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Autore Discussione: SERGIO RIZZO  (Letto 136057 volte)
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« Risposta #165 inserito:: Ottobre 15, 2013, 05:23:59 pm »

REGIONI E SPRECHI INSOSTENIBILI

Dimagrire senza proteste

Alla sua prima legge di Stabilità il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni ha imparato quanto sia complicato nel nostro Paese usare le forbici. Ma al tempo stesso come si possa aggirare il problema inventando nuove tasse, nazionali e locali: che suscitano proteste decisamente meno rumorose e ingombranti rispetto a quelle che si scatenano quando qualunque governo fa balenare l’ipotesi di un giro di vite alle spese. Le Regioni sono arrivate a minacciare la rivolta di fronte alla prospettiva di tagli alla Sanità che il loro rappresentante Vasco Errani ha giudicato senza timori come «insostenibili». Fare di tutta l’erba un fascio è sempre sbagliato. E certi tagli sconsiderati possono creare danni superiori al risparmio mettendo a repentaglio servizi essenziali. Ma con altrettanta chiarezza va detto che se c’è una cosa davvero non più «sostenibile» per chi paga le tasse è il livello raggiunto dalla spesa pubblica in rapporto alla qualità spesso scadentissima dei servizi stessi. Molte Regioni, da questo punto di vista, sono un autentico buco nero.

Dal 2000 al 2010 la spesa pubblica regionale ha superato di slancio i 200 miliardi di euro. La crescita è stata di 89 miliardi, che corrisponde a un incremento del 75 per cento monetario e del 45,4 per cento oltre l’inflazione.

Questo aumento abnorme sarebbe giustificato dal trasferimento di competenze dallo Stato centrale alle Regioni determinato dalla riforma del titolo V della Costituzione. Una scelta politica che secondo logica avrebbe dovuto causare una corrispondente riduzione del bilancio statale: più spese in periferia, dunque meno spese al centro. È accaduto invece il contrario.

All’esplosione delle spese periferiche ha corrisposto anzi un ulteriore aumento di quelle centrali. Mentre le uscite regionali aumentavano del 45,4 per cento, la parte restante della spesa pubblica segnava una crescita reale del 17,7 per cento, con una progressione sconosciuta in Europa. Ovvio che per alimentare una macchina impazzita, capace di ingoiare nel 2010 ben 245 miliardi in più rispetto a dieci anni prima, la pressione fiscale sia andata letteralmente in orbita.

Il doppio fallimento del centrosinistra che volle imporre a maggioranza la riforma del titolo V alla vigilia della disfatta elettorale del 2001, e del centrodestra che ha poi governato per la stragrande maggioranza del tempo lo Stato centrale e molte Regioni, è tutto in questi numeri.

E veniamo alla Sanità. La crescita della spesa regionale in un decennio è per circa 50 miliardi attribuibile al servizio sanitario. Che purtroppo, almeno in un bel pezzo d’Italia, non si può dire sia migliorato in proporzione. Tutt’altro. L’ultimo rapporto della commissione parlamentare d’inchiesta conferma l’esistenza di un divario territoriale inaccettabile, con un rischio per la salute triplo al Sud nei confronti del Nord e sprechi inimmaginabili. Perché il problema non è soltanto quanti soldi vengono spesi, ma come. Quando si protesta contro i tagli bisognerebbe anche ricordare questo princi-pio elementare. Soprattutto se per limitare le sforbiciatine arrivano nuove tasse.

15 ottobre 2013
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Sergio Rizzo

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_ottobre_15/dimagrire-senza-proteste-cb5c034e-3558-11e3-9c0c-20e16e3a15ed.shtml
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« Risposta #166 inserito:: Ottobre 28, 2013, 09:31:39 am »

Gli obiettivi: vendite per ridurre il debito pubblico e contenere il deficit.

Carceri, scuole,ospedali e palazzi nel superfondo degli immobili di stato

Il sogno di abbattere il debito dello Stato



Nel centro del centro di Roma c’era una volta un ospedale. San Giacomo, si chiamava. Finché un bel giorno il governatore del Lazio, Piero Marrazzo, decise di chiuderlo. Apriti cielo!

Chi protestava che il centro storico della Capitale veniva privato del pronto soccorso. Chi sosteneva che si voleva infliggere un colpo mortale alla sanità pubblica. Chi sospettava una manovra per favorire la speculazione edilizia… Risultato: che da cinque anni il San Giacomo, uno stabile enorme fra via di Ripetta e via del Corso, è vuoto. E Dio solo sa quanto costa alla Regione per evitare che cada a pezzi. Perché un tale patrimonio non viene riutilizzato? Vi spiegheranno che la faccenda è complicata. L’immobile è vincolato e poi c’è la questione sollevata da Olivia Salviati, discendente del cardinale Antonio Maria Salviati che al tempo lo regalò allo Stato pontificio: sostiene che fu donato esplicitamente per usi benefici e non può essere impiegato che per quelli. Insomma, se qualcuno ha pensato di trasformarlo in uffici, o peggio ancora di metterci un albergo, se lo può scordare. Anche se in questi frangenti far risparmiare qualche euro alla collettività, diciamo la verità, può ben essere considerata un’opera benefica. E pazienza se l’ultimo Papa Re è sceso dal trono un secolo e mezzo fa e l’ospedale è finito in proprietà prima al Regno d’Italia e successivamente alla Regione Lazio. Il fatto è che per cinque lunghi anni nessuno si è occupato di risolvere la faccenda.

Gli immobili dello Stato in vendita

Quale sia il motivo, se le inerzie burocratiche o altro, poco importa. La storia del San Giacomo spiega bene quanto sia complicato in Italia gestire l’immenso patrimonio pubblico senza rimetterci l’osso del collo. Alla fine degli anni Novanta una commissione guidata dall’ex ministro della Funzione pubblica Sabino Cassese lo valutò in una somma equivalente a oltre 700 miliardi di euro attuali. Stime successive hanno calcolato per i beni pubblici effettivamente cedibili un valore compreso fra 300 e 400 miliardi. Eppure, mentre la rendita di un patrimonio tanto imponente è inesistente, lo Stato e le amministrazioni pubbliche locali spendono 12 miliardi l’anno per affittare locali dai privati. Un’analisi svolta dal gruppo di lavoro di Pietro Giarda ha appurato che soltanto la polizia e i carabinieri sopportano per canoni passivi un esborso superiore a 600 milioni l’anno.

Gli immobili trasferiti a Cdp

Ecco perché, dopo averle pensate tutte, il ministero dell’Economia si è risolto a giocare l’ultima carta, quella del fondo dei fondi. Qualche mese fa ha costituito una Sgr, Società di gestione del risparmio, battezzata Invimit, e l’ha affidata all’ex direttrice dell’Agenzia del Demanio Elisabetta Spitz con il ruolo di amministratore delegato, affiancata da una vecchia conoscenza del ministero con l’incarico di presidente: Vincenzo Fortunato, per dodici anni consecutivi capo di gabinetto del Tesoro di Giulio Tremonti, Domenico Siniscalco, Mario Monti e Vittorio Grilli con un breve intermezzo biennale alle Infrastrutture di Antonio Di Pietro.

Obiettivo, far risparmiare un po’ di soldi ai contribuenti e magari dare un colpettino al nostro immenso debito pubblico. In che modo? Gestendo direttamente, o anche attraverso altre Sgr (magari private) una serie di fondi immobiliari nei quali lo Stato, o magari le Regioni e gli enti locali, riversano pezzi del loro patrimonio perché venga o valorizzato oppure ceduto. Un esempio? Le scuole. Ce ne sono tante non più utilizzate mentre mancano i soldi per riparare il tetto o mettere a norma gli impianti delle altre o costruirne di nuove e più moderne. La Provincia X potrebbe allora costituire un fondo immobiliare al quale apportare tutti gli edifici scolastici: quelli non più usati verrebbero riconvertiti, affittati ai privati come uffici o venduti, e con il ricavato si realizzerebbero strutture nuove. Tutto semplice, sulla carta: salvo poi fare i conti con la solita burocrazia (permessi, cambiamenti di destinazione d’uso…) quando non con le resistenze locali. Scontate.

Il piano d’azione della Invimit, che ha avuto dieci giorni fa il benestare della Banca d’Italia, prevede soprattutto, che la Sgr, oltre a gestire direttamente questi fondi, possa trovare sul mercato soggetti privati disponibili a investirvi. E per soggetti privati s’intende non soltanto italiani. Il piano cita espressamente le casse di previdenza private, le compagnie di assicurazioni ma anche gli investitori finanziari esteri. Le dimensioni cui pensano i responsabili dell’operazione lo giustificherebbero. Lo stesso piano prevede infatti che entro il 2017 i fondi collegati alla Invimit arrivino a contenere immobili pubblici per un controvalore di 6 miliardi e 100 milioni di euro. Quattro miliardi riguarderanno i cosiddetti fondi diretti, ai quali parteciperanno conferendo i propri immobili Inps, la Regione Lazio, l’Unioncamere e l’Inail. La partecipazione di quest’ultimo ente, però, non si limiterà ai mattoni. Siccome per partire serviranno delle risorse liquide, a queste si provvederà proprio attingendo al tesoretto dell’Inail, che ci metterà qualcosa come un miliardo e 800 milioni.

Il primo di questi «fondi diretti» avrà dentro immobili dell’Inps per 1,9 miliardi. Poi toccherà alla Regione Lazio apportare beni per 800 milioni. L’ente governato ora da Nicola Zingaretti ha un patrimonio sterminato. Dell’ex ospedale San Giacomo si è già detto: ma non è l’unico. C’è l’ex nosocomio Santa Maria della Pietà a Monte Mario, come pure l’ex Forlanini. E ci sono poi altri immobili in zone prestigiose, quali il palazzo di via Maria Adelaide occupato dalla associazione Action dell’ex pugile Andrea Alzetta detto «Tarzan» (valore, 28 milioni di euro) o lo stabile in via della Mercede, a due passi dalla Camera dei Deputati, che ospita il teatro Sala Umberto. Ancora. Fra il 2016 e il 2017 toccherà al patrimonio Inail: 1,4 miliardi. L’elenco degli immobili di pregio nel portafoglio dell’istituto è lunghissimo, a cominciare da un grande palazzo che affaccia su piazza Cavour, a Roma.

Ci sono poi i cosiddetti Fondi dei fondi, per un totale di 1,8 miliardi. Come appunto il Fondo scuole, cui abbiamo già accennato, per il quale sono stati già individuati dei complessi a Bologna e Firenze. E come il Fondo carceri, nel quale confluiranno inizialmente le case circondariali di Venezia e di Catania. Oppure il Fondo Beni pubblica amministrazione che conterrà stabili demaniali da destinare a uffici pubblici. E a questo punto è d’obbligo dare risposta a una domanda: che cosa ci guadagnerà in concreto lo Stato? Si è parlato di una riduzione del debito pubblico conseguente alle cessioni. Il destino di molti immobili contenuti in quei fondi, come per esempio le carceri senza detenuti o le caserme senza soldati, saranno vendute e il ricavato dovrà abbattere il debito pubblico. Difficile valutare ora il reale impatto di tale capitolo, come non è semplice calcolare di quanto questa iniziativa potrà alleggerire il deficit pubblico. Ma fra gli obiettivi c’è anche questo. Aumentare la redditività del patrimonio di un ente previdenziale, per fare un esempio, avrebbe come conseguenza la corrispondente riduzione dei trasferimenti pubblici. Così come trasferire un ufficio pubblico da un immobile di proprietà privata a un palazzo demaniale farà risparmiare la spesa dell’affitto. Senza poi considerare gli effetti sui costi di manutenzione e delle utenze della riduzione del numero dei contratti di fornitura, già sperimentati recentemente al Consiglio nazionale delle ricerche dove si sono ottenuti risparmi considerevoli.

Ma a guadagnarci saranno anche i privati. Un simile affare prevede non soltanto l’acquisizione di quote di questi fondi da parte di investitori italiani ed esteri, e l’affidamento della loro gestione tramite gara a Sgr terze, ma pure il coinvolgimento di professionisti del ramo immobiliare. Staremo a vedere se le previsioni contenute nel piano saranno rispettate. Possiamo solo sperare che questa iniziativa segni un effettivo cambiamento di rotta nella gestione del patrimonio pubblico. E che alla parola «valorizzazione» seguano i fatti. Perché non si può dire che i tentativi di mettere a frutto gli immobili pubblici abbiano dato finora risultati particolarmente lusinghieri. Basta pensare al fallimento di operazioni come Patrimonio spa, la società creata dieci anni fa dal Tesoro e affidata a Massimo Ponzellini con la missione di privatizzare le vecchie carceri. Oppure come Metropolis, ideata più di vent’anni fa per valorizzare e cedere gli immobili delle Ferrovie dello Stato. O ripercorrere la storia delle cartolarizzazioni, che avrebbero dovuto contribuire alla sostanziosa riduzione del debito pubblico, attirandosi invece giudizi ingenerosi della Corte dei conti. Per non parlare della sabbia che gli interessi particolari hanno sempre gettato negli ingranaggi ogni volta che c’era in ballo qualche operazione virtuosa sul patrimonio pubblico: fossero le caserme, gli ospedali o perfino i terreni agricoli. Che serva di lezione.

