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Autore Discussione: SERGIO RIZZO  (Letto 136055 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Giugno 03, 2013, 04:45:12 pm »

Approfondimenti I conti delle forze in Parlamento (e di quelle scomparse)

Immobili, debiti e liti per i soldi

I «pesanti» bilanci della politica

Tra cifre astronomiche, fideuissioni personali e indebitamenti Gli enormi patrimoni dei partiti «scomparsi»


ROMA - L'aveva scritto, il commissario di Forza Italia Sandro Bondi, che sarebbe stato il disastro. Messo bene in chiaro, nell'ultimo bilancio.
Il taglio dei contributi elettorali avrebbe avuto effetti pesantissimi sui conti di quel partito ormai defunto, che già non erano brillantissimi, anche per via dei 55 milioni di debiti bancari in bilancio a fine 2011: con la certezza di vederli crescere ancora, a causa della rinuncia all'ultima tranche dei rimborsi elettorali imposta con la legge del luglio dello scorso anno. Un passaggio che il tesoriere del Popolo della Libertà Rocco Crimi non aveva esitato a definire «traumatico», confessando che quei soldi il suo partito li aveva già spesi, dopo aver ceduto alle banche crediti verso lo Stato per almeno 20 milioni che però non avrebbe più potuto riscuotere. Soprattutto considerando i costi delle campagne elettorali, che nel 2011, anche se ridotti di 11 milioni rispetto al 2010, non erano comunque scesi sotto i 14 milioni e mezzo. E le spese per mantenere 92 sedi: 4 milioni 340 mila euro soltanto per quelle di via dell'Umiltà e di palazzo Grazioli, a Roma, dov'è la residenza privata di Silvio Berlusconi. Nonché 117 coordinatori e 84 dipendenti, dei quali 34 assunti a tempo indeterminato, in un solo colpo, da Forza Italia.

Un conto astronomico, che i 32 milioni l'anno di «rimborsi» elettorali coprivano per neppure due terzi. Né la precaria situazione finanziaria impietosiva gli eletti del partito. Tenuti a dare ciascuno un contributo, il 34 per cento dei parlamentari risultava in ritardo con i pagamenti, il 21 per cento non aveva mai, ma proprio mai, messo mano al portafoglio. Totale degli arretrati, compresi i consiglieri regionali: 4 milioni 646 mila euro. Bondi e Crimi non potevano sapere che Silvio Berlusconi avrebbe ben presto affiancato Beppe Grillo nell'invocare l'abolizione del finanziamento pubblico dei partiti. Proprio lui, il capo del movimento politico che fra tutti, dall'inizio del secolo, aveva ingoiato la maggiore quantità di denaro pubblico. Senza riuscire a saziarsi. Così da dover colmare il fabbisogno di Forza Italia con i debiti, garantiti da una fideiussione personale del Cavaliere per ben 174 milioni.

Ma non tutti hanno vissuto al di sopra delle proprie possibilità. Anche perché di denari statali ne arrivavano in tale quantità da non riuscire nemmeno a spenderli tutti. Dal 1974 a oggi il finanziamento pubblico ha fatto piovere nelle casse dei partiti, sotto varie forme, non meno di 10 miliardi di euro attuali. Tanti soldi non potevano che drogare il sistema, da destra a sinistra: provocando casi di pericolosa assuefazione con progressivo e inesorabile distacco dalla realtà. La Margherita, partito estinto quattro anni prima, aveva ancora a fine 2011 sei dipendenti e 19,8 milioni liquidi in banca più 371.743 euro investiti in una gestione patrimoniale Ras. Il tutto, dopo che 22 milioni erano già spariti nella vicenda che ha coinvolto l'ex tesoriere Luigi Lusi. Basterebbero questi numeri a spiegare perché nel 2007, quando è venuto alla luce il Partito democratico, i suoi genitori abbiano scelto il regime della separazione dei beni.

Ma per chi non fosse ancora convinto del peso determinante che hanno avuto i quattrini nel contratto di matrimonio con clausola di divorzio incorporata fra Ds e Margherita, valga la storia della sede centrale del partito, in via delle Fratte a Roma. L'immobile è di proprietà della Fondazione collegio Nazareno, che l'ha affittato per 652.933 euro l'anno alla Margherita, da cui il Pd lo subaffitta pagando però 1.292.339 euro. I soldi, tanto, sono dei contribuenti. Non basta. Il Pd ha pure dovuto versare al partito morto, che l'ha fondato, una cauzione di 207 mila euro oltre a prestare una fideiussione di 414 mila euro con la Banca popolare di Milano. Per la serie: fidarsi è bene, non fidarsi è pure meglio.

I Democratici di sinistra, del resto, hanno ugualmente accettato di buon grado l'idea di non fare cassa comune. Ma gli eredi del Partito comunista possedevano qualcosa in più dei "rimborsi" elettorali: 2.399 immobili, gran parte dei quali sono sedi del Pd ma ci sono pure uffici e locali commerciali, la cui proprietà è stata blindata dal tesoriere del partito Ugo Sposetti in oltre 50 fondazioni costituite dalle federazioni locali.
A differenza della Margherita, priva di esposizione bancaria, i Ds avevano poi debiti per 150 milioni, dei quali 101 risalenti alla vecchia gestione del quotidiano l'Unità che il partito aveva deciso di accollarsi. Ma con un paracadute già pronto, rappresentato dalla garanzia dello Stato prontamente introdotta con un'apposita leggina.

Che basti questo a giustificare un contratto di matrimonio con clausola di divorzio incorporata, non si può dire. Viene soprattutto da domandarsi se la storia del Pd sarebbe stata la stessa nel caso in cui fosse andata in porto una comunione dei beni che nessuno voleva. È certo però che lo schema si è ripetuto, identico, a destra. Dove c'era, anche lì, un partito con un bel patrimonio: tenuto accuratamente, fra le polemiche e le carte bollate, ben lontano dagli sposi dell'epoca, Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi. Si tratta degli immobili di Alleanza nazionale, ereditati dal Movimento sociale italiano, frutto il larga misura, al pari delle proprietà dei Ds, di donazioni e lasciti di militanti e simpatizzanti nel corso degli anni.
Il famoso appartamento di Montecarlo venduto per 300 mila euro e nel quale si è scoperto che alloggiava il fratello della compagna di Fini, per esempio. Ma anche la prestigiosa sede di Roma, in via della Scrofa.

Il partito è finito in liquidazione pieno zeppo di soldi dei rimborsi elettorali. Nel 2010, pur essendo già deceduto da ben tre anni aveva in cassa disponibilità liquide, tenetevi forte, per 74 milioni 644.996 euro. Somma che un anno dopo si era ridotta a 11 milioni 876.217 euro. Nel frattempo il 14 dicembre 2011 tutto il patrimonio di An, costituito dalle tre società immobiliari Nuova Mancini, Italimmobili e Venezia estuario, dagli stabili romani di via Paisiello e via Fratelli Bandiera, più arredi e automezzi vari è finito in una Fondazione. I proprietari? Presidente è l'ex senatore di An Franco Mugnai, e nel comitato esecutivo insieme all'amministratore Donato Lamorte compaiono colonnelli del vecchio partito quali Maurizio Gasparri, Gianni Alemanno, Altero Matteoli e Ignazio La Russa, ora a capo di Fratelli d'Italia. Valore dei beni trasferiti: 61 milioni. Valore di libro, ovviamente.
Il che significa che va moltiplicato per svariate volte. Trecento milioni? Quattrocento? Cinquecento? Comunque un'enormità. Blindata.

Inevitabile che su questa vicenda volassero gli stracci fra le gerarchie presenti e passate del fu Movimento sociale. Ma se c'è qualcosa su cui i nostri politici riescono a litigare con maggiore impegno rispetto alle ben più importanti questioni di linea politica, sono proprio i denari. Dopo la puntata di Report di Milena Gabanelli che ha raccontato il turbinio di proprietà immobiliari intorno ad Antonio Di Pietro, l'Italia dei Valori ha rischiato di andare in pezzi. Risultato è che in parlamento adesso non c'è nemmeno un dipietrista. E di rimborsi elettorali, che comunque dovrebbero cessare del tutto fra quattro anni, neanche l'ombra. Non resta che tirare la cinghia, dopo anni di vacche grasse che hanno lasciato il segno. Alla fine del 2012 l'Italia dei Valori poteva pur sempre contare su un patrimonio netto di 16,6 milioni: 4,4 milioni in banca e 8 milioni investiti in prodotti finanziari fra cui i 7,3 alla Eurizon capital, società di gestione del risparmio del gruppo Intesa San Paolo. Rendono il 3,56 per cento netto.

Di sicuro non come certi investimenti fatti dal precedente tesoriere della Lega Francesco Belsito, che aveva spedito quattrini in Tanzania o a Cipro e acquistava diamanti e lingotti d'oro. Bei tempi, ma irripetibili. Perché adesso è vietato per legge. Ai partiti è concesso investire unicamente in titoli di Stato dei Paesi dell'Unione europea. E i fondi al Carroccio non mancano proprio. Al 31 dicembre 2011 aveva 12,8 milioni in banca e ben 20,3 milioni investiti in titoli, pronti contro termine e certificati di deposito. Per non parlare del patrimonio immobiliare, iscritto a bilancio per 8,3 milioni, e dei sette milioni e mezzo di partecipazioni azionarie. Ma nessuna voce poteva sorprendere più del valore degli automezzi di un partito che contava un anno fa 72 dipendenti: un milione 241.307 euro. Con quei soldi, Beppe Grillo avrebbe finanziato sei campagne elettorali come quella che ha portato il Movimento 5 Stelle oltre il 25 per cento...

Sergio Rizzo

2 giugno 2013 | 13:20© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/politica/13_giugno_02/immobili-debiti-e-liti-per-i-soldi-i-pesanti-bilanci-della-politica-sergio-rizzo_ff52bd44-cb3d-11e2-8266-15b8d315b976.shtml
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« Risposta #151 inserito:: Giugno 04, 2013, 11:39:34 pm »

Il caso - Il patrimonio immobiliare della Capitale nel caos da 20 anni. E senza un'anagrafe

Roma, se il Comune paga 106 milioni d'affitto

Il paradosso: è costretto a occupare immobili privati mentre concede case e bar a in centro a prezzi stracciati


ROMA - La lettera è di tre righe: «Si comunica che il sito istituzionale del Dipartimento patrimonio è tuttora in via di perfezionamento. Pertanto, i dati completi e/o parziali verranno inseriti dallo scrivente non appena possibile». Stop. Un perfezionamento quanto mai laborioso, considerato che la legge con la quale è stato imposto ai Comuni di pubblicare sui propri siti internet notizie e cifre relative agli immobili presi in affitto da privati, compresi ovviamente l'importo dei canoni pagati, ha ormai più di un anno. Quel provvedimento è stato infatti approvato dal Parlamento il 24 marzo del 2012. Ma per ora il segretario dei radicali romani Riccardo Magi, che da mesi chiedeva all'assessorato al patrimonio del Campidoglio notizie sui contratti di due stabili affittati per le necessità del consiglio comunale dalla società Milano 90 dell'immobiliarista Sergio Scarpellini, deve accontentarsi di quelle tre misere righe vergate diligentemente dallo «scrivente» dipartimento.

