranne che a una metropolitana: avvilente, rispetto ad aeroporti come quello di Madrid. Anche se non peggiore rispetto allo stato disastroso del trasporto pubblico urbano di Roma. Ci si può allora lamentare se la storia finisce, com’è finita, sui giornali e sui siti internet stranieri come emblema di tutti peggiori i luoghi comuni sull’Italia? 7 settembre 2014 | 11:08 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/14_settembre_07/aerei-cancellati-turisti-terra-cattive-abitudini-fiumicino-4c75d300-366c-11e4-b5da-50af8bd37951.shtml
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« Risposta #196 inserito:: Settembre 14, 2014, 06:41:30 pm » |
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IL GOVERNO E LE SCELTE ALL’ENI Inchieste, contese e grandi aziende. Il coraggio mancato in quelle nomine Di Sergio Rizzo Quando l’attuale governo decise di avvicendare i vecchi amministratori delegati delle grandi aziende pubbliche, il premier Matteo Renzi parlò fra gli applausi generali di «rinnovamento totale». Una dichiarazione, affermammo nell’occasione, che appariva però seriamente in contrasto almeno con una nomina: quella di Claudio Descalzi al vertice dell’Eni. Per il semplice fatto che l’attuale amministratore delegato della compagnia petrolifera, la più delicata e sensibile fra le imprese di Stato per proiezioni e relazioni internazionali, altro non rappresentava che la continuità integrale con la precedente gestione, durata nove anni, di Paolo Scaroni. Una gestione gravida tanto di profitti miliardari quanto di polemiche su alcune iniziative adottate dal management, e di certe atmosfere che negli anni si erano stratificate intorno al ponte di comando aziendale. A cominciare dalle dispute velenose sui rapporti d’affari sempre più stretti con la Russia di Vladimir Putin, sollevate dalla sinistra causa il sodalizio fra il presidente russo e Silvio Berlusconi, il presidente del Consiglio che per tre volte aveva confermato Scaroni. Per continuare poi con l’inopportuna ma a quanto pare influente onnipresenza, in alcuni momenti decisivi quali le nomine, di personaggi come il «mediatore» Luigi Bisignani, condannato per le vicende della tangente Enimont e autore di un patteggiamento a un anno e sette mesi per lo scandalo della cosiddetta P4. Di fatto, dunque, Descalzi era stato designato da Scaroni, che ancor prima della scelta di Renzi lo aveva indicato come il proprio candidato ideale alla successione. Non conosciamo le ragioni alla base di una decisione che al premier era stata caldamente sconsigliata senza infingimenti da più parti. Forse i tanti rifiuti incassati, primi fra tutti quelli del capo di Vodafone Vittorio Colao e dell’amministratore delegato di Luxottica Andrea Guerra, chissà. Forse qualche strana promessa, vai a sapere. Fra le varie voci circolate in proposito non sono mancate quelle circa un presunto addendum degli accordi fra l’ex sindaco di Firenze e Silvio Berlusconi, che avrebbe riguardato proprio il futuro assetto dell’Eni in chiave di continuità non tanto aziendale quanto scaroniana. Fantasie? E a questo proposito sarebbe anche interessante conoscere fino in fondo quale fosse la posizione dell’azionista, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, al momento della scelta. Di sicuro non poteva essere ritenuta motivazione accettabile la necessità di garantire un passaggio di consegne senza scossoni. Quel principio poteva essere salvaguardato anche in un modo diverso. All’Enel, per esempio, si è scelto un manager interno, ma non indicato dal capo azienda uscente Fulvio Conti. Francesco Starace era considerato un suo oppositore, ma non per questo nemico dell’azienda: anzi. Il ricco serbatoio manageriale dell’Eni non offriva opportunità alternative a Descalzi in grado di assicurare un rinnovamento reale e concreto? Si potrebbe aggiungere che il suo predecessore e sponsor Scaroni era già finito sul registro degli indagati per una vicenda algerina. E che l’Eni si era già trovata a dover affrontare un pesante contenzioso giudiziario in Nigeria, con strascichi finanziari ragguardevoli. Mentre la storiaccia delle tangenti nigeriane per la quale Descalzi si trova sotto inchiesta ora insieme a Bisignani ,come ci hanno raccontato ieri su questo giornale Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella, non era affatto sconosciuta nel momento in cui il governo Renzi aveva deciso le nomine all’Eni, la scorsa primavera. Se n’era addirittura accennato in un’audizione parlamentare e durante l’assemblea della compagnia petrolifera. Non aveva la palla di vetro, il presidente del Consiglio, per poter prevedere che l’amministratore delegato della principale azienda pubblica sarebbe scivolato nel tritacarne. Ne siamo coscienti. Ma se invece di quella singolare continuità con l’epoca precedente si fosse imboccata la strada di un taglio netto con il passato, magari il rischio si sarebbe evitato. E non è un rischio marginale dal punto di vista reputazionale agli occhi degli investitori internazionali, nel caso in cui come qualcuno dice si decidesse davvero di rilanciare le privatizzazioni. Per non parlare di un altro dettaglio. Ricordate quando Scaroni protestò perché il governo aveva chiesto di introdurre negli statuti delle imprese di Stato norme etiche rigidissime, affermando che tali regole non esistevano in nessun Paese del mondo? Renzi commentò: «Ha ragione Scaroni. Ma quelle regole noi siamo contenti di averle». Descalzi è appena stato indagato e la strada per arrivare all’eventuale applicazione di quelle regole è ancora lunghissima. Quelle parole, però, non si può fare a meno di rammentarle: soltanto quattro mesi dopo che erano state pronunciate, senza lontanamente immaginare che si potessero un giorno riferire a qualcuno che in quel momento stava per essere nominato. E pensare che per evitare tutto questo sarebbe bastato un po’ di coraggio in più. Soltanto un po’ di coraggio. 12 settembre 2014 | 09:35 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_settembre_12/inchieste-contese-grandi-aziende-coraggio-mancato-quelle-nomine-0bdb7076-3a49-11e4-8035-a6258e36319b.shtml
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« Risposta #197 inserito:: Ottobre 15, 2014, 04:37:34 pm » |
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Coraggio, tagli senza illusioni La manovra da 30 miliardi con riduzione di imposte per 18 sarà finanziata allargando i cordoni della borsa? O ridimensionando in modo intelligente la spesa pubblica? Di Sergio Rizzo Matteo Renzi dice che «sarà la più grande opera di taglio delle tasse mai tentata». Non possiamo che augurargli (e augurarci) successo. Ma abbiamo il dovere di chiedere chiarezza su certi numeri. La manovra da 30 miliardi con riduzione di imposte per 18 sarà finanziata allargando i cordoni della borsa? O ridimensionando in modo deciso e intelligente la spesa pubblica improduttiva, come sarebbe doveroso? Il sospetto che prevalga la prima ipotesi non può essere scartato. Spiega il premier che la spending review prevede tagli per 16 miliardi. Ed è proprio questo il punto più delicato: si ha la sensazione che dietro a quel numero ci sia ben poco. Alla notizia che Cottarelli avrebbe gettato la spugna, Renzi era rimasto impassibile. Promettendo: «La spending review la faremo anche se lui va via». E aggiungendo: «Abbiamo una strategia». Ma quale fosse non è mai stato chiarito. Il piano che avrebbe dovuto far risparmiare 34 miliardi in tre anni è finito in chissà quale cassetto. Mentre arriva semmai qualche segnale opposto e disarmante. Le famose partecipate, per esempio. Punto qualificante della spending review di Cottarelli era il taglio della pletora di società pubbliche spesso tenute in vita solo per assicurare poltrone a ex politici, amici e sodali. Con il risultato di portarle dalle attuali 8 mila a circa mille, ottenendo risparmi miliardari. Obiettivo sacrosanto condiviso da Renzi in pubbliche dichiarazioni. Intanto però il solito deprecabile andazzo proseguiva. Qualche caso? In agosto la Sogesid, società che nonostante 118 dipendenti nel 2013 ha pagato 380 consulenze spendendo 8,5 milioni e che il governo Monti avrebbe voluto chiudere ritenendola inutile, è stata rianimata e affidata a una vecchia conoscenza: il supercasiniano Marco Staderini. Un mesetto prima l’ex deputato del Pd Pier Fausto Recchia, rimasto senza seggio, era diventato ad di Difesa servizi: spa inventata dall’ex ministro La Russa fra le feroci contestazioni della sinistra. Oggi, magicamente svanite. Sempre in agosto ecco alla presidenza di Mistral Air, compagnia aerea delle Poste di cui si ipotizzò lo scioglimento in Alitalia, un altro ex onorevole pd cessato dal mandato nel 2013: Massimo Zunino. La storia si ripete. E il verso, lo diciamo con amarezza, sembra sempre lo stesso. 14 ottobre 2014 | 07:11 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_14/coraggio-tagli-senza-illusioni-50b08ea4-5360-11e4-a6fc-251c9a76aa3c.shtml
