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Autore Discussione: SERGIO RIZZO  (Letto 135741 volte)
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« Risposta #180 inserito:: Marzo 10, 2014, 12:19:08 pm »

CONTI PUBBLICI
Saccomanni: «Hanno avuto paura dei nostri conti»
Il racconto dei dieci mesi con Letta. «Padoan è molto apprezzato ma anche lui dovrà fare attenzione»

di Sergio Rizzo

Il bilancio? «Un’esperienza positiva. Ma avessi saputo che sarebbe durata dieci mesi non so se avrei accettato. Per impostare un lavoro così complicato come quello affidato al ministro dell’Economia e portare a casa un risultato, servono due anni». L’ex direttore generale della Banca d’Italia precisa di parlare «da economista», che non aveva certo bisogno di un breve passaggio sulla scrivania di Quintino Sella per coronare la carriera. Ma si capisce che il brusco epilogo brucia ancora di più dopo quanto è successo nelle ultime ore. Con il commissario europeo Olli Rehn che retrocede l’Italia nel girone dei Paesi con «squilibri eccessivi». E il premier Matteo Renzi che dice: «Sapevamo che i numeri non erano quelli che Letta raccontava, ma siamo gentiluomini e non abbiamo calcato la mano…». Saccomanni risponde con voce ferma: «È una scorrettezza. L’ipotesi che Letta abbia raccontato storie è assolutamente non vera. Noi abbiamo sempre esattamente detto come stavano le cose». Gli ultimi rilievi europei, però, sono pesanti. La Commissione accusa l’Italia di non aver messo in campo riforme in grado di tirarci fuori dalla palude della scarsa produttività e della crescita inesistente. «Il fatto è che loro hanno interpretato come stime i nostri obiettivi: due cose che sono evidentemente molto diverse. Nel documento di economia e finanza ho scritto che il governo italiano si poneva per il 2014 l’obiettivo di una crescita dell’1,1 per cento. E a novembre mi sembrava di aver convinto la Commissione e Olli Rehn che le misure previste dalla legge di stabilità e da altri provvedimenti avrebbero fatto ripartire la nostra economia a quel ritmo. Magari è obiettivo che il governo Renzi può giudicare insufficiente. Ma affermare che si è nascosta la realtà è scorretto. Vorrei ricordare che nella riunione dell’Eurogruppo del 22 novembre scorso si era chiaramente arrivati alla conclusione che non ci sarebbe stato bisogno di alcuna manovra» replica Saccomani.

Le preoccupazioni europee riguardano soprattutto il debito pubblico, il cui rapporto rispetto al Pil ha raggiunto un livello superiore di undici punti al record di vent’anni fa. Sono convinti che la correzione dei conti prevista per quest’anno non basterà a intaccarne le enormi dimensioni. «Ma dovrebbero sapere che il Prodotto interno lordo è sceso» argomenta l’ex ministro «non a causa di chissà quali politiche folli, ma per colpa della crisi. E che il debito è aumentato anche perché abbiamo dovuto pagare i conti lasciati con i fornitori dai governi precedenti, che si erano ben guardati dall’onorarli. Quello di Enrico Letta è stato il primo governo che ha restituito i soldi alle imprese. Per non dire dei 50 miliardi di indebitamento che ci siamo accollati per le operazioni di salvataggio di Paesi come Grecia o Irlanda e per alimentare il meccanismo europeo di stabilità…». Resta il fatto che da novembre a oggi la Commissione europea ha peggiorato il proprio giudizio sulle condizioni della nostra finanza pubblica. «Olli Rehn conosce perfettamente la situazione di oggi, perché gli è stata illustrata nei dettagli. A metà febbraio gli ho mostrato tutto, compresi i conti della spending review che prevedono tagli di spesa crescenti fino al 2 per cento del Pil nel 2016. Parliamo di risparmi per 33 miliardi. Carlo Cottarelli ha fatto un lavoro molto diverso rispetto ai suoi predecessori, un’analisi capillare stabilendo insieme alle amministrazioni periferiche le aree d’intervento: dalla riduzione del costo di acquisto di beni e servizi, all’eliminazione dei sussidi, alla chiusura di enti inutili. Questo improvviso cambio di giudizio mi pare incomprensibile». Chissà allora che a Bruxelles non abbiano voluto mettere le mani avanti, per prevenire l’offensiva annunciata da Renzi per attenuare le regole capestro sui bilanci pubblici. «Non esiste una possibilità su un milione che vengano cambiate» è persuaso Saccomanni. «Per ottenere questo risultato è necessaria l’unanimità, che non ci sarà mai. È vero che le regole si possono pure infrangere, andando però incontro alle sanzioni della Commissioni e dei mercati. Ma volendo rispettare il rigore dei conti pubblici si può solo cercare di stabilire un profilo di rientro del debito pubblico più a lungo termine, attraverso un’agenda di riforme».

Non è d’accordo, l’ex direttore della Banca d’Italia, con le tesi espresse da illustri personaggi, per esempio l’ex presidente della Commissione Romano Prodi che un’alleanza dei Paesi mediterranei potrebbe piegare le resistenze tedesche e del fronte rigorista: «Il problema non è solo la Germania. Ci sono Paesi fondatori dell’Unione, come l’Olanda, che hanno problemi interni fortissimi a spiegare agli elettori che si devono spendere denari pubblici per Paesi incapaci a tenere sotto controllo i conti pubblici. Chi poi pensa a un fronte comune con Francia e Spagna deve sapere che i francesi non faranno mai nulla contro la Germania: lo spread della Francia è un quarto del nostro perché loro hanno convinto i mercati che resteranno per sempre agganciati alla locomotiva di Berlino. E la Spagna ha avuto dall’Europa 40 miliardi per salvare le sue banche: impensabile che sia disponibile a posizioni antitedesche. Ma poi diciamola tutta. La fissazione italiana che si debba aumentare il disavanzo pubblico per avere più crescita è un’autentica fesseria».

E deve pensarla come lui anche il suo successore Pier Carlo Padoan. Al «Sole 24 ore» ha dichiarato che non c’è nessuna intenzione di oltrepassare la soglia del 3 per cento imposta dal trattato di Maastricht. «Pier Carlo è molto apprezzato a Bruxelles. Non credo avrà problemi. Ma gli occhi dell’Europa sono molto attenti, e con quell’attenzione dovrà inevitabilmente fare i conti», lo mette in guardia Saccomanni. Che dice: «A pensare male si potrebbe immaginare che l’accelerazione nel cambio di governo sia stata determinata dalla paura che Letta raggiungesse risultati troppo favorevoli: lo spread in discesa, l’economia in ripresa… A quel punto, fra un anno, sarebbe stato molto più difficile mandarci via» scherza Saccomanni. Ma non più di tanto…
7 marzo 2014 | 07:24
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Da - http://www.corriere.it/economia/14_marzo_07/saccomanni-hanno-avuto-paura-nostri-conti-03450836-a5bc-11e3-b663-a48870b52ff3.shtml
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« Risposta #181 inserito:: Marzo 24, 2014, 05:09:05 pm »

Le norme sulle retribuzioni aggirate dai premi variabili.
Il caso delle società quotate
La beffa del tetto agli assegni d’oro Funziona solo per Ciucci e Arcuri
Il governo Monti aveva stabilito nel 2011 che nessun manager pubblico avrebbe guadagnato più dei giudici della Consulta. Non è andata così

di SERGIO RIZZO

«Credo sarebbe un bel segnale se si chiedesse ai manager delle società di Stato di rinunciare completamente alla retribuzione fissa e accettare di essere pagati solo in funzione dei risultati di bilancio. Meglio: in funzione dei benefici, reali e misurabili, prodotti per la collettività». Questo proponeva due anni fa, in una lettera a «Repubblica», l’amministratore delegato di Invitalia Domenico Arcuri. Erano i giorni in cui infuriavano le polemiche sul tetto agli stipendi fissato dal governo di Mario Monti al livello del presidente della Cassazione e quella provocazione scivolò via come l’acqua sul selciato. Ma Arcuri aveva centrato il problema. Destino ha voluto che fra i manager delle principali società di Stato sia stato praticamente l’unico, insieme al capo dell’Anas Pietro Ciucci, a vedersi ridurre la retribuzione a 302 mila euro.

L’antefatto. Siamo alla fine del 2011: Monti stabilisce che nessun burocrate statale potrà guadagnare più della Suprema corte. Il principio dovrebbe valere anche per i manager delle aziende pubbliche, ma siccome è un aspetto particolarmente peloso si decide di mandare la palla in tribuna: il regolamento lo farà il Tesoro. Insomma, campa cavallo. Per giunta, le migliaia di società locali non sono nemmeno sfiorate. Ma mentre in tanti già si fregano le mani per lo scampato pericolo, ecco il colpo di scena: in Parlamento passa un emendamento della leghista Manuela Dal Lago che fa scattare la tagliola per tutti. Il Tesoro riesce a metterci una pezza per le società quotate come Eni, Enel, Finmeccanica e Terna, che vengono così salvate. Passa poi qualche mese e spunta magicamente un altro emendamento, con il quale si escludono dal tetto anche le società non quotate ma che hanno emesso «strumenti finanziari» sui mercati non regolamentati. Una fattispecie del tutto inedita, che però consente di tirare fuori dal mazzo le Ferrovie dello Stato con gli 873.666 euro di Mauro Moretti, la Cassa depositi e prestiti con il milione 35 mila euro di Giovanni Gorno Tempini, e le Poste con il milione e mezzo di Massimo Sarmi. Ma non è ancora finita. Perché un ennesimo emendamento precisa, a scanso di equivoci, che il tetto non vale nemmeno per le loro controllate.

Di conseguenza, quando nel 2013 si arriva al dunque gli stipendi al top che vengono tagliati sono soltanto quelli di Arcuri e Ciucci. Meglio che niente, dirà qualcuno. Ma certo fa ridere che su 7.411 società pubbliche il tetto dei 302 mila euro abbia dispiegato concretamente i propri effetti solo in un paio di casi.