Con lui, fatto più importante, si devono accontentare anche tutti i cittadini della capitale d'Italia. Nonostante una legge stabilisca che debbano essere informati su come vengono impiegati i loro soldi. Tanti soldi. Nel 2012 il Comune di Roma ha speso per affittare immobili dai privati (e senza considerare gli affitti delle municipalizzate) una cifra stratosferica: 106 milioni e 780 mila euro, dicono le delibere. Che fa 38 euro per ogni abitante. Sappiamo che nel totale sono compresi anche i canoni pagati per far fronte a situazioni di disagio sociale. Ma è una somma comunque sbalorditiva, se confrontata alle dimensioni di un patrimonio cittadino dell'ordine delle trentamila unità immobiliari fra appartamenti, uffici, edifici e locali commerciali. Non lo è, al contrario, ricordando le stime impressionanti di quanto Stato, enti pubblici, Regioni e amministrazioni locali versano complessivamente ogni anno ai privati per gli affitti: una dozzina di miliardi. Senza che neppure esista un quadro unitario e preciso di tutta questa incredibile massa di contratti.

Dunque non può meravigliare che la città di Roma non abbia un'anagrafe pubblica del proprio patrimonio immobiliare. Che per complicare un po' le cose è pure gestito da tre soggetti diversi: un dipartimento comunale, i vari municipi e la società privata Romeo. Il problema è aperto da un ventennio. Ma la delibera che istituisce quell'anagrafe è stata approvata soltanto a settembre del 2012 e a distanza di un anno e mezzo da quando l'aveva proposta il consigliere Alessandro Onorato. Senza astenersi nell'occasione dal girare il coltello in un'antica piaga mai sanata. «Ci sono centinaia di appartamenti e negozi affittati a pochi euro. Come una piccola abitazione a piazza Navona affittata a 79 euro al mese e un bar su piazza Santa Maria in Trastevere che ne paga 52, solo per fare alcuni esempi», denunciava l'allora capogruppo dell'Udc. Rendendo in questo modo ancora più lampante la sproporzione fra il rendimento del patrimonio e l'esborso per gli affitti passivi.

Si dirà che con 25 mila dipendenti, tanti sono quelli dell'amministrazione capitolina, è inevitabile fare ricorso anche a immobili di proprietà privata. Sarà. Ma qui si parla di un costo procapite per dipendente che si aggira intorno ai 4 mila euro l'anno. Non è oggettivamente sorprendente? E può essere ritenuto normale che la missione di tenere i collegamenti fra la miriade di uffici comunali sia affidata a un centinaio di quelli che una volta si definivano i «camminatori», persone incaricate di portare le carte da un ufficio all'altro? Non a piedi, naturalmente: le dimensioni urbane sono tali da imporre l'uso delle vetture di servizio.
In una città che conta 15 municipi, con altrettanti presidenti, 90 assessorini e relativi uffici, non ci sono alternative. A meno di non voler usare di più e meglio le tecnologie, per esempio la posta certificata. Ma poi che ne sarebbe di tutto il resto? Secondo un articolo pubblicato dal Messaggero nell'agosto del 2011, il Comune di Roma spende 17 milioni l'anno per far marciare 226 auto, di cui 109 di rappresentanza. Cifra ovviamente comprensiva dei 9 milioni necessari a pagare i 254 autisti.

Sergio Rizzo

4 giugno 2013 | 9:08© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://roma.corriere.it/roma/notizie/politica/13_giugno_4/20130604NAZ06_16-2221470917608.shtml
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« Risposta #152 inserito:: Giugno 07, 2013, 06:49:45 pm »

Finmeccanica e le altre aziende di Stato

La nomina di Zampini nell'appunto di Epifani

Sul biglietto anche Cdp e Sogin


ROMA - Sarà stata anche una chiacchierata in birreria, quella fra Guglielmo Epifani e Pier Luigi Bersani. Ma mentre il Tesoro sta mettendo a punto i criteri per designare i vertici delle aziende pubbliche con l'intento di farla finita con la lottizzazione, l'occhio non può non cadere sulle ultime tre righe del foglio ripiegato in quattro che l'ex segretario della Cgil tiene nella mano sinistra. C'è scritto: «Nomine». E poi accanto: «Scelte radicali». Difficile dire a che cosa si alluda. Qualche indizio però c'è, sempre in quelle poche righe. Per esempio c'è un nome: «Zampini». Verosimilmente Giuseppe Zampini, amministratore delegato di Ansaldo Energia, fiero oppositore di Giuseppe Orsi, il precedente amministratore della Finmeccanica, la grande conglomerata ancora controllata dallo Stato per circa un terzo del capitale.

Il suo, insieme a quello di Orsi e dell'attuale amministratore delegato Alessandro Pansa, era finito nella terna dei nomi proposti nel 2011 al governo di Silvio Berlusconi per il posto di capo della holding tecnologica pubblica. Senza fortuna. Ma ora la situazione è completamente cambiata, e il nome di Zampini è tornato a circolare per una delle posizioni di vertice della Finmeccanica. Il governo Letta avrebbe già dovuto provvedere alla nomina del presidente e di un consigliere, ma ha deciso di rinviare le nomine per stabilire quei criteri di cui sopra validi per ogni azienda pubblica. Se ne parlerà all'inizio di luglio, e da questo indizio sembra di capire che Zampini potrebbe essere della partita. Come presidente o con incarichi perfino più operativi? E quel nome dell'amministratore delegato dell'Ansaldo energia, acerrimo nemico dei piani di dismissione delle attività civili, può essere interpretato come una suggestione strategica? Sul foglio ci sono poi altre parole. «Sogin». E accanto: «cambiare». La Sogin è una società pubblica presieduta dall'ex ambasciatore Giancarlo Aragona. Si occupa dello smantellamento delle centrali nucleari chiuse un quarto di secolo fa ed è alimentata con fondi presi dalle bollette elettriche. Anche qui l'intero consiglio è in scadenza.

Qual è poi il significato di quelle tre lettere che compaiono sul foglio appena sopra alla parola Sogin, ovvero «Cdp»? Possibile che sia l'acronimo della Cassa depositi e prestiti, il forziere dov'è custodito il risparmio postale. Una banca pubblica che controlla la Sace, compagnia assicurativa per l'export guidata da Alessandro Castellano, fonte di centinaia di milioni l'anno di utili, anch'essa con il consiglio da rnnovare. E «Monopoli»? Si riferisce ai Monopoli di Stato? O è il plurale di «monopolio»? Oppure si riferisce semplicemente al gioco: «Monopoli», appunto?

Sergio Rizzo

7 giugno 2013 | 12:37© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_giugno_07/la-nomina-di-zampini-nell-appunto-di-epifani-sergio-rizzo_c881b44a-cf2b-11e2-b6a8-ee7758ca2279.shtml
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« Risposta #153 inserito:: Giugno 09, 2013, 11:04:08 am »

Il caso

Di Pietro jr esce dal gruppo Idv: 800 euro in più al mese

Il figlio del fondatore finisce nel «misto» in consiglio regionale.

E aumenta la busta paga


ROMA - «Bisogna fare di più», incitava Antonio Di Pietro dal proprio blog il 30 settembre dello scorso anno. Erano i giorni in cui il governo tecnico preparava il giro di vite sui politici locali, imponendo tagli ai finanziamenti e controlli della Corte dei conti sui bilanci dei gruppi dei consigli regionali per evitare il ripetersi di scandali come quelli che stavano esplodendo in tutta Italia, a partire dal Lazio. La vicenda di Franco Fiorito, alias il Batman di Anagni, ricordate? E avendo spronato Mario Monti ad affondare il bisturi con ancora maggior decisione, una volta appreso del coinvolgimento del capogruppo dell'Italia dei Valori Antonio Maruccio nella vergognosa vicenda laziale, tuonava «Non ci possono essere sconti per nessuno!».

Quale sarà ora la reazione dopo la notizia arrivata dalla sua terra, il Molise? Perché i magistrati della Corte dei conti, cui spetta da qualche mese il compito di passare al setaccio i bilanci dei gruppi del Consiglio regionale, hanno debuttato bersagliando proprio quello dell'Idv. «Non regolare», l'hanno dichiarato i controllori. Secondo loro la rendicontazione di ben 89.733 euro e 99 centesimi, cioè quasi il 40 per cento dei 230.836,49 euro di fondi pubblici incassati dal gruppo dipietrista nel 2012, non può essere considerata «ammissibile».

Per prima cosa, afferma la delibera approvata nell'adunanza del 3 aprile scorso (alla quale i responsabili del gruppo non si sono presentati), ci sono 15.894 euro di spese prive di giustificativi. Cui si devono aggiungere 73.939 euro di altre spese che i giudici incaricati dei controlli hanno ritenuto non ammissibili, pur ricordando come la legge regionale con la quale sono stati stabiliti i contributi ai gruppi consiliari molisani considera quei soldi, pensate un po', «spendibili senza vincolo di destinazione». I magistrati argomentano che questa singolare assenza di limiti all'impiego dei denari dei contribuenti non può comunque prescindere dai «più elementari criteri di ragionevolezza»: dunque non possono essere accettabili «le spese assistite dai giustificativi» che non riguardino il gruppo, i consiglieri o il personale di supporto dello stesso gruppo. Per esempio, i denari che sono stati girati direttamente al partito. In questo caso non c'è legge regionale che tenga: il decreto ministeriale del 21 dicembre 2012 con cui è stata attuato quel giro di vite voluto dal governo Monti, lo esclude esplicitamente. Eppure di quei 230.836 euro destinati al gruppo ben 36.100 sono finiti nelle casse del partito. Prova provata che i contributi ai gruppi sono a pieno titolo una delle tante voci del finanziamento pubblico dei partiti. Il bello è che il rendiconto era stato redatto secondo le regole previste proprio da quel decreto, senza che per l'esercizio 2012 fosse ancora obbligatorio.

Ma la Corte dei conti ha escluso dalla rendicontazione anche un certo numero di semplici scontrini del Pagobancomat per 439 euro (che cosa era stato acquistato?), rimborsi spese per 16.408 euro a chi prestava attività volontaria, rimborsi dei pasti di oltre 1.800 euro per cui erano state presentate pezze d'appoggio illeggibili se non doppie, rimborsi di carburante al personale del gruppo mancanti dei dati sui tragitti e le auto, tre biglietti aerei emessi a favore di personale estraneo allo stesso gruppo...
Va da sé che tutto questo non sarebbe accaduto se non fossero arrivati tutti quei soldi. Perché 230.836 euro sono una cifra enorme. Considerando che il gruppo Idv era costituito da tre persone, sono 76.945 euro procapite, quasi 20 mila in più rispetto ai finanziamenti concessi ai gruppi parlamentari della Camera, pari nel 2012 a 57.539 euro per ogni eletto. Calcolando poi che fino allo scorso anno i consiglieri molisani erano 30, significa che ai gruppi politici di una Regione con circa 320 mila abitanti sono andati 2,3 milioni di euro. Una cifra senza senso.
Per inciso, di quel gruppo faceva parte anche Cristiano Di Pietro, figlio del leader del partito, approdato finalmente nella precedente tornata elettorale al consiglio regionale, dopo essere passato per il consiglio provinciale e per quello comunale. Il 2 novembre 2012, mentre infuriava lo scandalo del Lazio, dichiarava risoluto: «Dopo i tristi esempi provenienti da alcune Regioni possiamo andare controcorrente e dimostrare che non tutti i consiglieri sperperano il denaro pubblico». Faceva parte del gruppo, abbiamo detto, perché ne è uscito qualche settimana fa dopo che un candidato dell'Idv rimasto fuori dal Consiglio alle ultime elezioni ha presentato un ricorso al Tar. Lui non ha gradito e ha imboccato la porta. Uscendo dal gruppo ma non dal partito, beninteso. È soltanto emigrato al gruppo misto, che prima non esisteva. Lui l'ha costituito, ne è l'unico componente nonché il presidente: incarico, per inciso, che vale 800 euro netti in più al mese. Tanto per Di Pietro junior come per altri suoi 15 colleghi. Perché con la nascita del misto i gruppi politici della Regione Molise sono infatti diventati 16, per 21 consiglieri. In media, 1,31 per ogni gruppo.