21 ottobre 2013
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Sergio Rizzo

http://www.corriere.it/economia/13_ottobre_21/carceri-scuoleospedali-palazzi-superfondo-immobili-stato-501b1666-3a12-11e3-970f-65b4fa45538a.shtml
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« Risposta #167 inserito:: Novembre 04, 2013, 05:36:22 pm »

I calcoli sui vantaggi economi del taglio delle province

Oltre 11 mila nuovi posti negli asili nido con il taglio della politica nelle Province

Dalle consulenze alle spese correnti, le stime dei ministeri sui benefici del la soppressione.

Inefficienze per 2,6 miliardi


È una sfiancante guerra di trincea, quella che si combatte sul destino delle Province. Una guerra cui neppure i calcoli sui risparmi che si potrebbero ottenere eliminando i soli apparati politici, equivalenti secondo un dossier del ministero degli Affari regionali a 11.300 nuovi posti negli asili nido italiani, afflitti da un deficit drammatico, riesce a imprimere una svolta. Una guerra nella quale un Paese che ha un disperato bisogno di tagliare la spesa pubblica è invischiato ormai da anni, nonostante non ci sia stata una forza politica che non si sia schierata per l’abolizione di quegli enti. E le armi più acuminate sono i numeri che si scambiano i due schieramenti opposti.

Da una parte i bellicosi esponenti del partito delle Province, rianimati dalla sentenza della Consulta, affermano che la soppressione produrrebbe un aumento dei costi (tesi cara all’Upi). Un paio di miliardi l’anno, addirittura. L’obiettivo è almeno allungare i tempi della legge del ministro Graziano Delrio per arrivare fino alla prossima primavera, contando che a quel punto sarà impossibile non andare a votare per rinnovare più di 70 consigli provinciali: con il risultato di mettersi al sicuro per altri cinque anni.

Delrio: «Svuota province da approvare entro dicembre, se si votasse a primavera sarebbe una beffa»
Dall’altra chi è determinato a fiaccarne la resistenza, con l’obbligo di far passare prima di Natale quel provvedimento, oggetto di una estenuante melina in commissione alla Camera presieduta dal pidiellino Francesco Paolo Sisto, snocciola dati completamente diversi. A cominciare dai 113 milioni e 630 mila euro stimati dalla Bocconi come costo per le sole indennità degli oltre 4.200 politici provinciali: dai presidenti delle giunte ai consiglieri. Somma che come dicevamo potrebbe essere investita secondo il ministero di Delrio in 11.300 nuovi posti negli asili nido. Oppure nel dissesto idrogeologico del Paese, considerando che lo stanziamento statale per affrontare quel gravissimo problema non raggiunge un quarto di tale cifra. Ma è niente, rispetto ai risparmi che quel dossier ministeriale ipotizza.

Province: spese, inefficienze e risparmi Province: spese, inefficienze e risparmi

Per esempio, le spese correnti amministrative delle Province. Ammontano a 2,3 miliardi: dei quali sarebbero aggredibili un miliardo 335 milioni, considerando che il costo del personale, pari al 43 per cento del totale, non verrebbe toccato: i dipendenti resterebbero in carico alla Provincia, trasformata in organismo non più elettivo con funzioni ridotte, o transiterebbero in forza ad altri enti. Di più. L’analisi condotta dalla Sose (Soluzioni per il sistema economico), società di consulenza e servizi controllata dal ministero dell’Economia e dalla Banca d’Italia, nel 2012 ha stimato per la spesa di beni e servizi delle Province un tasso di inefficienza pari al 31,44 per cento, calcolando un risparmio possibile di 2 miliardi 612 milioni di euro a fronte di una massa di risorse pari a 8 miliardi 297 milioni.

Dalle sole spese per gli organi istituzionali, le consulenze, le collaborazioni e i contratti di cosiddetto «global service» si potrebbero recuperare oltre 553 milioni, considerando una inefficienza addirittura superiore. Pari in questi campi, secondo Sose, al 55,36 per cento. Per tutta risposta, l’Unione delle Province argomenta che l’aumento dei costi colpirebbe settori nevralgici, come quello delle scuole. Dice l’associazione guidata dal democratico presidente della Provincia di Torino Antonino Saitta che la spesa per riscaldarle, una volta che la funzione venisse trasferita ai Comuni, lieviterebbe del 53 per cento: 424 milioni in più. Opposta la tesi del dossier Delrio, che porta alcuni esempi. Come un paragone fra le scuole gestite dalla nuova Provincia di Fermo e dai Comuni che la compongono: considerando tra l’altro che metà delle scuole «provinciali» si trova proprio nella città di Fermo. Comune che spende per riscaldare i propri plessi scolastici 7,48 euro al metro quadrato contro gli 8,55 della Provincia. La differenza è del 13 per cento, che però sale al 28 per cento se si prende in esame il dato del Comune più virtuoso.

Lo stesso accade anche in altre Province. Quella di Treviso spende per riscaldare le scuole il 22 per cento più del Comune di Vittorio Veneto, quella di Reggio Emilia il 33 per cento più del Comune di Novellara, quella di Milano il 46 per cento in più rispetto a Sesto San Giovanni, quella di Parma il 68 per cento più di Sorbolo... «Se adottiamo lo stesso criterio utilizzato dall’Upi e calcoliamo la media dei risparmi dei Comuni virtuosi», conclude il dossier del ministero degli Affari regionali, «avremo dunque un risparmio medio del 39 per cento corrispondente, rispetto ai costi sostenuti dalle Province nel 2012 per riscaldare tutti gli edifici scolastici, pari a 312 milioni)». Per non parlare poi dei risparmi indiretti che si conseguirebbero con la riduzione dei livelli amministrativi e la dismissione di un patrimonio immobiliare spesso ridondante. Nonché la probabile (e auspicabile) eliminazione di uno strato di centinaia di società pubbliche spesso funzionali al solo mantenimento di poltrone, quando non inutili o in perdita. Per avere un’idea delle dimensioni di questo aspetto, si consideri che la sola Provincia di Bergamo ha 33 partecipazioni in società di capitali. Mentre la Provincia di Reggio Calabria controlla il 69 per cento della società che gestisce il locale piccolo aeroporto, in grado di accumulare nei dieci anni dal 2001 al 2010 perdite per 27 milioni senza mai chiudere un esercizio in utile.

Sappiamo che l’abolizione delle Province, o almeno la loro trasformazione in «agenzie di area vasta» non può essere la soluzione definitiva di un problema molto più complesso, che riguarda l’assetto di un sistema istituzionale disarticolato, confuso e costosissimo, con inutili duplicazioni e sovrapposizioni di competenze, e un numero assurdo di livelli amministrativi. Ma è comunque un passo avanti ineludibile. Poi si dovrà necessariamente mettere mano a funzioni e ruolo delle Regioni: molto più potenti e agguerrite delle Province.

04 novembre 2013
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Sergio Rizzo

Da - http://www.corriere.it/economia/13_novembre_04/oltre-11-mila-nuovi-posti-asili-nido-il-taglio-politica-province-972f28b6-451c-11e3-9115-48b024bd67ed.shtml
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« Risposta #168 inserito:: Novembre 17, 2013, 06:23:45 pm »

L’INCHIESTA /
Dall’ ambiente ad agricoltura e finanza, tutti i satelliti mangiasoldi dell’ente Voragine Lazio, la Regione spende 50 milioni

13_novembre_11

Nel portafoglio della Pisana 103 partecipazioni in società; con enti vari si arriva a un totale di 7.361 dipendenti.

I primi tagli del governatore: per ridurre da 88 a 13 le poltrone


ROMA - Se 50 milioni vi sembrano pochi, confrontateli con i 30 stanziati dalla legge di stabilità per gli interventi contro il dissesto idrogeologico in tutto il Paese: tanto la coperta è diventata corta. Ma non ancora abbastanza, evidentemente, per le Regioni. Almeno se è vero che cinquanta milioni corrispondono alla somma che Nicola Zingaretti ha dovuto tirare fuori solo per tappare i buchi delle società regionali da quando, otto mesi fa, è diventato governatore del Lazio. Trovandosi davanti un organismo che assomiglia sempre più al mostro di Frankenstein, fabbricato pazientemente aggiungendo pezzo a pezzo. Una dimostrazione concreta della folle deriva che ormai travolge l’intero sistema delle Regioni italiane, dove le sole società a controllo regionale diretto superano il numero di seicento.

LA «CREATURA» MOSTRUOSA - Le dimensioni raggiunte dalla «Creatura» nel Lazio in pochi anni, a dispetto dei proclami di riduzioni dei costi della politica, sono impressionanti. Nel portafoglio della Regione si contano 103 (centotrè) partecipazioni, dirette e indirette, in società di capitali: cui si devono poi aggiungere agenzie ed enti vari. Per un totale di 7.361 dipendenti. Ovvero più del doppio del personale in forza alla stessa Regione, quantificato dalla Ragioneria generale dello Stato in 3.613 unità. Numero, peraltro, già superiore del 91%, in rapporto agli abitanti, rispetto ai 3.371 impiegati della Lombardia.

IL CASO LAZIOAMBIENTE - Per spiegare come si sia potuti arrivare a quelle cifre è sufficiente il caso di Lazioambiente, una società creata dalla giunta di Renata Polverini pochi mesi prima di essere costretta alle dimissioni, con il solo obiettivo di riassumere i 487 dipendenti (dei quali 37 in cassa integrazione da tre anni) di un gruppo di società ambientali fallite che facevano capo a una cinquantina di comuni laziali. Spesa secca, 20 milioni. Sbalorditivo il costo di questo assurdo apparato: 510 milioni l’anno.

EMORRAGIA COTRAL: 71 MILA e AL DI’ - E poi ci sono, appunto, le perdite. Come l’emorragia di 71.120 euro al giorno dell’azienda di trasporto Cotral, che a fine 2012 aveva un patrimonio netto negativo per 15 milioni. O la voragine dell’Arsial, l’agenzia regionale creata per sostenere l’agricoltura, commissariata da qualche mese, che ha 17 milioni di debiti. Un decimo dei quali sul groppone di un ristorante. Che ci fa un ristorante fra le proprietà di una Regione? Bella domanda, da girare a Francesco Storace. Era lui il governatore del Lazio quando nel 2003 aprì l’Enoteca regionale, nientemeno che in via Frattina a Roma.

L’enoteca regionale in via Frattina a Roma (Jpeg)L’enoteca regionale in via Frattina a Roma (Jpeg)
RISTORANTE IN PERDITA - Parliamo di una delle strade più commerciali del centro della capitale, a due passi da piazza di Spagna. Anche impegnandosi, perdere soldi con un ristorante in quel posto, è impossibile. Ma la Regione c’è riuscita. E senza neppure dover pagare l’affitto dei locali, di sua proprietà. Certo, 21 persone a lavorare lì forse erano un po’ troppe, ma la due diligence disposta dalla nuova amministrazione fa capire che un sacco di altre cose non andavano. A cominciare dall’inventario cartaceo del magazzino 2012, introvabile. Per continuare con l’assenza di «un monitoraggio degli ordini di acquisto». O con le fatture ancora da emettere per centinaia di migliaia di euro risalenti addirittura a prima del 2007. Oppure con le centinaia di pasti consumati gratis da assessori e politici. O ancora, con la chiusura per ferie nelle settimane di maggior affluenza turistica. Da qui ad accumulare un milione e mezzo di debito con i soli fornitori il passo è davvero breve. Mentre breve, purtroppo, non sarà il lavoro per sistemare i problemi che saltano fuori ogni minuto.

QUOTE IN SOCIETA’ PRIVATE - Prendiamo Sviluppo Lazio. Nella sua pancia ci sono 76 pacchetti azionari, come il 10 per cento di Investimenti spa, società controllante della vecchia Fiera di Roma che ha chiuso l’ultimo bilancio con un buco da 31 milioni. Ben 47 delle partecipazioni in questione fanno capo alla Filas, la Finanziaria laziale di sviluppo che compra quote di minoranza in imprese private, di cui scopriremo fra poco qualche interessante dettaglio.