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« Risposta #198 inserito:: Ottobre 16, 2014, 11:28:11 pm » |
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Appalti Cinque anni e zero fondi: il salvavita di Genova appeso a un bando folle Per costruire lo scolmatore che avrebbe evitato la tragedia del 10 ottobre sono state indette ben due gare. Ma l’opera, urgente, non arriverà comunque prima di 1.846 giorni. E sui contributi pende un ricorso del Comune di Salerno Di Sergio Rizzo Segni del destino. Mentre venerdì scorso il Bisagno seminava fango e distruzione a Genova, scadeva il termine per la partecipazione alla nuova gara d’appalto bandita dal Comune per la «galleria scolmatrice». Ossia, il canale capace di assorbire l’acqua in eccesso che si scarica nel torrente in caso di alluvioni. L’opera chiave mai eseguita per mettere in sicurezza quel pezzo di città evitando disastri come quello del 10 ottobre. Ma la lettura di quel secondo bando di gara dice tanto a proposito del peccato originale del sistema degli appalti made in Italy. A cominciare dai tempi. Tre anni ci sono voluti soltanto per arrivare a scrivere il bando di gara. Per quanto riguarda l’opera, si parte con una previsione di durata dei lavori di 1.846 giorni. Cinque anni e un mese per realizzare un tratto di galleria che dovrebbe costare 40 milioni. Per il progetto esecutivo invece sono concessi appena 60 giorni. Il che significa una corsa a perdifiato per definire nei minimi particolari una struttura complessa, che richiede competenze specialistiche non marginali. Se poi qualcosa in un progetto chiuso con tanta fretta non funziona, niente paura. Ci sono sempre le modifiche, le migliorie, le varianti. E in ogni caso c’è sempre il Tar, e poi il Consiglio di Stato, e via così. Un effetto collaterale scontato anche quando nella gara va tutto liscio. Così si finisce spesso per dare la colpa alle lungaggini della giustizia amministrativa. Che ne ha molte, e sono indiscutibili. Ma i ricorsi, come in questa vicenda che ha ben descritto ieri sul Corriere Marco Imarisio, si fanno (e nel 90% dei casi si vincono) perché i bandi sono confezionati male e di conseguenza i progetti non stanno sempre in piedi come dovrebbero. La ragione di tutto questo? Sciatteria, certo. Impreparazione degli uffici tecnici degli enti locali, di sicuro. E in qualche caso forse anche di peggio. Ma la questione di fondo è che in Italia ci sono troppe stazioni appaltanti: con capacità, ovvio, sovente assai discutibili. I soggetti pubblici che possono bandire una gara sono 32 mila. Ovvero, uno ogni 1.875 abitanti. Renzi ha promesso ora che la musica cambierà: il numero sarà drasticamente ridotto. Peccato che il giro di vite sia stato già rinviato al primo luglio del prossimo anno, e il partito degli enti locali stia già lavorando perché anche questa scadenza salti. Il tutto in un dedalo infernale di norme nelle quali districarsi è un’impresa. Il presidente dell’ordine degli architetti di Genova, Natale Raineri, allarga le braccia: «Ci siamo impantanati. Siamo passati dalla Merloni, che con tutti i suoi difetti funzionava, al codice De Lise degli appalti pubblici. Abbiamo una complessità di disposizioni semplicemente pazzesca». Il codice De Lise prende il nome dal suo autore principale: l’ex presidente del Tar del Lazio e del Consiglio di Stato, Pasquale De Lise. Più volte modificato nel corso degli anni, ha 257 articoli. Il regolamento a valle, invece, è composto di circa 600 norme. Un brodo di coltura perfetto anche per illegalità e corruzione, come purtroppo dicono le cronache di qualunque opera pubblica: che in Italia costa più di atti giudiziari che di cemento. Nel caso della nuova gara per la «galleria scolmatrice» del Bisagno c’è poi un ulteriore dettaglio surreale che riguarda i soldi. La voce «Altre informazioni» in fondo al bando precisa che il decreto ministeriale con cui lo Stato ha stanziato 25 dei 40 milioni necessari per fare l’opera «è stato impugnato al Tar del Lazio con ricorso proposto dal Comune di Salerno». La faccenda riguarda la ripartizione di finanziamenti per un totale di 224 milioni distribuiti dal governo di Mario Monti a varie città italiane, operazione dalla quale era stato escluso il capoluogo campano: il cui sindaco Vincenzo De Luca, ironia della sorte, sarebbe diventato viceministro delle infrastrutture nel successivo governo di Enrico Letta. «Pertanto», prosegue il bando, «qualora in esito a tali giudizi il suddetto finanziamento non risultasse più disponibile, si procederà a ritirare il presente bando, ovvero revocare l’affidamento o ancora risolvere il contratto senza che i concorrenti, o l’affidatario, abbiano nulla a che pretendere». Traduzione: se il Tar dà ragione a Salerno, allora abbiamo scherzato. E dopo il Tar c’è sempre il Consiglio di Stato e poi magari di nuovo il Tar e chissà, forse anche la Corte costituzionale. Ma si può scrivere un bando così? I soldi ci sono, ma forse no... E non è tutto qui. Perché a questo contenzioso amministrativo potrebbero in futuro sommarsi anche nuovi ricorsi per la nuova gara. Generando un micidiale cortocircuito giudiziario. In un Paese normale, penserete, di fronte a un’opera così urgente, quando c’è di mezzo l’incolumità pubblica, un’amministrazione se ne potrebbe anche infischiare dei giudizi del Tar. Poi si tratterà magari di risarcire il ricorrente che ha vinto, come succede in altri Paesi. Soluzione perfetta, se non fosse per il seguente particolare. In base alle norme vigenti un amministratore responsabile di una simile scelta, nel caso in cui la giustizia decida a favore di chi ha presentato il ricorso, rischia di essere chiamato dalla Corte dei conti a rispondere di danno erariale, con il proprio patrimonio. 15 ottobre 2014 | 10:40 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_ottobre_15/cinque-anni-zero-fondi-salvavita-genova-appeso-un-bando-folle-9577806e-5438-11e4-ac5b-a95e1580fe8e.shtml
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« Risposta #199 inserito:: Ottobre 19, 2014, 05:18:57 pm » |
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Spese e sprechi delle Regioni Non è un delitto tagliare del 2% Di Sergio Rizzo Facciamo davvero fatica, e tanta, a comprendere il lamento delle Regioni dopo che il governo di Matteo Renzi ha chiesto loro di tagliare 4 miliardi. Il sacrificio equivale a circa il 2 per cento di una spesa pubblica regionale che da quando nel 2001 è stato approvato il nuovo Titolo V della Costituzione è andata letteralmente in orbita. In un solo decennio la crescita reale, depurata cioè dell’inflazione, è stata di oltre il 45 per cento. Con una qualità dei servizi che certo non ha seguito lo stesso andamento. I presidenti delle Regioni minacciano ripercussioni sulla Sanità. Argomento cui si ricorre spesso quando viene paventato un giro di vite, nella speranza di conquistare il sostegno dei cittadini. I quali però avrebbero anche diritto di conoscere le cifre. Nel 2000, prima dell’entrata in vigore del famoso Titolo V che ha esteso in modo scriteriato le autonomie regionali, la spesa sanitaria era di poco superiore a 70 miliardi. Nel 2015 ammonterà invece a 112 miliardi. L’aumento monetario è del 60 per cento, che si traduce in un progresso reale del 22 per cento.Si potrà giustamente sostenere che in quindici anni sono cambiate molte cose: la vita media si è allungata e la popolazione è più anziana. Per giunta, la Sanità italiana è considerata fra le migliori d’Europa, al netto delle grandi differenze territoriali al suo interno che si traducono in un abisso del diritto fondamentale alla salute tra il Nord e il Sud: altro effetto inaccettabile del nostro regionalismo.Resta il fatto che nel 2000 la spesa sanitaria pro capite era di 1.215 euro e oggi è di 1.941, con un aumento monetario del 59,7 per cento e reale del 26,7. La differenza di qualità del servizio è tale da giustificarlo? Con un documento di qualche settimana fa il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti ha spiegato che in un anno è riuscito a ridurre di 181 milioni la bolletta sanitaria senza colpo ferire: solo razionalizzando acquisti e spesa farmaceutica. Dal canto suo la Consip, la società statale che gestisce gli acquisti della pubblica amministrazione, ha fatto risparmiare 100 milioni su 320 soltanto con la