Sergio Rizzo

9 giugno 2013 | 9:41© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_giugno_09/dipietro-junior-esce-idv_1d0a8206-d0be-11e2-9e97-ce3c0eeec8bb.shtml
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« Risposta #154 inserito:: Giugno 11, 2013, 05:42:38 pm »

II dati nello studio Confartigianato

Le aziende e il record della burocrazia

In cinque anni 288 nuove norme fiscali

Pressione tributaria al 68,3%. Allo Stato 1,7 milioni al minuto di tasse


ROMA - «Semplificare»: non c'è politico o governante che non abbia pronunciato almeno una volta questa parola. L'ex ministro leghista Roberto Calderoli, per rafforzare il concetto, si fece immortalare nel cortile di una caserma dei pompieri mentre dava fuoco con un lanciafiamme a 375 mila leggi inutili. Nemmeno troppo tempo fa: il 24 marzo del 2010. Poi è toccato al governo Mario Monti, per bocca del ministro Corrado Passera, lanciare un «urlo di dolore» per le complicazioni della burocrazia, invocando «semplificazioni» al più presto (8 novembre 2012). E ora è la volta del ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, annunciare che l'esecutivo di Enrico Letta «sta lavorando a un'operazione di semplificazione molto forte che dovrebbe vedere la luce a brevissimo»

(4 giugno 2013).

Auguri. Perché da quando è cominciata la precedente legislatura, nella primavera del 2008, sono state varate qualcosa come 288 norme fiscali che hanno avuto come conseguenza quella di complicare la vita alle imprese. E' un numero pari al 58,7 per cento di tutte le disposizioni di natura tributaria (491) introdotte attraverso 29 differenti provvedimenti. Oltre quattro volte superiore a quello delle 67 «semplificazioni» fatte nello stesso periodo: ogni norma approvata per snellire la burocrazia ne ha quindi portate con sé 4,3 capaci di riversare altra sabbia negli ingranaggi.


E forse non è un caso, sottolinea l'ultimo rapporto della Confartigianato che contiene questo dato scioccante, che «la pressione burocratica abbia lo stesso ritmo di crescita della pressione fiscale». Ha raggiunto il 44,6 per cento, livello mai visto dal 1990, anno d'inizio della serie storica . Con un picco negli ultimi tre mesi 2012, durante i quali per ogni minuto che trascorreva il Fisco incassava un milione 731.416 euro. L'ufficio studi della Confartigianato ricorda che tra il 2005 e il 2013, secondo le stime Ue, le entrate fiscali sono salite del 21,2 per cento, pari a 132,1 miliardi: cifra esattamente corrispondente all'aumento nominale del Pil, diminuito però in termini reali. Per ogni euro di crescita apparente, dunque, l'Erario ha intascato un euro in più: è l'eredità di quello che nel rapporto viene definito «il ventennio perduto», iniziato nel 1993 e proseguito con 12 differenti governi. Senza che nemmeno gli esecutivi tecnici siano riusciti a invertire la rotta.
Negli ultimi 600 giorni, 530 dei quali governati da Monti, il numero delle imprese è calato dell'uno per cento, il Pil è diminuito del 3,4 per cento, il credito al sistema produttivo ha subito una flessione di 65 miliardi, il debito pubblico è aumentato di 122 miliardi, la pressione fiscale è cresciuta dell' 1,8 per cento, la disoccupazione giovanile si è ingigantita dell' 8,5 per cento. Il numero delle persone senza lavoro è lievitato di 728 mila unità. La pressione fiscale sulle imprese risulta ben più elevata di quella per le famiglie: è arrivata al 68,3 per cento. Misura che vale il primato europeo e la quindicesima piazza mondiale. In Francia, dove pure non scherzano, il total tax rate sulle imprese è del 65,7 per cento. Ma in Germania scende al 46,8 per cento, per calare ancora in Spagna al 38,7 e planare nel Regno Unito al 35,5 per cento.


«In Italia sembra si faccia apposta per penalizzare il patrimonio produttivo. Non possiamo sempre cercare scuse o alibi. Chi governa deve assumersi le proprie responsabilità. Ci vuole meno fisco, meno burocrazia, più credito, servizi pubblici efficienti. Se muoiono le imprese, muore il Paese», dice Giorgio Merletti. Ma se l'Italia, a sentire il presidente della Confartigianato, è un Paese fiscalmente e burocraticamente ostile all'impresa, non lo è certo meno rispetto al lavoro. Lo dicono chiaramente le tasse. Le imposte sul lavoro sono pari mediamente al 42,3 per cento, sono 4,6 punti al di sopra della media dell'Eurozona. Ancora. Il rapporto sottolinea come a una crescita del 4,5 per cento registrata in Italia a partire dal 1995, ha fatto riscontro un calo europeo di un punto. Risultato è un ulteriore ampliamento della forbice per il cosiddetto cuneo fiscale e contributivo, salito qui al 47,6 per cento per un dipendente a medio reddito senza figli, contro il 35,6 per cento della media Ocse. Non bastasse, dobbiamo fare i conti anche con un curioso controsenso: l'aumento inarrestabile delle tariffe dei servizi pubblici locali per famiglie e imprese, cominciato proprio dalla seconda metà degli anni Novanta, in coincidenza con l'avvio delle liberalizzazioni. Fatto sta che dal 1997 al 2012 si è assistito a una crescita del 66,4 per cento, 26,7 punti in più dell'inflazione.


La tassa sui rifiuti, per esempio, recentemente inasprita con l'introduzione della Tares alla fine del 2011 con il decreto «salva Italia»: negli ultimi dodici anni le imposte sulla spazzatura hanno mostrato una progressione del 76,3 per cento. Su alcune categorie di imprese, poi, l'impatto della Tares è pesantissimo, con aumenti dell'imposta sui rifiuti che arrivano fino al 301,1 per cento.
E di nuovo è avvilente il paragone con la Germania, dove dalla fine del 2007 all'inizio di quest'anno quella tassa è calata mediamente dello 0,2 per cento, mentre in Italia saliva del 22,9 per cento. Ma si capisce il perché confrontando l'andamento della spesa pubblica nei due Paesi. Mentre in Germania, considerando il periodo che va dal 2001 al 2011, diminuiva di 1,7 punti di Prodotto interno lordo, qui al contrario cresceva di 4 punti.
Se la spesa pubblica italiana avesse seguito l'andamento tedesco, avremmo potuto risparmiare in un decennio 93,9 miliardi, quasi 9,4 l'anno. Perché non ci siamo riusciti? Si dice che la nostra spesa pubblica sia in larga misura «incomprimibile». Sarà. Resta però «incomprensibile» il fatto che nelle venti Regioni, le cui uscite incidono per oltre un quarto sul totale, ci siano livelli tanto differenti. Ecco allora che allineando semplicemente i livelli di spesa per le retribuzioni dei dipendenti e le forniture a quelli degli enti più virtuosi si potrebbero ottenere risparmi rilevantissimi. L'ufficio studi della Confartigianato li cifra in 20 miliardi 193 milioni. Ovvero, l'intero gettito previsto lo scorso anno per l'Imu dal governo Monti.

©

Sergio Rizzo

10 giugno 2013 | 8:17© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/13_giugno_10/aziende-record-burocrazia_f5d46d76-d18c-11e2-810b-ca5258e522ba.shtml
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« Risposta #155 inserito:: Giugno 28, 2013, 06:30:02 pm »

TAGLI POCHI, PRIVATIZZAZIONI DIMENTICATE

Spendere meno non è proibito

Aspettiamo ora con ansia di sapere come il Tesoro intende chiudere il buco. Perché di buco si tratta. Non serve una laurea per capire che la decisione di coprire il rinvio dell'aumento dell'Iva anticipando il pagamento delle tasse su redditi non ancora maturati causerà un problema nei conti pubblici a giugno del prossimo anno, quando i contribuenti avrebbero dovuto saldare il 100 per cento delle imposte dovute, e non invece il 110 per cento che verrà richiesto loro sette mesi prima della scadenza, a novembre. Richiesta per giunta beffarda, perché il peso di una tassa destinata a colpire chi consuma graverà indistintamente su tutti.

Poco importa. È noto che insieme alla sospensione dell'Imu sulla prima casa la sterilizzazione dell'aumento dell'Iva rappresenta il prezzo da pagare alla stabilità del governo di larghe intese: un prezzo rincarato, fra l'altro, dopo la recente condanna inflitta dal Tribunale di Milano a Silvio Berlusconi. Ma qualunque opinione si possa avere sui destini dell'esecutivo, c'è da chiedersi se non ci fosse un modo più serio per pagarlo.
Certo, sarebbe ingiusto caricare sulle spalle di Enrico Letta tutto il fardello delle non scelte fatte dai suoi predecessori. La Corte dei conti ha ricordato ieri che la spesa pubblica è in diminuzione, ma fra il 2001 e il 2011 è salita di 197 miliardi portando la pressione fiscale a livelli insostenibili, senza peraltro che la crescita forsennata sia riuscita ad arrestare il calo del Pil pro capite reale, franato nell'arco di quegli undici anni in Italia (unica nell'Eurozona) del 3,8 per cento.

Le privatizzazioni sono paralizzate da un decennio. L'ultima, quella dell'azienda dei tabacchi, risale al 2003: era stata avviata cinque anni prima. Le cessioni del patrimonio degli enti previdenziali hanno generato grandi profitti privati senza intaccare il debito pubblico, il quale anzi continuava a salire. Nel frattempo lo Stato ha ripreso a dilagare nell'economia con la proliferazione di migliaia di società di capitali controllate dalle amministrazioni locali che hanno garantito poltrone, gettoni e stipendi a un esercito di 38 mila fra amministratori, sindaci e alti dirigenti scelti dai partiti. Incalcolabile è lo spreco di risorse, mentre ogni tentativo serio di liberalizzazione è stato sempre respinto e il costo dei servizi pubblici ha battuto ogni record continentale.

I famosi prezzi standard del servizio sanitario, ricordate? Nessuno ne parla più. Così come la concentrazione degli acquisti pubblici che potrebbe far risparmiare 30 miliardi l'anno è vanificata, rimarca la Corte dei conti, dalla polverizzazione allucinante delle stazioni appaltanti: oltre 23 mila. Neppure la revisione della spesa, avviata nel 2007 da Tommaso Padoa-Schioppa e ripresa da Mario Monti nel 2012, ha dato esiti concreti. Magra consolazione, la miglior conoscenza dei mille meccanismi di uso inefficiente, quando non di sperpero, del nostro denaro.