Il sito di Banca impresa Lazio Il sito di Banca impresa Lazio
INSOSTENIBILE BANCA IMPRESA LAZIO - Nell’attesa, raccontiamo che cosa hanno trovato gli ispettori della Banca d’Italia passando al setaccio, nell’estate del 2012, le carte di Banca Impresa Lazio (Bil). E’ una delle altre società di Sviluppo Lazio che ha il compito di garantire prestiti concessi alle piccole imprese dalle quattro banche che ne sono anche azioniste di minoranza: Intesa, Unicredit, Bnl e Banca di credito cooperativo. Lavoro analogo, praticamente, a quello che dovrebbe svolgere Unionfidi Lazio, anch’essa partecipata dalla stessa Sviluppo Lazio. La Vigilanza descrive «criticità della complessiva situazione aziendale» e «lacunosa struttura contrattuale» affidata a un consiglio di amministrazione con «insufficiente capacità di supervisione strategica», il che «ha determinato un’involuzione caratterizzata da una redditività strutturalmente negativa, nonostante le ampie provvidenze assicurate dalla Regione». In tre parole, non sta in piedi.

29 PRATICHE L’ANNO A DIPENDENTE - La Bil ha risposto predisponendo un nuovo piano industriale, che la Banca d’Italia ha rispedito al mittente giudicandolo «aleatorio». E tanto basta. Né gli esperti della giunta Zingaretti sono arrivati a conclusioni molto diverse. Con 103 mila euro di spesa media procapite per il personale, doppio rispetto ai 52 mila euro dei principali concorrenti, un numero di dirigenti e quadri pari al 73,6% del totale, un costo per pratica di 6.200 euro a fronte di 1.000 del mercato, e 29 pratiche l’anno lavorate per dipendente contro 120, non si va da nessuna parte. Infatti la perdita di 617 mila euro degli ultimi due anni ha intaccato seriamente il patrimonio netto.

STRADE SENZA SBOCCO - Intendiamoci, ci sono società regionali in situazioni anche peggiori. L’Azienda strade Lazio, per dirne una, ha perso nel 2012 10,3 milioni e ha un patrimonio netto negativo per 3,5 milioni. E anche in questo caso leggere la due diligence compilata dai revisori della società specializzata Bdo fa venire qualche brivido. Come quello che dà la cifra di quasi 7 milioni di crediti non incassati, senza che la dirigenza sia stata in grado di fornire spiegazioni adeguate. Quanto poi al fatto che la Regione, avendo già dal 2002 una società che si occupa di progettare e gestire strade abbia sentito nel 2008 il bisogno di crearne un’altra con l’Anas (Autostrade per il Lazio spa che nel 2012 ha perso quasi 400 mila euro), beh, è mistero.

IL FALLIMENTO DELLA INCENTIVE - Poi, dicevamo, c’è la Filas con le sue 47 partecipazioni. Ma 3 sono in società pubbliche. Altre cinque sono in liquidazione o concordato preventivo, mentre ben 12 sono fallite. Il 30 maggio scorso è toccato alla Incentive di Antonio De Martini (15% la quota della Regione) il cui principale azionista era la Motori mentali srl, che annovera nella compagine sociale l’ex parlamentare ed ex consigliere regionale del Lazio Luca Danese, nipote di Giulio Andreotti, nonché Stefania Tucci, incidentalmente ex consorte di Gianni De Michelis ed ex compagna di Luigi Bisignani, condannata a cinque anni in primo grado dal tribunale di Napoli il 24 ottobre scorso, come riferisce l’Ansa, per una vicenda relativa alla storica tangentona Enimont.

PARTECIPATE IN SICILIA E PUGLIA - Sette, poi, non hanno neanche sede nella Regione o svolgono comunque attività fuori dai confini regionali. Che cosa c’entrano con lo «sviluppo» del Lazio dovrebbero spiegarlo. Tre sono a Napoli, una gestisce call center in Sicilia e Puglia, una quinta sta a La Spezia, la sesta è bergamasca e l’ultima, la Mediapharma srl, ha base a Chieti: fra gli azionisti c’è anche il gruppo di Carlo Toto, quello dell’Air one ora Alitalia. Delle tre napoletane, va menzionata la società di ricerca K4A srl, dove la Regione Lazio ha il 13,5%. Non fosse altro perché il 24% del capitale è posseduto da Danilo Broggi, attuale amministratore delegato dell’Atac nominato a luglio dal sindaco di Roma Ignazio Marino, mentre una quota identica è nelle mani di Dario Scalella, amministratore di una società di pulizie del Comune di Napoli.

TORREFAZIONI IN PORTAFOGLIO - Nel portafoglio della Filas non manca davvero niente. Ci sono partecipazioni in aziende informatiche, ditte che producono videogiochi, torrefazioni di caffè, servizi per disabili, società di consulenza, e di ricerca medica qual è la Lay line genomics: dov’è a capo dei revisori Piergiacomo Jucci, figlio dell ex comandante dell’arma dei carabinieri Roberto Jucci incidentalmente imparentato con Andreotti (per via delle rispettive mogli, cugine), che in passato aveva condiviso interessi farmaceutici con Giuliana Iozzi, consorte di Cesare Geronzi, da sempre considerato il banchiere andreottiano per eccellenza.

IL CRAC DEL GRUPPO OPERAE - La Finanziaria della Regione Lazio detiene persino il 21% della Holding di iniziativa industriale nella quale, oltre a Generali e Unicredit figurano l’immobiliarista Vittorio Casale, finito nei guai un paio d’anni fa a causa del crac del suo gruppo Operae, Piero Coin e Matteo Marzotto. Naturalmente ci sarebbe da chiedersi se iniziative del genere debbano rientrare nei compiti di un ente di pura programmazione quale dovrebbe essere una Regione.

LE POTATURE DI ZINGARETTI - Che però sia difficile andare avanti così lo capirebbero anche i bambini. Zingaretti ha già cominciato a chiudere, commissariare a potare. L’azienda per la sanità pubblica è stata internalizzata, le società di Sviluppo Lazio verranno fuse nella capogruppo, le imprese di trasporto concentrate in una sola, con il risultato di ridurre da 88 a 13 le poltrone di vertice e risparmiare diversi milioni. Per le partecipazioni non considerate strategiche è prevista la cessione. Ma l’impressione è che l’operazione sarà lunga e faticosa, fra pressioni politiche e carte bollate. C’è solo da sperare che il fisico regga. Auguri.

11 novembre 2013
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Sergio Rizzo

Da - http://roma.corriere.it/roma/notizie/economia/13_novembre_11/voragine-lazio-regione-spende-50-milioni-tappare-buchi-partecipate-9257f986-4aca-11e3-bfcf-202576418f24.shtml
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« Risposta #169 inserito:: Dicembre 04, 2013, 03:39:31 pm »

Il caso
Quel no dei grillini alla legge taglia-poltrone
Cancellerebbe trentadue nomine: ma il Movimento ha depositato contro un migliaio di emendamenti

Messaggio su Twitter del capogruppo grillino nel consiglio regionale del Lazio Davide Barillari: «Il Pd è alla frutta. Mi incrocia Vincenzi e dice: “Tanto la legge la portiamo a casa”. Si, ma ad aprile». La legge che il suo collega democratico Marco Vincenzi vuole portare a casa è quella con cui la giunta di Nicola Zingaretti ha deciso di fondere in una sola le cinque società direttamente controllate da Sviluppo Lazio, tagliando 32 poltrone. Con un risparmio, dicono, di 3 milioni. Operazione che dovrebbe essere seguita da fusioni analoghe nella giungla delle partecipazioni regionali, con il risultato di falcidiare i posti di consiglieri di amministrazione e revisori.

La cosa va avanti da sei mesi, su e giù fra giunta e consiglio.

«Evviva!» si penserebbe che debbano gridare quelli del Movimento 5 Stelle. Tutto il contrario, invece. Perché ora che si è arrivati al dunque, sulla legge all’esame definitivo dell’assemblea regionale si è abbattuta una valanga di 1.300 emendamenti: un migliaio dei grillini, uniti in un’apparentemente surreale alleanza con le truppe dell’ex governatore Francesco Storace, che al proliferare di quella giungla societaria aveva già dato un fattivo contributo. L’ostruzionismo è feroce, sia pure con motivazioni distinte. Il centrodestra si oppone allo smantellamento della sua creatura, i grillini temono che con le fusioni arrivino potentissimi supermanager. E minacciano una guerra di posizione che può durare mesi. Poco importa se le fusioni in sequenza si dovrebbero risolvere in una riduzione di 75 poltrone: da 88 a 13. Poco importa se quelle società, a cominciare dal gruppo di Sviluppo Lazio, siano zeppe di bubboni. Tanto da far pensare che ai consiglieri del Movimento 5 Stelle impegnati a scavare le trincee sia sfuggita la relazione nella quale il procuratore della Corte dei conti Angelo Raffaele De Dominicis sancisce lo stato fallimentare della Regione Lazio, dedicando passaggi ustionanti a certi modi discutibili con cui venivano coperte le perdite delle aziende regionali. Perché le società partecipate di perdite ne avevano eccome. Da quando la nuova giunta è arrivata, otto mesi fa, ha dovuto sborsare 50 milioni per tappare i loro buchi. Le partecipazioni dirette e indirette in società di capitali sono 103, cui si devono aggiungere agenzie ed enti vari. Per un totale, reggetevi forte, di 7.361 dipendenti. Numero più che doppio rispetto a quello del personale in forza alla stessa Regione, pari a 3.613 unità: il rapporto con gli abitanti è superiore del 91% rispetto ai 3.371 impiegati della Lombardia. Come si è arrivati a quelle cifre è presto detto. Basta ricordare il caso di Lazioambiente, società creata nel 2011 con il solo obiettivo di riassumere i 487 dipendenti di un gruppo di società ambientali fallite che facevano capo a una cinquantina di comuni laziali. Spesa secca, 20 milioni.

E poi ci sono le perdite, su cui ha acceso il faro la Corte dei conti. Per esempio i 10,3 milioni di rosso accumulati nel solo 2012 dall’Azienda strade Lazio, cui si sommano i 400 mila di Autostrade per il Lazio. Per esempio, l’emorragia di 71.120 euro al giorno dell’azienda di trasporto Cotral, che a fine 2012 aveva un patrimonio netto negativo per 15 milioni. O la voragine dell’Arsial, l’agenzia agricola regionale, commissariata da mesi con 17 milioni di debiti. Un decimo dei quali sul groppone di un ristorante aperto dalla Regione nel 2003 a via Frattina, nel cuore di Roma, che è riuscito nella missione impossibile di aprire un buco di 1,7 milioni. Anche grazie a centinaia di pasti somministrati gratis a politici e assessori.

Ma la rogna più impellente è ora quella di Sviluppo Lazio. Nella sua pancia ci sono 76 pacchetti azionari, fra cui quello di Banca impresa Lazio (Bil), costituita anni fa per garantire prestiti concessi alle piccole imprese dalle quattro banche che ne sono anche azioniste di minoranza: Intesa, Unicredit, Bnl e Banca di credito cooperativo. Lavoro analogo, praticamente, a quello che dovrebbe svolgere Unionfidi Lazio, anch’essa partecipata da Sviluppo Lazio. Una duplicazione assurda. Nell’estate 2012 gli ispettori di Bankitalia hanno fatto a pezzi la Bil. La spesa media procapite per il personale è doppia rispetto ai concorrenti, dirigenti e quadri sono il 73,6% del totale, ogni pratica costa sei volte il prezzo di mercato, e ciascun dipendente lavora 29 pratiche l’anno contro 120.

Poi c’è la Filas, la finanziaria «di sviluppo». Dove sviluppo significa mettere un po’ di soldi in imprese private prendendo quote di minoranza. Ne ha 47. Ma 3 sono in società pubbliche. Altre 5 sono in liquidazione o concordato preventivo, mentre ben 12 sono fallite. E 7, invece, non hanno nemmeno sede nella Regione o comunque svolgono attività fuori dei confini regionali. Nell’arcipelago dei soci privati della finanziaria non mancano nomi di un certo spessore. Uno su tutti, per l’incarico pubblico ora ricoperto: quello dell’attuale amministratore delegato di Atac Danilo Broggi, titolare del 24% della società di ricerca KA4, di cui la Regione ha il 13%...