Il fatto è che la questione è tremendamente seria e andrebbe affrontata con la dovuta serietà. Nel 1987 il presidente dell’Eni Franco Reviglio guadagnava 250 milioni di lire, cifra pari a 285.000 euro del 2012. Ovvero, meno di un ventiduesimo di quello che è stato nello stesso anno il compenso del suo omologo attuale Paolo Scaroni. Certo l’Eni del 1987 non è quello di oggi, ma la cosa fa impressione. Tanto più che la stessa cosa, a cascata, è accaduta in tutte le società pubbliche: anche quelle non quotate. Nel 1992 anche il capo delle Fs Lorenzo Necci guadagnava 250 milioni di lire, cioè meno di 220 mila euro di oggi. Esattamente un quarto rispetto alla paga di Mauro Moretti che minaccia di fare le valige se gliela taglieranno. Ma addirittura, stando a notizie mai smentite, un tredicesimo di quella (2,5 milioni) del suo predecessore Elio Catania, che peraltro lasciò le Fs nel 2006 con una buonuscita di 7 milioni nonostante un buco di bilancio di quasi 2 miliardi.

L’origine di questo impazzimento? C’è chi la fa risalire alla scelta di consentire alla Pubblica amministrazione di assumere manager dall’esterno a tempo determinato. Preparatissimi ma anche pagatissimi. Mettendo immediatamente in moto un perverso gioco degli specchi che ha fatto lievitare all’inverosimile gli stipendi dirigenziali. Al centro e in periferia.

Per le società pubbliche le privatizzazioni hanno poi fatto il resto: la quotazione in Borsa ha fatto allineare i compensi delle imprese pubbliche con quelli delle aziende private anche quando non ce n’era oggettivamente ragione. E pure qui tanto al centro quanto in periferia. L’amministratore delegato e direttore generale dell’Acea, per esempio, guadagna in tutto 1,3 milioni di euro. Il quintuplo di quello che un tempo era lo stipendio del presidente dell’Iri. La società è quotata, ma la maggioranza è in mano al Comune di Roma e l’azienda gestisce servizi in monopolio. Ancora: l’ex amministratore delegato della Sea, gestore monopolista degli aeroporti milanesi, Giuseppe Bonomi, ha incassato nel 2011 ben 900 mila euro. E non sono stati da meno molti altri suoi colleghi nelle varie aziende locali spuntate come i funghi. Spesso utili solo a corrispondere laute buste paga.

Esattamente com’è accaduto nello Stato, grazie a un meccanismo apparentemente meritocratico: quello della parte variabile dello stipendio. Prendiamo il Gse, società pubblica unica nel panorama energetico europeo, con 1.186 dipendenti e costi a carico delle bollette. Il suo amministratore Nando Pasquali nel 2012 ha percepito 520 mila euro, di cui 238 mila come parte «variabile», cioè relativo ai risultati del 2011 e del 2012. Siamo certi che l’ha meritati. Ma alzi la mano il manager che non ha incassato sempre il 100% della retribuzione accessoria.

E qui torniamo alla provocazione di Arcuri. Perché invece di fissare un tetto che si troverà sempre il modo di aggirare, non paghiamo i manager solo sulla base del merito, abolendo la parte fissa della retribuzione e valutando in modo rigoroso e trasparente i risultati della gestione? Questo naturalmente, dopo aver azzerato le tantissime società inutili che versano ai loro manager compensi magari inferiori allo stipendio della Cassazione, ma regalati. E non fra un mese, domani mattina.
23 marzo 2014 | 08:23
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Da - http://www.corriere.it/economia/14_marzo_23/beffa-tetto-assegni-d-oro-funziona-solo-ciucci-arcuri-07a1837c-b25b-11e3-a842-5090550d57eb.shtml
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« Risposta #182 inserito:: Aprile 11, 2014, 11:50:03 pm »

Criteri chiari e scelte serie
di SERGIO RIZZO

Da settimane il governo di Matteo Renzi manda un messaggio ai vertici delle grandi aziende pubbliche in vista delle nomine imminenti: dopo tre mandati si va a casa. Con il risultato di innescare interpretazioni curiose. Tre mandati sulla stessa poltrona, o nella medesima azienda? Ed è un principio applicabile solo alle società interamente statali, come Poste Italiane, o anche a quelle quotate in Borsa, quali Eni, Enel, Terna e Finmeccanica?
Speranze, più che domande, puntualmente rimbalzate sui giornali. Le speranze di quanti, insediati ormai da un decennio (e oltre) ai vertici delle imprese pubbliche, contano di poter restare ancora al loro posto a dispetto di tutto. Chi sostiene la necessità di salvaguardare continuità aziendali. Chi fa presente i rischi di un cambio in corsa. Chi poi rivendica risultati strabilianti. Offrendo in qualche caso anche una comoda soluzione: passare dall’incarico di amministratore delegato a quello di presidente. Per affidare poi la propria poltrona ancora tiepida a qualche fedelissimo, e immaginare di continuare a comandare per interposta persona.
Stendiamo un velo pietoso sui disastrosi effetti di tali staffette. Ricordate com’è andata a finire alla Finmeccanica dove nel 2011 Pier Francesco Guarguaglini, dopo tre mandati da capo azienda, venne confermato alla presidenza con un successore scelto fra tre nomi da lui indicati? Un disastro.
Il fatto è che sulle nomine Renzi si gioca un bel pezzo della propria credibilità di premier del cambiamento, forse ancor più che su certe riforme promesse. Perché il primo segnale concreto del nuovo «verso» non può che arrivare da lì. E che nelle aziende pubbliche ci sia una disperata necessità di ricambio del sangue è fuor di dubbio. Se dunque ci dev’essere un rinnovamento, che questo sia reale e radicale. Senza manovre gattopardesche che finiscono per lasciare le cose come stanno, talvolta in conflitto con gli stessi «orientamenti» aziendali. Basta pensare che solo un mese fa il consiglio dell’Enel ha approvato un «orientamento» (simile a quello adottato dall’Eni), regolarmente comunicato al mercato, per cui il futuro presidente dovrebbe essere «indipendente all’atto della prima nomina». Caratteristica che evidentemente mal si concilia, come ha affermato anche la Commissione attività produttive del Senato, con quella di amministratore esecutivo.
Per cambiare non è neppure necessario inventarsi regole e principi che potrebbero anche risultare incomprensibili al mercato, come ad esempio un limite al numero dei mandati. Serve soltanto il coraggio delle proprie azioni, senza subire i soliti compromessi indigeribili con i partiti, le fazioni, le lobby. Il coraggio di affermare gli interessi dell’azionista pubblico rispetto a quelli delle filiere di potere che in tanti anni si sono stratificate intorno alle grandi imprese di Stato e dispongono di una micidiale forza di interdizione. Ma anche il coraggio di scelte indipendenti, legate esclusivamente alle capacità e al merito. Dove per indipendenti s’intende dalle pressioni politiche: comprese quelle travestite.
Proprio qui sta il punto. Indicare le persone che avranno il compito di gestire grandi imprese quotate in Borsa presuppone rispetto del mercato e degli investitori, tanto più nel caso di aziende come Eni, Enel e Finmeccanica che hanno una parte rilevante di azionisti stranieri. Ecco allora che questo passaggio sarà per il governo Renzi anche una impegnativa prova di maturità. Ben al di là dell’immagine, dell’anagrafe, e perfino dei necessari equilibri di genere.

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9 aprile 2014 | 08:26

DA - http://www.corriere.it/editoriali/14_aprile_09/criteri-chiari-scelte-serie-1ae8456a-bfa8-11e3-a6b2-109f6a781e55.shtml
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« Risposta #183 inserito:: Aprile 16, 2014, 06:08:03 pm »

Novità positive e MOLTI dubbi Interrogativi su una svolta

di Sergio Rizzo

Se volgiamo lo sguardo al decennio passato dobbiamo riconoscere che all’infornata delle nomine renziane non mancano tratti coraggiosi. La prova era certamente cruciale. E Matteo Renzi avrà pure provato sulla propria pelle cosa significhi sfidare certi gruppi di pressione.

La fuoruscita dei vecchi amministratori delegati, in qualche caso seduti sulle poltrone pubbliche da ben oltre il limite dei tre mandati, è certo una grossa novità. Altrettanto lo è la presenza delle donne, da sempre tenute ai margini della stanza dei bottoni: si tratti del governo, delle aziende statali, degli enti e perfino delle authority. Prima di questa tornata di nomine occupavano il 20,2 per cento delle poltrone nei consigli di amministrazione delle 25 società non quotate direttamente controllate dal Tesoro, e questo solo grazie alla legge che ha imposto di riservare loro, progressivamente, almeno un terzo dei posti nei consigli di amministrazione e nei collegi sindacali. Ma il peso specifico del genere femminile, al di là delle percentuali, risulta ovunque pressoché inesistente. Appena tre presidenze per 25 società: il 12 per cento del totale. Nelle quattordici autorità indipendenti, comprendendo fra queste anche la Banca d’Italia, le donne sono appena nove su 57 componenti, e nessuna di loro occupa il posto di presidente. Zero su quattordici.

In un’Italia nella quale il potere si è sempre declinato esclusivamente al maschile, l’arrivo delle donne ai vertici delle grandi aziende pubbliche potrebbe dunque essere visto come qualcosa di rivoluzionario. Anche se poi i nomi sono quasi sempre gli stessi che girano da anni, e a nessuna è stato affidato il timone aziendale.

La triste verità, e lo confermano le scelte degli amministratori esecutivi e il faticoso percorso con cui si è arrivati a farle, è la generale povertà della nostra classe manageriale. Si potrebbe discutere a lungo sui motivi, del resto comuni a quelli che hanno reso l’attuale ceto dirigente italiano (tutto intero) il più debole del dopoguerra. Ogni ricambio si rivela sempre estremamente difficile: nelle imprese pubbliche, poi, assume spesso i contorni di una missione impossibile. Le scuole manageriali, quale per esempio era l’Iri, sono chiuse da un pezzo. E in quelle della pubblica amministrazione la direzione aziendale non è materia d’insegnamento. I pochi manager giovani e di valore preferiscono l’estero o il privato e non sono attirati da incarichi pubblici nei quali rischiano di subire i condizionamenti politici e delle lobby. Prova ne siano i rifiuti che Renzi ha dovuto incassare.