Le alternative dunque non mancavano. Bisognava però avere il coraggio (e la forza) di partire da qua, senza esitazioni. Diranno che non c'era tempo: l'Iva sarebbe balzata al 22 per cento il 1° luglio. Forse è vero. Ma siamo certi che di fronte alla prospettiva di un taglio rapido e consistente alla spesa pubblica improduttiva e di un corrispondente calo della pressione fiscale non sarebbe stato digeribile perfino un aumento temporaneo dell'Iva? Sempre meglio che tappare una falla aprendone un'altra.

SERGIO RIZZO

28 giugno 2013 | 9:30© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_28/spendere-meno-non-proibito_41ba5a16-dfac-11e2-b1a7-8dfb006d0609.shtml
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« Risposta #156 inserito:: Luglio 05, 2013, 11:50:12 am »

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Province salve e Italia paralizzata

La conferenza stampa dei ministri del governo Monti, Cancellieri e Patroni Griffi, sul riordino delle province: era il 31 ottobre 2012La conferenza stampa dei ministri del governo Monti, Cancellieri e Patroni Griffi, sul riordino delle province: era il 31 ottobre 2012
Ne siamo certi: la Corte costituzionale avrà avuto le sue buone ragioni. Non per nulla molti davano per scontata la bocciatura sia della riforma delle Province contenuta nel decreto salva Italia, sia del successivo più morbido tentativo di riordino con l'accorpamento di alcuni enti. La Consulta ha ritenuto illegittimo il ricorso al decreto legge per interventi di tale portata, visto che quello strumento dovrebbe essere limitato ai casi di straordinaria necessità e urgenza.

Per avere una più completa conoscenza delle motivazioni bisognerà aspettare il deposito della sentenza. Certo, una riforma come l'abolizione delle Province, che doveva essere fatta più di 40 anni fa contestualmente alla nascita delle Regioni, non poteva essere ritenuta tanto impellente da giustificare un decreto. Anche se forse sarebbe il caso di ricordare il contesto in cui il decreto salva Italia vide la luce. C'era appunto, da salvare il Paese che in quel momento si trovava in una situazione così difficile da dover affidare il proprio destino a un governo tecnico, con la necessità di prendere nel giro di poche ore provvedimenti in grado di placare i mercati resi pazzi dalle furiose spallate della speculazione internazionale. Di più. Rimettere in carreggiata l'Italia era un passaggio cruciale per la sopravvivenza stessa della moneta unica, tanto erano drammatici i toni della lettera che il 5 agosto del 2011 arrivò all'Italia dalla Banca centrale europea.

Con suggerimenti di misure durissime da adottare immediatamente, e fra queste si citava proprio l'abolizione delle Province, sempre promessa da tutti i partiti ma mai realizzata. Alla luce dei fatti, quella riforma poteva essere o meno considerata urgente? Al di là del merito, comunque, la sentenza della Corte costituzionale conferma se ce ne fosse stato ancora il bisogno che l'Italia è un Paese in preda a una totale paralisi. Non c'è decisione che non corra il rischio di finire sotto la tagliola della Consulta, del Tar o del Consiglio di Stato. Può capitare indifferentemente alla riforma delle Province, come alla vendita di un immobile dell'Inps, o alla costruzione di un elettrodotto, oppure alla delibera di un'authority, quando non al licenziamento di un dipendente pubblico corrotto.

È successo perfino al taglio del 10 per cento degli stipendi dei magistrati, cassato dalla suprema Corte perché ledeva l'indipendenza dei giudici, Colpa di una legge scritta male, di una sciatteria burocratica, di un errore formale. Talvolta addirittura di una fantasiosa interpretazione delle norme. Una giustificazione c'è sempre. Fatto sta che non abbiamo più alcuna certezza: inutile lamentarsi del tempo biblico per fare un'opera pubblica, degli anni che necessari a risolvere un contenzioso, degli investimenti esteri sempre più impalpabili. Così non si va da nessuna parte. Ed è bene esserne tutti coscienti, giudici compresi.

Sergio Rizzo

4 luglio 2013 | 8:04© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/13_luglio_04/province-salve-nuovo-capitolo-dell-Italia-paralizzata-rizzo_4418466c-e46e-11e2-8ffb-29023a5ee012.shtml
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« Risposta #157 inserito:: Luglio 11, 2013, 11:48:45 pm »

AMMISTRAZIONE E SPRECHI

Aumenta la spesa pubblica ma crescita economica e occupazione restano al palo

Report del Centro studi economia reale: in dodici anni il costo della burocrazia è raddoppiato, arrivando a quota 805 miliardi


Brutta bestia, la spesa pubblica made in Italy. Nessuno in Europa è stato capace quanto noi di bruciare risorse senza avere in cambio almeno un po’ di crescita economica, di occupazione, di speranza. Il perché lo spiega con i numeri uno studio elaborato per l’Associazione dei costruttori dal Centro studi economia reale dell’economista Mario Baldassarri, ex senatore di Fli: più che mai esperto del ramo, essendo stato per cinque anni, dal 2001 al 2006, vice ministro dell’Economia. Nei dodici anni intercorsi fra il 2001 e il 2012 la spesa pubblica è passata da 536 a 805 miliardi, con un aumento del 50,1 per cento. In termini reali, tenendo conto cioè dell’inflazione, il progresso è stato del 15,9 per cento. Ma questa crescita ha riguardato esclusivamente la spesa corrente, lievitata da 485 a 759 miliardi, mostrando un incremento monetario del 56,5 per cento e reale del 20,8 per cento.

CROLLO DEGLI INVESTIMENTI - E mentre la burocrazia si gonfiava a dismisura, ingoiando valanghe di denari pubblici così da superare per voracità addirittura le entrate fiscali (l’aumento degli introiti pubblici fra tasse e contributi previdenziali è stato di 228 miliardi contro 274 miliardi delle uscite correnti), gli investimenti pubblici crollavano. La spesa in conto capitale è scesa infatti da 51 a 46 miliardi, con un calo del 9,8 per cento. In termini reali, però, la flessione è risultata di ben diversa entità: -30,3 per cento. La spesa corrente è salita a un ritmo forsennato, addirittura superiore a quello delle entrate statali. Nel periodo considerato ha registrato un aumento di 274 miliardi, a fronte di un incremento dell’incasso generato da imposte e contributi previdenziali pari a 228 miliardi. Per Baldassarri perfino l’ultimo governo tecnico affidato a Mario Monti ha fatto crescere di 8 miliardi in un solo anno la spesa corrente. Ma è niente al confronto dei 60 miliardi in più accumulati in due anni (e mezzo) del centrosinistra. E soprattutto della crescita di ben 206 miliardi dei denari divorati dalla burocrazia negli otto anni (e mezzo) del centrodestra. Durante i quali, tuttavia, anche gli investimenti pubblici in infrastrutture hanno toccato il livello massimo del periodo preso in esame. Fu nel 2004, con 37,4 miliardi. Da allora una lenta ma inesorabile discesa: 35,9, 34,1, 33,1, 30,7, 28,6, 25,3, 22,6, 20,2. Per planare, quest’anno, a 18,9.

PROVVEDIMENTI MANCATI - Tanto da chiedersi: ma se l’andamento degli investimenti infrastrutturali fosse rimasto finora allo stesso livello del 2004, il che significa una maggiore spesa in conto capitale di 87,5 miliardi in nove anni, la situazione della nostra economia sarebbe la stessa? Secondo Baldassarri la risposta è no. La sua simulazione dice che senza tagli agli investimenti in opere pubbliche l’Italia avrebbe avuto un deficit pubblico e un rapporto fra debito e pil pressoché identici. Ma in compenso una maggiore crescita del Prodotto interno lordo del 3,4 per cento al 2013, il che avrebbe quantomeno mitigato il calo drammatico della ricchezza prodotta nel nostro Paese dal 2007 (meno 8 per cento). Più soldi, più lavoro, più occupazione: 400 mila posti di lavoro al 2013 e 700 mila al 2018. Con un tasso dei senza lavoro che sarebbe rimasto al di sotto del 10 per cento (esattamente 9,8) anziché superare il 12 per cento. Le cose, poi, sarebbero migliorate ancora in prospettiva. Entro il 2018 la disoccupazione si sarebbe ridotta all’8,7 per cento, il deficit sarebbe migliorato di quasi un punto e il debito pubblico di ben dieci punti rispetto al Pil.

9 luglio 2013 (modifica il 10 luglio 2013)
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Sergio Rizzo

da - http://www.corriere.it/economia/13_luglio_09/spesa-pubblica-sprechi-burocrazia_50324e80-e8cd-11e2-ae02-fcb7f9464d39.shtml
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« Risposta #158 inserito:: Luglio 19, 2013, 11:59:35 am »

Il Paese bloccato

Una legge semplifica, quattro complicano

Così la burocrazia ci fa perdere 30 miliardi


Per toccare con mano la paralisi, recarsi a Laino Borgo, duemila anime in provincia di Cosenza, nel cuore del meraviglioso Parco del Pollino. Nei pressi del paese c'è una vecchia centrale elettrica, spenta nel 1993 perché non più economica. L'Enel vorrebbe ora riconvertirne una parte a biomasse, ma il progetto è imprigionato in un inestricabile dedalo di pareri, autorizzazioni, veti incrociati e carte bollate. Tutto comincia nel 2001. Sei anni dopo le pratiche sono esaurite (sei anni!), ma quando si sta per girare l'interruttore, una nuova direttiva europea impone un altro passaggio formale. E la giostra infernale si rimette in moto. I documenti restano nei cassetti della Provincia di Cosenza per due anni e mezzo, mentre l'Ente Parco, undici giorni dopo aver concesso il quarto via libera, ci ripensa. Piovono i ricorsi e la schermaglia che già era iniziata si trasforma in una guerra termonucleare. In 5 anni si contano 14 fra sospensive, ordinanze e sentenze. L'ultimo pronunciamento del Consiglio di Stato, nell'agosto 2012, ribalta la precedente decisione del Tar favorevole all'impianto azzerando tutte le autorizzazioni. E dopo 12 anni si ricomincia daccapo.
Non vogliamo entrare nel merito della faccenda. Ma che nella settima, ottava o nona potenza economica del mondo quale dovrebbe essere l'Italia non si riesca a decidere in 12 anni se una vecchia centrale spenta possa o meno essere riaccesa, è davvero il colmo. Anche perché quell'insensato spreco di tempo lo paghiamo tutti noi.

Sperare però che questo impietosisca una burocrazia ossessiva capace di trasformare l'Italia in un Paese bloccato è davvero troppo. Lo stesso Parlamento resta vittima di quel meccanismo infernale, come dimostra l'incapacità di fare le riforme. Prendiamo la più urgente di tutte: l'abolizione del bicameralismo perfetto, che rende l'approvazione di ogni legge un autentico calvario. Se ne parla da anni senza costrutto, nonostante si dicano tutti d'accordo. Nella scorsa legislatura la commissione affari costituzionali del Senato ci ha lavorato a lungo: fatica sprecata. Ora si riparte da zero. Tre mesi già se ne sono andati per nominare quaranta saggi cui è stato affidato il dossier delle riforme istituzionali. Piccolo particolare, fra di loro ci sono anche tre principi del foro schierati dalle Regioni nella causa alla Consulta contro la riforma delle Province: Beniamino Caravita di Toritto, Massimo Luciani e Giandomenico Falcon. D'altra parte, come non ricordare che il ministro della Funzione pubblica Gianpiero D'Alia, oggi favorevolissimo all'abolizione delle Province, fu orgoglioso autore nel 2006 di un emendamento alla finanziaria per salvare la chiusura delle prefetture minori?