04 dicembre 2013
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Sergio Rizzo

Da - http://www.corriere.it/politica/13_dicembre_04/quel-no-grillini-legge-taglia-poltrone-ed02b7f6-5cac-11e3-a319-5493e7b80f59.shtml
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« Risposta #170 inserito:: Dicembre 24, 2013, 06:39:36 pm »

Il caso - Soppresso in soli sei giorni l’emendamento del deputato del M5S Fraccaro.
Gli affitti intoccabili dei palazzi del potere
Il Senato cancella il recesso a tempo di record
Quindici anni fa la Camera stipulò senza gara una serie di contratti con la società Milano 90, che metteva a disposizione di Montecitorio quattro immobili


ROMA - «L’articolo 2-bis del decreto legge 15 ottobre 2013, n. 120, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 dicembre 2013, n. 137, è soppresso». Chi ancora ha il coraggio di sostenere che il nostro sistema legislativo è lento e macchinoso si dovrà ricredere davanti a questo capolavoro di Palazzo Madama. Dove è stata cancellata al volo una norma che lo stesso Senato aveva approvato sorprendentemente soltanto sei giorni prima. La cosa era passata nel silenzio generale fra le pieghe di un provvedimento battezzato «manovrina», grazie a un emendamento presentato alla Camera dal deputato del Movimento 5 Stelle Massimo Fraccaro. Testuale: «Le amministrazioni dello Stato, le Regioni e gli enti locali, nonché gli organi costituzionali nell’ambito della propria autonomia, hanno facoltà di recedere, entro il 31 dicembre 2014, dai contratti di locazione di immobili in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Il termine di preavviso per l’esercizio del diritto di recesso è stabilito in trenta giorni, anche in deroga a eventuali clausole difformi previste dal contratto».

Una bomba. Con un bersaglio preciso, come dimostra il passaggio sugli «organi costituzionali»: i palazzi Marini, quegli stabili che ospitano gli uffici dei deputati, presi in affitto con il meccanismo del «global service» dall’immobiliarista e grande allevatore di cavalli Sergio Scarpellini, munifico elargitore di contributi liberali ai partiti di destra e sinistra. È un’operazione che ha origine alla fine degli anni Novanta quando la Camera, d’accordo centrosinistra e centrodestra, decise di stipulare senza gara una serie di contratti con la società Milano 90, che metteva a disposizione di Montecitorio quattro immobili e relativi servizi. A un prezzo, oltre 500 euro annui al metro quadrato, tale da ripagare abbondantemente i mutui bancari contratti dal privato per acquistare le mura. Fatto sta che la Camera avrebbe speso in 18 anni ben 444 milioni solo per i canoni d’affitto, senza ritrovarsi in tasca un solo mattone. Una vicenda divenuta ben presto l’emblema degli sprechi del Palazzo, contro cui si erano scagliati a ripetizione con interrogazioni e denunce pubbliche i radicali. Ma inutilmente. Come inutili si erano rivelati i mal di pancia avvertiti da molti parlamentari consapevoli dell’abnormità della storia. A tutti era stato risposto che non c’era niente da fare: i contratti andavano rispettati e amen. Dopo molti sforzi si era riusciti a disdettarne almeno uno.

E l’emendamento Fraccaro, divenuto legge il 13 dicembre scorso a Palazzo Madama con l’approvazione senza modifiche della «manovrina» uscita da Montecitorio, avrebbe fatto cadere tutti gli ostacoli per la rescissione degli altri tre, che pesano sulle casse pubbliche 26 milioni per i soli canoni. Se però il giovedì seguente non fosse stato recapitato in Senato nella leggina di conversione di un decreto sulle «misure finanziarie urgenti in favore di regioni ed enti locali», un provvidenziale emendamento che sopprime quella disposizione passata sempre al Senato il venerdì precedente. Modifica prontamente approvata dalla maggioranza senza battere ciglio: con qualche voto in più, sembra, rispetto a quelli prevedibili. La battaglia si sposta adesso alla Camera, dove Fraccaro riproporrà tale e quale la norma bocciata. Ma intanto il segnale arrivato dalle Larghe intese, per paradosso proprio mentre Matteo Renzi, il nuovo segretario del Pd loro principale azionista dichiara pubblicamente guerra ai costi della politica, si può interpretare in modo inequivocabile: gli affitti dei palazzi del potere non si toccano. Altra motivazione non ci sarebbe. E l’impronta digitale della maggioranza, del resto, è facilmente riconoscibile.

L’emendamento porta la firma della relatrice del provvedimento, circostanza che qualifica l’emendamento come iniziativa non personale. Ma essendo la senatrice del Pd Magda Zanoni esperta di contabilità statale, visto che il suo curriculum la qualifica come «consulente di bilanci pubblici», certo non ne può ignorare le conseguenze. E cioè che oltre a mettere in pericolo i contratti blindati e dorati dei palazzi Marini, quella perfida norma grillina consentirebbe a molte amministrazioni di liberarsi di onerosi contratti incautamente sottoscritti senza clausola di recesso: è appena il caso di ricordare che spendiamo circa 12 miliardi l’anno per gli affitti degli uffici pubblici. Chissà perché nessuno ci aveva pensato prima.

21 dicembre 2013
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Sergio Rizzo

Da - http://www.corriere.it/politica/13_dicembre_21/gli-affitti-intoccabili-palazzi-potere-senato-cancella-recesso-tempo-record-f8cca1bc-6a05-11e3-aaba-67f946664e4c.shtml
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« Risposta #171 inserito:: Dicembre 24, 2013, 11:53:09 pm »

Decreti e lobby
Da salva Roma a salva tutti
Assalto per i milioni a pioggia
Fondi per i treni valdostani, per il paese di Padre Pio e per i teatri di Napoli e Venezia

ROMA - «Nelle lanterne semaforiche, a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, le lampade ad incandescenza, quando necessitino di sostituzione, devono essere sostituite con lampade a basso consumo energetico, ivi comprese le lampade realizzate con tecnologia a Led». Con una prosa piuttosto incerta e supremo sprezzo del ridicolo, nel passaggio in Senato del decreto cosiddetto salva Roma hanno infilato anche questo. Certo è arduo immaginare che in un Paese normale serva una legge approvata dal Parlamento per cambiare le lampadine fulminate dei semafori. Ma questa è la prova che di normalità, quando qui si fanno le leggi, è davvero difficile parlare.

Prendiamo il decreto di cui sopra. Il governo l’aveva fatto per risolvere la rogna degli 864 milioni di debiti spuntati nei conti di Roma Capitale, ma già sapendo di far partire una diligenza destinata all’assalto generalizzato. E a palazzo Madama ci è stato caricato di tutto. Venti milioni per tappare i buchi del trasporto pubblico calabrese. Ventitré per i treni valdostani. Mezzo milione per il Comune di Pietrelcina, paese di Padre Pio. Uno per le scuole di Marsciano, in Umbria. Un altro per il restauro del palazzo municipale di Sciacca. Ancora mezzo per la torre anticorsara di Porto Palo. Un milione a Frosinone, tre a Pescara, 25 addirittura a Brindisi. Quindi norme per il Teatro San Carlo di Napoli e la Fenice di Venezia, una minisanatoria per i chioschi sulle spiagge, disposizioni sulle slot machine, sulle isole minori, sulla Croce Rossa, sul terremoto dell’Emilia-Romagna, sui beni sequestrati alla criminalità organizzata. E perfino l’istituzione di una sezione operativa della Direzione investigativa antimafia all’aeroporto di Milano Malpensa per prevenire le infiltrazioni mafiose nell’Expo 2015.

Per non parlare di alcune perle, nel solco della tradizione di estrema trasparenza delle leggi made in Italy. Esempio: «All’articolo 1 del decreto-legge 29 dicembre 2011, n. 216, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 febbraio 2012, n. 14, il comma 4-bis è abrogato». Abrogato al pari del «terzo comma dell’articolo 2 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 10 aprile 1948, n. 421, ratificato, con modificazioni, dalla legge 5 marzo 1957, n. 104». Chi ci capisce qualcosa? Alla faccia di quella norma approvata dal Parlamento quattro anni fa, che imporrebbe di scrivere le leggi in modo chiaro e comprensibile a tutti, senza costringere i cittadini a scavare nei codici e nelle Gazzette ufficiali di cinquant’anni prima per capire di che si tratta.

Ma tant’è. Quella norma, voluta dall’ex ministro della Semplificazione Roberto Calderoli, non è mai, e sottolineiamo mai, stata applicata. Né hanno avuto seguito i reiterati richiami dei presidenti della Repubblica, prima Carlo Azeglio Ciampi e poi Giorgio Napolitano, a evitare di produrre grovigli sterminati di norme incomprensibili che si sovrappongono ad altre norme incomprensibili, con rimandi a decreti ministeriali che espropriano il Parlamento del potere legislativo e talvolta non vengono neppure emanati. Non è servita di lezione nemmeno la vicenda incredibile della finanziaria 2007, costituita da un unico articolo di 1364 commi. La sera prima dell’approvazione si seppe che nella confusione generale una manina aveva inserito una norma per tagliare le unghie alla Corte dei conti. Il premier Romano Prodi andò su tutte le furie e impose di eliminarla. Gli esperti degli uffici legislativi la cercarono nel testo tutta la notte senza però riuscire a trovarla. La finanziaria fu così approvata con il comma incriminato (il numero 1346) che fu eliminato il giorno dopo, una volta finalmente rintracciato, con un altro decreto legge. L’autore del misterioso geroglifico era un senatore della maggioranza, Pietro Fuda: presidente della commissione parlamentare per la Semplificazione della legislazione. Nientemeno.
Ma c’è ben poco da fare. Senza eliminare il bicameralismo perfetto, che esaspera i passaggi parlamentari in un ping pong infinito fra Camera e Senato, sarà impossibile uscirne. Anche se, a giudicare da quello che capita nelle Regioni dove quel problema non esiste, qualche grossa responsabilità ce l’hanno di sicuro le persone. Il bilancio della Regione Lazio che si discute in queste ore, per esempio. Sul testo della giunta si è riversata una massa di 5.300 emendamenti capaci di far dilatare il fascicolo d’aula a 8.172 pagine. Denuncia nel suo sito la consigliera regionale Teresa Petrangolini che i 653.760 fogli necessari a stampare le 80 copie di quel fascicolo saranno abbattuti 8,28 pini alti quindici metri.

Non c’è governo che negli ultimi anni non abbia dovuto mettere in campo maxiemendamenti con relativi voti di fiducia per far passare finanziarie, decreti omnibus, leggi milleproroghe... Un delirio legislativo al quale nessuno è riuscito a sottrarsi. Ci aveva provato Giulio Tremonti, trasformando la legge finanziaria in «legge di Stabilità». Doveva essere una semplice tabellina di numeri sul modello della legge britannica: prendere o lasciare. Aveva faticato non poco, il superministro delle stagioni berlusconiane. Di «legge di stabilità» ne aveva parlato per primo Giuliano Amato, in quel terribile 1992. Poi Tremonti aveva rilanciato il concetto nel 2002, riuscendo però a imporla solo nel 2009. Ma a poco a poco il Parlamento e le lobby se la sono mangiata, cosicché di «stabilità» rimane solo il titolo. Siamo dunque tornati alla vecchia finanziaria, l’ultimo treno che passa e sicuramente arriva in stazione: perciò i vagoni devono essere capienti e ospitali. Esattamente come quelli degli altri provvedimenti che necessariamente vanno approvati, tipo il decreto salva Roma o la legge milleproroghe, ormai un classico dell’orrore cui già si sta pensando di rifilare le cose non partite con i convogli precedenti.

La frenesia è tale che i vagoni vanno pericolosamente a sbattere gli uni contro gli altri, manovrati da interessi contrapposti. E la confusione, niente affatto casuale, è tale da permettere ogni colpo basso. Dice tutto il caso degli affitti d’oro. Nella «manovrina» approvata dal Senato il 13 dicembre spunta una norma grillina che dà allo Stato diritto di recesso con soli trenta giorni di preavviso dai contratti d’affitto stipulati con privati. Se un locale non serve più, la pubblica amministrazione lo può lasciare senza essere costretta a pagare l’affitto fino alla scadenza del contratto. Il minimo sindacale, insomma. L’obiettivo? I lucrosi contratti della Milano 90 srl di Sergio Scarpellini con la Camera per gli uffici dei deputati. Ma il 19 dicembre, sempre al Senato, ecco un emendamento del Pd, catapultato in un altro decreto, che la cancella. La cosa finisce sui giornali e scoppia un putiferio: il 21 dicembre la norma viene ripristinata alla Camera in un terzo decreto ancora, quel salva Roma di cui parlavamo. Senza però sapere che nel frattempo si era già provveduto, prima della guerra degli emendamenti, ad aprire un paracadute nella legge di Stabilità. In che modo? Escludendo dal diritto di recesso non solo i palazzi dei ricchi fondi immobiliari, ma anche quelli di proprietà di chi ha investito negli stessi fondi. Si mormora che l’inciso possa rappresentare un assist a Scarpellini. Sarà vero? Viene in mente la celebre battuta di Giulio Andreotti: «A pensar male si fa peccato ma quasi sempre ci si azzecca...»