Ecco allora che in questa carenza di capitale umano si finisce per avvicendare i vecchi amministratori con maturi dirigenti interni cresciuti alla loro scuola, come è accaduto all’Eni con la promozione del delfino di Paolo Scaroni, Claudio Descalzi.

O per spostare amministratori da una casella all’altra, con migrazioni assai singolari. Tale è il passaggio di Mauro Moretti dalle Ferrovie dello Stato alla Finmeccanica, posto di grande respiro internazionale, in sostituzione di un Alessandro Pansa estromesso dopo un anno senza particolari demeriti. Per Moretti, che guida le Fs dal 2006, è la quinta nomina consecutiva da amministratore delegato: molto sostenuta all’interno del Pd da Massimo D’Alema. A dimostrazione che fra cacciatori di teste e comitati di saggi ancora con la politica, in fondo, si sono dovuti fare certi conti.

15 aprile 2014 | 07:32
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_aprile_15/editoriale-interrogativi-su-una-svolta-sergio-rizzo-ca59c88a-c45c-11e3-9713-8cc973aa686e.shtml
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« Risposta #184 inserito:: Maggio 12, 2014, 04:54:39 pm »

Le tangenti e l’expo
Legalità e buona volontà

Di Sergio Rizzo

Davanti a un’emergenza non c’è mai niente di meglio che invocare misure straordinarie, come quella «task force anticorruzione» a cui qualcuno pensa per curare la nuova ferita inferta a Milano dalla cricca delle tangenti. Peccato soltanto che queste toppe siano spesso risultate peggiori dei buchi. Si pensi all’esito del commissariamento di Pompei. O ai Grandi eventi gestiti dalla Protezione civile vecchio stile: uno scandalo che quattro anni fa ha indotto il governo, guarda un po’, proprio a varare una legge contro la corruzione. Misura che evidentemente è servita ben poco, a giudicare dalle notizie di questi giorni. Le quali, va detto, di straordinario hanno davvero poco.

Sono anni che la Corte dei conti mette in guardia sulle dimensioni abnormi raggiunte dal malaffare. Anni che i magistrati prospettano il rischio di corruzione e infiltrazioni criminali nei grandi appalti, compresi quelli dell’Expo. Anni che la politica, indifferente all’abisso che ormai la separa dal Paese, è impegnata in una immorale escalation affaristica. Anni che scivoliamo sempre più in basso nelle classifiche della corruzione percepita stilate da Transparency international . Nel 1995, quando i più importanti processi di Mani pulite erano ancora in pieno svolgimento, l’Italia occupava la casella numero 33; diciotto anni dopo eravamo precipitati al sessantanovesimo posto. Dopo Ghana, Arabia Saudita e Giordania; distanziati di 39 posizioni dalla Spagna, 47 dalla Francia, 57 dalla Germania. Che altro serviva per capire?

Se qualcosa di paradossale c’è semmai nella vicenda dell’Expo, è che in un Paese refrattario a ogni cambiamento perfino i signori collettori delle tangenti sono sempre gli stessi di 22 anni fa. Più canuti e incartapecoriti, ma non meno famelici ed efficienti: per la gioia di chi ha sempre negato l’esistenza di Tangentopoli.

Anziché a improbabili misure straordinarie, ora si deve pensare a chiudere in fretta e con meno danni possibili questa pagina. La città di Milano non merita un fallimento clamoroso agli occhi del mondo. Non lo meritano i milanesi, come non lo meritano tutti gli italiani: perché questa è una faccenda che vale l’orgoglio e la reputazione di un intero Paese.

C’è una persona che ha l’incarico di condurre in porto il progetto, Giuseppe Sala. Sia messo nelle condizioni di lavorare al meglio, con collaboratori capaci e leali. Facciano tutti la loro parte, chi deve completare l’opera e i magistrati che devono fare pulizia. Ma soprattutto la politica.

Perché se siamo arrivati a questo punto la colpa è innanzitutto di quanti in tutti questi anni occupavano la stanza dei bottoni. L’Expo è stata gestita come una fiera di paese, solo per spartire posti e affari. Privi di visione, ripiegati su tornaconti personali e di bottega, i politici hanno sprecato un’altra grande occasione per dimostrare di avere a cuore l’interesse generale. Ricordiamo le liti per l’occupazione delle poltrone, gli scontri continui fra le istituzioni e la guerra delle aree, con gli speculatori costantemente in agguato. Uno spettacolo così poco edificante per tutti noi quanto assai invitante per faccendieri, corrotti e corruttori. Gli ideatori dell’Esposizione universale del 1906, che impose Milano agli occhi del mondo come capitale industriale ed economica del Paese, si rivolteranno nelle tombe.

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12 maggio 2014 | 07:42

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_12/legalita-buona-volonta-f8a93d5a-d993-11e3-8b8a-dcb35a431922.shtml
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« Risposta #185 inserito:: Giugno 04, 2014, 07:05:49 pm »

IL COMMENTO

Ali indebitate memorie corte
Le responsabilità del caso Alitalia

di Sergio Rizzo

Alla notizia della lettera con cui la compagnia degli Emirati arabi Etihad ha confermato l’interesse ad acquisire Alitalia, Maurizio Lupi ha tirato un respiro di sollievo: «Oggi è un giorno decisivo per la nostra compagnia di bandiera». Siamo sollevati con il ministro delle Infrastrutture. C’è però da dire che se siamo arrivati a questo punto, è anche per colpa di chi nel 2008 impedì il passaggio dell’Alitalia all’Air France. Per chi ha la memoria corta, ricordiamo la risoluta opposizione orchestrata in campagna elettorale a quella operazione da Silvio Berlusconi, senza che nel coro del suo partito si udisse una sola stonatura. Lo stesso Lupi, ora esultante di fronte alla prospettiva dei 600 milioni di investimenti promessi dagli emiri, la bollò come «un regalo ai francesi», che allora di milioni ne avrebbero investiti 1.140. Facendo pure digerire il boccone amaro ai loro soci olandesi della Klm, che erano stati già scottati dieci anni prima dall’indecisione dei nostri politici, al punto da scappar via dall’Italia a gambe levate.

Sorvoliamo pure sul fatto che la fusione con Air France ci avrebbe fatto risparmiare un numero imprecisato di miliardi. Ma almeno una piccola autocritica, accanto all’esultanza, sarebbe stata doverosa.

Ancora di più, tuttavia, avremmo apprezzato il mea culpa dei sindacati. Perché se il Cavaliere e i suoi contrastarono la cessione ai francesi per puro calcolo elettorale, chi tecnicamente la fece saltare furono loro. Con in testa la Cgil.

Forse pensavano che, messo alle strette, ci avrebbe pensato ancora una volta Pantalone a tenere in piedi una baracca che faceva acqua da tutte le parti dopo due decenni di scorribande dei partiti e di scelte manageriali sbagliate con la fattiva collaborazione sindacale. Senza pensare che in quel modo non si sarebbe potuto andare avanti all’infinito: prima o poi la resa dei conti sarebbe arrivata. Ma nelle vicende dell’Alitalia la lungimiranza non è mai stata il loro forte.

Per non parlare dei «patrioti» chiamati da Berlusconi a far rinascere dalle ceneri la nuova Alitalia, con la vecchia precipitata nel gorgo infinito (e dorato) della liquidazione. Una cordata nella quale l’interesse per il business del trasporto aereo era assai meno prevalente rispetto a quello per ritorni di altro genere, ai quali tipicamente aspira chi fa un investimento al solo scopo di compiacere un governo. Non certo la migliore fra le iniziative fortissimamente sostenute dal futuro ministro delle Infrastrutture Corrado Passera, al tempo amministratore delegato di Banca Intesa. Come purtroppo si è visto in seguito. Una composizione azionaria raffazzonata, dove spuntarono concessionari pubblici e imprenditori in affari con lo Stato, in larga misura disinteressata al progetto, non poteva che produrre una strategia effimera e di retroguardia: puntare gran parte del successo sul monopolio della rotta Milano-Roma proprio quando l’alta velocità ferroviaria era già sulla rampa di lancio.

Non basta. Perché mentre ci si apprestava a «salvare» la compagnia di bandiera garantendo sette-anni-sette di cassa integrazione agli esodati, sgravi pubblici alle assunzioni, zero debiti e zero concorrenza sulla Linate-Fiumicino, si erano già poste le premesse perché in ogni caso la nuova Alitalia finisse nelle braccia dell’Air France. Che non a caso, della cordata patriottica era azionista di riferimento. Ma quando finalmente sembrava arrivato il momento di passare di nuovo la mano a Parigi, ecco un nuovo sussulto di italianità che ha lasciato i «patrioti» con il cerino in mano. Perché a quel punto per Air France l’operazione non era più conveniente.

E siamo a oggi. Per aver voluto difendere strenuamente l’italianità della nostra compagnia dai francesi la venderemo agli arabi. Con il consueto strascico di altra cassa integrazione pagata, a quanto pare, dai viaggiatori con una tassa supplementare sui biglietti. Ma con una differenza: che i sindacati questa volta dovranno ingoiare un boccone decisamente più amaro di quello che gli sarebbe toccato sei anni fa. Ci sta, visto com’è andata. Ma ci starebbe ancora meglio se i responsabili di questo fallimento politico, sindacale e imprenditoriale chiedessero una volta tanto scusa agli italiani.