Leggi, commi e decreti
Il simbolo più eclatante della sconfitta subita dalla politica a opera della burocrazia è senza dubbio il ministero della Semplificazione, ora pietosamente sepolto. Mentre il ministro Roberto Calderoli menava inutilmente fendenti su 375 mila leggi inutili, la macchina della Complicazione andava a pieni giri. Un documento appena sfornato dall'ufficio studi della Confartigianato diretto da Enrico Quintavalle racconta che dal 2008 a oggi sono state approvate 491 norme tributarie, delle quali 288 hanno reso la vita più difficile alle imprese, contro le 67 che invece sulla carta le semplificavano. Bilancio: 4,3 complicazioni per ogni semplificazione. Lui, Calderoli, ci provò a fare una legge per stabilire che le leggi dovevano essere scritte in modo chiaro e comprensibile. Quell'obbligo esiste da quattro anni. Ma sfogliate una Gazzetta ufficiale , a caso, e controllate quante volte è stato rispettato. Praticamente mai. Le leggi continuano a essere un groviglio incomprensibile di commi, lettere e rimandi ad altre leggi modificate da altri introvabili commi.
Per avere norme semplici e comprensibili bisognerebbe forse cambiare chi le scrive. Che invece sono sempre gli stessi. Magistrati e altissimi burocrati detentori dei gangli del potere: capi di gabinetto e degli uffici legislativi, commissari straordinari, consiglieri di ministri e sottosegretari, ai vertici delle authority. Il fulcro della burocrazia. Tecnici e politici al tempo stesso, con entrature di peso nei partiti e nelle loro correnti. Anche loro una lobby, per dirla con Anna Maria Cancellieri?
Di sicuro un pacchetto di mischia solido e compatto. Un esempio? Nella legge anticorruzione compare una pillola avvelenata: i magistrati non potranno restare fuori ruolo per più di 10 anni. Fine degli incarichi extragiudiziali a vita. Spunta però un comma previdenziale che esenta dal tetto i membri del governo. Ovvero, i consiglieri di Stato Antonio Catricalà e Filippo Patroni Griffi, allora rispettivamente sottosegretario alla presidenza e ministro della Funzione pubblica: nel successivo governo di Enrico Letta il primo è diventato viceministro dello Sviluppo e il secondo è andato al posto del primo.
Non basta. Il decreto attuativo non è mai stato approvato, con il risultato che sugli altri incarichi degli altri magistrati decide sempre il relativo organo di autogoverno. Al Csm si è già stabilito che nei dieci anni non sono compresi i periodi di aspettativa.
I decreti attuativi sono una caratteristica tipica delle leggi italiane, il meccanismo con cui il parlamento consegna il proprio potere legislativo alle burocrazie. Perché la legge, se non c'è il decreto ministeriale, resta lettera morta. E i decreti li scrivono gli uffici. Soltanto la legge varata nell'estate del 2012 per rilanciare lo sviluppo ha avuto bisogno per essere attuata di 74 norme di secondo livello. Un livello che spesso interviene pesantemente, modificandolo nella sostanza, anche sul primo.

La lentezza è uguale per tutti
A forza di moltiplicare centri decisionali che si ostacolano l'un l'altro, di fare leggi e circolari che contraddicono altre leggi e altre circolari, nonché di aggiungere enti, società, agenzie, authority, era inevitabile che si arrivasse alla paralisi. Tutto, in Italia, diventa oggetto di contenzioso. Non mancano casi in cui lo Stato fa causa allo Stato, come dimostra la surreale vicenda legale che oppone la Finmeccanica al suo azionista Tesoro. Una storia nata da un disaccordo sulla liquidazione di una società costituita nel 2005 per fare la carta d'identità elettronica cui la Finmeccanica partecipa insieme al Poligrafico dello Stato e alle Poste, e sfociata in tribunale. Carte d'identità prodotte: zero virgola zero. In compenso, 876 mila euro sono andati agli avvocati. Adesso siamo in appello. Prima udienza fissata per il 22 novembre del 2016.
La giustizia non è forse uguale per tutti, Stato compreso? La durata media di un procedimento civile per inadempienza contrattuale qui è di 1.210 giorni, più del triplo rispetto a Germania, Francia e Regno Unito (394, 390 e 399 giorni). Una procedura fallimentare va avanti in media per 2.567 giorni, ma ci sono casi, come quello di una piccola ditta pugliese fallita nel 1962, che hanno segnato record di 48 anni cui si è sfiorato il mezzo secolo. Una pacchia forse per gli avvocati, tanto numerosi da superare nella sola città di Roma quelli di tutta la Francia, certo non per le imprese. Né italiane, né straniere, che infatti hanno ridotto al lumicino gli investimenti nel nostro Paese.

Uno zaino pieno di sassi
Il gravame giudiziario è uno dei tanti pesi che la burocrazia made in Italy carica sulle spalle di chi produce. Folgorante la battuta del segretario dell Confartigianato Cesare Fumagalli: «È come se nella competizione internazionale i nostri corressero con uno zaino pieno di sassi». La sua organizzazione ha calcolato che il costo burocratico per le imprese sfiora ormai i due punti di Pil: 30 miliardi e 980 milioni. Parliamo di 7.091 euro in media per ogni azienda al di sotto dei 250 dipendenti.

Fra i sassi, ovviamente, c'è anche quello dell'arretratezza tecnologica della pubblica amministrazione. Dicono gli artigiani che sono appena 928 su oltre 8 mila i Comuni in grado di svolgere tutte le pratiche per via telematica, pagamenti compresi, mentre solo 2.449 intrattengono con i fornitori rapporti di fatturazione elettronica: il che contribuisce ovviamente al ritardo enorme con cui il pubblico onora i propri impegni, in media 180 giorni con punte di 800 nella sanità. La burocrazia è così fitta che le amministrazioni pubbliche, dopo aver accumulato un debito con i fornitori di oltre 100 miliardi, ora che potrebbero ripianarne almeno una parte sono costrette a uno slalom procedurale assurdo per pagare le imprese. Vittime così di una ulteriore crudele beffa.

Ancora. In Italia i giorni necessari per ottenere permessi edilizi sono in media 234, contro i 184 della Francia, i 99 del Regno Unito e i 97 della Germania. Senza citare l'inconcepibile quantità di strumenti urbanistici attraverso cui bisogna districarsi nel caso di opere appena più complesse di una semplice ristrutturazione: l'imprenditore campano Alfredo Letizia ne ha censiti 62. Vincoli che non hanno impedito al Paese più iper regolato di diventare campione europeo di illegalità e abusivismo edilizio, ma che rendono ancora più tortuoso ogni processo decisionale, condizionato da un numero incredibile di soggetti competenti. Alla conferenza dei servizi della Stazione dell'alta velocità di Roma Tiburtina hanno partecipato in 38, ciascuno dotato di un potere di veto più o meno piccolo. Per fotocopiare e distribuire a tutti il progetto sono stati spesi 456 mila euro, poi altri 22 mila per distruggere le fotocopie.
Inutile meravigliarsi, poi, se per far partire un'opera pubblica servono in una Regione come la Sicilia più di 1.500 giorni. E se un chilometro di autostrada o ferrovia costa il triplo che in Francia o Spagna: 32 milioni contro 10.


Il Paese dei 23 mila appaltatori
Inutile meravigliarsi, soprattutto, che la spesa pubblica abbia superato di slancio il 50 per cento del Pil, senza aver fatto crescere la ricchezza nazionale. Anzi. Fra il 2001 e il 2012, mentre la spesa lievitava di 200 miliardi, il Pil pro capite a prezzi costanti crollava del 6,5 per cento.
La colpa? Certo la riforma del titolo V della Costituzione voluta dal centrosinistra ha moltiplicato i centri di spesa privandoli dei necessari controlli dal centro. Si è arrivati a contare 23 mila stazioni appaltanti, con conseguenze a dir poco perverse come nella sanità, che rappresenta oltre metà del mastodontico esborso regionale e dove si continua a tagliare mentre le spese crescono senza sosta. Basta dire che all'eliminazione di 5 mila posti letto nel solo Lazio ha corrisposto, per quanto sia difficile da credere, un aumento del 17 per cento della spesa per l'acquisto di beni e servizi.
La spesa per la sanità pubblica è salita di 50 miliardi in dieci anni senza che la qualità sia migliorata. Secondo l'Istat, nel 2012 il 50,8 per cento dei pazienti in fila alla Asl ha atteso oltre 20 minuti. Rispetto al 2002 il tempo di attesa medio si è allungato dell'11,9 per cento.
Per di più, mentre si riducono i posti letto degli ospedali, la sanità pubblica continua a foraggiare una marea di strutture private convenzionate: soltanto in Sicilia sono 1.476. Cifra che rende necessaria una diversa interpretazione dei dati sul personale pubblico. E non soltanto nelle Asl.


Quanti sono davvero i dipendenti pubblici?
Le statistiche ufficiali dicono che il numero dei nostri dipendenti pubblici è perfettamente in linea con la media europea. Ma pur avendo più o meno lo stesso personale del Regno Unito (tre milioni e mezzo), non abbiamo la stessa qualità dei servizi. Quanto abbia contribuito nei decenni una certa politica sindacale priva di qualunque suggestione meritocratica è sotto gli occhi di tutti. In Italia i dipendenti pubblici ricevono un incentivo alla «presenza», cioè per il solo fatto di timbrare il cartellino. E poi le «progressioni orizzontali» (banalmente, gli aumenti di stipendio) uguali per tutti com'era regola anni fa alla Regione Campania, i giudizi sempre ottimi per tutti i dirigenti basati sulla valutazione di se stessi, quando non accordi sindacali che escludevano addirittura la possibilità di dare insufficienze ai subalterni. Il principio della deresponsabilizzazione ha letteralmente dilagato dai massimi gradi dirigenziali fino ai livelli inferiori. Né i tentativi di riforma sono stati in grado di imprimere una svolta.
In questo sistema tutto italiano si è trovato anche il modo per aggirare i blocchi alle assunzioni. Così sono nate migliaia di società controllate dagli enti locali, con moltiplicazione di competenze, sovrapposizione di funzioni, sprechi indicibili. Altre spese, altra burocrazia. Ma stavolta «societaria», e con un vantaggio: assumere senza concorso né incappare nel divieto del turnover. Nel 2008 la Corte dei conti calcolava che questa massa informe di imprese pubbliche occupasse 255 mila persone, oltre a 38 mila fra consiglieri di amministrazione, revisori contabili e alti dirigenti. Ciascuna con una media di 68 dipendenti e ben 12 persone in posizioni di comando. Per avere un'idea del peso di queste società, si consideri che il Comune di Roma ha 25 mila dipendenti e 37 mila stipendi pagati da municipalizzate o aziende partecipate. Totale, più di sessantamila. Sessantamila...

Sergio Rizzo

8 luglio 2013 | 11:51© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_luglio_08/burocrazia-leggi_c81d03c2-e78d-11e2-898b-b371f26b330f.shtml
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« Risposta #159 inserito:: Luglio 20, 2013, 07:37:01 pm »

L'INCHIESTA

Rimborsi d'oro per la riabilitazione

Scandalo da 87 milioni nel Lazio

Prestazioni gonfiate al San Raffaele di Cassino. La Corte dei conti accusa gli Angelucci e la Regione Lazio: restituiscano i soldi

Sergio Rizzo


Per i 460 lavoratori del San Raffaele di Cassino, che a fine maggio scioperavano dopo essere rimasti senza stipendio per tre mesi, è altro sale sulle ferite. La Procura della Corte dei conti ha citato in giudizio la società proprietaria della casa di cura e sedici persone che negli anni si sono avvicendate ai vertici dell'azienda sanitaria di Frosinone, perché rispondano di un danno erariale astronomico: 86 milioni 931.219 euro e 54 centesimi.