23 dicembre 2013
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Sergio Rizzo

Da - http://www.corriere.it/politica/13_dicembre_23/salva-roma-decreto-salva-tutti-b238de90-6b96-11e3-82ae-77df18859bd6.shtml
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« Risposta #172 inserito:: Gennaio 04, 2014, 04:44:10 pm »

Il ritratto

Lazio, da Fondi a coordinatore di Forza Italia la scalata del poliziotto «signore dei voti»
Claudio Fazzone, da uomo scorta di Nicola Mancino alla sua (discussa) ascesa politica



ROMA - Per ricostruire la macchina elettorale di Forza Italia nel Lazio la scelta di Silvio Berlusconi non poteva che cadere su di lui: Claudio Fazzone. Non un uomo, un partito. Il quarto della Provincia di Latina, dicevano nel 2000 quando il Nostro fece sfracelli alle Regionali. Da solo, Fazzone portò al centrodestra tanti voti quanti quelli dei Democratici di sinistra. Tanti da incoronarlo, a 38 anni, presidente del Consiglio regionale. E proiettarlo successivamente in Senato: per tre volte di seguito. Un numero impressionante di preferenze, collezionato negli anni, pazientemente, partendo dalla militanza nella Democrazia cristiana. «Il mio maestro è stato Nicola Mancino», disse all’epoca al «Corriere». Spiegando di essere stato spinto a passare a Forza Italia nel 1994 dallo spostamento a sinistra del Partito popolare.

C’è chi, come la giornalista Anna Scafati, lo ricorda «quando faceva l’agente di scorta dell’allora ministro dell’Interno» poi diventato presidente del Senato. Senza immaginare che il curioso sodalizio si sarebbe trasformato per quel «tipetto non alto e paffuto (definizione della medesima Scafati, ndr )» in un formidabile trampolino di lancio per una insospettabile carriera nel Palazzo. Oggi la città natale di Fondi è il cuore del suo feudo politico, che abbraccia l’intera Provincia di Latina con profondissime propaggini romane. E che feudo. Lì c’è il secondo mercato ortofrutticolo d’Europa dopo quello di Parigi, dove lavora il 10 per cento della popolazione (38 mila anime): un giro d’affari talmente grosso, hanno sostenuto gli inquirenti, da aver attirato perfino le attenzioni dei clan camorristici del vicino casertano.

Infatti nel 2009 il prefetto di Latina Bruno Frattasi chiede al ministro dell’Interno Roberto Maroni, alleato di governo del senatore Fazzone, lo scioglimento del Comune di Fondi. Pesantissimo il sospetto: infiltrazioni mafiose. Secondo il prefetto erano «emerse chiaramente le connessioni fra la famiglia di Tripodo Domenico (boss mafioso di prima grandezza) e soggetti legati per via parentale anche a figure di vertice del Comune». La reazione è immediata. Il poliziotto Fazzone Claudio contesta pesantemente le conclusioni del prefetto di Latina arrivando a chiedere una commissione d’inchiesta nei suoi confronti. Ed evidentemente è anche più potente di un ministro, visto che le proposte di Maroni si arenano ripetutamente in consiglio dei ministri. Finché quando proprio lo scioglimento sembra inevitabile, su consiglio di Fazzone che nessuno si sogna di discutere, la giunta guidata dal geometra Luigi Parisella si dimette, per evitare il commissariamento e andare invece alle elezioni. Vinte di nuovo, manco a dirlo, dai fedelissimi del senatore. Con un altro schiaffo al ministro dell’Interno: il plebiscito per il nuovo sindaco Salvatore De Meo. Ovvero l’assessore all’urbanistica della stessa giunta che Maroni voleva sciogliere.

Dice tutto, quella storia, del potere di Fazzone. Compreso un dettaglio che fa capire quanto solido sia il cemento che lo tiene insieme. Perché il senatore che il Cavaliere ha appena nominato coordinatore di Forza Italia per il Lazio è socio in affari proprio dell’ex sindaco Parisella e di un imprenditore ortofrutticolo, Luigi Peppe. La loro società si chiama S.I.L.O. srl, e ha avuto in passato anche un finanziamento statale di 983 mila euro a valere sulla legge 44/86 sull’imprenditorialità giovanile al Sud. Oggetto sociale, «lavorazione e conservazione di frutta e ortaggi». Anche se piuttosto misterioso nelle dimensioni, visto che il fatturato degli ultimi due bilanci è pari a euro zero virgola zero.

Ma se c’è una cosa cui Fazzone non ha mai voluto rinunciare è stare, come si dice, «sul pezzo». Guai a toccargli i suoi concittadini. L’ex sindaco di Fondi Onoratino Orticello si trova in difficoltà? Eccolo dirigente del consiglio regionale del Lazio non appena Fazzone ne diventa il presidente. I Comuni della Provincia di Latina costituiscono una società con un partner francese per gestire il ciclo idrico? Ecco Fazzone sedersi sulla poltrona di presidente, pur essendo onorevole in carica, sfidando l’indignazione dei comunisti con l’allora segretario di Rifondazione a denunciare di aver «scoperto che un senatore di Forza Italia becca anche un compenso in quanto presidente di Acqualatina: 100-150 mila euro l’anno». La cosa non gli ha fatto né caldo né freddo. Al pari delle polemiche suscitate dall’indagine giudiziaria innescata tre anni fa per alcune raccomandazioni alla Asl di Latina. Inchiesta cui Fazzone ha replicato con queste parole testuali, riportate dall’«Ansa»: «Resta singolare che il giudice decida di aprire un caso per accertare l’esistenza di un reato che, se eventualmente commesso dal sottoscritto, sarebbe già prescritto». Niente male, per un funzionario di polizia in aspettativa...

04 gennaio 2014
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Sergio Rizzo

Da - http://roma.corriere.it/roma/notizie/politica/14_gennaio_04/lazio-fondi-coordinatore-forza-italia-scalata-poliziotto-signore-voti-c44219f2-751a-11e3-b02c-f0cd2d6437ec.shtml
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« Risposta #173 inserito:: Gennaio 05, 2014, 06:09:55 pm »

Il ritratto

Lazio, da Fondi a coordinatore di Forza Italia la scalata del poliziotto «signore dei voti»
Claudio Fazzone, da uomo scorta di Nicola Mancino alla sua (discussa) ascesa politica



ROMA - Per ricostruire la macchina elettorale di Forza Italia nel Lazio la scelta di Silvio Berlusconi non poteva che cadere su di lui: Claudio Fazzone. Non un uomo, un partito. Il quarto della Provincia di Latina, dicevano nel 2000 quando il Nostro fece sfracelli alle Regionali. Da solo, Fazzone portò al centrodestra tanti voti quanti quelli dei Democratici di sinistra. Tanti da incoronarlo, a 38 anni, presidente del Consiglio regionale. E proiettarlo successivamente in Senato: per tre volte di seguito. Un numero impressionante di preferenze, collezionato negli anni, pazientemente, partendo dalla militanza nella Democrazia cristiana. «Il mio maestro è stato Nicola Mancino», disse all’epoca al «Corriere». Spiegando di essere stato spinto a passare a Forza Italia nel 1994 dallo spostamento a sinistra del Partito popolare.

C’è chi, come la giornalista Anna Scafati, lo ricorda «quando faceva l’agente di scorta dell’allora ministro dell’Interno» poi diventato presidente del Senato. Senza immaginare che il curioso sodalizio si sarebbe trasformato per quel «tipetto non alto e paffuto (definizione della medesima Scafati, ndr )» in un formidabile trampolino di lancio per una insospettabile carriera nel Palazzo. Oggi la città natale di Fondi è il cuore del suo feudo politico, che abbraccia l’intera Provincia di Latina con profondissime propaggini romane. E che feudo. Lì c’è il secondo mercato ortofrutticolo d’Europa dopo quello di Parigi, dove lavora il 10 per cento della popolazione (38 mila anime): un giro d’affari talmente grosso, hanno sostenuto gli inquirenti, da aver attirato perfino le attenzioni dei clan camorristici del vicino casertano.

Infatti nel 2009 il prefetto di Latina Bruno Frattasi chiede al ministro dell’Interno Roberto Maroni, alleato di governo del senatore Fazzone, lo scioglimento del Comune di Fondi. Pesantissimo il sospetto: infiltrazioni mafiose. Secondo il prefetto erano «emerse chiaramente le connessioni fra la famiglia di Tripodo Domenico (boss mafioso di prima grandezza) e soggetti legati per via parentale anche a figure di vertice del Comune». La reazione è immediata. Il poliziotto Fazzone Claudio contesta pesantemente le conclusioni del prefetto di Latina arrivando a chiedere una commissione d’inchiesta nei suoi confronti. Ed evidentemente è anche più potente di un ministro, visto che le proposte di Maroni si arenano ripetutamente in consiglio dei ministri. Finché quando proprio lo scioglimento sembra inevitabile, su consiglio di Fazzone che nessuno si sogna di discutere, la giunta guidata dal geometra Luigi Parisella si dimette, per evitare il commissariamento e andare invece alle elezioni. Vinte di nuovo, manco a dirlo, dai fedelissimi del senatore. Con un altro schiaffo al ministro dell’Interno: il plebiscito per il nuovo sindaco Salvatore De Meo. Ovvero l’assessore all’urbanistica della stessa giunta che Maroni voleva sciogliere.

Dice tutto, quella storia, del potere di Fazzone. Compreso un dettaglio che fa capire quanto solido sia il cemento che lo tiene insieme. Perché il senatore che il Cavaliere ha appena nominato coordinatore di Forza Italia per il Lazio è socio in affari proprio dell’ex sindaco Parisella e di un imprenditore ortofrutticolo, Luigi Peppe. La loro società si chiama S.I.L.O. srl, e ha avuto in passato anche un finanziamento statale di 983 mila euro a valere sulla legge 44/86 sull’imprenditorialità giovanile al Sud. Oggetto sociale, «lavorazione e conservazione di frutta e ortaggi». Anche se piuttosto misterioso nelle dimensioni, visto che il fatturato degli ultimi due bilanci è pari a euro zero virgola zero.

Ma se c’è una cosa cui Fazzone non ha mai voluto rinunciare è stare, come si dice, «sul pezzo». Guai a toccargli i suoi concittadini. L’ex sindaco di Fondi Onoratino Orticello si trova in difficoltà? Eccolo dirigente del consiglio regionale del Lazio non appena Fazzone ne diventa il presidente. I Comuni della Provincia di Latina costituiscono una società con un partner francese per gestire il ciclo idrico? Ecco Fazzone sedersi sulla poltrona di presidente, pur essendo onorevole in carica, sfidando l’indignazione dei comunisti con l’allora segretario di Rifondazione a denunciare di aver «scoperto che un senatore di Forza Italia becca anche un compenso in quanto presidente di Acqualatina: 100-150 mila euro l’anno». La cosa non gli ha fatto né caldo né freddo. Al pari delle polemiche suscitate dall’indagine giudiziaria innescata tre anni fa per alcune raccomandazioni alla Asl di Latina. Inchiesta cui Fazzone ha replicato con queste parole testuali, riportate dall’«Ansa»: «Resta singolare che il giudice decida di aprire un caso per accertare l’esistenza di un reato che, se eventualmente commesso dal sottoscritto, sarebbe già prescritto». Niente male, per un funzionario di polizia in aspettativa...

04 gennaio 2014
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Sergio Rizzo

Da - http://roma.corriere.it/roma/notizie/politica/14_gennaio_04/lazio-fondi-coordinatore-forza-italia-scalata-poliziotto-signore-voti-c44219f2-751a-11e3-b02c-f0cd2d6437ec.shtml
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« Risposta #174 inserito:: Gennaio 08, 2014, 10:31:50 pm »

Stato e regioni, il caso puglia

Contraddizioni di una riforma


Il governatore della Puglia Nichi Vendola si dice sicuro «che la popolazione alla fine vincerà questa battaglia». E dunque la Trans adriatic pipeline che dovrebbe portare 10 miliardi di metri cubi di metano l’anno dalle regioni del Mar Caspio all’Europa sbarcando dall’Adriatico sulla costa del Salento soccomberà all’offensiva dei «No Tap». Destino analogo, con tutta probabilità, a quello del rigassificatore di Brindisi, affogato 11 anni dopo l’avvio del progetto della British Gas in un gorgo di veti locali, cavilli burocratici, nulla osta promessi e mai concessi. In entrambi i casi l’opposizione è stata ufficialmente motivata dalle preoccupazioni ambientali. Particolarmente serie per quanto riguarda il gasdotto del quale si parla ora, considerando il valore paesaggistico del litorale salentino. Perciò da non sottovalutare.