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4 giugno 2014 | 07:26

DA - http://www.corriere.it/economia/14_giugno_04/ali-indebitate-memorie-corte-e7df472e-eba6-11e3-85b9-deaea8396e18.shtml
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« Risposta #186 inserito:: Giugno 17, 2014, 05:14:20 pm »

Il caso Nel decreto è prevista la riduzione del bonus legato alle cause
Avvocati dello Stato, addio premi
E partono tre giorni di sciopero
Il nodo degli onorari d’oro per i 347 legali pubblici Il taglio Il decreto: quando il giudice compensa le spese, gli avvocati dipendenti dello Stato non avranno diritto a premi

Di SERGIO RIZZO

ROMA - Il decreto sulla Pubblica amministrazione ancora fisicamente non c’è. Ma la cosa che li ha mandati letteralmente in bestia è un passaggio del quale da giorni si parla. Le versioni (e le voci) cambiano di ora in ora. La sostanza, però, quella non cambia di molto, visto che comunque si risolverà in una bella mazzata alle retribuzioni. Diciamo subito che non si tratta di stipendi esattamente modesti. E soprattutto parliamo di una categoria di persone, gli avvocati dello Stato, che fa parte della crema della nostra burocrazia. Due circostanze che rendono assolutamente clamorosa l’iniziativa di protesta presa dai loro sindacati: uno sciopero di tre giorni.

I 347 avvocati dello Stato sono un corpo d’élite con il compito di patrocinare le Pubbliche amministrazioni nelle cause e fornire loro pareri legali. Al pari del Consiglio di Stato o della Corte dei conti, rappresentano un serbatoio dal quale i governi attingono per gli incarichi fiduciari. Per avere un’idea del loro peso basta il curriculum dell’attuale Avvocato generale Michele Dipace: dal 1981 al 2005 quasi ininterrottamente al fianco di ministri di ogni schieramento.

Il loro costo (fonte il sito Internet dell’Avvocatura) è di 81,3 milioni l’anno: il che significa 234 mila euro mediamente l’anno a cranio. In casi come questi è sempre opportuno ricordare la famosa storia dei polli di Trilussa: anche se la media dice uno a testa, c’è chi ne mangia due e chi nessuno. In ogni caso sono retribuzioni collocate nella fascia alta del pubblico impiego. Tanto più che la busta paga ha anche una succulenta appendice. E proprio questo è il punto

Una norma risalente al 1933 e poi modificata in seguito stabilisce infatti che agli avvocati dello Stato venga corrisposto anche un onorario per le cause vinte o per quelle nelle quali il giudice abbia stabilito la compensazione delle spese fra le parti (in pratica ognuno si paga i suoi legali). Quanti soldi? Negli ultimi due anni, 87 milioni e mezzo. Ossia fra i 43 e i 44 milioni l’anno. Che divisi per 347 fa più di 126 mila euro l’anno per ciascuno in media. E sottolineiamo «in media».

Vi domanderete: che senso ha pagare anche l’onorario a un avvocato assunto a tempo indeterminato che già prende uno stipendio non proprio trascurabile? Domanda assolutamente plausibile, che ha una risposta. Avrebbe il senso di rappresentare un incentivo per vincere le cause, come se lo stipendio non fosse incentivante a sufficienza. Ma è una tesi evidentemente non condivisa proprio a fondo dal governo di Matteo Renzi.

Il decreto stabilirà dunque che quando il giudice compensa le spese, gli avvocati dipendenti dello Stato non avranno più diritto ad alcun onorario. Nel caso invece di cause vinte con liquidazione della parcella ai legali del vincitore, l’onorario dovrebbe essere ridotto in misura drastica: anche al 10 per cento. E dato che le cifre derivanti dalle compensazioni sono di gran lunga le più rilevanti (quasi 70 milioni su 87 e mezzo nel biennio 2012-2013), ecco che il bonus oltre lo stipendio si potrebbe rimpicciolire in modo mostruoso.

Spiegano che il provvedimento riconosce per la prima volta all’Avvocatura dello Stato, una macchina che oltre ai 347 burocrati conta 772 dipendenti disseminati in 26 sedi nel territorio nazionale, «autonomia amministrativa finanziaria e contabile». Questo vuol dire che i denari delle parcelle «private» anziché passare come ora attraverso l’Erario, e arrivare spesso con il contagocce, verrebbero incassate subito e senza intermediari. Ma questo evidentemente non è servito a mitigare gli animi.

Né servirà, probabilmente, scoprire che il giro di vite potrebbe avere effetti non soltanto sull’Avvocatura, ma su tutti gli uffici legali degli enti pubblici e magari anche degli enti locali. Dove il modello degli avvocati dello Stato è stato recepito e talvolta esaltato al punto che il reddito dei legali dipendenti pubblici è oggi decisamente superiore a quello della media di chi esercita la professione privata. In più, con la sicurezza del posto di lavoro.

Come l’Inps, che stipendia più di 300 avvocati. O come il Comune di Roma, dove grazie agli onorari «privati» il compenso dei legali nel 2012 è arrivato in qualche caso a superare 300 mila euro.
17 giugno 2014 | 08:23
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_giugno_17/avvocati-stato-addio-premi-partono-tre-giorni-sciopero-83a7b77a-f5e5-11e3-9bf3-84ef22f2d84d.shtml
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« Risposta #187 inserito:: Luglio 13, 2014, 11:20:58 am »

Troppe misure solo su carta
Di Sergio Rizzo

Le ferie estive, in Italia, sono sacre. Sacre nelle industrie, come pure sacre nei ministeri, e sacre nel Palazzo. Non sono sacre, a quanto pare, soltanto per i due Papi: né per Francesco, né per il suo predecessore Benedetto XVI. I quali hanno deciso, a quanto pare, di farne volentieri a meno.

Due esempi che suggeriamo caldamente di imitare. Le riforme, come ha ricordato il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan su questo giornale, sono urgenti e decisive per il futuro immediato del Paese? L’arretrato ministeriale, con centinaia di decreti attuativi che non hanno ancora visto la luce (ce n’è qualcuno che dev’essere emanato, ha ricordato l’ex premier Romano Prodi, addirittura dal 1997), è spaventoso? L’agenda del semestre italiano è così densa, e il confronto con i rigoristi di Bruxelles tanto duro, da non poterci permettere di rinviare le scadenze a settembre? Abbiamo noi la soluzione: tagliamo le ferie, come hanno deciso di fare Jorge Mario Bergoglio e Joseph Ratzinger. E come si farebbe in qualunque altro Paese europeo date le stesse condizioni.

Le ferie dei politici, dei burocrati, degli alti vertici ministeriali. Quelli che devono esaminare e approvare i provvedimenti di riforma, scrivere le centinaia di decreti di cui sopra, studiare la strategia per vincere il braccio di ferro in Europa. Due settimane, meglio se spezzate, sono più che sufficienti per ritemprare il fisico e rinfrancare lo spirito, senza interrompere in modo drastico il ritmo delle cose da fare. Evitando quindi non soltanto la serrata, ma anche il solito rallentamento dell’attività che precede la pausa estiva e il classico vuoto inevitabile che la segue con i motori che faticano sempre a riavviarsi, se non quando l’autunno è ormai alle porte. Risultato, due o tre mesi buttati: accade solo in Italia. E non succederebbe nel caso in cui si tagliassero le ferie degli apparati.

Vi assicuriamo che si può fare. Si fece, per rammentare un episodio relativamente vicino, tre anni fa, in quell’estate del 2011 torrida soprattutto per il clima economico e politico infuocato. Ricordate i fatti? Il governo di Silvio Berlusconi aveva appena sfornato una manovra economica che alla prova dei mercati si era rivelata del tutto insufficiente. Le borse erano in fibrillazione, lo spread fra i Btp e i Bund tedeschi veleggiava in modo inarrestabile: duecento, trecento, quattrocento... Con somma indifferenza rispetto al rischio (decisamente concreto, come si sarebbe visto in seguito) che la crisi finanziaria degenerasse, i deputati avevano programmato ben cinque settimane di ferie, agganciando alla tradizionale sosta dei lavori parlamentari un pellegrinaggio in Terra Santa: il che avrebbe comportato la chiusura della Camera fino al 12 settembre. Progetto fallito grazie a un sussulto di responsabilità che fece comunque storcere la bocca a qualcuno. E anche, va detto, grazie alle pressioni esterne: il 5 agosto 2011 arrivò la famosa lettera della Bce che indusse il governo italiano a fare una manovra bis a Ferragosto. Iniziativa che non fu certamente risolutiva ma senza di cui la situazione, già abbastanza grave, sarebbe diventata ancor più drammatica di quella che avrebbe trovato tre mesi dopo Mario Monti.

Non siamo nelle stesse condizioni di allora, è chiaro. E meno male, aggiungiamo. Ma il terreno da recuperare è talmente tanto che conviene dare retta ai due Papi: un sacrificio estivo, neppure troppo doloroso, agli italiani lo si deve. O no?

7 luglio 2014 | 08:23
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_07/troppe-misure-solo-carta-784e79d8-0597-11e4-9ae2-2d514cff7f8f.shtml
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« Risposta #188 inserito:: Luglio 18, 2014, 08:57:31 am »

Costi della politica
Giro di vite su Regione, Comuni e stipendi
Ecco cosa c’è nel dossier cui costi della politica

di SERGIO RIZZO

La prudenza. La necessità di non incattivire i rapporti con le Regioni mentre si ammorbidisce il Titolo V della Costituzione. O la voglia di non farsi altri nemici. Di ragioni per giustificare che il rapporto sui costi della politica sia in un cassetto anziché sul web come vorrebbe Carlo Cottarelli, ce n’è un migliaio: magari plausibili. Ma non accettabili. Non sono ragioni accettabili da un governo che ci ha promesso trasparenza assoluta e annunciato guerra agli sprechi. Anche perché se quella roba non diventa di pubblico dominio è come se non fosse mai esistita.

Ma cosa c’è in quel documento pronto da quattro mesi e ancora misteriosamente ignoto, come ha denunciato ieri con irritazione su questo giornale da Riccardo Puglisi, uno del gruppo di lavoro coordinato da Massimo Bordignon che l’ha curato? Per esempio, il fatto che il problema principale, come molti del resto ormai sostengono, è rappresentato dalle Regioni. Da qui la proposta di allineare il costo degli apparati politici regionali a parametri standard. Il che non significa soltanto gli stipendi degli eletti, ma anche il loro numero e quello del personale che gli ruota intorno, con tutte le spese relative. Garantirebbe un risparmio di almeno 300 milioni l’anno, e sarebbe un’operazione di puro buonsenso. Portata alle conseguenze più radicali potrebbe anche modificare la geografia politica. Un esempio? Secondo il rapporto la Regione Molise non avrebbe ragione di esistere.