Non una società qualunque. Perché il San Raffaele fa capo alla famiglia del deputato del Popolo della libertà Antonio Angelucci, re delle cliniche private convenzionate con la sanità pubblica nonché editore di Libero e azionista dell'Alitalia.

L'iniziativa dei magistrati contabili, innescata da due denunce del presidente del collegio sindacale dell'Asl di Frosinone Edoardo Cintolesi nel luglio del 2010, riguarda una vicenda già in parte nota.

Il procuratore regionale Angelo Raffaele De Dominicis ne aveva accennato all'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 segnalando come la Corte dei conti avesse chiesto, e ottenuto, il sequestro conservativo di beni immobili per 126,5 milioni della società San Raffaele «a garanzia del danno subito dal servizio sanitario regionale per effetto di un'indagine sulla fittizia o irregolare erogazione di prestazioni di riabilitazione eseguite in particolare presso la casa di cura di Velletri». Indagine estesa anche alla clinica di Cassino con accertamenti affidati ai carabinieri dei Nas dai quali sarebbero emerse, raccontava De Dominicis, irregolarità tali da determinare un danno erariale enorme conseguente «non solo alla violazione sistematica delle convenzioni sanitarie ma soprattutto all'omissione di controllo sulla conformità e sulla regolarità delle prestazioni» rimborsate. E qui si arriva alle presunte pesantissime responsabilità e connivenze dei dirigenti pubblici.

Primo fra tutti, l'ex direttore generale della Asl Carlo Mirabella, deceduto qualche mese fa. Personaggio noto alle cronache: occupava quel posto al tempo della giunta di Francesco Storace, ma era stato rimosso da Piero Marrazzo. Per tornare alla guida della Asl con Renata Polverini. Il suo sponsor, Franco Fiorito, «Er Batman» di Anagni, che dovendo rinunciare alla poltrona di assessore all'Agricoltura, aveva ottenuto di designare il direttore dell'Asl della propria zona d'influenza. Piazzando lì, oltre a Mirabella, anche il direttore amministrativo: l'ex segretario comunale di Anagni, città della quale Fiorito era stato sindaco.

Tutto comincia nel 2005, quando Storace sta per lasciare la Regione. Mirabella firma un protocollo d'intesa con gli Angelucci che prevede la riconversione di 40 posti letto, sui 60 disponibili, da «Residenza sanitaria assistita» (Rsa) a «Riabilitazione alta intensità» (Rai) e «Lungodegenza alta intensità» (Lai). Due sigle esistenti solo nella regione Lazio, ma che garantiscono tariffe elevatissime. Per avere un'idea, si parla di cifre superiori alle 250 euro al giorno contro 100-110 euro della Rsa. Il Protocollo viene ratificato dal medesimo Mirabella il 14 febbraio del 2005 e lo stesso giorno, con rara e fulminea sollecitudine, la giunta Storace approva la relativa delibera, nonostante manchi il parere obbligatorio del direttore sanitario Sandra Spaziani. La quale, interrogata in seguito dai magistrati contabili, dirà di aver subìto numerose pressioni e riferirà anche di una telefonata di Antonello Iannarilli, allora assessore regionale all'agricoltura, futuro presidente della Provincia di Frosinone e deputato del Pdl: «Qua è passata una delibera della Asl e la firma tua non c'era... ».

Dalle verifiche descritte nella citazione salta fuori di tutto. Prestazioni non erogate. Personale non abilitato ma adibito all'assistenza diretta ai pazienti. Cartelle cliniche con firme «identiche e seriali». Somme ingenti per prestazioni oltre budget liquidate alla casa di cura: quasi 54 milioni dal 2006 a oggi, a fronte di un fatturato riabilitazione pari a 124,3 milioni. Cambi di regime di ricovero dei pazienti con le tariffe più elevate non decisi dai medici ma dal personale amministrativo. Perfino «l'alterazione delle scale di Barthel», ovvero dell'indicatore di disabilità, non era stabilita dai sanitari. La rivelazione è sorprendente: «Uno dei soggetti che ha effettuato la maggior parte delle modifiche delle scale di Barthel», scrivono i giudici, «risulta inserito nell'elenco delle timbrature come addetto alle pulizie».
Quando Cintolesi decide di dare fuoco alle polveri, avendo scoperto lo sforamento del budget , si scopre che non solo le prestazioni «incriminate» sono identiche a quelle già contestate alla clinica di Velletri, ma che il direttore sanitario della Asl frusinate Raffaele Ciccarelli «presente alle trattative regionali per il riconoscimento dei pagamenti over budget alla San Raffaele Cassino proveniva proprio dalla struttura San Raffaele Velletri».
La Corte dei conti chiede chiarimenti a Renata Polverini, nella convinzione che le irregolarità dovrebbero comportare, oltre al «recupero delle somme percepite illegittimamente», la «revoca immediata dell'accreditamento» e l'azzeramento del budget . Ma questo non accade. «Anzi», ricordano i giudici, «veniva emanato dall'ex governatore «apposito decreto che prevedeva per la Casa di cura San Raffaele di Cassino l'istituzione di nuovi posti letto in medicina, in precedenza tagliati alle altre strutture pubbliche della Regione Lazio». Va precisato che gli 86 e rotti milioni di presunto danno erariale, su cui i giudici si esprimeranno il 17 dicembre, riguardano i soli tre anni dal 2007 al 2009, a cavallo fra le giunte Marrazzo e Polverini.

20 luglio 2013 | 7:32
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DA - http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/13_luglio_20/20130720NAZ01_35-2222251729771.shtml
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« Risposta #160 inserito:: Agosto 09, 2013, 04:52:25 pm »

Gennaio '94, Gazzetta Ufficiale

Il blitz sulle pensioni d'oro

La «leggina» più veloce della Repubblica

Da Agnes a Gamberale, la corsa al fondo Inps.

Tabacci: imporre la scelta tra assegni (pubblici) elevati e stipendi


91mila euro la pensione mensile che percepisce Mauro Sentinelli, ex manager Telecom (sinistra). 75 milioni di lire al mese è la pensione da cui è partito nel 1990, a 55 anni, Vito Gamberale (al centro)91mila euro la pensione mensile che percepisce Mauro Sentinelli, ex manager Telecom (sinistra). 75 milioni di lire al mese è la pensione da cui è partito nel 1990, a 55 anni, Vito Gamberale (al centro)
«L' Italia è il Paese che amo...» erano le prime parole che Silvio Berlusconi pronunciava nel videomessaggio registrato che il pomeriggio del 26 gennaio 1994 annunciava la sua «discesa in campo». Nello stesso Paese, in quelle stesse ore, mentre in Parlamento suonava la campanella del «liberi tutti», sulla Gazzetta Ufficiale compariva una leggina di dieci righe, approvata dal Parlamento il giorno prima a tempo di record e a tempo di record pubblicata.

Si sparse subito la voce che era stata fatta apposta per Biagio Agnes, l'ex direttore generale della Rai che da qualche anno aveva traslocato alla Stet, la finanziaria telefonica pubblica. Non era una malignità infondata. Quella leggina favoriva il passaggio al fondo dei telefonici presso l'Inps di chi godeva già di una pensione di una gestione diversa, magari di un altro fondo dello stesso istituto di previdenza. Fu così che Biagio Agnes, pensionato dal 1983, riuscì a decuplicare il suo assegno: da 4 milioni di lire a 40 milioni 493.164 lire al mese. Decorrenza, marzo 1994. Un mese dopo l'approvazione della legge.

La cosa non passa inosservata. I Cobas del pubblico impiego diramano un comunicato al fulmicotone, rivelando che la ricongiunzione costerà alla Stet, cioè allo Stato (nel 1994 i telefoni sono ancora pubblici) e ai risparmiatori che hanno comprato il titolo in borsa, qualcosa come 5,8 miliardi di lire. Oggi sarebbero più di quattro milioni e mezzo di euro.
Qualche giorno dopo che quelle dieci righe hanno tagliato in Senato l'ultimo traguardo, Dino Vaiano spiega sul Corriere com'è andata. Cominciando dagli autori. Il primo a correre in soccorso dell'irpino Agnes è il lucano Romualdo Coviello, deputato di Avigliano, in provincia di Potenza. Democristiano di sinistra come Biagione, non tradirà mai la causa. Dalla Dc ai popolari, alla Margherita. Racconta Vaiano: «Sono giorni caldi, le commissioni lavorano come slot machine, strizzando l'occhio alle lobby e alle categorie che potrebbero garantire voti. Le leggi decollano, fedeli all'equazione degli anni ruggenti della partitocrazia: spesa pubblica uguale voti. Perfino gli attenti funzionari parlamentari ammettono di non averci capito quasi nulla. Ma la rapidità è da record. La leggina sulle pensioni d'oro corre come Speedy Gonzales...»

Il primato di velocità è tuttora imbattuto. Non così l'assegno. Abbiamo infatti scoperto che nel 2013 c'è chi, l'ex manager della Telecom inventore della «carta prepagata» Mauro Sentinelli, porta a casa 91.337 euro al mese. Il triplo di quanto varrebbe oggi la pensione di Agnes, che allora sembrava stratosferica. E il doppio di quella, addirittura extraterrestre, cui ha diritto dal 1999, quando aveva 55 anni, il suo ex capo Vito Gamberale: partiva da 75 milioni e 600 mila lire al mese.

La leggina di cui stiamo parlando, in realtà, non fece che aggiungere un altro privilegio a quello monumentale già riservato al fondo Inps dei telefonici. Al quale non si applicava il tetto massimo dei 200 milioni di lire l'anno. La ragione? Semplice: nessuno dei dipendenti arrivava a quella cifra. Soltanto che a quel fondo si erano iscritti anche i manager. Tutti, anche se in teoria avrebbero dovuto versare i contributi all'Inpdai. Ma dato che all'Istituto previdenziale dei dirigenti d'azienda alle pensioni d'oro era in vigore appunto quel limite, avevano evidentemente preferito confondersi con gli operai e gli impiegati nel fondo dei telefonici. E quando gli stipendi hanno cominciato a lievitare come la panna montata, l'ondata di piena è stata terrificante. Anche perché le regole del contributivo garantivano pensioni praticamente identiche all'ultimo stipendio. Il capo della Sip Paolo Benzoni andò via con 39,2 milioni di lire al mese. Ernesto Pascale con 42. Francesco Chirichigno con 36. Umberto Silvestri con 38,5. Francesco Silvano con 37,3. L'elenco delle superpensioni telefoniche è sterminato, ed è arrivato fino a noi. Senza offrire risposta alla domanda più banale: perché in tanti anni non sono mai state cambiate le regole? Difficile dire.

Certo, però, nel Bengodi pensionistico made in Italy i telefonici sono sempre stati in buona compagnia. Tetto o non tetto. Basterebbe ricordare i sontuosi trattamenti previdenziali dei dirigenti dell'Enel, che potevano aggirare il limite dei 200 milioni annui grazie a un faraonico fondo integrativo aziendale pagato dagli utenti con le bollette. Memorabili alcune pensioni, come quelle dei due direttori generali che si sono succeduti prima della trasformazione in spa, Alberto Negroni e Alfonso Limbruno, che si ritirarono entrambi con assegni da 37 milioni (di lire) al mese.