fornitura centralizzata delle strisce per la misurazione della glicemia, comprate a un prezzo unitario di 19 centesimi mentre prima si andava da un minimo di 45 centesimi a un massimo di un euro e 10. Tanto basta per far capire quanto grasso ci sia ancora nei conti della Sanità. Ma il grasso della Sanità è niente rispetto al resto. Il fatto è che la riforma del Titolo V ha scatenato un terremoto molto più dirompente di quanto non fosse prevedibile a causa della maggiore autonomia concessa alle Regioni. Queste hanno cominciato subito a comportarsi come piccoli Stati indipendenti i cui amministratori, ribattezzati pomposamente «governatori» con la colpevole complicità della stampa, non avevano però il dovere di rispondere agli elettori, visto che i soldi venivano pressoché tutti distribuiti attraverso lo Stato centrale. Una sindrome dagli effetti sconcertanti, come dimostra la costosissima proliferazione di sedi estere, da Bruxelles al Sudamerica alla Cina: come se ogni Regione dovesse avere una sua politica internazionale. Si è arrivati perfino a creare strutture come il Centro estero per l’internazionalizzazione piemontese che ha come obiettivo quello di «rafforzare il made in Piemonte». Mentre la vicina Regione Lombardia lanciava il progetto «made in Lombardy».Le conseguenze sono state nefaste. Al Nord come al Sud. I rigagnoli di spesa si sono moltiplicati, diventando fiumi in piena. Gli organici sono stati gonfiati a dismisura. Sul totale di 78.679 dipendenti regionali (Sanità esclusa), la Confartigianato ha calcolato esuberi teorici del 31 per cento: 24.396 unità. Ipotizzando un risparmio annuo possibile di 2 miliardi e 468 milioni. Il record spetta al Molise, con esuberi teorici del 75,4 per cento, seguito della Valle D’Aosta (71,2). Le cronache offrono casi formidabili. Nella Calabria dove ci sarebbero 1.184 dipendenti di troppo, l’ispettore spedito dal Tesoro, come ha raccontato sul Corriere di Calabria Antonio Ricchio, ha scoperto cose turche. Per esempio 1.969 promozioni in un solo anno (il 2005 delle elezioni regionali) da lui ritenute illegittime, al pari degli aumenti di stipendio retroattivi assegnati a 85 impiegati dei gruppi politici.Nel Lazio, invece, per tutti gli anni Duemila si è registrata un’impennata pazzesca del personale dei parchi: nel 2009 erano 1.271. Di cui 99 dirigenti. Per non parlare delle società controllate e partecipate. La Corte dei conti ha appurato che quelle della sola Regione Siciliana occupano 7.300 persone, con una spesa di un miliardo e 89 milioni nel quadriennio 2009-2012 per le buste paga. Nello stesso periodo la Regione aveva versato nelle loro casse un miliardo e 91 milioni, cifra che secondo i giudici contabili comprende anche «il ricorso reiterato e improprio a interventi di mero soccorso finanziario a società prive di valide prospettive di risanamento». E la politica? I consigli regionali, privati di ogni controllo centrale, hanno rivendicato prerogative pari a quelle del Parlamento nazionale, cominciando dall’autodichìa. Ovvero, l’insindacabilità assoluta su come spendono i soldi. Scandali a parte, è potuto accadere così che il consiglio regionale del Lazio abbia sfornato in meno di 40 anni 40 leggi locali ognuna delle quali ha accresciuto i privilegi retributivi e pensionistici dei consiglieri.Il risultato è che oggi un terzo del bilancio del consiglio laziale se ne va per pagare i vecchi vitalizi. Grazie alle antiche regole mai cambiate c’è pure chi continua a prendere l’assegno a cinquant’anni e dopo una sola seduta.Le Regioni spendono per i vitalizi 173 milioni l’anno. Cifra che sale in continuazione ma che potrebbe essere ridotta di almeno 50 milioni, dice il finora inascoltato rapporto sulla spending review , senza gettare sul lastrico nessuno. Ma su questo, da chi si straccia le vesti per i tagli chiesti dal governo, neppure un sussurro. 18 ottobre 2014 | 07:46 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_18/non-delitto-tagliare-2percento-c94900d8-5687-11e4-ad9c-57a7e1c5a779.shtml
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« Risposta #200 inserito:: Novembre 03, 2014, 05:21:57 pm » |
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Il caso Il nome sul libretto di circolazione? Per 7 righe 65 pagine di spiegazioni L’assurda burocrazia della Motorizzazione per una norma che non è applicabile Di Sergio Rizzo Se esistesse l’Oscar della Burocrazia, non potrebbe mancare fra le nomination 2014 quella di Maurizio Vitelli, architetto, direttore generale della Motorizzazione. In soli tre mesi e mezzo ha sfornato due inarrivabili circolari, per regolamentare l’applicazione di un comma del codice della strada. Lunghezza del comma: sette righe. Lunghezza delle circolari: 65 pagine. Tutto comincia nel 2010, quando nel codice della strada compare una norma che impone l’annotazione sul libretto di circolazione del nominativo di chi, non essendone proprietario né parente convivente, utilizzi il mezzo per un periodo superiore a trenta giorni. Una norma finalizzata a limitare le truffe e ad agevolare l’identificazione dei reali responsabili degli incidenti. Ma che per ora è soltanto riuscita a produrre l’ennesima vertigine kafkiana. La disposizione dovrebbe entrare in vigore già dall’estate del 2010, ma due anni dopo ancora niente. Il 6 dicembre 2012 l’architetto Vitelli scrive alla Polizia stradale comunicando che «le procedure informatiche necessarie al fine della concreta applicazione della nuova disciplina sono in corso di realizzazione» e che dunque è impossibile aggiornare i libretti di circolazione «con conseguente inapplicabilità delle sanzioni». Che sono pure salate: vanno da 705 a 3.526 euro con ritiro del libretto, per sovrappiù. Ma chi crede che nel frattempo gli uffici siano rimasti con le mani in mano si sbaglia di grosso. Perché, «al fine di consentire l’attuazione della predetta norma», spiega la lettera, «si è resa necessaria una modifica del d.p.r. n, 495/1992, adottata con il d.p.r. 28 settembre 2012, n. 198, che ha introdotto l’art. 247-bis, pubblicato sulla G.U. n. 273 del 22 novembre 2012 e in vigore dal 7 dicembre 2012». Nientemeno. Passa ancora un anno e mezzo e finalmente il 10 luglio 2014 ecco la prima monumentale circolare applicativa, che fissa per la partenza del nuovo sistema il giorno 3 novembre. Ovvero, domani. Quarantasette pagine, quindicimila parole e nove allegati, con dentro una gragnuola di nuovi adempimenti e oneri anche economici per le aziende e i privati cittadini. Moduli da compilare, bollettini da pagare, comunicazioni da effettuare tassativamente entro 30 giorni «naturali e consecutivi». Si va dal comodato dei veicoli aziendali fino all’intestazione «di veicoli di proprietà di soggetti incapaci di agire», passando per le «competenze degli studi di consulenza automobilistica» per planare, udite udite, sulla «Locazione senza conducente di veicoli da destinare ai corpi di Polizia Locale». L’intestazione temporanea tocca anche ai vigili urbani. Un autentico capolavoro, nel solco della gloriosa tradizione del vecchio codice della strada, che arrivava a definire per legge le caratteristiche della ruota: «La superficie di rotolamento deve essere cilindrica, senza spigoli, sporgenze o discontinuità». Nemmeno quel diluvio di carta, però, riesce a saziare la fame del burosauro. Così il 27 ottobre ne arriva un’altra, di circolare. Questa volta le pagine sono diciotto, le parole circa seimila e gli allegati «soltanto» due. Ma l’oggetto non ha bisogno di commenti: «Intestazione temporanea di veicoli - circolare prot. N.15513 del 10 luglio 2014 - Chiarimenti applicativi». Cioè, una circolare per chiarire il contenuto di una precedente circolare emanata per chiarire il contenuto di una norma del codice della strada. E non è finita qui. Perché restano ancora fuori dall’applicazione di questa assurda disposizione veicoli come i taxi e gli autotreni, in attesa che la Motorizzazione si decida a definire anche per loro adeguate procedure. Il bello è, fa rilevare la Confartigianato, che per come sono scritte quelle meravigliose circolari, la norma non sarà concretamente applicabile: «Come le autorità accerteranno la violazione dell’obbligo? Semplicemente in nessun modo. Toccherà all’utente dimostrare di non essere l’utilizzatore abituale da oltre trenta giorni di un veicolo che non gli appartiene». Dimostrazione indimostrabile. Se una pattuglia della stradale fermasse uno che si trova al volante di una vettura non sua, e l’agente gli chiedesse se la sta guidando da più di trenta giorni «naturali e consecutivi», quale pensate che sarebbe la risposta? 2 novembre 2014 | 10:00 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/cronache/14_novembre_02/nome-libretto-circolazione-7-righe-65-pagine-spiegazioni-926c8174-626d-11e4-9f8e-083eb8ae3651.shtml