Ancora: chi ricopre un incarico pubblico ed elettivo non può avere uno stipendio e una pensione o un vitalizio, o magari addirittura due, come non raramente capita. Il tutto accompagnato anche da un articolato di legge bell’e pronto messo a punto con la collaborazione del predecessore del commissario alla spending review Cottarelli, Piero Giarda.

Il gruppo di lavoro incaricato di mettere a nudo gli aspetti più delicati (e scabrosi) di un sistema impazzito segnala circostanze incresciose nelle quali sono state rifiutate loro le informazioni. Il che tuttavia non ha impedito di scoprire come in molti casi norme moralizzatrici quali quelle del decreto Monti del 2012 sono state aggirate con autentiche furbate che hanno limitato la riduzione dei consiglieri prevista dalla legge, fatto rientrare dalla finestra spese uscite dalla porta, vanificato l’innalzamento dell’età pensionabile. Un fatto, quest’ultimo, clamoroso: Monti aveva previsto che dal 2012 in poi nessun consigliere regionale avrebbe più intascato il vitalizio prima di 66 anni, e ancora oggi alla Regione Lazio è invece possibile incassarlo a 50 grazie alla sopravvivenza delle vecchie regole. Per non parlare della Sardegna, dove l’ex presidente dell’assemblea regionale Claudia Lombardo, di Forza Italia, percepisce da pochi mesi un vitalizio da 5.129 euro all’età di 41 anni.


Il rapporto scomparso non risparmierebbe nemmeno i Comuni (un mondo da cui proviene il premier Matteo Renzi e alcuni dei suoi collaboratori più stretti a cominciare da Graziano Delrio) per i quali stima un minore esborso annuale di qualche centinaio di milioni grazie a una rigorosa politica di accorpamenti per quelli al di sotto dei 5 mila abitanti, i quali assorbono il 54 per cento della classe politica locale. Numerosissima, stando ai dati contenuti nella relazione della Corte dei conti sul rendiconto dello Stato, pubblicata qualche settimana fa. I politici comunali sono 138.834: uno ogni 427 cittadini italiani. Tanti. Troppi, anche se il loro costo unitario non è paragonabile a quello delle altre istituzioni. Con qualche significativa eccezione. Il documento cita il caso del Trentino Alto Adige, per sostenere la necessità, anche qui, di allineare gli esorbitanti stipendi dei suoi sindaci a quelli del resto d’Italia: considerando che il primo cittadino di Merano guadagna 3 mila euro al mese più di quello di Milano, città 35 volte più popolosa.

Per la Corte dei conti gli apparati politici comunali costano 1,7 miliardi l’anno, contro il miliardo e mezzo circa di Camera e Senato, che hanno 945 onorevoli più i senatori a vita, e il miliardo delle Regioni, dove si contano 1.270 fra eletti e assessori. Solo per pagare stipendi e pensioni di deputati e senatori si sono spesi nel 2013 ben 447 milioni, con un aumento di 8 milioni sul 2012. Ciò esclusivamente a causa della crescita della spesa per i vitalizi, pari ormai a metà del totale (220 milioni).

Compresi gli europarlamentari e gli apparati provinciali, i politici italiani sono in tutto 145.591. Uno ogni 407 residenti nel nostro Paese. Il che la dice lunga sul peso della politica in Italia.

I magistrati contabili riconoscono che nonostante l’aumento dei vitalizi le spese di Camera e Senato nel 2013 si sono ridotte rispettivamente del 5 e del 4 per cento. Inoltre il taglio dei vertiginosi stipendi del personale delle due Camere (arrivati a superare la media per dipendente di 150 mila euro l’anno) sarebbe ormai avviato. Mentre mancano pochi giorni alla rescissione dei costosissimi affitti dei palazzi Marini dell’immobiliarista Sergio Scarpellini, resa possibile da una legge voluta dal Movimento 5 stelle, che farebbero risparmiare a Montecitorio fra 32 e 37 milioni l’anno. Al netto s’intende, delle inevitabili cause giudiziarie che saranno intentate contro questa decisione. Vedremo. L’impressione è che per allineare davvero le uscite di Camera e Senato a quelle degli organismi equiparabili di altri Paesi la strada sia ancora lunga e insidiosa.

E se «il costo relativo al 2013» del Quirinale è stato di 228 milioni di euro, cioè «pari a quanto speso l’anno precedente», la Corte dei conti non manca di sottolineare che nel 2013 la presidenza del Consiglio ci è costata 458 milioni, con un aumento dell’11 per cento, e che gli apparati politici dei ministeri «hanno comportato una spesa di oltre 200 milioni». Le sforbiciatine saranno state dunque volenterose, ma di sicuro non sufficienti considerando la mole delle uscite delle sole strutture politiche istituzionali: 6 miliardi. Lo scorso anno le quelle centrali (Camera, Senato, Quirinale, Palazzo Chigi...) sono costate circa 3 miliardi, con un calo del 4 per cento sul 2012. Altri 3 miliardi sono stati spesi per mantenere quelle locali, giunte e consigli di Regioni, Province e Comuni: in flessione, secondo i magistrati contabili, del 5 per cento. Troppo poco, dopo un’indigestione di quella portata. I costi della politica «rappresentano una voce di spesa significativamente maggiore rispetto a quella sostenuta nei paesi demograficamente confrontabili con l’Italia, quali Germania, la Francia, la Gran Bretagna, la Spagna. Ne consegue l’esigenza, non ulteriormente procrastinabile, di un’adozione di misure contenutive coerenti», conclude la Corte dei conti. Senza citare, per carità di patria, l’indotto. Innanzitutto quello dei partiti: sul quale si è fatta fin troppa melina. Tanto per dirne una, aspettiamo ancora la famosa legge attuativa dell’articolo 49 della Costituzione, quella che dovrebbe regolamentare dopo quasi settant’anni natura e funzioni dei partiti. E la legge che ha riformato il finanziamento pubblico continua a suscitare perplessità. Non a caso quel rapporto svanito propone di anticipare l’abolizione dei rimborsi elettorali...

16 luglio 2014 | 07:58
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_luglio_16/giro-vite-regione-comuni-stipendicosti-polica-1e31b826-0cad-11e4-b4c9-656e12985e4f.shtml
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« Risposta #189 inserito:: Agosto 09, 2014, 06:02:21 pm »

Il commissario alla spending review presenta il piano per i risparmi sulle municipalizzate
L’ora dei tagli, 1.213 società sono soltanto scatole vuote
Ai Comuni fanno capo oltre 33 mila aziende. Fabbriche di poltrone in perdita.
La linea di Cottarelli: vanno accorpate per eliminare i consiglieri

Di Sergio Rizzo

Carlo Cottarelli ne è perfettamente cosciente: il problema più grosso non è scovare le migliaia di società pubbliche inutili, ma come liberarsene. Venderle? Impossibile trovare qualche pazzo suicida disponibile a farsene carico. Chiuderle, allora? Ne sa qualcosa chi ci ha provato. Valga per tutte l’esempio della Siace, ovvero la Società per l’industria agricola, cartaria editoriale, di proprietà della Regione siciliana. L’hanno messa in liquidazione nel 1985, quando il Verona di Osvaldo Bagnoli vinceva lo scudetto, un commando palestinese sequestrava l’Achille Lauro e Michail Gorbaciov diventava segretario del Pcus. E ancora non ne sono venuti a capo.

In molti casi, allora, la soluzione non potrà che essere quella di accorpare, accorpare e accorpare ancora, prima di liquidare. Per tagliare intanto le poltrone nei consigli di amministrazione. Quindi i posti di lavoro inventati e clientelari. Ma non crediate che siano operazioni semplicissime. Nemmeno per quelle 2.761 società che, dice il rapporto Cottarelli sulle partecipate pubbliche, hanno più amministratori che dipendenti. Come Rete autostrade mediterranee: la quale, udite udite, non è di un ente locale sprecone, e neppure di una Regione spendacciona. Ma del Tesoro. Creata dieci anni fa dal governo di centrodestra per il progetto delle autostrade del mare, gestisce le istruttorie per i contributi dovuti ai tir che viaggiano sulle navi anziché intasare le strade. Ha cinque amministratori e quattro dipendenti, di cui tre a tempo determinato. Più alcuni contratti a progetto. Con una spesa per i compensi degli amministratori che nel 2012 superava di 55 mila euro quella per le retribuzioni del personale. Il solo amministratore delegato Tommaso Affinita, dirigente del Senato che era stato capo di gabinetto dei ministri Agostino Gambino e Pinuccio Tatarella nonché presidente dell’autorità portuale di Bari, percepiva secondo i dati pubblicati dal Tesoro un compenso di 246 mila euro.

E non sarà una passeggiata, purtroppo, neppure mettere mano alle 1.213 società che sono soltanto scatole vuote. Hanno, sì, gli amministratori. Ma nemmeno una segretaria. Il fatto è che se lo Stato centrale controlla 50 gruppi, con 526 società di secondo livello, il resto della faccenda sta tutta in periferia, e ha dimensioni enormi. Ben prima del commissario alla spending review la Corte dei conti ha provato a tracciarne i contorni. Arrivando a un livello di approssimazione che fa venire i brividi, come ha raccontato il procuratore generale Salvatore Nottola in occasione dell’approvazione del rendiconto statale, il 26 giugno scorso. Perché alle 576 società che fanno capo allo Stato ne bisogna sommare altre 5.258 di Regioni, Province e Comuni, più 2.214 «organismi di varia natura». Consorzi, enti, agenzie, che porterebbero il totale a 8.048. Con un dedalo inestricabile di partecipazioni: secondo la Corte dei conti le singole quote azionarie in mano ai soli Comuni sarebbero qualcosa come 33.065. Il condizionale è d’obbligo.