Al tempo stesso, però, bisogna domandarsi perché in una Regione cui sta tanto a cuore il rispetto dell’ambiente da riuscire a bloccare con una lunga guerra di logoramento impianti destinati secondo gli esperti ad aumentare la concorrenza e l’efficienza riducendo i costi dell’energia, abbiano devastato una campagna meravigliosa con migliaia di pale eoliche, spesso inutili. Alla fine del 2012 ce n’erano in Puglia ben 1.985. Più che in qualsiasi altra Regione, e su un territorio pressoché piatto come un tavolo da biliardo. In un anno ne sono spuntate 592. Nel solo Comune di Sant’Agata, in provincia di Foggia, se ne contano 111: una ogni 19 anime. Per non parlare delle sterminate distese di pannelli fotovoltaici che hanno sottratto centinaia di ettari all’agricoltura. Anche qui la Puglia è prima in classifica con 2.497 megawatt installati: un impianto ogni 106 abitanti.

Succede in Puglia, e succede in Sicilia. Dove hanno piantato pale eoliche anche in posti noti per l’assenza di vento, fino a insidiare il record pugliese toccando quota 1.749. E hanno fermato pure lì un rigassificatore, a Priolo, come risultato di una estenuante conferenza dei servizi. Cinquantaquattro giorni impiegati solo per la stesura del verbale nel quale si imponeva l’interramento dell’impianto in una zona industriale: condizione capestro che ha fatto sfumare l’investimento Erg-Shell da un miliardo.

Sono le due facce dell’incredibile pasticcio che la riforma del titolo V della Costituzione, decretando «il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia» materia di legislazione concorrente fra Stato e Regioni, ha contribuito a rendere irrisolvibile. Le Regioni e gli enti locali hanno gli strumenti per paralizzare un’opera d’interesse dell’intero Paese ma non impediscono scempi indicibili in casa loro. In tale contesto la politica energetica dell’Italia, che dovrebbe essere ancora fra le prime dieci potenze industriali del mondo, è semplicemente inesistente. Dipende dagli umori dei Comuni o degli enti che prima danno i permessi e poi li revocano. Dipende da interminabili conferenze di servizi dove ognuno pesta i piedi al proprio vicino. Dipende dai cicli elettorali e dai politici locali a caccia di consensi dribblando le responsabilità: in barba al sano principio che vanno ascoltate le ragioni di tutti, ma poi si deve decidere. Finendo così per diventare prigioniera delle lobby. E senza che nessuno abbia finora pensato di porvi rimedio, imprese e cittadini continuano a pagare bollette salatissime.

08 gennaio 2014
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SERGIO RIZZO

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_gennaio_08/contraddizioni-una-riforma-79acb2a4-782a-11e3-8d51-efa365f924c5.shtml
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« Risposta #175 inserito:: Gennaio 11, 2014, 11:38:46 am »

Stato e regioni, il caso Puglia
Contraddizioni di una riforma

    Il governatore della Puglia Nichi Vendola si dice sicuro «che la popolazione alla fine vincerà questa battaglia». E dunque la Trans adriatic pipeline che dovrebbe portare 10 miliardi di metri cubi di metano l’anno dalle regioni del Mar Caspio all’Europa sbarcando dall’Adriatico sulla costa del Salento soccomberà all’offensiva dei «No Tap». Destino analogo, con tutta probabilità, a quello del rigassificatore di Brindisi, affogato 11 anni dopo l’avvio del progetto della British Gas in un gorgo di veti locali, cavilli burocratici, nulla osta promessi e mai concessi. In entrambi i casi l’opposizione è stata ufficialmente motivata dalle preoccupazioni ambientali. Particolarmente serie per quanto riguarda il gasdotto del quale si parla ora, considerando il valore paesaggistico del litorale salentino. Perciò da non sottovalutare.

Al tempo stesso, però, bisogna domandarsi perché in una Regione cui sta tanto a cuore il rispetto dell’ambiente da riuscire a bloccare con una lunga guerra di logoramento impianti destinati secondo gli esperti ad aumentare la concorrenza e l’efficienza riducendo i costi dell’energia, abbiano devastato una campagna meravigliosa con migliaia di pale eoliche, spesso inutili. Alla fine del 2012 ce n’erano in Puglia ben 1.985. Più che in qualsiasi altra Regione, e su un territorio pressoché piatto come un tavolo da biliardo. In un anno ne sono spuntate 592. Nel solo Comune di Sant’Agata, in provincia di Foggia, se ne contano 111: una ogni 19 anime. Per non parlare delle sterminate distese di pannelli fotovoltaici che hanno sottratto centinaia di ettari all’agricoltura. Anche qui la Puglia è prima in classifica con 2.497 megawatt installati: un impianto ogni 106 abitanti.

Succede in Puglia, e succede in Sicilia. Dove hanno piantato pale eoliche anche in posti noti per l’assenza di vento, fino a insidiare il record pugliese toccando quota 1.749. E hanno fermato pure lì un rigassificatore, a Priolo, come risultato di una estenuante conferenza dei servizi. Cinquantaquattro giorni impiegati solo per la stesura del verbale nel quale si imponeva l’interramento dell’impianto in una zona industriale: condizione capestro che ha fatto sfumare l’investimento Erg-Shell da un miliardo.

Sono le due facce dell’incredibile pasticcio che la riforma del titolo V della Costituzione, decretando «il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia» materia di legislazione concorrente fra Stato e Regioni, ha contribuito a rendere irrisolvibile. Le Regioni e gli enti locali hanno gli strumenti per paralizzare un’opera d’interesse dell’intero Paese ma non impediscono scempi indicibili in casa loro. In tale contesto la politica energetica dell’Italia, che dovrebbe essere ancora fra le prime dieci potenze industriali del mondo, è semplicemente inesistente. Dipende dagli umori dei Comuni o degli enti che prima danno i permessi e poi li revocano. Dipende da interminabili conferenze di servizi dove ognuno pesta i piedi al proprio vicino. Dipende dai cicli elettorali e dai politici locali a caccia di consensi dribblando le responsabilità: in barba al sano principio che vanno ascoltate le ragioni di tutti, ma poi si deve decidere. Finendo così per diventare prigioniera delle lobby. E senza che nessuno abbia finora pensato di porvi rimedio, imprese e cittadini continuano a pagare bollette salatissime.

08 gennaio 2014
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SERGIO RIZZO
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« Risposta #176 inserito:: Gennaio 27, 2014, 04:31:07 pm »

POSTI E PRIVILEGI

Incarichi e nomine dei manager. - L’eterno scandalo delle regole ignorate
I trucchi per aggirare le norme e il valzer delle designazioni di primavera.
Nonostante la legge di Stabilità


    Quando chiesero ad Annalisa Vessella, consorte dell’allora onorevole dei «Responsabili» Michele Pisacane, come riuscisse a conciliare il ruolo di consigliere regionale della Regione Campania con il posto di amministratore delegato della società Isa (160 mila euro l’anno) che le aveva dato il ministro dell’Agricoltura, Francesco Saverio Romano, amico e collega di partito di suo marito, lei non fece una piega. Rispondendo che ne aveva tutti i requisiti, come se fosse appena una questione di curriculum. A due anni di distanza, la signora Vessella che nel 2010 si presentò sui manifesti elettorali come Annalisa Pisacane, perché fosse chiaro a tutti che era la moglie del deputato, continua a ricoprire il doppio incarico. Cosa cui aspirerebbe anche Vicenzo De Luca nonostante una sentenza del tribunale. Perché quando il giudice ha accolto l’esposto del Movimento 5 Stelle sentenziando che in effetti la legge è la legge e dunque De Luca non può fare contemporaneamente il sindaco di Salerno e il viceministro delle Infrastrutture, lui non l’ha presa bene e ha fatto ricorso. Coerente almeno nell’ostinazione con cui ha sempre difeso la sua condizione di centauro. Capiamolo: in Italia nessuno si era mai scandalizzato davanti ai doppi o tripli incarichi pubblici. Semmai il contrario.

Così come nessuno, almeno fino al pronunciamento ieri di Enrico Letta, nei tre governi che si sono avvicendati dal 2008, ha mai voluto affrontare il caso di Antonio Mastrapasqua. Quando è stato nominato presidente dell’Inps a palazzo Chigi c’era Silvio Berlusconi e lui aveva una quarantina di poltrone. Oggi, che in più controlla anche l’ex Inpdap, ne occupa quindici. Qualche assaggio? La presidenza della società di gestione di fondi immobiliari Idea Fimit. La vicepresidenza di Equitalia. La presidenza dei collegi sindacali di Adr engineering, Aquadrome ed Eur Tel (Tesoro). Quindi gli incarichi da revisore nelle Autostrade per l’Italia, Coni servizi e Loquendo (Telecom). Dulcis in fundo, c’è pure un posto da direttore generale: all’Ospedale israelitico di Roma. Dov’è stata aperta l’inchiesta su una presunta storia di cartelle cliniche truccate.

Sarebbe ingiusto dire che non si è fatto nulla per mettere un freno a questo costume. Dando attuazione alla legge anticorruzione il governo di Mario Monti ha stabilito con un decreto legislativo una lunga serie di incompatibilità fra ruoli politici, poltrone nelle società pubbliche e alti incarichi burocratici. Peccato che appena due mesi dopo, nel giugno 2013, con il governo di Letta insediato da poche settimane, il Parlamento l’abbia smontato di fatto, fissando il principio che quei limiti diventeranno operativi solo a partire dalle nomine future. E peccato che a ottobre scorso il ministero dell’Economia abbia deciso con una propria circolare che il divieto di sommare le poltrone non si applica ai direttori e ai vicedirettori delle agenzie fiscali: una circolare che supera una legge!

Dimostrazione di quanto sia complicato in un Paese tanto refrattario alle regole, e impregnato di conflitti d’interessi, far passare un principio elementare come l’incompatibilità fra i vari incarichi pubblici. E se è così difficile al centro, figuriamoci in periferia. Capita perciò che il sindaco di Arconate, Mario Mantovani, alla cui famiglia fanno capo oltre 800 posti letto di residenze per anziani convenzionate con la Regione Lombardia, sia assessore della medesima Regione. Alla Sanità, per l’esattezza. Oppure succede che il presidente della Provincia di Brescia, l’ex sottosegretario leghista all’Economia Daniele Molgora, abbia un posto nel consiglio di amministrazione della società che gestisce l’autostrada Brescia-Padova. O che l’ex governatore della Lombardia Roberto Formigoni, emigrato al Senato, sia rimasto per mesi attaccato allo scranno di commissario generale dell’Expo 2015.

Ed è niente al confronto di quello che accade nella burocrazia, lontano dai riflettori. Per otto lunghi mesi la Provincia di Roma, commissariata dopo le dimissioni dell’attuale presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, è stata retta dal prefetto di Palermo Umberto Postiglione. Mentre all’ex capo di gabinetto del ministero dell’Economia, l’esperto Vincenzo Fortunato rimasto senza incarico di governo, è stata affidata la complicata liquidazione della concessionaria del Ponte sullo stretto di Messina (che non si farà mai), ma anche la presidenza di Investimenti immobiliari italiani, il fondo che dovrà gestire la privatizzazione e la valorizzazione di un bel pezzo di patrimonio pubblico, nonché il collegio sindacale di una terza societa’ del Tesoro: Studiare sviluppo.

E i magistrati? A chi meglio di loro mettere in mano (gratuitamente, s’intende) la delicata materia della giustizia sportiva, come prova l’incarico di presidente della corte della Federcalcio assegnato al consigliere di Stato Gerardo Mastrandrea?

Il fatto è che certa burocrazia è abilissima a muoversi nelle pieghe della legge. Sfruttando a proprio vantaggio anche le apparenti avversità. Ne è testimonianza un comma della legge di Stabilità che contiene una disposizione sacrosanta: chi percepisce una pensione statale non può cumulare a quella un altro stipendio dello Stato che gli faccia superare il tetto massimo di 302 mila euro stabilito per le retribuzioni dei manager pubblici. Disposizione che però non vale, anche questa, per «gli incarichi e i rapporti in essere»: con il sospetto che questa frase serva a salvare dalla tagliola le paghe super di certi consiglieri di Stato che lavorano per la politica. Dunque si fissa una regola e poi si concede la possibilità di aggirarla agli stessi che l’hanno scritta.

Tanta ipocrisia non poteva risparmiare le nomine pubbliche. La scorsa primavera il Tesoro rinviò la designazione dei vertici della Finmeccanica con la motivazione di dover prima mettere a punto requisiti di assoluta moralità e professionalità. È finita con la nomina dell’ex capo della polizia ed ex sottosegretario Gianni De Gennaro alla presidenza della holding militare e tecnologica, e con la conferma dei vecchi amministratori in tutte le altre società statali. Compreso Giancarlo Innocenzi, ex dipendente del gruppo Fininvest di Berlusconi, ex onorevole, ex sottosegretario ed ex componente dell’Agcom da cui si era dovuto dimettere in seguito alle polemiche circa le presunte pressioni esercitate per far chiudere la trasmissione «Anno zero» di Michele Santoro: confermato alla presidenza di Invitalia, società pubblica per l’attrazione degli investimenti esteri.