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« Risposta #201 inserito:: Novembre 09, 2014, 11:05:19 am » |
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IL FISCO CHE COMPLICA INVECE DI SEMPLIFICARE Abolizione dello scontrino: l’ennesimo annuncio Di Sergio Rizzo La direttrice dell’agenzia delle Entrate Rossella Orlandi ha annunciato che presto sarà abolito lo scontrino fiscale. I commercianti esulteranno. Le imprese che producono le macchinette per emettere gli scontrini, un po’ meno. I professionisti delle note spese, sulle prime, saranno sconcertati. E molti cittadini che pagano le tasse fino all’ultimo centesimo resteranno invece rabbiosamente interdetti, sospettando che si voglia far sparire l’unico strumento che costringe artigiani e negozianti a compiere il proprio dovere con il Fisco. Niente di tutto questo, ovvio: ci assicurano che è soltanto semplificazione. Dalla carta alla tracciabilità elettronica. Il premier Matteo Renzi non aveva forse promesso di portare l’Italia fuori dal medioevo digitale? Benissimo, allora. Se non fosse che quando il Fisco parla di cambiare le regole, o peggio ancora accenna a qualche semplificazione, vengono i brividi. Non c’è ministro delle Finanze che da quarant’anni a questa parte non abbia annunciato una riforma fiscale. Con il solo risultato di accrescere gli adempimenti, aumentare la burocrazia e far salire dunque i costi per le imprese e i cittadini e per lo Stato. Quante volte sono cambiate le regole fiscali non lo sa nemmeno chi si accanisce a inondarci di norme e circolari. Corre quindi l’obbligo di ricordare i numeri contenuti in uno studio della Confartigianato, secondo cui nei 2292 giorni intercorsi fra il 29 aprile 2008 e l’8 agosto 2014, periodo durante il quale anche il nome dell’attuale direttrice delle Entrate compariva negli organigrammi dei vertici degli apparati fiscali, sono stati emanati 46 provvedimenti contenenti 691 norme di natura tributaria. Della quali ben 418 hanno complicato la vita a cittadini e aziende, contro le 96 che l’hanno semplificata e le 177 che non hanno avuto particolari effetti burocratici. Negli ultimi sei anni e mezzo il Fisco ha sfornato una complicazione alla settimana: lo sa Rossella Orlandi? 8 novembre 2014 | 08:54 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/economia/14_novembre_08/abolizione-scontrino-l-ennesimo-annuncio-47730096-671b-11e4-afa4-2e9916723e38.shtml
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« Risposta #202 inserito:: Novembre 12, 2014, 04:14:49 pm » |
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Spending review: le partecipate resistono e diventano un rifugio di «ex» Tutti gli incarichi dei riciclati nelle società che Cottarelli voleva chiudereIl commissario alla revisione della spesa voleva ridurre da 8 mila a 1.000 le società partecipate. Si illudeva: sono un paracadute per gli esodati della politica Di Sergio Rizzo Dare l’esempio. Magari poteva servire, pensava il commissario alla spending review Carlo Cottarelli. Alle prese con la grana delle società partecipate dal pubblico, ne aveva scoperte 2.671 con più consiglieri che personale. Una l’aveva il Tesoro. Rete autostrade mediterranee, creata dieci anni fa dal governo di Silvio Berlusconi: un dipendente fisso e dieci fra consiglieri e sindaci. Cottarelli ne proponeva la liquidazione, illudendosi. Ecco allora che invece di tirare giù la saracinesca, a fine settembre il governo ha nominato i nuovi vertici. Non più cinque, perché c’è pur sempre la spending review, ma soltanto tre. Non tre qualsiasi. Presidente è Antonio Cancian, detto Toni. Reperto della vecchia Dc per cui venne eletto alla Camera nel 2002, poi deputato europeo del Pdl, quindi passato armi e bagagli nelle schiere di Angelino Alfano, aveva tentato a maggio la riconferma a Strasburgo. Senza successo. Prontamente le larghe intese (versione renziana) gli hanno offerto un minuscolo risarcimento. Cancian guiderà la società con un solo dipendente in organico insieme al vicepresidente (!) Christian Emmola, presidente (renziano) dell’assemblea del Pd trapanese, e alla consigliera Valeria Vaccaro, dirigente del Tesoro e incidentalmente moglie dell’ex braccio destro di Giulio Tremonti, Marco Pinto, attuale consigliere Rai. Per dare l’esempio, appunto. E di storie finite così ce ne sono ancora. Ricordate Arcus, società che distribuisce soldi dei Beni culturali e che il governo Monti voleva seppellire? Resuscitata dal Parlamento prima delle esequie, non si sarebbe salvata una seconda volta se avessero dato retta a Cottarelli. Non l’hanno fatto, e l’amministratore unico Ludovico Ortona, 72 anni, ex ambasciatore e già capo ufficio stampa di Francesco Cossiga al Quirinale è sempre lì: riconfermato. E la Sogesid, società distributrice nel 2013 di 380 consulenze, che sempre il governo Monti voleva sopprimere? Altro che soppressione. Al suo vertice è arrivato il casiniano Marco Staderini, già consigliere delle Ferrovie e della Rai. E Studiare Sviluppo, società di consulenza del Tesoro per cui il commissario ipotizzava analogo destino? Sopravvive alla grande con un consiglio di amministrazione rinnovato. Ma qui almeno la scelta è caduta su tre dirigenti ministeriali. Magra consolazione, in un andazzo generale che sottolinea il contrasto profondo fra i propositi (verbali) di rinnovamento e le azioni concrete. Qualche caso? L’ex direttore generale della Rai nominato da Berlusconi, Mauro Masi, è stato confermato amministratore delegato della Consap, ultimo baluardo pubblico nelle assicurazioni: in aggiunta l’hanno fatto presidente. Con lui è entrato in consiglio il segretario della dalemiana fondazione Italianieuropei Andrea Peruzy, per di più amministratore della Banca del Mezzogiorno di Poste italiane. Gruppo di cui nella scorsa primavera l’ex portavoce di Pier Ferdinando Casini nonché ex deputato Udc Roberto Rao è diventato consigliere. Tre mesi dopo alla presidenza della compagnia aerea delle stesse Poste, la Mistral Air, è sbarcato l’ex onorevole Pd Massimo Zunino. Intanto al vertice di Poste Assicura arrivava Danilo Broggi, oggetto di apprezzamenti politici trasversali: è amministratore delegato dell’Atac, la claudicante azienda di trasporto del Comune di Roma. Fra i consiglieri di Poste Vita è comparsa invece Bianca Maria Martinelli, dirigente delle Poste medesime e candidata senza fortuna alle politiche 2013 per Scelta civica. E se l’ex deputato Pd Pier Fausto Recchia ha conquistato la poltrona di amministratore delegato di Difesa servizi, quella di capo dell’Istituto sviluppo agroalimentare è toccata a Enrico Corali, nominato a suo tempo consigliere dell’Expo 2015 dal dalemiano Filippo Penati. Mentre all’ex commissario della Consob di nomina berlusconiana Paolo Di Benedetto, incidentalmente marito dell’ex ministro della Giustizia Paola Severino, è stato assegnato un posto nel cda del Poligrafico. Per non parlare delle periferie, dove questo schema viene applicato senza soluzione di continuità. Capita così di scorgere fra i nomi dei nuovi consiglieri di Finlombarda quello dell’esponente di Forza Italia Marco Flavio Cirillo: trombato alle politiche del 2013, nominato sottosegretario all’Ambiente nel governo Letta e lasciato a casa da quello di Renzi. Ma anche di veder salire alla presidenza della Fincalabra, finanziaria di una Regione senza governatore e gestita da una reggente in attesa delle elezioni, Luca Mannarino: coordinatore regionale dei Club Forza Silvio. Il seguito, temiamo, alla prossima puntata sui riciclati. 12 novembre 2014 | 08:20 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_12/tutti-incarichi-riciclati-e4fa3146-6a3a-11e4-bebe-52d388825827.shtml
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« Risposta #203 inserito:: Novembre 15, 2014, 05:42:37 pm » |