Somme certamente enormi. Che fanno però sorridere al confronto di certe pensioni garantite, secondo regole che nessuno ha mai voluto mettere davvero in discussione, dallo Stato. L'ex segretario generale del Senato Antonio Malaschini, ex sottosegretario alla presidenza con Mario Monti, ha dichiarato di percepire una pensione di 519 mila euro lordi l'anno. Somma alla quale si deve aggiungere ora lo stipendio da Consigliere di stato. Perché le pensioni d'oro, da noi, hanno una particolarità: spesso chi le incassa continua a lavorare, talvolta ricoprendo incarichi pubblici altrettanto dorati.

Per non parlare di altre micidiali stravaganze. La nomina a capo dell'Agenzia siciliana dei rifiuti, l'avvocato Felice Crosta, dirigente della Regione, fu accompagnata da un emendamento approvato anch'esso in un baleno dall'assemblea regionale grazie al quale gli venne riconosciuta di lì a poco una pensione di 460 mila euro. Dopo un'estenuante battaglia legale quell'assurdità è stata cancellata. Ma la storia la dice lunga su come funziona ancora l'Italia: tutto sommato, non è poi così diversa da quella della leggina che favorì Agnes e forse pochi altri.

Ed è per questo che nel Paese dove le persone normali la pensione se la sognano, mentre le pensioni d'oro si accompagnano di regola a una retribuzione sontuosa, sarebbe forse il caso di prenderla seriamente in considerazione, la proposta avanzata da Bruno Tabacci, Angelo Rughetti, Andrea Romano e Fabio Melilli in una lettera al Corriere: i pensionati d'oro che intascano stipendi (pubblici) d'oro scelgano fra la pensione e lo stipendio. È una richiesta così scandalosa?

9 agosto 2013 | 8:53
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Sergio Rizzo
da - http://www.corriere.it/cronache/13_agosto_09/pensioni-oro-blitz-per-legge-veloce_a3a66b18-00b6-11e3-8892-6722e21d9990.shtml
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« Risposta #161 inserito:: Agosto 14, 2013, 11:25:02 pm »

Costi pubblici

I controllori sono anche i controllati

Gli incarichi multipli di politici e funzionari

Dai sindaci in Parlamento ai collezionisti di presidenze e cda


«Ma lei non ci dorme la notte?». Rispose così, Vincenzo De Luca, a un cronista del Fatto quotidiano che chiedeva al viceministro delle Infrastrutture se mai avrebbe lasciato l'incarico di sindaco di Salerno. «In Italia nessuno si è turbato della questione della mia incompatibilità, tranne qualche sfaccendato», chiosò. Non si è appurato se fosse riferito ai giornalisti che avevano sollevato il caso, sottolineando come gli capitassero casualmente sul tavolo da viceministro dossier riguardanti proprio la sua città (tipo la metropolitana leggera di Salerno) o ai politici che lo punzecchiavano fin dal giorno della sua nomina governativa. Per esempio l'ex guardasigilli berlusconiano Francesco Nitto Palma, che insorse perché, mentre De Luca se ne stava placidamente seduto sulle due poltrone, il suo Partito democratico presentava in Campania due mozioni contro gli assessori regionali Marcello Taglialatela e Giovanni Romano, rispettivamente deputato del Fli e sindaco di Mercato San Severino, un Comune di oltre 22 mila abitanti.

Qualche «sfaccendato» alla Camera e poi al Senato, tuttavia, ha per fortuna fatto secco quell'emendamento malandrino al «Decreto del Fare» (ma perché da qualche tempo in qua le leggi hanno tutte un soprannome?) che gli avrebbe consentito di conservare il doppio incarico. Così De Luca dovrà lasciare, e quegli impiccioni della stampa dormiranno tranquilli.

I bei tempi in cui alle polemiche sui doppi e tripli incarichi si replicava con un'alzata di spalle sono ormai lontani. È finita l'epoca del Parlamento pieno zeppo di sindaci di grandi città, da Palermo a Brescia e Catania, e di presidenti di Provincia, da Napoli a Caserta e Bergamo. Al massimo si può incontrare il primo cittadino di qualche centro più piccolo, qual è Simonetta Rubinato: deputato Pd e sindaco di Roncade, 14 mila abitanti in provincia di Treviso. Nel governo, i ministri Flavio Zanonato e Graziano Del Rio non sono più sindaci di Padova e Reggio Emilia. Il solo sottosegretario agli Affari regionali Walter Ferrazza, arrivato al governo per un irripetibile caso della vita, conserva ancora l'incarico di sindaco. Il suo paese è Bocenago, 396 anime in provincia di Trento. Nemmeno un pezzo da Novanta come l'ex governatore della Lombardia Roberto Formigoni, una volta diventato senatore ha potuto conservare l'incarico di commissario generale dell'Expo 2015. Ha tentato. Ma il vento era cambiato e non c'è stato nulla da fare. Antonio Verro, invece, non ha neppure provato a tenere il piede in due staffe: era una missione impossibile. Deputato di Forza Italia per due legislature, nel 2008 era rimasto fuori dal Parlamento. Risarcito con un posto da consigliere Rai, a febbraio del 2013 è stato rieletto, stavolta al Senato. Il bello è che candidandosi non aveva nemmeno dovuto rinunciare alla poltrona. Così tre mesi dopo le elezioni si è potuto dimettere da senatore annunciando la decisione di voler restare alla tivù di Stato. Mistero circa i motivi che hanno determinato questa curiosa conversione a U: ma la vicenda, inconcepibile in qualunque altro Paese occidentale sviluppato, è la riprova che la Rai è, e resta, una faccenda privata dei partiti.

Perfino le potenti categorie dei magistrati, cui è stato imposto con fatica l'obbligo del collocamento fuori ruolo per alcune mansioni extragiudiziali, hanno ora difficoltà a mantenere incarichi multipli. Il segretario generale dell'Antitrust Roberto Chieppa non potrà continuare a fare contemporaneamente il consigliere di Stato. Né Gaetano Caputi ricoprire insieme il ruolo di direttore generale della Consob e componente dell'authority per il diritto di sciopero. Capiamoci: non che il «fuori ruolo» abbia chiuso del tutto la stagione dei centauri. Ci sono sempre gli incarichi «gratuiti», come quello di presidente della Corte di giustizia federale della Federcalcio (Gerardo Mastrandrea, consigliere di Stato). O altre mansioni istituzionali: il giudice del Tar Calogero Piscitello è presidente del collegio dei revisori dell'Istat. Per non parlare della messe di incarichi governativi, o di consulenza nelle autorità indipendenti: comitati del precontenzioso, consiglieri giuridici... E i prefetti? Per ben otto mesi Umberto Postiglione è stato prefetto di Palermo e commissario governativo della Provincia di Roma. Attualmente somma questo secondo incarico con la direzione degli affari interni del ministero, quella che si occupa di vigilare sugli enti locali. Come appunto le Province. Stakanovista non da oggi: per dieci anni è stato sindaco di Angri, un Comune di 30 mila abitanti, senza andare in aspettativa dal ministero dell'Interno.

Basta poi che la luce dei riflettori si allontani perché tutto assuma contorni più impalpabili e sfumati.
Giovanni Romano, per esempio, resiste: assessore all'Ambiente della Campania e sindaco di Mercato San Severino. Resiste anche Mario Mantovani, ex senatore ed ex sottosegretario, oggi vicepresidente della Regione Lombardia, di cui è consigliere e assessore alla Sanità, nonché sindaco di Arconate. Di più: alla di lui famiglia fanno capo undici strutture sanitarie convenzionate con la sua Regione, per un totale di 830 posti letto. Resiste Daniele Molgora, che era arrivato a cumulare la presidenza della Provincia di Brescia al seggio parlamentare e allo scranno da sottosegretario all'Economia: oggi, oltre alla guida della giunta provinciale, ha un posto da consigliere nella società dell'autostrada Brescia-Padova. Resiste l'ex parlamentare Valentina Aprea, assessore della Lombardia e consigliere di Finlombarda insieme all'ex onorevole leghista, e assessore a sua volta, Massimo Garavaglia.

Si dirà che è normale, in periferia. Chi deve stare nelle società partecipate, se non gli amministratori? Poco male se poi i controllori diventano anche controllati... Questione di punti di vista. Certo è ancor meno normale che il presidente della Provincia di Varese (oggi commissario), qual è l'ex parlamentare del Carroccio Dario Galli, sia anche consigliere di amministrazione della Finmeccanica, oltre che presidente dell'Agenzia per il turismo provinciale e del cosiddetto «ambito territoriale ottimale» varesino. Oppure che un consigliere regionale della Campania, nella fattispecie Annalisa Vessella, ricopra insieme l'incarico di amministratore delegato della Isa, società controllata dal ministero dell'Agricoltura che distribuisce decine di milioni l'anno.

Ma questa è l'Italia. Dove in un amen, si può diventare collezionisti di poltrone pubbliche. Senza che ci sia una scadenza. Ricordate Andrea Monorchio? Indimenticato ex Ragioniere generale dello Stato, incarico che ha lasciato 12 anni orsono, attualmente è presidente della società assicurativa pubblica Consap nonché capo dei revisori di Telespazio (Finmeccanica), Fintecna e Fintecna immobiliare (Tesoro). Ricordate l'espertissimo e potentissimo Vincenzo Fortunato? Negli ultimi 12 anni è stato capo di gabinetto di cinque diversi ministri dell'Economia e di un ministro delle Infrastrutture. Uscito dalle scene ministeriali, ha avuto subito tre incarichi: presidente di Investimenti immobiliari italiani, la nuova società del Tesoro che dovrà «valorizzare» (parola che fa venire i brividi, visti i precedenti) immobili pubblici per un miliardo e mezzo, liquidatore della Stretto di Messina (quella che avrebbe dovuto fare il famoso ponte) e capo del collegio sindacale di Studiare sviluppo, una società di consulenza del ministero dell'Economia.

Nessuno, tuttavia, potrà mai toccare le vette raggiunte dal presidente dell'Inps Antonio Mastrapasqua. Quando è stato nominato dal governo di Silvio Berlusconi, nel 2008, occupava una quarantina di poltrone. Pubbliche e private. Adesso, con tutto quello che ha da fare dopo la fusione fra l'Inps e l'Inpdap, gliene sono rimaste quindici. Ma che poltrone. C'è, fra le tante, la presidenza della società di gestione di fondi immobiliari Idea Fimit. C'è la vicepresidenza di Equitalia. C'è la presidenza dei collegi sindacali di Adr engineering, Aquadrome ed Eur Tel (Tesoro). Ci sono gli incarichi da revisore nelle Autostrade, Coni servizi e Loquendo (Telecom). Dulcis in fundo, c'è pure un posto da direttore generale: all'Ospedale israelitico di Roma.