Sentite che cosa scrive Cottarelli nel suo blog: «Si è parlato di ottomila società, consorzi, enti vari partecipati degli enti locali, comuni e regioni soprattutto. Ma sono certo di più», In questa «giungla molto variegata», come il commissario uscente la definisce, c’è davvero di tutto. Perfino, sottolinea, società che vendono «ciò che è già offerto dal mercato» privato. Già. Come l’Enoteca laziale, un ristorante di proprietà della Regione Lazio, dove però certo assessori mangiavano gratis con ospiti e amici: e infatti si è scoperto che aveva accumulato un milione e mezzo di debiti. Ma senza arrivare a questi estremi, sarebbe comunque da chiedersi perché il Tesoro debba controllare una società di consulenza (Studiare Sviluppo, si chiama), o possedere ancora il 90% di Eur spa, immobiliare che ha raccolto l’eredità dell’ente che doveva organizzare l’Esposizione universale del 1942 a Roma. Che ovviamente non si tenne mai, causa seconda guerra mondiale. Proprio qui sta il punto: le Regioni e gli enti locali hanno utilizzato le società partecipate spesso per aggirare le norme statali, come il blocco delle assunzioni, alimentare il consenso o pagare dazi politici. E per lo Stato centrale intervenire su certe situazioni può rivelarsi complicato. Soprattutto quando c’è di mezzo l’autonomia. Dice tutto la vicenda della Sicilia, che fra tutte le Regioni italiane ha il record delle partecipazioni. Le società regionali hanno 7.300 dipendenti e sono costate per il solo personale, nei quattro anni dal 2009 al 2012, un miliardo e 89 milioni. Più 87 milioni per retribuire, nello stesso periodo, una pletora di amministratori: con una spesa media annua, per ogni società, di 768 mila euro. Per non parlare del miliardo e 91 milioni sborsato per farle funzionare, e dei 75 milioni di perdite nei conti economici. Perdite «costanti e rilevanti», affermano i giudici contabili, evidenziate «per tutte le società a capitale interamente pubblico» della Regione. E non succede soltanto in Sicilia se risulta in perdita, secondo Nottola, addirittura un terzo delle imprese controllate dagli Enti locali. Allucinante. Al punto da far sorgere un sospetto. Cioè che sia la loro missione: perdere soldi.

7 agosto 2014 | 06:51
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Da -http://www.corriere.it/politica/14_agosto_07/ora-tagli-1213-societa-sono-soltanto-scatole-vuote-8002bbee-1ded-11e4-832c-946865584d19.shtml
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« Risposta #190 inserito:: Agosto 20, 2014, 07:20:00 pm »

Il caso
Se i superbonus (per merito) finiscono a tutti
I premi in busta paga ai dirigenti pubblici e il discutibile metodo di valutazione

Di SERGIO RIZZO

Al commissario della spending review Carlo Cottarelli si deve una spiegazione. Se come ci ha detto i dirigenti pubblici italiani hanno uno stipendio pari a 10,17 volte il reddito medio di un comune mortale, che significa il doppio rispetto alla Francia e alla Gran Bretagna e due volte e mezzo in confronto alla Germania, c’è un motivo: sono bravissimi. Prendete ad esempio quelli della Regione Liguria. Racconta Emanuele Rossi sul Secolo XIX che i nove superdirigenti della giunta di Claudio Burlando hanno avuto anche l’ultimo anno valutazioni quasi al top. Novantasei su cento per otto di loro, il che vale un incentivo del 21,12 per cento in più sullo stipendio di circa 140 mila euro. Con il nono bravo bravissimo, Roberto Murgia, che li guarda dall’alto da uno stratosferico punteggio di ben novantasette. Per lui, un bonus del 21,34 per cento. Complimenti a tutti quanti. Anche se, diciamo la verità, quel novantasei collettivo, con un novantasette fuori ordinanza, assomiglia tanto a cose già viste.

Ricorda, per dirne una, quel mitico 2006: quando si scoprì che non c’era uno solo, fra i 3.769 dirigenti massimi della nostra pubblica amministrazione, che non avesse raggiunto il punteggio massimo per garantirsi integralmente la parte variabile della retribuzione prevista dal contratto. Una coincidenza formidabile, ma resa possibile da un meccanismo di valutazione che lasciava senza parole. I dirigenti pubblici dovevano compilare una scheda di autovalutazione (autovalutazione, avete capito bene), che toccava al dirigente superiore vidimare. E così via, fino in cima alla piramide. Facile comprendere che di fatto avrebbe fatto fede solo il giudizio che il singolo dirigente dava di sé.

Idem nelle aziende pubbliche. Normalmente il compenso dei manager di Stato o delle imprese controllate da Regioni ed enti locali è suddiviso in due parti: quella fissa e quella variabile. E basta dare un’occhiata alle relazioni della Corte dei conti per verificare che tutti, almeno negli anni più recenti, hanno sempre incassato il massimo di quella fetta dello stipendio che dovrebbe essere vincolata ai risultati. Il cento per cento. Ma è più che comprensibile, se non si sa nemmeno chi dovrebbe fare le valutazioni. E se chi dovrebbe farle, poi non le fa. O non le può fare come dovrebbe, considerando che i manager delle imprese pubbliche sono scelti dalla politica: di conseguenza, quali sono i risultati reali che devono raggiungere? Un conto economico brillante, dei servizi decenti, o piuttosto l’esecuzione delle direttive del partito che lo ha piazzato in quella posizione? Bella domanda...

Soltanto in questo modo si possono conciliare due cose apparentemente inconciliabili. Il più alto livello europeo di retribuzioni della dirigenza con il più basso livello di efficienza dei servizi della pubblica amministrazione centrale e locale. A questa situazione incresciosa avrebbe dovuto metterci una pezza l’authority per la pubblica amministrazione, la cosiddetta Civit. Concepita per rappresentare il guardiano della meritocrazia, non ha mai svolto quella funzione. Ora è stata riconvertita in autorità anticorruzione affidata al magistrato Raffaele Cantone, sanando una ferita che risale al 2008, quando quel Garante previsto dagli accordi internazionali era stato improvvisamente abolito. Ma il problema delle valutazioni (vere) e dei controlli (reali) delle performance, in piena epoca di spending review, è ancora tutto lì.

Al centro come in periferia. L’anno scorso il Corriere del Mezzogiorno ha rivelato che nella Regione Campania quasi tutti i dirigenti avevano maturato il diritto a percepire gli incentivi previsti. E la Lombardia? «Mentre i 270 impiegati sono impegnati in una estenuante trattativa per il rinnovo del contratto integrativo», ha scritto in un articolo su Repubblica Matteo Pucciarelli lo scorso 30 maggio, «a 27 dirigenti amministrativi sono stati liquidati i premi di risultato 2013: in media, 20 mila euro a testa». E l’Emilia Romagna? Per i premi dirigenziali, ha spiegato il Resto Del Carlino «si spenderanno quest’anno 600 mila euro in più, da 2,6 a 3,2 milioni. Sul podio ci sono 184 dirigenti. L’ultima volta erano 160. In futuro c’è la promessa di usare criteri più oggettivi, dicono in Regione, ma per ora nulla è cambiato: a sette dirigenti su dieci viene assegnata la valutazione massima».

Ma così fan tutti. Dove per tutti non si intendono le fasce dirigenziali, ma il complesso dei dipendenti pubblici. Un esempio? Nell’autunno del 2012 la giunta dimissionaria della Regione Lazio guidata da Renata Polverini firmò con i sindacati un contratto integrativo per il personale regionale semplicemente surreale. La possibilità di accedere agli incentivi economici era legata alla compilazione di una scheda di valutazione nella quale non esisteva neppure la casella «insufficiente».

Per non parlare delle cosiddette «progressioni orizzontali», ovvero gli aumenti di stipendio concessi ai dipendenti di alcune amministrazioni. L’ispettore della Ragioneria generale dello Stato che ha passato al setaccio i conti della Regione Calabria ha descritto uno scenario impressionante. Per i circa 3 mila dipendenti di quell’ente si sono registrati dal 1999 al 2010 qualcosa come 17.946 «progressioni economiche orizzontali». Sfidiamo chiunque a dimostrare che a quegli aumenti di stipendio ha corrisposto un aumento della qualità dei servizi erogati a imprese e cittadini calabresi.

Allo stesso modo, gli ispettori spediti dalla Ragioneria a esaminare nel 2010 i conti della Regione Campania denunciarono in un rapporto ustionante che negli anni precedenti tutti gli oltre 7 mila dipendenti regionali ne avevano beneficiato a più riprese. Unici esclusi, coloro che avevano riportato condanne penali o sanzioni amministrative pesanti. Nemmeno tutti, però.

Come del resto prevedeva un contratto integrativo, firmato qualche anno fa sempre dai sindacati dell’Ama, l’azienda municipalizzata dei rifiuti di Roma, con i vertici aziendali dell’epoca. Contratto che prevedeva la corresponsione di un premio di produttività a chi si fosse presentato al lavoro almeno metà del tempo e non avesse accumulato più di sei giorni di sospensione disciplinare. Fannulloni e castigati, ma premiati lo stesso.

18 agosto 2014 | 07:20
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Da - http://www.corriere.it/economia/14_agosto_18/se-superbonus-per-merito-finiscono-tutti-2d112f90-2696-11e4-bbeb-633ac699516c.shtml
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« Risposta #191 inserito:: Agosto 23, 2014, 12:36:01 pm »

Il caso
La resistenza delle vecchie Province La legge Delrio ancora nel limbo
La strada della riforma costituzionale per l’abolizione vera e propria è molto lunga. Mancano i decreti attuativi, gli Enti conservano le loro competenze

Di SERGIO RIZZO

Che fine ha fatto l’abolizione delle Province? Ascoltiamo che cosa ha detto il 6 agosto il senatore democratico Paolo Russo: «Dicevano che era solo una sceneggiata, che la legge 56 che aboliva le Province, e di cui sono stato anche relatore al Senato, non avrebbe cambiato nulla. E invece qualche minuto fa, votando l’articolo 28 della riforma del Senato, abbiamo definitivamente cancellato le Province anche dalla Costituzione». Comprendiamo l’entusiasmo. Ma non condividiamo tanto ottimismo. La strada della riforma costituzionale purtroppo è ancora molto lunga, come Russo non può non sapere. Ben che vada, le Province spariranno definitivamente nel giro di qualche anno. E poi la famosa legge 56 non ha affatto abolito le Province. Ma ne ha cambiato la natura. In più adesso si è scoperto che mancano i decreti attuativi per cui neanche le modifiche previste da quella legge sono mai diventare operative: dovevano essere pronti per luglio, ma non se ne avrà notizia, pare, prima di settembre. Eppure i cambiamenti di quella legge non sarebbero nemmeno marginali.