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Privilegi Vitalizi, quel segnale che arriva dal Lazio Una legge approvata dal consiglio regionale con voto unanime prevede che dal 1° gennaio nessuno potrà incassare vitalizi se non dopo i 65 anni. È il buco nella diga dei «diritti acquisiti» che si credeva compatta Di Sergio Rizzo Nel consiglio regionale del Lazio qualcuno, alle due del mattino di ieri, ha tirato un respiro di sollievo. Olimpia Tarzia, capogruppo della Lista Storace e dunque di se stessa, che ne è l’unico componente (Francesco Storace è anch’egli capogruppo di se stesso, ma a nome del suo partito La Destra) si è augurata che quella legge approvata nottetempo metta la parola fine alle polemiche sui vitalizi dei consiglieri regionali. Un caso che ha assunto nel Lazio i contorni di un autentico scandalo legalizzato, grazie a norme che hanno consentito finora agli ex politici locali di intascare assegni pari a diversi multipli della pensione media dell’Inps avendo versato 5 anni di contributi, ma addirittura con soltanto qualche settimana di mandato alle spalle. E magari a 50 anni d’età. Ora l’andazzo, garantiscono, finirà. La legge passata con il voto unanime di tutto il consiglio, grillini compresi, prevede che dal primo gennaio nessuno potrà più incassare il vitalizio se non dopo aver compiuto 65 anni. I baby ex consiglieri che già lo riscuotono dovranno pagare un contributo di solidarietà ancora più salato per chi di vitalizi ne incassa due (o magari tre) grazie all’assenza di regole che gli stessi beneficiari non hanno mai voluto fare. La svolta era inevitabile. I 272 vitalizi pagati oggi nel Lazio assorbono un terzo del bilancio del consiglio regionale e da qui al 2032 altri 42 ex consiglieri avrebbero beneficiato dell’assegno a 50 anni. Intollerabile. Diciamo subito che siamo ancora lontani da una vera soluzione. Tanto per cominciare, il cumulo dei vitalizi non dovrebbe essere penalizzato, bensì vietato del tutto. Ma di fronte all’ostinazione con cui lor signori hanno difeso fino allo stremo questo sistema, la legge della Regione Lazio ha del miracoloso. Perché è come un buco in una diga che si credeva compatta e infrangibile. Ovvero, la diga dei diritti acquisiti: eretta sempre dai diretti interessati con lo spauracchio dei ricorsi al Tar o alla Consulta ogni volta che si cercava di mettere mano a privilegi inaccettabili per un Paese in crisi nera da sei anni. Non sappiamo se chi oggi si mostra sollevato dall’incubo di ritrovarsi oggetto dell’indignazione popolare abbia fatto mente locale su questo particolare. Ci aspettiamo però che il dettaglio non sfugga al governo e al parlamento. Con la messa in discussione dei diritti acquisiti niente ora impedisce che si faccia una legge nazionale con la quale i trattamenti previdenziali presenti e futuri di tutte le Regioni siano finalmente equiparati. Stabilendo alcuni principi fondamentali. Come appunto il divieto di cumulo dei vitalizi plurimi, e l’incompatibilità fra l’assegno e i redditi da lavoro. Soprattutto quando il datore è pubblico. Conosciamo situazioni di funzionari pubblici che tuttora percepiscono contemporaneamente il vitalizio regionale e lo stipendio magari dalla stessa soggetto che paga loro la pensione politica. Una follia. Ma fermarla sarebbe semplicissimo. Basterebbe per prima cosa estendere ai politici eletti nelle Regioni le regole già introdotte nel 2008 per gli ex parlamentari. Ai quali viene sospesa l’erogazione del vitalizio nel caso in cui abbiano il diritto a una retribuzione pubblica. I casi non mancano. Si potrebbero citare quelli del presidente del Cnel Antonio Marzano, del presidente della Consob Giuseppe Vegas e del commissario dell’Agcom Antonio Martusciello. Del resto non si capisce perché una signora o un signore che non ha ancora raggiunto l’età pensionabile e ha un posto di lavoro debba percepire anche un assegno previdenziale privilegiato. Per quanto riguarda poi l’entità dei vitalizi rispetto ai contributi versati, che in alcuni casi, come quello dei baby ex consiglieri laziali, può anche raggiungere in base all’aspettativa media di vita il rapporto di venti a uno, va ricordata la proposta del team di esperti di Massimo Bordignon, incaricato dall’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli di indagare sui costi della politica. Secondo costoro si potrebbero ricalcolare gli assegni in essere su base contributiva, con un taglio valutato in 50 milioni l’anno sui circa 180 di costo complessivo di tutti i vitalizi regionali. Un risparmio del 28 per cento. Soprattutto, però, un bel guadagno di credibilità per la politica locale. Che ne ha davvero un gran bisogno. 14 novembre 2014 | 09:28 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_novembre_14/vitalizi-quel-segnale-che-arriva-lazio-810bce56-6bd4-11e4-ab58-281778515f3d.shtml
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« Risposta #204 inserito:: Novembre 22, 2014, 06:40:20 pm » |
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Nessuno vuole rinunciare a una quota di trattamenti ormai inaccettabili Gli ex consiglieri regionali: i vitalizi di lusso sono «diritti acquisiti» La battaglia legale contro i tagli parte dalla Lombardia. Ma ovunque sono pronti i ricorsi Buona parte dei costi delle associazioni di ex eletti è sostenuta dalle Regioni Di Sergio Rizzo Al grido «i diritti acquisiti non si toccano!», gli ex consiglieri regionali che ogni mese incassano i vitalizi, hanno dissotterrato l’ascia di guerra. La valanga dei ricorsi per sommergere ogni tentativo di limitare certi trattamenti ormai scandalosi e inaccettabili, per un Paese incapace di crescere e devastato dalla disoccupazione, non si arresta. La slavina è partita dalla Lombardia, dove sono scattati i ricorsi al Tar contro il taglio del 10 per cento degli assegni. Poi il fenomeno si è esteso al Trentino-Alto Adige, dove ben 51 ex consiglieri hanno avviato una battaglia giudiziaria contro la richiesta di restituire parte delle somme incassate la scorsa estate come bonus per aver accettato il taglio dei vitalizi in pagamento: li assiste l’ex presidente della Consulta Giovanni Maria Flick. Le cifre, in qualche caso superiori al milione, si erano rivelate troppo generose e la Regione voleva indietro la differenza. In media il 28 per cento. Loro però si sono opposti, rivendicando come sempre accade il rispetto dei diritti acquisiti. Adesso è la volta degli ex consiglieri della Regione Lazio, che in base alle vecchie norme potevano riscuotere il vitalizio a cinquant’anni di età e dopo il versamento di appena cinque anni di contributi. La settimana scorsa, alle due di notte, i loro successori hanno approvato all’unanimità, Movimento 5 Stelle compreso, una legge che innalza da 50 a 60 (e non 65 come era parso di capire all’inizio...) l’età minima per intascare l’assegno, introducendo un contributo di solidarietà per chi già lo incassa. E gli ex non l’hanno mandata giù. Alcuni di loro, ancor prima che quel provvedimento venga pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, hanno preannunciato ricorsi a raffica contro tutto ciò che osi mettere in discussione il dogma dei «diritti acquisiti». Com’è stato già sottolineato su queste pagine, quel provvedimento è ancora lontano dal rappresentare la vera soluzione del problema, che potrà arrivare soltanto con una legge nazionale. Su tanti aspetti di quelle norme varate nottetempo dai consiglieri laziali ci sarebbe anzi da discutere: per esempio, quel passaggio che consente a chi ha il diritto al doppio vitalizio di rinunciare all’assegno regionale ma a patto che gli vengano resi i contributi versati, intende la restituzione al lordo o al netto di quanto già incassato? Perché se si intendesse al lordo, assisteremmo al paradosso di persone che hanno già incassato tutto, o magari anche più di quanto versato, ai quali verrebbe concesso un bonus supplementare. Ma quelle norme almeno hanno il merito di mettere in discussione per la prima volta il tabù dei diritti acquisiti dei politici. Diritti finora intangibili, a differenza per esempio di quelli delle centinaia di migliaia di esodati o degli alti dirigenti statali ai quali è stato tagliato lo stipendio, nonostante la loro particolarità: perché parliamo di diritti che i titolari hanno garantito a se stessi con leggi votate da lor signori. Fatti incontrovertibili, incapaci tuttavia di scalfire le convinzioni del «Coordinamento nazionale delle associazioni di consiglieri ed ex consiglieri regionali e di ex deputati delle assemblee regionali» guidato dall’ex consigliere della Regione Calabria Stefano Arturo Priolo. Il quale, una decina di giorni fa, ha spedito al presidente della Conferenza delle Regioni, Sergio Chiamparino, e a tutti i governatori una lettera al fulmicotone, preannunciando un diluvio di carte bollate «per resistere in giudizio ovunque contro l’attacco a giusti e legittimi diritti acquisiti». Vedremo. L’unica cosa che però non vorremmo è che le munizioni per sostenere quelle battaglie legali venissero fornite ancora una volta dai contribuenti. In ogni Regione esiste un’associazione degli ex consiglieri, che non si mantiene soltanto con le quote dei soci, ma pure con i contributi dei consigli regionali a cui vorrebbero fare causa nel caso di «attacco ai diritti acquisiti». E che oltre ai soldi mettono a disposizione di quelle associazioni strutture, spazi e personale. Un esempio per tutti? L’associazione degli ex consiglieri del Lazio che tuonano contro la legge appena approvata ha avuto a dicembre 2013 l’ultimo contributo di 10 mila euro, e occupa attualmente alcuni locali negli uffici che ospitano il centro studi Arturo Carlo Jemolo della Regione. Con tanto di segretaria: dipendente e ovviamente stipendiata dal consiglio regionale. 22 novembre 2014 | 07:56 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_22/gli-ex-consiglieri-regionali-vitalizi-lusso-sono-diritti-acquisiti-a257aa20-7210-11e4-9b29-78c5c2ace584.shtml