13 agosto 2013 | 7:42
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Sergio Rizzo

da - http://www.corriere.it/politica/13_agosto_13/i-controllori-sono-anche-i-controllati-gli-incarichi-multipli-di-politici-e-boiardi-sergio-rizzo_9ea1f9fc-03d1-11e3-b7de-a2b03b792de4.shtml
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« Risposta #162 inserito:: Agosto 16, 2013, 09:26:55 am »

IL «VENERABILE»

Licio Gelli non è più commendatore

La (lentissima) scoperta della burocrazia

Onorificenza revocata 32 anni dopo il caso delle liste P2

Sergio Rizzo

Licio Gelli (Ansa/Degl'Innocenti)Licio Gelli (Ansa/Degl'Innocenti)
Si sono ricordati di lui, Licio Gelli, a 94 anni suonati. È stato così che il Venerabile Maestro della loggia Propaganda 2 ha perso il titolo di commendatore della Repubblica italiana. Succede anche questo, nell’Italia dove per ogni cosa il tempo si dilata all’infinito: un’autorizzazione, una licenza, un processo, perfino la revoca di un’onorificenza. Basta dire che dalla scoperta delle liste della P2, avvenuta il 17 marzo 1981 a Castiglion Fibocchi in seguito a una perquisizione ordinata dai giudici Gherardo Colombo e Giuliano Turone che indagavano sul finto rapimento del bancarottiere Michele Sindona, sono trascorsi 32 anni, quattro mesi e tradici giorni. Mentre sono quattro le condanne ormai passate in giudicato, fin dagli anni Novanta.

Ebbene, della perdita dell’onorificenza di commendatore apprendiamo dalla Gazzetta ufficiale del 29 luglio 2013, che pubblica uno scarno comunicato del segretariato generale del Quirinale, competente per la materia: il capo dello Stato è infatti il Gran Maestro dell’Ordine al Merito della Repubblica. C’è scritto che «su disposizione del Cancelliere dell'Ordine, ai sensi dell'art. 11 del decreto del Presidente della Repubblica 13 maggio 1952, n. 458, si è provveduto all'annotazione delle sentenze di condanna e del provvedimento di unificazione pene emesse dal Procuratore generale della Procura generale della Repubblica presso la Corte di appello di Milano, con le quali il sig. Licio Gelli è stato condannato, a seguito di vari reati, ad anni 30 di reclusione, nonché, tra le altre cose, alla pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici, che comporta, ope legis, la perdita dell'onorificenza». Precisa ancora, il comunicato, che «al sig. Licio Gelli era stata conferita l'onorificenza di commendatore con decreto del Presidente della Repubblica 2 giugno 1966». Capo dello Stato era il socialdemocratico Giuseppe Saragat. Simon & Garfunkel pubblicavano The sound of silence, colonna sonora del Laureato, negli Stati Uniti la televisione trasmetteva la prima puntata di Star Trek, l’Arno straripava a Firenze. Gelli aveva 47 anni, e per altri 47 si è potuto fregiare del titolo di commendatore della Repubblica. Finché la nostra burocrazia ha avuto un sussulto di memoria. Meglio tardi che mai.

30 luglio 2013 | 15:33
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da - http://www.corriere.it/politica/13_luglio_30/licio-gelli-revoca-commendatore_2db59f3a-f91a-11e2-a534-1599fd49895b.shtml
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« Risposta #163 inserito:: Settembre 24, 2013, 04:36:57 pm »

LA SVENDITA AI FRANCESI

E i «patrioti» abbandonarono Alitalia


di SERGIO RIZZO

Il tricolore dell'Alitalia sarà dunque ammainato, al modico prezzo di cinque miliardi per gli italiani. Le indiscrezioni che circolano da settimane portano a una sola conclusione: l'avventura dei nostri «patrioti», come il Cavaliere definì quegli imprenditori che cinque anni fa si misero al servizio dell'operazione di «salvataggio» della compagnia di bandiera dalle grinfie francesi, è avviata al capolinea. L'Alitalia finirebbe all'Air France-Klm per un piatto di lenticchie decisamente più misero di quello che ci avrebbero offerto allora. E a sentire i giornali parigini, dovremmo perfino ringraziare la compagnia franco-olandese di prendersi questa rogna.

Per capire che sarebbe andata così, purtroppo, non ci voleva la palla di vetro. La storia dell'Alitalia è costellata d'incredibili errori manageriali, spesso conseguenza delle spregiudicate incursioni d'una politica totalmente disinteressata all'azienda e al Paese. Ma di tutti gli infortuni, l'ultimo è senza alcun dubbio il più clamoroso. Nel 2008 la nostra compagnia di bandiera, reduce dai trattamenti cui abbiamo accennato, era sull'orlo del fallimento. Air France-Klm si offrì di rilevarla pagando lo Stato italiano in azioni, con una quota di minoranza del grande gruppo nel quale sarebbe confluita, per un controvalore di 140 milioni. Avrebbe quindi investito un miliardo di euro nell'azienda, accollandosi pure 1,4 miliardi di debiti. Si sarebbero per giunta evitati il fallimento e la liquidazione, presumibilmente infinita, dell'Alitalia, con costi forse altrettanto infiniti per le pubbliche casse. Il ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, dopo aver inutilmente fatto il giro delle sette chiese per trovare qualche imprenditore italiano disposto a rilevare la compagnia, s'era rassegnato alla soluzione francese. Da italiano, senza fare salti di gioia. Confessò di sentirsi «come il guidatore di un'ambulanza che sta correndo per portare il malato nell'unica clinica disposta ad accettarlo».

La campagna elettorale però infuriava e a Silvio Berlusconi non sembrò vero che gli venisse consegnata su un piatto d'argento un'arma tanto affilata per la sua offensiva propagandistica contro la sinistra accusata di voler «svendere» l'Alitalia ai francesi. Sappiamo com'è andata: il centrodestra vinse le elezioni, la vendita sfumò, la compagnia fu messa in liquidazione e si diede vita ad un'Alitalia bis guidata da Roberto Colaninno. Berlusconi non poteva venir meno alle promesse fatte prima delle elezioni e impegnò a fondo l'apparato (e il portafoglio) pubblico. Niente debiti, cassa integrazione per ben cinque anni, bonus per le assunzioni, deroghe alla concorrenza... Il disegno però non sarebbe andato a buon fine senza l'appoggio determinante del futuro ministro Corrado Passera, che collocò la sua Banca Intesa-San Paolo in prima fila fra gli azionisti. Alcuni dei quali, perfino concessionari dello Stato.

A cinque anni di distanza, ecco l'inevitabile resa dei conti. Magra consolazione per chi fin dall'inizio avvertiva (e temeva) che il conto dell'operazione «patrioti» lo avrebbero pagato gli italiani. Su questo giornale, Antonella Baccaro ha calcolato che il presunto salvataggio dell'Alitalia ci sia già costato 3,2 miliardi. Senza considerare il mancato incasso per la vendita, la liquidazione della vecchia compagnia, i maggiori oneri per gli utenti causati dal monopolio triennale sulla tratta Milano-Roma, gli scioperi del personale... E la bolletta per i contribuenti sarebbe stata ancora più salata se l'amministratore delegato d'Invitalia Domenico Arcuri e l'ex ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, non avessero resistito alle pressioni di Palazzo Chigi che voleva far intervenire accanto ai «patrioti» la società pubblica. Ma anche senza quel supplemento, s'è arrivati a una cifra non troppo lontana dai 5 miliardi. Somma ben superiore, va ricordato, al gettito Imu per la prima casa.

Noi ce ne ricordiamo. Però vorremmo che se ne ricordassero anche i responsabili di quell'immane spreco. E magari chiedessero scusa, prima di pretendere l'abolizione dell'imposta su tutte le case di residenza e il blocco dell'aumento Iva. Perché ad appesantire il macigno di quelle tasse c'è una pietruzza che hanno messo loro.

da - http://www.corriere.it/economia/13_settembre_24/i-patrioti-abbandonarono-alitalia_be3a832a-24d2-11e3-bae9-00d7f9d1dc68.shtml
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« Risposta #164 inserito:: Ottobre 07, 2013, 05:28:52 pm »

COMUNI IN ROSSO E DEBITI DI STATO

Il federalismo alla rovescia

Debito pubblico

Il nostro curioso federalismo alla rovescia non smette di presentare conti salatissimi ai contribuenti. Dopo le Regioni alle prese con deficit sanitari allucinanti, tocca ora ad alcuni grandi Comuni battere cassa per tappare le voragini dei loro conti. Succede a Roma dove il sindaco appena arrivato chiede aiuto per sanare il passivo ereditato: 867 milioni. Ma arriva dopo, Ignazio Marino, rispetto ai suoi colleghi di Napoli e Catania. Senza poter escludere che altri ne seguiranno l’esempio. La galleria degli orrori che ieri ha pubblicato Il Sole 24 Ore passa da Palermo e Genova, sfociando in una Milano che deve reperire circa 500 milioni entro fine anno. I Comuni incolpano il taglio dei trasferimenti, sostenendo di aver sborsato il prezzo più caro per risanare le finanze pubbliche.
Vero. Anche se poi questo prezzo finisce ribaltato in buona parte sullo Stato centrale. Il che dovrebbe indurre certi amministratori a un serio esame di coscienza. Chi rivendica autonomia avrebbe l’obbligo di ricordare che questa implica responsabilità. Il federalismo da molti invocato dovrebbe basarsi su tale principio basilare. È diventata invece una parola vuota, comodo paravento per gestioni sconsiderate e clientelari senza essere chiamati a risponderne. Peggio ancora: scaricando pure gli effetti sull’intera collettività. Valga per tutti il caso di Roma, scossa negli ultimi anni dalla Parentopoli di migliaia di assunzioni nelle municipalizzate. Il Campidoglio ha 25 mila dipendenti, numero cui si deve aggiungere quello del personale delle partecipate, che il sito Internet indica in 37 mila. La sola azienda di trasporto locale, l’Atac, paga circa 12 mila stipendi e dal 2008 ha accumulato 600 milioni di perdite. Per offrire un servizio che certo non può essere considerato degno della capitale d’Italia.
Sappiamo che è un problema di ogni città, piccola e grande. Senza contributi pubblici nessuna azienda di trasporto locale avrebbe conti in equilibrio. Chi sale su un autobus, un tram o una metropolitana paga infatti un prezzo politico che copre una frazione del costo effettivo. Il fatto è che non di rado quella frazione, per come sono gestite moltissime aziende, è infinitesima. Il resto viene così caricato sulle spalle di tutti gli italiani: chiamati quindi a sopportare non solo il peso legittimo del servizio universale, ma anche quello illegittimo di sprechi, inefficienze e clientele locali.
Al riguardo, i dati della Confartigianato parlano chiaro. Fra il 2000 e il 2010 le tariffe dei servizi pubblici locali sono cresciute in Italia del 54,2 per cento, il doppio dell’inflazione e ben 24 punti in più rispetto alla media europea: nel periodo dal 2003 al 2013 la sola tassa sui rifiuti è lievitata del 56,6 per cento, contro il 32,2 per cento dell’eurozona. E ciascuno può giudicare se la qualità sia migliorata in proporzione. Una tassa occulta gigantesca non più accettabile. Da spazzare via obbligando tutti i Comuni alla trasparenza assoluta dei costi dei servizi, affinché i cittadini possano regolarsi di conseguenza quando sarà l’ora del voto, e approvando senza indugio la norma che imporrebbe la liquidazione delle municipalizzate in dissesto. Se si vuole restituire alla parola «federalismo » il suo vero significato, è il minimo che si possa fare.

07 ottobre 2013
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Sergio Rizzo

http://www.corriere.it/editoriali/13_ottobre_07/federalismo-rovescia-49afc04c-2f13-11e3-bfe9-e2443a6320c1.shtml
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