Non che le cose vadano diversamente nelle autorità indipendenti, dove spesso l’indipendenza è una variabile secondaria. L’ultima in ordine di apparizione, l’Authority dei trasporti: dove fra i componenti è spuntato un altro politico di lungo corso: l’ex deputato di Forza Italia Mario Valducci.
Adesso non resta che attendere con ansia le nomine alla Rai. Succulento antipasto di quelle in arrivo nelle grandi società di Stato: Eni ed Enel, dove Paolo Scaroni e Fulvio Conti hanno fatto tre mandati triennali, o le Poste, dove Massimo Sarmi sta completando addirittura il quarto. Chi scommette su un altro giro di valzer?

27 gennaio 2014
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SERGIO RIZZO

Da - http://www.corriere.it/politica/14_gennaio_27/incarichi-nomine-manager-l-eterno-scandalo-regole-ignorate-ce835de4-872c-11e3-b7c5-5c15c6838f80.shtml
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« Risposta #177 inserito:: Febbraio 24, 2014, 06:41:23 pm »

La burocrazia

Capi di gabinetto e dirigenti inamovibili
Il potere ombra cresciuto nei ministeri
Il nuovo premier e l’idea di una direttiva per sbarrare la strada ai consiglieri di Stato


Licenziabilità e rotazione Tra le ipotesi anche la licenziabilità o l’obbligo di rotazione degli incarichi dopo un massimo di sei anni Non sappiamo ancora se quella lettera partirà mai. Ma che nelle ore precedenti alla formazione del governo fosse circolata l’idea di emanare come primo atto dell’epoca renziana una direttiva per sbarrare la strada verso i vertici dei ministeri ai consiglieri di Stato e ai giudici dei Tar, è garantito. Atto senza precedenti, capace di ribaltare i rapporti fra la politica e un grumo di potere che da decenni ha in mano le leve operative dell’esecutivo con l’egemonia incontrastata sugli incarichi da capo di gabinetto o degli uffici legislativi. Una burocrazia che si sovrappone alla burocrazia, tenendosi per mano e passandosi spesso il testimone da un ministero all’altro.

Alcuni casi hanno letteralmente fatto scuola. Uno per tutti, quello di Corrado Calabrò: nel 1963 era già con Aldo Moro a Palazzo Chigi, un trampolino che gli ha consentito in seguito di attraversare tutto l’universo governativo, alla guida dei gabinetti di Bilancio, Mezzogiorno, Sanità, Industria, Agricoltura, Marina Mercantile, Poste, Istruzione, Politiche comunitarie, Riforme... Monumento ineguagliato a una potente stirpe di ministri ombra cresciuta irresistibilmente fino ai giorni nostri, di incarico in incarico.

Soltanto nel primo semestre del 2013, periodo che registra le nomine coincidenti con l’insediamento dell’esecutivo di Enrico Letta, sono stati conferiti a consiglieri di Stato o del Tar 54 incarichi governativi, il 37,5% di tutti quelli extragiudiziali assegnati negli stessi mesi a 113 diversi magistrati. Compresi, fra questi, due esponenti del governo: il viceministro dello Sviluppo Antonio Catricalà e il sottosegretario alla Presidenza Filippo Patroni Griffi. E compresi anche i magistrati ingaggiati dai ministri del vecchio esecutivo che Matteo Renzi ha confermato. Come il capo dell’ufficio legislativo delle Infrastrutture di Maurizio Lupi, Gerardo Mastrandrea, che dieci anni fa entrò negli uffici di Porta Pia in qualità di esperto legislativo del viceministro Mario Tassone. O come il suo collega Giuseppe Chiné che fa lo stesso lavoro alla Salute di Beatrice Lorenzin, la quale ha collocato al posto di capo di gabinetto un altro consigliere di Stato, Mario Alberto Di Nezza.

Ecco spiegato il motivo per cui, anziché una disposizione formale che impedisca la consueta migrazione di mandarini da palazzo Spada al governo, c’è da attendersi piuttosto una moral suasion per indurre i ministri a scegliersi per quei ruoli chiave figure un po’ diverse. Per capire l’aria che tira, del resto, è sufficiente dare un’occhiata in cima alla piramide. Dove c’è il braccio destro di Renzi Graziano Delrio, ex ministro degli Affari regionali e ora sottosegretario alla Presidenza: il suo capo di gabinetto al ministero risponde al nome di Mauro Bonaretti, era direttore generale del comune di Reggio Emilia con Delrio sindaco. Segno inequivocabile che anche a Palazzo Chigi molte cose sono destinate a cambiare. A cominciare da alcune posizioni strategiche occupate, manco a dirlo, da altrettanti consiglieri di Stato.

Per esempio, quella di capo dell’ufficio legislativo affidata in precedenza a Carlo Deodato. O quella del segretario generale della Presidenza, incarico ricoperto nel governo Letta da Roberto Garofoli, già capo di gabinetto di Patroni Griffi alla Funzione pubblica. Si tratta di una figura chiave, che deve far funzionare una struttura cruciale e complessa, nel tempo diventata gigantesca: 4.500 persone, più del triplo rispetto al Cabinet Office del premier britannico David Cameron. Ragion per cui la persona più accreditata per ricoprire quel ruolo è lo stesso Bonaretti. Ma è circolato anche il nome dell’ex segretario generale dell’Anci Angelo Rughetti, deputato del Pd fra i più vicini a Renzi e Delrio.

Ce n’è abbastanza, insomma, perché la vecchia guardia sia in subbuglio. Tanto più, dopo aver letto i nomi dei nuovi ministri, per la mancanza di punti di riferimento. Ma la fibrillazione si è estesa anche ai ministeri, che rischiano di venire investiti da un altro terremoto. Entro tre mesi dovranno essere confermati o sostituiti, in base alle norme che regolano lo spoils system in salsa italiana, gli altissimi dirigenti. E qui si apre la partita dei segretari generali, che si presenta intricata per molti aspetti e per la caratura dei personaggi. Michele Valensise, che era stato nominato da Giulio Terzi ed era rimasto con Emma Bonino, continuerà il suo incarico alla Farnesina con Federica Mogherini? E come sarà il rapporto fra Antonio Lirosi, ex mister consumatori considerato molto vicino all’ex segretario democratico Pier Luigi Bersani, nominato da Flavio Zanonato segretario generale del ministero dello Sviluppo economico neppure due settimane prima delle dimissioni del governo, e il nuovo ministro Federica Guidi? Per non parlare di altri pezzi da novanta. Persone sconosciute ai più, talvolta defilate, ma più potenti degli stessi ministri. Valga per tutti l’esempio del quasi settantenne Ercole Incalza, l’uomo che con Lorenzo Necci ha gestito la controversa, quanto a modalità e costi, operazione dell’alta velocità ferroviaria made in Italy. «Quattordici volte inquisito e quattordici volte prosciolto», ha ricordato il Fatto quotidiano, nonché inquilino ministeriale a più riprese a partire da quando ai Trasporti c’era il socialista Claudio Signorile, è da tre lustri l’eminenza grigia delle Infrastrutture. Sopravvissuto a una mezza dozzina di ministri, è stato confermato da quello attuale, Lupi, alla testa della struttura che si occupa delle grandi opere. Intoccabile, ha una influenza enorme.

Eppure quella sulla quale siede Incalza non è nemmeno una di quelle venti poltrone considerate nevralgiche per il potere ministeriale. Alcune delle quali occupate da persone di recente inserimento nell’amministrazione. La più ingombrante è quella del direttore generale del Tesoro, tradizionalmente uno degli inamovibili: da due anni l’incarico è nelle mani di Vincenzo La Via. E poi il Ragioniere generale dello Stato: altra posizione ultralongeva oggi ricoperta da Daniele Franco, arrivato con l’ex ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni. Resisterà al suo posto o cederà alla tentazione di rientrare nei ranghi della Banca d’Italia, da cui proviene? Mentre per il responsabile della spending review (la revisione della spesa) Carlo Cottarelli si potrebbe profilare un trasferimento dall’Economia a Palazzo Chigi. Magari a capo di quel dipartimento economico che era stato in grande spolvero negli anni 90 al tempo di Stefano Parisi e che ora potrebbe ritrovare l’antico smalto. Ma se nella riorganizzazione del governo la presidenza del consiglio è destinata ad avere più voce in capitolo sulle questioni economiche, al tempo stesso Palazzo Chigi vedrà scomparire strutture la cui esistenza separata dai tradizionali ministeri ben poco si giustifica, come l’Integrazione (che andrà al Lavoro?) o l’Editoria (ai Beni culturali?).

Inutile dire che il cambiamento vero della pubblica amministrazione parte da qua: l’alta burocrazia. Ed è certo che la portata innovativa del governo Renzi su questo fronte si giudicherà dalle prime mosse. Vedremo se il ministro Marianna Madia darà seguito ai propositi di introdurre misure per l’Italia sconvolgenti come la licenziabilità dei dirigenti o l’obbligo di rotazione degli incarichi dirigenziali dopo un massimo di sei anni. Un grimaldello che potrebbe mettere in crisi incrostazioni di potere tipo quelle sedimentate intorno a figure come Incalza. Anche se per sbriciolarle completamente manca un passaggio. Ovvero, che le leggi siano scritte in modo chiaro e trasparente, e soprattutto che per essere attuate non abbiano bisogno di decreti, norme o circolari ministeriali: un sistema che espropria il Parlamento del potere di legiferare affidandolo a meccanismi nebbiosi manovrati da una burocrazia spesso ottusa e autoreferenziale, corresponsabile dell’immobilismo. Con il risultato che tutto finisce nel pantano. A ottobre 2013 il Sole24ore ha calcolato che per rendere operative leggi emanate a partire dal governo Monti mancavano 469 provvedimenti di attuazione.

23 febbraio 2014
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Sergio Rizzo

Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_23/capi-gabinetto-dirigenti-inamovibili-potere-ombra-cresciuto-ministeri-5de9eed4-9c6e-11e3-bf70-ea8899950404.shtml
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« Risposta #178 inserito:: Febbraio 28, 2014, 07:22:34 pm »

La lista
Dalle Poste a Eni e Enel: quei 350 manager da nominare
Per la prima volta da 12 anni tocca a un governo di centrosinistra. Renzi punta a un rinnovamento profondo

La lista delle 350 nomine con cui Renzi dovrà ben presto fare i conti comincia imprevedibilmente dalla A di Arcus. Si chiama così una società dei Beni culturali costituita dieci anni fa per distribuire ogni anno milioni, con un consiglio lottizzato, senza passare per le procedure ordinarie. Tanto da aver suscitato serie perplessità sulla sua stessa esistenza, culminate nella sacrosanta soppressione decisa dal governo Monti. Ma prima che Arcus potesse esalare l’ultimo respiro, eccola resuscitare grazie a un provvidenziale emendamento al decreto «Del Fare» firmato nell’estate 2013, in piena stagione di larghe intese, dalla berlusconiana Elena Centemero, di professione insegnante.

Ed essendo tornata operativa, anche questa società rientra ora nel più grande giro di nomine pubbliche da molti anni a questa parte. L’ambasciatore Ludovico Ortona, che in vista dello scioglimento di Arcus era stato nominato da Monti amministratore unico, è il primo dei manager pubblici in scadenza che dovrebbe essere rinnovato o sostituito. Sono, appunto, 350. La fetta più grossa è costituita dai 74 consiglieri di amministrazione del gruppo Enel, a cominciare dai nove della holding, con in testa l’amministratore delegato Fulvio Conti. Seguono le società partecipate dalla Cassa depositi e prestiti: 51 poltrone, comprese quelle delle imprese del Fondo italiano d’investimento. E poi il gruppo Anas (43), la Finmeccanica (35), l’Eni (29), le Poste (29) e le controllate delle Ferrovie (24) e di Invitalia (15). Partite in qualche caso delicatissime, considerando che è la prima volta negli ultimi dodici anni che un governo a guida di centrosinistra ha la responsabilità di designare i vertici delle più grandi aziende di Stato. Dunque un banco di prova determinante per il governo di Matteo Renzi, che ha fatto trapelare l’intenzione di procedere a un rinnovamento profondo.