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« Risposta #205 inserito:: Dicembre 01, 2014, 04:52:56 pm » |
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Il caso Condoni e punti ai relatori I corsi burletta per giornalisti La formazione obbligatoria tra norme surreali e pochi controlli Sanzioni. Chi non segue i corsi compie per legge un illecito ma non esistono vere sanzioni Di Sergio Rizzo Capita anche questo, nel teatrino della formazione continua per giornalisti. Capita di assistere a un corso di deontologia organizzato nella sede e con esponenti del Parlamento europeo (il cui portavoce, per inciso, deontologicamente non rende noti i nomi degli ex eurodeputati che incassano il vitalizio perché «coperti dalla privacy») dal titolo alla Massimo Troisi: «Giornalismo ed Europa. Si riparte da Tre». Succede pure che il suddetto corso faccia da cornice alla consegna del premio «Capitani dell’anno 2014 all’on. Antonio Tajani, vicepresidente vicario del Parlamento europeo, per le sue efficaci iniziative a sostegno dell’imprenditoria». E alla fine, crediti formativi per tutti! Anche ai formatori: cioè i relatori. Il premiato Tajani, giornalista tuttora iscritto all’Albo, li avrà avuti anche lui? L’episodio dice tutto della piega grottesca che ha preso questa faccenda. Tanto da far dire a Carlo Picozza, responsabile della formazione all’Ordine di Roma: «Sono schifato». Invece la presidente Paola Spadari si paragona al bambino olandese Hans Brinker che tappa con il dito il buco nella diga: «Solo nel Lazio dovremmo erogare più di un milione di crediti in tre anni». Siccome però il dito non può reggere all’infinito, fatalmente la diga viene giù. Così il 19 dicembre chi dei 20 mila iscritti all’Ordine dei giornalisti del Lazio non si è ancora accaparrato il minimo dei 15 crediti stabiliti, può partecipare a un Credit-Day durante il quale si procederà alla distribuzione gratis dei punti mancanti. Un condono in piena regola. Ma partiamo dall’inizio. È settembre del 2011: lo spread galoppa e l’ultimo governo di Silvio Berlusconi deve mettere mano all’ultima disperata manovra. Lì dentro spunta a sorpresa una norma attuativa di una direttiva comunitaria, con la quale si decreta l’obbligo della formazione continua per gli iscritti a ogni Ordine professionale. Giornalisti compresi. Norma assurda, perché la direttiva ha lo scopo evidente di tutelare i clienti delle professioni, mentre i giornalisti non hanno «clienti» in senso stretto. Di più. «Il fatto di essere iscritti a un Albo fa dei giornalisti italiani gli unici in Europa soggetti a quell’obbligo», aggiunge la segretaria dell’Ordine del Lazio Silvia Resta. Nessuno però si commuove. L’Ordine nazionale partorisce un regolamento prevedendo l’obbligo di collezionare almeno 60 crediti in tre anni, con un minimo annuo di 15. Come si raccolgono? Innanzitutto con i corsi del medesimo Ordine. Gratuiti, ovvio (anche se quello organizzato a giugno dall’Ordine della Lombardia con docente Raffaele Fiengo, già giornalista del Corriere e storico sindacalista del nostro giornale, costava 50 euro). Poi frequentando convegni. Pure «in qualità di relatore», com’è per esempio avvenuto al corso con premio incorporato del quale abbiamo parlato, dove relazionava il vice dell’Ordine laziale Gino Falleri: semplicemente surreale. Finisce così che si raccattano crediti partecipando alle presentazioni di libri (surreale bis!), come pubblico e come presentatore. Mentre per regolamento, ovvio, ne ha diritto pure l’autore. Per non parlare di chi insegna all’università, oppure segue corsi di formazione «organizzati da aziende, istituzioni pubbliche e private e altri soggetti». E qui l’Ordine emana prontamente una serie di «disposizione attuative» per stabilire chi può tenere quei corsi. A pagamento, s’intende: ogni corso può costare fino a 220 euro a persona. Facile immaginare ciò che si scatena. Soltanto l’Ordine nazionale concede ben 44 autorizzazioni. Ci sono alcune università. Il Centro documentazione giornalistica, che edita l’Agenda del giornalista. Il Sole 24ore della Confindustria. Il Campus Multimediale che fa capo a Mediaset e alla Iulm. La Pegaso di Napoli: ateneo telematico che gestisce Accademia Forza Italia, scuola di formazione politica di Berlusconi. La Espero srl di proprietà di Luigi Danieli, consigliere comunale milanese del Pd. La Mc relazioni pubbliche di Sassari, specializzata nella «formazione medico scientifica» (ha fatto corsi per la Asl di Cagliari), al pari della Hc training di Roma. E ancora la Ad Formandum di Trieste, esperta nella formazione di scuola alberghiera. E la Know-k di Foggia che ha nell’oggetto sociale «servizi informatici e commercio all’ingrosso» di macchine per ufficio. E la Fondazione Courmayeur Mont Blanc. E la Umana Forma di Luigi Brugnaro. E la Greenaccord di Roma, «associazione culturale per la salvaguardia del Creato» che espone fra i soci onorari, le massime autorità religiose e una gragnuola di politici: da Renato Schifani a Stefania Prestigiacomo a Piero Marrazzo a Enrico Gasbarra... Che senso ha tutto ciò? Non ce l’ha per i giornalisti: anche perché nessuno controlla la qualità di questa formazione. Né per il pubblico, che non avrà un’informazione migliore. Ce l’ha invece per il costoso e pletorico Ordine dei giornalisti, governato da 120 (centoventi) consiglieri nazionali, la cui discutibile utilità è stata rianimata da una più che discutibile legge. Come ce l’ha, eccome, per chi si mette in tasca i soldi contando sul timore dei giornalisti di subire sanzioni. Che però non esistono. E qui si tocca l’apice. La legge dice che non formarsi è un illecito disciplinare che gli Ordini devono punire, ma tutto finirà nella solita burletta. Possiamo scommetterci. Il regolamento dei giornalisti prevede questa unica sanzione: «Il mancato assolvimento dell’obbligo formativo è ostativo all’attribuzione di incarichi deliberati dal Consiglio nazionale». No corso? Ahi, ahi, ahi... No poltrona! 30 novembre 2014 | 09:27 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/cronache/14_novembre_30/condoni-punti-relatori-corsi-burletta-giornalisti-fa422a40-7868-11e4-9707-4e704182e518.shtml
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« Risposta #206 inserito:: Dicembre 07, 2014, 05:44:17 pm » |
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La Capitale e i debiti Roma, salvataggio costoso e inutile Di Sergio Rizzo C’ è un dubbio che oggi, dopo il raccapricciante spettacolo di Mafia Capitale, a maggior ragione ci attanaglia. Siamo sicuri che aver salvato Roma dal fallimento sia stata una scelta giusta? Il commissario al debito Massimo Varazzani argomenta che con il dissesto della capitale d’Italia si sarebbe rischiato il declassamento del debito sovrano, con relativa impennata della spesa per interessi e costi ancora maggiori. Pericolo che del resto, vista la nostra situazione economica, è perennemente incombente. E ieri ne abbiamo avuto la prova. Ma il ragionamento di Varazzani non fa una piega. Al tempo stesso non si può, né si deve, sorvolare sulle conseguenze di quei salvataggi. L’ispettore spedito un anno fa dalla Ragioneria a fare le bucce al bilancio del Campidoglio ha concluso che il commissariamento del debito con gli interessi accollati allo Stato si sia tradotto in un incremento della spesa corrente arrivato nel 2012 a ben 641 milioni: il costo di 13 mila dipendenti comunali. Per non parlare delle municipalizzate, con l’Atac bisognosa di continue trasfusioni di denaro. Mentre per l’Ama, l’azienda dei rifiuti già affidata a quel Franco Panzironi stipendiato con 545 mila euro e ora fra i nomi di spicco dell’inchiesta, parlano chiaro le slavine di 1.644 assunzioni e 1.700 stabilizzazioni di precari. E se non c’è la prova che un fallimento (per cui all’epoca secondo gli ex esponenti della giunta Veltroni messa sotto accusa da Alemanno non esistevano presupposti) avrebbe impedito corruzione, ruberie e malversazioni, di sicuro le avrebbe rese più difficili. Possiamo giurare che non avremmo neppure corso il rischio di un nuovo crac, un anno fa, con il risultato di un nuovo salvataggio per legge al ritmo del solito slogan: «La capitale non può fallire!». Stavolta gridato dalla sinistra come sei anni fa si era levato dalla destra. Con la certezza che il paracadute si debba per forza aprire. Così gli enti locali malgestiti difficilmente saltano per aria. Così agli amministratori incapaci non vengono pressoché mai applicate le sanzioni previste per legge. Così dopo le inchieste presentate come «un’occasione per fare pulizia» (parole del prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro) si scopre che di polvere sotto il tappeto ne rimane ogni volta troppa. In certi casi, è l’amara lezione di questa vicenda, un paracadute che si apre sempre e comunque può fare perfino più danni di un’agenzia di rating. 6 dicembre 2014 | 08:15 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_dicembre_06/roma-salvataggio-costoso-inutile-7341c50a-7d13-11e4-878f-3e2fb7c8ce61.shtml