Saremmo infatti ingenerosi se non ammettessimo che eliminando il livello elettivo provinciale è stato raggiunto un risultato importante. Perfino epocale, per come vanno le cose in Italia. Certo, il meccanismo va messo a punto. E non vorremmo che alla fine le vecchie logiche dei partiti, pur senza l’elezione diretta da parte dei cittadini, finissero per sopravvivere. Il sospetto viene, leggendo la nota della Provincia di Modena con la quale si comunica il rinvio al 4 ottobre delle elezioni del nuovo presidente e dei nuovi 12 consiglieri che dovranno essere designati (a Modena come in tutte le altre Province) da 697 fra sindaci e consiglieri comunali: rinvio necessario «al fine di concedere alcuni giorni in più ai gruppi politici per la raccolta delle sottoscrizioni e la presentazione delle candidature». Come se non ci fosse stato abbastanza tempo: la legge 56 è stata approvata il 7 aprile scorso, quasi cinque mesi fa.

C’è poi la faccenda che riguarda le funzioni. È chiaro che finché non verranno ripartite fra i Comuni e le Regioni, le Province continueranno tranquillamente a vivere, sia pure formalmente un po’ diverse. Quasi tutte: vale la pena di ricordare che nella Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, dove le disposizioni sull’abolizione del livello elettivo diretto provinciale non erano state recepite, i cittadini sono stati chiamati a rinnovare il consiglio provinciale di Udine neppure un anno fa. A dimostrazione del fatto che il partito delle Province è tutt’altro che sconfitto.

Un nodo cruciale, questo. Perché se dovesse andare in porto, come ci auguriamo, la riforma della Costituzione, si tratterà di vedere come la scomparsa delle Province dalla carta fondamentale potrà conciliarsi con una legge che continua a riconoscere a quegli enti competenze come la viabilità, i trasporti, l’ambiente, le scuole...


Non a caso gli esperti del gruppo coordinato da Massimo Bordignon, incaricato dal commissario della spending review Carlo Cottarelli di analizzare i costi della politica a livello locale, suggeriscono nel loro rapporto di «prevedere che una volta abolite le Province sul piano costituzionale e deciso quali funzioni e risorse ritornano nell’alveo statale, tutte le funzioni e le risorse residue passino alle Regioni, lasciando poi a queste decidere come delegare funzioni e risorse. Questo andrebbe anche nella direzione di semplificare e ridurre il numero di decisori locali e la sovrapposizione di funzioni fra livelli di governo». Saranno ascoltati?
E la faccenda delle città metropolitane, che dovrebbero sostituire le Province nei grandi agglomerati urbani, non è meno spinosa, come sottolinea sempre il rapporto Bordignon. Intanto per la curiosa indicazione di alcune zone da eleggere ad aree metropolitane: per esempio, Reggio Calabria. A dimostrazione del fatto che si è trattato di una scelta basata su considerazioni politiche «piuttosto che parametri oggettivi». Ma poi per il fatto che il territorio dovrebbe coincidere con quello delle vecchie province, «anche se non è ovvio che le funzioni proprie delle città metropolitane siano adeguate per il vecchio territorio provinciale».

In tutto questo c’è chi insiste, come il governatore della Campania Stefano Caldoro, perché invece delle Province vengano abolite le Regioni. Ma questa è un’altra storia. Nemmeno troppo campata per aria: solo molto, ma molto più complicata.

23 agosto 2014 | 07:45
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_agosto_23/resistenza-vecchie-province-legge-delrio-ancora-limbo-44cddd42-2a86-11e4-9f31-ce6c8510794f.shtml
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« Risposta #192 inserito:: Agosto 31, 2014, 09:07:04 am »

NORME COMPLICATE, CITTADINI INDIFESI
Sommersi da una valanga di regole fiscali

Di Sergio Rizzo

Bravissimi a «incasinare le cose semplici», abbiamo «un sistema fiscale che è quanto di più assurdo, farraginoso e devastante si possa immaginare». Diagnosi pressoché perfetta, quella di Matteo Renzi. Così perfetta che di fronte a questa realtà certe promesse, condite dalla convinzione che «se ci impegniamo le tasse possiamo pagarle con un sms» sembrano fantascienza.

Inarrestabile nel fare la pulci alla burocrazia, l’ufficio studi della Confartigianato si è preso la briga di contare le norme in materia fiscale che sono state emanate di volta in volta dai quattro governi che si sono succeduti dal 29 aprile 2008 all’8 agosto 2014. Sono la bellezza di 691, in 46 diversi provvedimenti. Una massa imponente di regole e disposizioni che si sono andate ad aggiungere al mucchio, già inverosimile, di leggi e circolari. E di quelle 691 norme, ben 418 hanno avuto un impatto burocratico sulle imprese, rendendo ancora più complessi gli adempimenti. Il tutto mentre le disposizioni che avrebbero dovuto facilitargli la vita, sempre fiscalmente parlando, si sono fermate a 96.

Facendo la differenza fra i due dati, salta fuori un «saldo burocratico», come lo definisce la Confartigianato, di 322. Il che fa concludere che nei 2.292 giorni presi in esame il nostro Fisco si è complicato al ritmo di una norma alla settimana. Esattamente, una ogni 7,1 giorni. Sabati, domeniche e feste comandate comprese. E poco importa che la maggioranza delle regole «complicatrici» abbia avuto effetti contenuti, considerando che quelle il cui impatto è considerato tragicamente insostenibile sono «soltanto» 29 su 418. Il fatto è che quella «tela di Penelope» capace di rendere il sistema sempre più intricato, lento e costoso hanno continuato imperterriti a tesserla di giorno e smontarla di notte. Se è vero, nei sei anni presi in esame, che per ogni norma di semplificazione ne sono state approvate 4,3 di complicazione.

Il record assoluto è stato conseguito nel 2013, anno per due terzi governato da Enrico Letta. L’organizzazione degli artigiani ha calcolato un «saldo burocratico» di ben 93 norme. Una ogni 3,9 giorni. Al secondo posto il 2012, interamente sotto la responsabilità del governo di Mario Monti, con il «saldo burocratico» arrivato a 70. Vero è che anche l’esecutivo di Silvio Berlusconi ci aveva messo del suo, con un «saldo» pari a 142. Ma in tre anni e mezzo. E Renzi? Il governo dell’ex sindaco di Firenze, afferma il dossier della Confartigianato, «ha emanato sette provvedimenti con 75 norme di carattere fiscale di cui 24 semplificano, 11 sono neutre e 40 hanno impatto burocratico sulle imprese». C’è però da dire che le semplificazioni sono quasi tutte concentrate (23 su 24) nel decreto sulle dichiarazioni precompilate esaminato dal Consiglio dei ministri a giugno ma ancora da approvare. Forse domani: vedremo. E se nella valanga abbattutasi dal 2008 sulle imprese potrebbe essere quello il provvedimento con il migliore «saldo burocratico», alla luce dell’andazzo di questi sei anni non possiamo che considerarlo per ora solo un segnale. La corda è davvero tesa all’inverosimile. Il segretario generale della Confartigianato Cesare Fumagalli sostiene che non c’è da perdere un minuto: «Il gioco di ridurre una tassa e poi aumentarne altre perché serve gettito per coprire le spese sta ammazzando le pecore, tosate già oltre ogni limite. Senza interventi immediati che riducano gli oneri fiscali per le imprese si rischia davvero grosso. Se non ora, quando?».

Tornano alla mente le parole con cui il ministro delle Finanze Antonio Gava debuttò in un’audizione parlamentare: «La prima cosa, urgentissima, per potenziare la lotta all’evasione fiscale, è la semplificazione del sistema tributario». Correva l’anno 1987. Sei anni dopo, era il 1993, il suo successore Franco Reviglio firmava il decreto istitutivo di una commissione per la semplificazione della normativa fiscale. Finita nel nulla.

Neanche quindici mesi e il primo governo Berlusconi, ministro il «Reviglio boy» Giulio Tremonti, faceva trapelare un progetto superavveniristico. Titolo dell’Ansa del 5 agosto 1994: «Fisco, verso pagamento tasse con bancomat». Rincarava la dose il ministro Augusto Fantozzi, il 24 maggio 1995: «Grosse novità dal ddl semplificazione fiscale». E nel 2001, mentre gli sportelli automatici delle banche erano in attesa di avvistare il primo contribuente e delle «grosse novità» non c’erano ancora tracce, Tremonti dichiarava: «Grazie al regolamento sulla semplificazione del Fisco in Italia si avranno 190 milioni di atti amministrativi in meno». Da allora non c’è stato governo che non abbia garantito un Fisco più facile e amico dei cittadini e delle imprese. L’ha promesso il centrodestra e l’ha promesso il centrosinistra. L’ha promesso il governo tecnico e l’ha promesso quello delle larghe intese. Ma ondeggiando arditamente fra bancomat, sms e dichiarazioni precompilate alla francese, siamo sempre lì. Sempre più sommersi da commi, circolari e regolamenti. Inchiodati a quel 1987, quando la semplificazione era considerata urgentissima. Quando Reagan e Gorbaciov firmavano il trattato sugli euromissili, la Cbs trasmetteva in America la prima puntata di Beautiful, al maxiprocesso di Palermo la cupola di Cosa nostra veniva condannata all’ergastolo...