Il grimaldello, per quello che se ne sa, potrebbe essere l’applicazione di un criterio generale secondo il quale la durata massima delle cariche dovrebbe essere limitata a due mandati triennali. Un automatismo che garantirebbe il ricambio, ma che difficilmente si potrebbe applicare alle società quotate, dove la sostituzione di un manager «anziano» ma capace potrebbe non essere apprezzata dal mercato. Senza considerare che nella precedente tornata di nomine, lo scorso anno, hanno ottenuto la conferma anche capi azienda che avevano già oltrepassato quel limite, come gli amministratori delegati delle Ferrovie, Mauro Moretti, e di Invitalia, Domenico Arcuri.

Il tema che si profila è perciò come combinare la necessità di cambiare l’aria, in qualche caso assai stantia, con l’esigenza di preservare il merito. E vedremo pure se, e in che modo, i partiti continueranno ad avere voce in capitolo. I fedelissimi del Cavaliere, per esempio, si dicono certi che tanto Conti quanto soprattutto il suo collega dell’Eni Paolo Scaroni, entrambi nominati e confermati due volte da governi targati Silvio Berlusconi, non usciranno di scena. C’è chi sibila di garanzie arrivate dal fronte renziano. Solo fantasie?

Vedremo. Di sicuro scorrendo la lunga lista dei nomi in scadenza si può valutare la dimensione della partita che Renzi ha di fronte. Nel consiglio dell’Eni c’è per esempio Mario Resca, uno dei manager più apprezzati da Berlusconi, che l’ha voluto nel consiglio della Mondadori e alla direzione generale dei Beni culturali. Fra le varie società in attesa di rinnovo c’è poi la Consap, presieduta dall’ex Ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio e amministrata dall’ex direttore generale della Rai Mauro Masi. Alla Finmeccanica scadono tutti, anche il presidente nominato lo scorso anno dal governo Letta, che risponde al nome di Gianni De Gennaro, ex capo della polizia ed ex sottosegretario di Monti. Scade anche il consiglio di Italia Lavoro, dove troviamo Maria Lucia Galdieri: assessore al Lavoro e alla Pace, in carica (!), alla Provincia di Napoli governata dal centrodestra. E poi una piccola società dell’Eni, la Servizi fondo bombole metano, che ha riservato una poltroncina, udite udite, per Pasqualino De Vita, 84 anni suonati, ex capo dell’Agip e poi per tre lustri monarca dei petrolieri. Quindi Fs sistemi urbani, presieduta dal presidente delle Ferrovie Lamberto Cardia confermato nell’incarico giusto un anno fa, ex numero uno della Consob, ottant’anni il prossimo maggio. E Centostazioni, al cui vertice siede l’ex braccio destro di Biagio Agnes, Paolo Torresani. E la società Ricerca sul sistema energetico, con l’ex tesoriere di Forza Italia alla Camera, Alberto Di Luca. E la Banca del Mezzogiorno, con il segretario generale della Fondazione Italianieuropei Andrea Peruzy. E la compagnia aerea delle Poste Mistral Air, con l’ex senatore Andrea Corrado, leghista al pari del presidente di Posteshop, Mario Cavallin. E Difesa Servizi, società creata dall’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa, nella quale trovano posto il suo ex consigliere Giovanni Bozzetti e il segretario generale della Fondazione Alleanza nazionale, Antonio Giordano. Per non parlare dell’Istituto sviluppo agroalimentare, società del ministero dell’Agricoltura amministrata da Annalisa Vessella, consigliere regionale in carica (!) della Campania e consorte dell’ex onorevole Responsabile Michele Pisacane....

Un lavoro immane, capace di mettere a dura prova i coraggiosi propositi del governo renziano. Che poi così solidi, alla prima verifica, non si sono certo rivelati. La dimostrazione? Per mandare subito un segnale era stata ventilata addirittura una direttiva ai ministri chiedendo loro di non scegliere stretti collaboratori provenienti dal Consiglio di Stato. Ebbene, è di ieri la notizia che il ministro più importante, il responsabile dell’Economia Pier Carlo Padoan, avrebbe scelto come capo di gabinetto il consigliere di Stato Roberto Garofoli, segretario generale di palazzo Chigi con l’ex sottosegretario Filippo Patroni Griffi, a sua volta consigliere di Stato.

27 febbraio 2014
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Sergio Rizzo

Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_27/dalle-poste-eni-enel-quei-350-manager-nominare-903416ba-9f77-11e3-b156-8d7b053a3bcc.shtml
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« Risposta #179 inserito:: Marzo 02, 2014, 05:27:14 pm »

Debiti per 1,9 miliardi: l’aiuto dello Stato è una possibilità già diventata un caso politico
Il premier, Sorgenia e il salvataggio pagato dallo Stato
Il nodo della remunerazione pubblica per le centrali del gruppo De Benedetti
   
Si chiama in gergo tecnico capacity payment, ed è un salvagente formidabile per quanti oggi producono ancora energia elettrica con il gas: a causa del boom delle energie rinnovabili e della crisi economica che ha affossato i consumi di energia le loro centrali restano spente la maggior parte del tempo. E i bilanci vanno a picco. Ecco allora spuntare quella miracolosa formula inglese, che si può tradurre così: i proprietari degli impianti termoelettrici vengono pagati lo stesso anche se le turbine non girano, semplicemente perché potrebbero produrre. Una specie di imposta sulla riserva di capacità produttiva che entrerebbe in azione quando ce ne fosse la necessità, in grado di dare un bel sollievo ai conti malandati di alcuni produttori. Quella tassa esiste già, ma i produttori vogliono molto più dei 150 milioni del vecchio capacity payment . Secondo Assoelettrica ed Energia concorrente, per tenerli a galla servono almeno 600 milioni l'anno fino al 2017. L'hanno scritto in un dossier di una decina di pagine spedito nelle stanze che contano con la dicitura «Riservato».

Chi sta peggio di tutti è Sorgenia, gruppo che fa capo alla Cir di Carlo De Benedetti, editore di Repubblica e del gruppo L'Espresso. Si trova a un passo dall'avvitamento finanziario: fra tre settimane finirà i soldi in cassa. Il debito sfiora quota 1,9 miliardi. A metà degli anni Duemila le banche le avevano concesso generosi finanziamenti per realizzare centrali a turbogas. Ma allora il mercato tirava. Poi, in soli cinque anni, è cambiato tutto. Alla crisi economica e al boom delle rinnovabili si è aggiunto l'alto costo dei contratti di acquisto del gas a lungo termine, i cosiddetti take or pay. Risultato: con una produzione ridotta al 20 per cento e un debito diventato insostenibile per almeno 600 milioni, nel solo terzo trimestre 2013 Sorgenia ha messo a bilancio una perdita di 434 milioni: cento in più di quanti De Benedetti ne abbia incassati da Silvio Berlusconi dopo la sentenza sul caso Mondadori.

E qui si apre uno scenario incandescente. Con tre protagonisti: il premier, l'editore di Repubblica e il suo avversario di sempre, Berlusconi. Il marchio di fabbrica è come sempre di Beppe Grillo: «Mettete Renzi e al posto del burattino Pinocchio e Berlusconi e De Benedetti nei ruoli del Gatto e della Volpe». Rispettando il gioco delle parti, da settimane i giornali e i commentatori della destra non danno tregua a De Benedetti, individuato come il manovratore occulto del governo di Matteo Renzi. E non soltanto da loro, se è vero che «il Secolo XIX», certo non un quotidiano berlusconiano, raccontando come ai colloqui per il governo avesse partecipato nella delegazione socialista Vito Gamberale, amministratore del fondo F2i «in trattativa con il gruppo «L'Espresso» per il nuovo operatore delle frequenze digitali», commenta: «Una presenza che non contribuisce ad allontanare l'ombra di De Benedetti dal tentativo di Renzi».

Tutto parte dall'ormai famosa telefonata di Fabrizio Barca con l'imitatore di Nichi Vendola mandata in onda dalla «Zanzara», in cui l'ex ministro parlava delle pressioni subite «dal padrone di Repubblica, con un forcing diretto di sms, attraverso un suo giornalista» per accettare l'incarico di responsabile dell'Economia. Ma poi la cosa dilaga. Il tam tam è inarrestabile. Intervistato dal giornale online ilsussidiario.net l'economista Francesco Forte, editorialista del «Foglio» di Giuliano Ferrara, si chiede: «Non è un caso che la nomina di Renzi sia arrivata, con un'accelerata, nel momento delle nomine? Lui, forse, quest'accelerata, non la desiderava neanche ma ora sarà tenuto a renderne il servizio...» E dopo che «Repubblica», a poche ore di distanza dalla formazione del governo, ha puntato il dito contro il conflitto d'interessi del ministro dello Sviluppo, l'ex presidente dei giovani di Confindustria Federica Guidi, stigmatizzandone anche le presunte simpatie berlusconiane, il «Giornale» della famiglia Berlusconi titola: «Repubblica attacca la Guidi per i debiti di De Benedetti». Sottolineando proprio la difficile situazione di Sorgenia.

Il fatto è che questa vicenda è destinata a incrociare tanto la strada del governo Renzi quanto quella delle prossime nomine pubbliche nelle aziende di Stato. E magari anche quella del Cavaliere. Ma qui è necessario fare un passo indietro, tornando alle ultime settimane del governo di Enrico Letta. Le pressioni della Confindustria perché si risolva quel problemino dei produttori termoelettrici sono incessanti. Finché nella legge di Stabilità spunta una norma che apre la strada proprio a quella formuletta inglese: «capacity payment». Fissando però soltanto il principio: a stabilire quanti soldi e a chi concretamente andranno, toccherà al ministero dello Sviluppo, sentita l'Authority, entro la fine di marzo 2014. Al ministero c'è il bersaniano Flavio Zanonato, attorniato da altri bersaniani. Il segretario generale è Antonio Lirosi e il capo di gabinetto Goffredo Zaccardi, che aveva lo stesso incarico con Pier Luigi Bersani: il quale non può certo essere considerato nemico di De Benedetti. Anzi. Sorgenia esiste proprio grazie alle liberalizzazioni introdotte dall'ex ministro dell'Industria Bersani. E ora il salvataggio è nelle mani di Renzi e Guidi.

Il nemico rischia di essere il tempo. Le banche hanno chiuso i rubinetti, il socio austriaco Verbund non vuole più tirare fuori un euro e Rodolfo De Benedetti, il figlio di Carlo, è disposto a mettere nel buco nero soltanto un centinaio di milioni. Il rischio di dover portare i libri in tribunale è reale. E l'eventuale fallimento non risparmierebbe le banche, la cui esposizione è vertiginosa. Tanto che queste stanno valutando la possibilità di trasformare parte dei loro crediti in capitale, ripetendo il copione già sperimentato con l'immobiliare Risanamento di Luigi Zunino e con la Tassara di Romain Zaleski. Se ne parlerà domani a un vertice forse decisivo. Ben sapendo due cose. La prima: senza l'aiutino dello Stato Sorgenia rischia comunque di andare a picco, come riconosce lo stesso piano finanziario della società. La seconda: la soluzione definitiva è la cessione del gruppo energetico che fa capo a De Benedetti.

E di candidati italiani con le spalle abbastanza grandi non ce n'è che uno. L'Eni di Paolo Scaroni: un manager che nel 2002 è stato designato alla guida dell'Enel e che poi è stato nominato per ben tre volte ai vertici del grande gruppo petrolifero ancora controllato dal Tesoro. Cementando anche attraverso l'assidua presenza dell'Eni in Russia i rapporti tra l'ex premier Silvio Berlusconi e Vladimir Putin. Corre voce che nei colloqui con Matteo Renzi il Cavaliere abbia chiesto (e ottenuto?) un impegno a preservare, con le nomine che il governo dovrà fare nelle prossime settimane, le posizioni di Scaroni e dell'attuale capo dell'Enel Fulvio Conti all'interno del sistema delle grandi aziende pubbliche.

Da una parte il capacity payment rinforzato. Dall'altra l'intervento successivo dell'Eni. Gli ingredienti per uno dei classici feuilleton all'italiana, nei quali la politica e gli affari si amalgamano in un abbraccio incestuoso, ci sono tutti. Con effetti pirotecnici a cascata. Perché se trasformando i crediti in azioni le banche diventeranno proprietarie di Sorgenia, magari lo Stato, attraverso l'Eni, darà un aiutino determinante anche a loro. Il secondo, dopo quello della rivalutazione delle quote di Bankitalia che ha fatto imbestialire i grillini. La prima della lista, la più esposta di tutte? Il Monte dei Paschi di Siena, nelle mani di una fondazione già a trazione Pd...

02 marzo 2014
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Fabrizio Massaro e Sergio Rizzo

Da - http://www.corriere.it/economia/14_marzo_02/premier-sorgenia-salvataggio-pagato-stato-c3a9e07a-a1e2-11e3-adcb-9ee016b80fee.shtml
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