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« Risposta #207 inserito:: Dicembre 24, 2014, 11:36:20 am » |
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Spunta la grande sanatoria per favorire giochi e Fisco Legalizzate 7 mila sale. Giudici in pensione per le concessioni Di Sergio Rizzo Incalzato dai grillini al Senato, Matteo Renzi tuonò: «Adesso basta con le marchette in Parlamento!». Sentendosi rinfacciare sulla «Stampa» da uno del suo partito, il presidente della commissione Bilancio della Camera Francesco Boccia: «Veramente il primo a fare le marchette è stato il governo. Al Senato ha presentato novanta emendamenti...». Alcuni del quali con nome e cognome. Per esempio, quello sui giochi messo a punto dagli uffici delle Finanze, che ha un destinatario preciso: la Sisal, società concessionaria presieduta dall’ex ministro delle Finanze ed ex commissario dell’Alitalia Augusto Fantozzi, controllata dalla holding lussemburghese Gaming invest. L’obiettivo è rianimare il Superenalotto, ormai da tempo in caduta verticale. La ragione è che si vince troppo poco in rapporto con altri giochi d’azzardo. Per metterci una pezza non resta che consentire di aumentare la percentuale di vincita con, testuale, «l’adozione di ogni misura utile di sostegno della offerta di gioco». Interventi che però potrebbero anche avere ripercussioni sul gettito erariale: in un senso positivo, ma come pure nel senso opposto. Che fare, allora? Siccome nessuno ha la palla di vetro, ecco che nell’emendamento salta fuori una innovazione formidabile, tenuto conto dell’inflessibilità con cui i guardiani dei nostri conti dispensano il prezioso bollino. Qui, infatti, il problema della copertura non solo non viene preso in considerazione, ma si precisa che considerati «obiettivi e ineliminabili margini di aleatorietà» delle scelte che saranno fatte, «i provvedimenti adottati ai sensi del presente comma non comportano responsabilità erariale quanto ai loro effetti finanziari». Un capolavoro. In quell’emendamento, in realtà, c’è anche una specie di sanatoria per le migliaia di negozi di scommesse privi di concessione statale ai quali verrebbe offerta «una opportunità di redenzione nella direzione del circuito ufficiale e legale di raccolta di scommesse». In che modo? Pagando una certa somma entro la fine di gennaio 2015 come tassa di ingresso nel sistema alla luce del sole. La questione ha almeno una decina d’anni e non è mai stata risolta: nasce da una serie di ricorsi presentati a Bruxelles da soggetti che si ritenevano discriminati, e per questo hanno ritenuto di poter operare anche senza aver ottenuto (ma neppure chiesto) la prevista autorizzazione. Parliamo di un fenomeno che negli anni ha raggiunto proporzioni enormi, se si pensa che il volume delle scommesse raccolte da costoro è dell’ordine di 2 miliardi e mezzo l’anno contro i 3,7 miliardi dei negozi regolari: semplicemente astronomica l’evasione fiscale connessa a questo sistema parallelo. La relazione tecnica quantifica lo stima in circa 7 mila punti, a fronte dei 7.400 legali, distribuiti sull’intero territorio nazionale. Anche se «dagli accertamenti condotti dalla guardia di Finanza emerge che la rete degli operatori non autorizzati è principalmente localizzata nelle grandi aree urbane e nelle zone meridionali, dove la raccolta media è di gran lunga più alta». Accertamenti che peraltro hanno innescato una forma di intimidazione senza precedenti nei confronti dei dirigenti dell’Agenzia dei Monopoli e dei finanzieri incaricati dei controlli e del recupero delle imposte non pagate presso questi negozi non autorizzati, che si sono visti recapitare almeno 160 cause e atti di diffida individuali. Tutto questo avviene sullo sfondo di un passaggio cruciale. È quello del rinnovo delle concessioni in scadenza sia per i giochi numerici cosiddetti «a quota fissa» che per il lotto. E qui gli emendamenti del governo contengono un’altra sorpresa. Non per la durata delle concessioni, fissata in nove anni, né per la base d’asta stabilita in 700 milioni di euro, e neppure per il livello degli aggi o per gli altri obblighi imposti agli eventuali partecipanti. Ma per la composizione della commissione di gara: che dovrà essere «composta di cinque membri di cui almeno il presidente e due componenti scelti tra persone di alta qualificazione professionale (e i due rimanenti?, ndr ), inclusi magistrati o avvocati dello Stato in pensione». Ricordiamo male o il governo aveva deciso di vietare l’affidamento di incarichi pubblici ai pensionati statali? Verissimo. Salvo poi concedere, com’è stata concessa, una deroga per i componenti delle commissioni. La ragione? Che si fa fatica a convincere i dipendenti pubblici a farne parte, causa la modestia dei compensi. Allora, porte aperte ai pensionati... 23 dicembre 2014 | 07:32 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/economia/14_dicembre_23/spunta-grande-sanatoria-favorire-giochi-fisco-34309ad4-8a6b-11e4-9b75-4bce2f4b3eb9.shtml
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« Risposta #208 inserito:: Dicembre 24, 2014, 11:40:15 am » |
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Il caso Biglietti bus a Roma, lo strano affare della multinazionale australiana L’appalto agli australiani e la consociata italiana che compra quote a 6 mila euro e vende a 375 mila Il dettaglio Il servizio non cambia ma la lievitazione del prezzo avviene in appena 18 mesiDi Sergio Rizzo ROMA - Alla fine Mauro Bevilacqua si è dovuto rassegnare al concordato preventivo. Non riusciva a tirare avanti. Colpa della difficile situazione del mercato, certo. Ma anche dei pagamenti sempre più tardivi dell’Atac. Perché dal 2007 era uno dei fornitori della municipalizzata romana: 10 milioni di euro valeva il contratto per l’installazione dei tornelli alla metropolitana di Roma. Al Campidoglio governava Walter Veltroni, che di lì a poco avrebbe lasciato la poltrona di sindaco a Gianni Alemanno. Dall’Agcom ai biglietti Atac Ed è proprio all’inizio di quella stagione che la strada della Expotel, questo il nome della società di Bevilacqua, incrocia sul medesimo scenario dell’Atac quella di una grande multinazionale. Si tratta del gruppo australiano Erg, che qualche tempo prima ha vinto l’appalto per i sistemi informatici della bigliettazione elettronica dell’azienda di trasporto. L’esperienza dell’ingegner Bevilacqua è fuori discussione. È stato revisore di Telecom, Italcable e Telespazio, nonché componente del consiglio superiore delle Poste e Telecomunicazioni. Anche questo spinge Alleanza nazionale, nel 1998, a proporlo come componente del primo collegio dell’Autorità delle Comunicazioni. Del resto la vicinanza al partito di Gianfranco Fini è ben testimoniata dalla presenza del suo nome nella compagine azionaria della società che edita il quotidiano Il Roma , insieme ai colonnelli di An: da Ignazio La Russa a Italo Bocchino, Ugo Martinat, Domenico Nania, Altero Matteoli... Ma Bevilacqua regge soltanto sei mesi. Poi si dimette per ragioni di salute e viene sostituito all’Agcom da Alessandro Luciano. Arriva Expotel Dieci anni dopo lo ritroviamo fornitore dell’Atac per i tornelli della metropolitana. E da lì parte una nuova e ben più singolare avventura. Tutto comincia il 17 luglio del 2008, quando la multinazionale australiana che si è aggiudicata la gara del software per i biglietti elettronici decide di costituire una consociata italiana. Si chiama Erg transit system Italy, capitale sociale di 10 mila euro. Oggetto sociale: bigliettazione elettronica. Il 3 aprile del 2009 ecco spuntare