28 agosto 2014 | 10:18
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_agosto_28/sommersi-una-valanga-regole-fiscali-b0c38218-2e82-11e4-866c-ea2e640a1749.shtml
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« Risposta #193 inserito:: Settembre 06, 2014, 05:03:21 pm »

A ogni città il suo vocabolario: norme edilizie, invincibile Babele

Di SERGIO RIZZO

Un problema «formale» l’ha definito il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi. Quale sia la «formalità» così decisiva da far saltare la semplificazione più importante contenuta nel decreto «sblocca Italia», non è dato sapere. L’unica cosa certa è che la norma con la quale si stabiliva che gli 8 mila Comuni italiani avrebbero avuto un regolamento edilizio uguale per tutti è misteriosamente scomparsa nella notte fra lunedì e martedì. Evaporata, volatilizzata, dissolta. Lupi dice che se ne parlerà in sede di conversione del decreto nel Parlamento. Oppure in un altro provvedimento.

Che cosa è successo? Lupi fa capire che ci potrebbe essere stato il solito problema della Ragioneria: per una norma che non ha costi e che farebbe perfino risparmiare. C’è invece chi dice che gli uffici (quali uffici?) avrebbero sollevato un problema di conflitto con le amministrazioni locali, visto che la materia è di competenza regionale. E non manca chi suggerisce che non avendo una norma del genere carattere di urgenza, non si può adottare per decreto: come se non fosse urgente dare a tutti gli italiani la possibilità di avere un permesso edilizio al massimo in 110 giorni, la media europea, anziché il 239, la media italiana.

Perché questo sarebbe successo se quella norma, sulla quale tutti (ma forse solo apparentemente) si erano dichiarati d’accordo, fosse sopravvissuta. Per quel malinteso senso dell’autonomia che sconfina nel grottesco, è successo che ogni Comune si è fatto un regolamento proprio, diverso da quello del paese o della città vicina. Si comincia dall’elemento più banale: il vocabolario. La stessa cosa si può chiamare con termini differenti. La superficie di un’abitazione che a Milano si chiama «pavimentabile», altrove è «calpestabile», oppure «netta». Qualcuno arriva perfino a definire maniacalmente certe disposizioni igieniche, come il bagno che per legge (per legge!) dev’esser piastrellato fino a una certa altezza, o «rivestito di materiale lavabile». Il guazzabuglio di norme comunali è talmente complicato che nello stesso ufficio tecnico municipale c’è chi arriva a interpretare una regola in modo diverso dal suo collega di stanza. Quando addirittura, come nel caso di Roma, ci sono regole diverse da una circoscrizione all’altra.

Prevedibilissime e devastanti le conseguenze. Una burocrazia asfissiante e talvolta senza alcuna certezza, tanto è soggettiva l’interpretazione delle regole. Con tempi indefiniti e costi allucinanti a carico dei cittadini. Che per ogni più piccolo intervento sono costretti a rivolgersi a specialisti e azzeccagarbugli: gli unici capaci a districarsi nella giungla delle norme. Per non parlare del problema di alcuni diritti fondamentali dei cittadini, diseguali da città a città. Si potrebbe aggiungere che questo sistema rappresenta un incentivo formidabile per la corruzione, il che già basterebbe per cambiarlo radicalmente.

Inevitabile il sospetto che siano proprio questi i motivi che hanno finora impedito di metterci mano. Gli apparati burocratici locali sarebbero così felici di perdere tutto questo potere di tracciare norme e regolamenti che viaggiano dagli uffici comunali a quelli regionali in un vortice infinito, senza considerare la quantità di personale che si ritroverebbe improvvisamente senza occupazione? E i consulenti che prosperano grazie alla complicazione dei regolamenti comunali, pensate che accetterebbero volentieri di vedersi privare di una fonte di reddito così generosa?
Per ora si deve prendere atto come il governo di Matteo Renzi, che al suo debutto aveva dichiarato guerra alla burocrazia promettendo semplificazioni a tappeto, ha spedito un’altra palla in tribuna. Del regolamento edilizio comunale unico ne parleranno forse nella legge di Stabilità, se qualche temerario non oserà riproporla in Parlamento. Insomma, campa cavallo. Mentre nel decreto «sblocca Italia» la norma a dir poco controversa che consentirà la proroga delle concessioni autostradali non ha subito al contrario alcun incidente di percorso nelle segrete delle burocrazie ministeriali. Guarda un po’...

5 settembre 2014 | 10:35
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_settembre_05/a-ogni-citta-suo-vocabolario-norme-edilizie-invincibile-babele-c3398c30-34d6-11e4-8bde-13a5c0a12f77.shtml
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« Risposta #194 inserito:: Settembre 06, 2014, 05:52:02 pm »

Province, i numeri delle clientele
Con la riforma 20 mila da ricollocare
In Calabria un «esubero» ogni 1.200 abitanti, il triplo che in Lombardia

Di Sergio Rizzo

Graziano Delrio dice che per portare a casa i risultati non basta far passare un provvedimento. Ma «bisogna stare sul pezzo». Vale anche per l’abolizione delle Province elettive, trasformate in enti di area vasta da una legge nota ormai con il suo nome. Dovrebbero essere poco più che agenzie nominate dai sindaci, in attesa che la riforma costituzionale faccia sparire definitivamente la parola «Province» dalla nostra carta fondamentale. Non resta che aspettare giovedì 11 settembre, data per cui a sentire il sottosegretario alla presidenza («il ministro Maria Carmela Lanzetta me l’ha promesso e io sto lì tutti i giorni a sollecitare») saranno partoriti i famosi decreti attuativi. Un parto non proprio semplicissimo, se ci sono voluti cinque mesi dall’approvazione della legge per sfornarli.

Nel frattempo una società del Tesoro e della Banca d’Italia, la Sose, ha fatto con il centro studi bolognese Nomisma una simulazione del personale e dei costi necessari a questi enti di area vasta. Arrivando alla conclusione che dei 47.862 dipendenti provinciali censiti nel 2010 nelle sole quindici Regioni a statuto ordinario basterebbero, per assolvere le funzioni demandate loro dalla legge Delrio, 27.269: ipotizzando che la situazione rimanga tale e quale a quella attuale nelle dieci Province di cui è previsto il passaggio a città metropolitane. Un elenco che oltre a Roma, Milano, Bologna, Firenze, Bari, Genova, Venezia, Napoli e Torino include anche (curiosamente) Reggio Calabria per un numero totale di 13.392 dipendenti.

Tenendo presente che il fabbisogno di personale in tutte le altre è valutato in 13.611 unità, più le 266 ritenute ottimali per le tre ex Province qualificate come «montane», ovvero Sondrio, Belluno e Verbano-Cusio-Ossola, il risultato è che ci sarebbero almeno 20.593 persone di troppo. E senza considerare l’impatto della riforma nelle cinque Regioni a statuto autonomistico come Sicilia, Sardegna, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta: ancora tutto da valutare. Le prime tre dovranno adeguarsi entro un anno a partire dall’8 aprile scorso. Per le ultime due la legge Delrio sarà applicabile solo «compatibilmente con le norme dei rispettivi statuti». Il che lascia, com’è ovvio, margini enormi di sopravvivenza del vecchio sistema. Basta dire che mentre la legge si discuteva in Parlamento la Provincia di Udine andava tranquillamente alle elezioni senza porsi minimamente il problema: il consiglio provinciale scade nell’aprile 2018.

Almeno 20.593 persone da licenziare, dunque? Nemmeno per idea. «Da riallocare», precisa lo studio di Sose e Nomisma in perfetta sintonia con quanto a suo tempo precisato dal governo, «fra Regioni e Comuni». E sono numeri che oltre a dare l’idea delle dimensioni del taglio inferto alle vecchie Province, fanno anche capire la portata delle clientele locali. Per 2.955 esuberi nelle Province lombarde, (Milano a parte), ce ne sono 1.620 in quelle calabresi (Reggio Calabria a parte).

Un esubero ogni 3.364 abitanti in Lombardia, uno ogni 1.208 in Calabria. Ma anche uno ogni 1.201 residenti nelle Marche, ogni 1.551 nel Molise, ogni 1.621 in Toscana, ogni 2.060 in Emilia Romagna. Sorprende il dato del Lazio, dove c’è un esubero ogni 5.746 abitanti. Ma è un numero evidentemente collegato al peso nella Regione della Provincia di Roma, che ha 3.106 dipendenti: cifra paragonabile a quella del personale dell’intera Regione Lombardia.

Va anche detto che la Provincia di Milano compila ogni mese 1.889 buste paga. Con un rapporto di un dipendente provinciale ogni 1.681 abitanti, inferiore del 17 per cento appena alla Provincia di Roma, che ne ha uno ogni 1.391 residenti. Divario in parte giustificabile con il fatto che la superficie romana è più che tripla rispetto a quella milanese. Ciò che invece nessun parametro fisico può spiegare è come mai la Provincia di Reggio Calabria abbia in proporzione ai suoi abitanti un numero di dipendenti dieci volte superiore alla Province di Roma o Torino, e addirittura dodici volte a quella di Milano. Sono 1.057, uno ogni 135 abitanti. Circostanza che rafforza ancora di più, se possibile, le legittime perplessità manifestate sulla trasformazione in città metropolitana dagli esperti della spending review.

Meno dipendenti e funzioni ridotte, senza più i vecchi apparati politici significa ovviamente anche minori costi. Prima della riforma la spesa corrente delle quindici Regioni a statuto ordinario ammontava (dato 2010) a 8 miliardi e 58 milioni l’anno. La previsione con il nuovo assetto è di un miliardo 524 milioni; ma sempre senza considerare le famose dieci città metropolitane, le cui uscite correnti sono pari a 2 miliardi 679 milioni. La differenza è quindi pari a 3 miliardi 855 milioni. Ma guai a chiamarlo risparmio. Il rapporto Sose-Nomisma lo definisce: «spesa da ricollocare fra gli altri enti territoriali». Perché c’è pur sempre il personale in esubero. E volete che con questi chiari di luna Regioni e Comuni rinuncino a spartirsi le altre spoglie?

3 settembre 2014 | 08:12
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_settembre_03/province-numeri-clientele-la-riforma-20-mila-ricollocare-00f93c6e-332e-11e4-9d48-ef4163c6635c.shtml
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