la Expotel di Bevilacqua, che acquista il 60 per cento della nuova società creata dagli australiani per un prezzo di 6 mila euro. Un affare mica da ridere, considerando che la Erg Italy, della quale l’ex commissario Agcom è ora azionista di maggioranza, rappresenta il perno di un accordo «finalizzato alla creazione di una joint venture operativa nel mercato dei sistemi di bigliettazione elettronica». Per capirci, è il soggetto destinato a rilevare il contratto con l’Atac. E così accade. L’accordo viene firmato il 17 giugno. Il 18 giugno la Erg Italy cambia nome in Claves srl e lo stesso giorno la multinazionale australiana cede alla Claves il ramo d’azienda che si occupa della bigliettazione e dunque gestisce l’appalto dell’Atac. La girandola di societàLa cessione viene condizionata all’approvazione «anche tacita», c’è scritto negli atti societari, della stessa Atac. Dove però non si limitano al silenzio-assenso, ma a stretto giro di posta, il 16 luglio 2009, danno via libera al «subentro della Claves nella titolarità dei contratti in corso» con la multinazionale australiana in una riunione del consiglio di amministrazione allora presieduto da Massimo Tabacchiera con Gioacchino Gabbuti amministratore delegato. Subentro piuttosto originale, considerando che nella società subentrante l’aggiudicatario dell’appalto è l’azionista di minoranza con il 40 per cento. Il sodalizio fra gli australiani e il nuovo partner italiano non è tuttavia destinato a durare. La «joint venture nel mercato dei sistemi di bigliettazione elettronica» si scioglie come neve al sole appena 11 mesi più tardi. Il 15 giugno 2010 la quota del 60 per cento della Claves in mano alla Expotel passa infatti a una fiduciaria, la Finnat della famiglia Nattino, alla quale già fa capo il 50 per cento della società di Bevilacqua. Prezzo di vendita: sempre 6 mila euro. Il concordato preventivo Ancora 18 mesi e il 28 febbraio 2012 l’intero pacchetto azionario della Claves ritorna agli australiani. Ma stavolta per un prezzo ben diverso: 375 mila euro. Mentre il 20 agosto 2013 Bevilacqua chiede al Tribunale l’ammissione al concordato preventivo a causa «di una grave crisi aziendale dovuta anche ai ritardi dei pagamenti della società Atac...». 22 dicembre 2014 | 08:08 © RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://roma.corriere.it/cronaca/14_dicembre_22/biglietti-bus-roma-strano-affare-multinazionale-australiana-0ac0c678-89a9-11e4-a99b-e824d44ec40b.shtml
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« Risposta #209 inserito:: Gennaio 03, 2015, 04:10:07 pm » |
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Il caso DI CAPODANNO A ROMA Vigili: gag, disavventure e scandali - I retroscena dello scontro con Marino I vigili romani sono il doppio dei milanesi e fanno un terzo delle multe. L’intervento di Cantone Di Sergio Rizzo ROMA - Scherzi del destino. Per aver osato scrivere che dei vigili urbani a Roma si nota soprattutto l’assenza, il giornalista del Corriere Maurizio Fortuna è stato querelato da ventotto di loro. Pochi giorni dopo il recapito della citazione, ecco la notizia che la sera di San Silvestro l’83,5% degli agenti in servizio era scomparso. Chi si dava malato, chi donava il sangue, chi stava con la mamma inferma... La multa di Sordi a De Sica Questa «diserzione di massa», per dirla con il comandante Raffaele Clemente, è l’ennesimo episodio della guerra dichiarata a Ignazio Marino. Certo non per la bacchettata a un agente troppo galante con una bella automobilista senza patente, come quella appioppata nel film «Il vigile» al pizzardone motociclista Otello Celletti, alias Alberto Sordi, dal sindaco Vittorio De Sica: prontamente ricambiato con una multa per eccesso di velocità. Qui il conflitto è di ben altre proporzioni. E c’è da augurarsi che non vada a finire allo stesso modo, con la macchina del sindaco nella scarpata e il vigile che lo scorta all’ospedale. Il culmine dello scontro, a novembre: quando Marino e Clemente hanno deciso la rotazione degli incarichi. L’iniziativa, senza precedenti, ha scatenato una rivolta. Capitolo chiuso con l’Autorità anticorruzione di Raffaele Cantone che ha definito la rotazione non solo «legittima», ma «un meccanismo a tutela delle persone per bene». Però gli animi non si sono placati affatto. Il caso Liporace Il rapporto fra i vigili e Marino è sempre stato turbolento. Un mese dopo il suo insediamento il loro capo Carlo Buttarelli, messo lì da Gianni Alemanno, se n’è andato sbattendo la porta. Al suo posto è stato chiamato un colonnello dei carabinieri selezionato con procedura pubblica. Nonostante tre lauree, però, Oreste Liporace non aveva tutti i requisiti previsti e ha dovuto gettare la spugna. Allora è arrivato un poliziotto della squadra anticrimine della Questura di Roma: Clemente, appunto. Senza provocare, anche in questo caso, manifestazioni di giubilo da parte di quanti hanno interpretato tale nomina, al pari di quella tentata in precedenza, come un gesto di aperta sfiducia verso la polizia municipale. Il cui capo proveniva di regola dai ranghi interni. Anche se poi non sempre tutto filava liscio. Le disavventure dell’ex comandante Catanzaro Dicono tutto le disavventure del predecessore di Buttarelli, il comandante dei vigili urbani Angelo Giuliani incaricato di sostituire quel Giovanni Catanzaro pizzicato dal Messaggero a parcheggiare la sua Alfa Romeo in una zona off-limits vicino a piazza di Spagna: sul cruscotto un permesso per disabili. Rimosso da Walter Veltroni, Catanzaro sfiora nel 2008 la candidatura al consiglio comunale con l’Udc. Dieci mesi fa Giuliani viene arrestato con l’accusa di corruzione. Dicono i giudici che prendeva tangenti dalla società incaricata di ripulire l’asfalto dopo gli incidenti stradali. Lui si proclama estraneo: «Sono sempre stato ligio ai miei doveri». Il concorso nel caos Mesi prima, un’altra disavventura. Lo scenario, questa volta, un concorso per 300 aspiranti vigili. Giuliani presiede la commissione d’esame quando parte un’inchiesta della Procura di Roma nella quale si ipotizza il reato di falso ideologico. Alemanno revoca tutti e comincia un autentico Calvario. Da allora si sono alternate ben tre commissioni ma i risultati del concorso, bandito ormai cinque anni fa, non ci sono ancora. Le indagini che riguardano Giuliani, invece, si stanno per chiudere. Nemmeno il rapporto degli ispettori inviati dal Tesoro a verificare i conti della capitale è tenero nei giudizi. Sostiene per esempio che dal 2010 al 2013 siano state erogate ai vigili indennità di responsabilità per quasi 23 milioni in eccesso rispetto ai livelli considerati legittimi. Segnalando anche una serie di anomalie come la maggiorazione notturna concessa per le fasce orarie 16-23 e 17-24, nonostante i contratti nazionali la prevedano solo dalle 22 alle 6 del mattino. I numeri dei vigili in strada A Roma i vigili sono potentissimi: addirittura più del sindaco, si è sempre detto. Se ne contano 6.077. Tuttavia ce ne sono costantemente in giro per la città che ha il più alto numero al mondo di auto (oltre 70 ogni cento abitanti) da un minimo di 105, la sera, a un massimo di 993, la mattina. Ovvero, dall’1,7 al 16,3% della forza complessiva. Il tutto fra strade disseminate di vetture in seconda fila e mai una contravvenzione sotto il tergicristallo, neppure davanti a un comando della polizia municipale. E la produttività? Spiega molte cose il confronto con Milano contenuto nello studio Sose-Ifel sui costi standard. Mentre Roma spendeva per gli stipendi dei vigili il 14,5% più del «fabbisogno standard», Milano risparmiava il 38,3%. Con 154 multe mediamente a testa fatte a Roma contro le 370 di Milano. E le 27.990 sanzioni di altro genere elevate dai seimila vigili romani contro le 79.870 dei poco più di tremila loro colleghi milanesi. Il vigile di piazza Venezia Talvolta, dobbiamo riconoscerlo, le condizioni non sono facili. Come capita a chi deve misurarsi con un infernale caos di lamiere: ricorrendo a gesti e movenze tanto eleganti da affascinare perfino Woody Allen. Che nel suo film «To Rome with love» ha immortalato la scena del bravissimo vigile Pierluigi Marchionne sulla pedana di piazza Venezia mentre dirige il traffico, nemmeno fosse un direttore d’orchestra. Proprio lì, dove una volta il giorno della Befana si portavano regali ai pizzardoni in segno di riconoscenza. Altri tempi... 3 gennaio 2015 | 08:40 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_gennaio_03/vigili-gag-disavventure-scandali-retroscena-scontro-marino-be16eb66-9314-11e4-8973-ae280e1dba84.shtml
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