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Autore Discussione: SERGIO RIZZO  (Letto 135879 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Gennaio 25, 2013, 03:26:35 pm »

IL COMMENTO

Le dimissioni di Mussari dall’Abi

Il Montepaschi e l’imbarazzo del Pd


Inutile negarlo: per il Pd la vicenda dei derivati che sarebbero stati sottoscritti «segretamente» nel 2009 dal Monte dei Paschi di Siena, con le conseguenti dimissioni di Giuseppe Mussari dalla presidenza dell’Abi, adesso proprio non ci volevano. Non in piena campagna elettorale.
Non quando c’è in ballo pure il voto al Comune di Siena, roccaforte diessina prima e democratica poi, dal mese di giugno 2012 senza giunta dopo che il Pd locale si è dilaniato proprio a causa della banca. Ma l’imbarazzo in questo caso era inevitabile. Sappiamo che le privatizzazioni non hanno fatto uscire del tutto la politica dalle banche.

Attraverso le Fondazioni, che ne controllano quote cospicue, i partiti continuano in qualche caso ancora a condizionarne le scelte.
C’è perfino chi teorizza il diritto della politica a farlo. Un paio d’anni fa il leader leghista Umberto Bossi emanò il seguente editto: «Le banche più grosse del Nord avranno uomini nostri a ogni livello». E certo a Piero Fassino resterà per sempre appiccicata quella sciagurata domanda («Abbiamo una banca?») sfuggitagli al telefono con Giovanni Consorte durante la scalata dell’Unipol alla Bnl… Nel Montepaschi, però, la presenza della politica non è relegata a una partecipazione di minoranza, per quanto di peso, come accade a Unicredit o Intesa San Paolo.

E neppure a una battuta tanto infelice quanto innocua. La banca senese è controllata da una Fondazione, a sua volta controllata dal Comune, a sua volta feudo Pd: prima appunto che gli ex margheritini e gli ex diessini litigassero ferocemente a proposito del destino del Monte e di certe poltrone. I sindaci che negli ultimi vent’anni hanno preceduto il dimissionario Franco Ceccuzzi, erano anche dipendenti del Monte.
A dimostrazione di un rapporto simbiotico fra città, banca e partito.

Oltre a rappresentare una seria ipoteca sullo sviluppo, viste le tante discutibili operazioni del passato dettate dalla politica, una presenza così forte dei partiti ha riflessi sulla gestione. Quando qualche mese fa è arrivato, l’attuale presidente Alessandro Profumo ha trovato nelle controllate una trentina di caselle occupate con nomine politiche. Il Monte è una società quotata in borsa: ma finora non c’è stato verso di convincere la politica a fare un passo indietro. E adesso i nodi vengono al pettine, nel momento peggiore. Servirà almeno di lezione?

Sergio Rizzo

23 gennaio 2013 | 8:56© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/13_gennaio_23/rizzo-dimissioni-mussari_5cbd2a22-6523-11e2-a9ef-b9089581fbcf.shtml
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« Risposta #136 inserito:: Gennaio 25, 2013, 03:42:16 pm »

Montepaschi: le colpe non viste

Nessuno può chiamarsi fuori dalla vicenda che coinvolge il Monte dei Paschi di Siena. Non il governo, e ciò vale tanto per quello passato quanto per quello ancora in carica: se nonostante la crisi devastante del 2008-2009 la bomba dei derivati rimane innescata, come sanno bene anche i tanti enti locali che hanno rischiato di rimetterci l’osso del collo, è perché non si sono prese le contromisure necessarie.

Non la Consob: che dovrebbe sorvegliare i mercati tutelando i risparmiatori, ma spesso si addormenta. Non la Banca d’Italia: alla quale spetta il compito di vigilare sulle banche e non vede sempre tutto, anche se va precisato che l’istituto di via Nazionale non ha poteri di polizia giudiziaria.

Non il sistema bancario, cui il terremoto finanziario sembra non aver insegnato niente: i rubinetti del credito verso le imprese sono ben chiusi mentre la macchina della finanza creativa ha ripreso a girare a pieno ritmo. Meno che mai i politici, soprattutto quelli senesi, possono dire: io non c’entro.

Ma il fatto che siano tutti in una certa misura responsabili, e in un sistema finanziario sempre più integrato vanno chiamate in causa probabilmente anche le carenze europee, non può significare che nessuno è responsabile. Tutt’altro.

Questa vicenda non può essere archiviata come uno dei tanti incidenti di percorso del nostro sgangherato sistema finanziario. Né le dimissioni di Mussari dall’Abi possono essere considerate una sanzione sufficiente.

Non fosse che per un motivo. Dev’essere ricordato come, ancor prima che saltasse fuori lo scandalo dei derivati, per tirare fuori la banca dai guai causati da una serie di errori della sua precedente gestione, il contribuente ha versato nelle casse del Monte 3,9 miliardi. Per quanto le polemiche elettorali sollevate da chi ha accusato il governo di aver introdotto l’Imu per salvare «la banca del Pd» siano del tutto prive di fondamento, considerando che su quel prestito l’istituto paga al Tesoro un interesse del 9 per cento, e non c’è investimento sicuro che renda una simile cifra, si tratta pur sempre di soldi pubblici.

E non può assolutamente passare il messaggio che con i soldi dei contribuenti, sia pure pagati a caro prezzo, le banche possono tappare i buchi di speculazioni finanziarie sbagliate. Se poi si scoprisse che mentre il Monte era allo stremo alcuni soggetti avessero continuato a godere di un trattamento di favore, con conti correnti a reddito elevato e garantito, sarebbe gravissimo.

Ecco perché siamo convinti che il governo non si possa limitare a gettare la palla nel campo di qualcun altro, come ha fatto ieri il ministro del Tesoro Vittorio Grilli puntando il dito contro la Banca d’Italia. Mario Monti, che si candida a rimanere a palazzo Chigi, non può ignorare che questa storia coincide con il debutto della vigilanza europea sulle grandi banche, e per l’Italia non è davvero un bel viatico. Da lui ci aspettiamo una presa di posizione risoluta, come premier ancora in carica.

Certo fa sorridere che il primo fra i suoi sostenitori a sollecitare «chiarezza» sulla vicenda chiedendo a ognuno «di assumersi le proprie responsabilità politiche» sia stato Alfredo Monaci. Ovvero, un tipico esponente della classe politica locale che per anni ha retto Mussari e che ora è candidato della lista Monti in Toscana. Presidente della Mps immobiliare e dirigente del Monte, è il fratello minore di Alberto Monaci: a sua volta ex dipendente della banca, ex deputato dc, oggi presidente (democratico) del Consiglio regionale toscano.

Monaci senior già vedeva come il fumo negli occhi lo sbarco a Siena di Alessandro Profumo. Ma dopo che è sfumata la vicepresidenza per suo fratello Alfredo è scoppiata una guerra interna al Pd che ha fatto saltare per aria la giunta comunale. Questa poco edificante lotta di potere contribuisce a far capire perché siamo arrivati qui. Il fatto è che il Monte è un formidabile strumento di welfare cittadino. Finanzia il Comune, la squadra di calcio, quella di basket, gli stessi cittadini. A Siena dà lavoro a circa 5 mila persone: quasi il 10 per cento dell’intera popolazione. Per non parlare delle decine di poltrone nei consigli di amministrazione. Nonché del fiume di denaro che attraverso la fondazione si è riversato, anno dopo anno, nel territorio circostante.

Intendiamoci, questo non è un problema limitato alla sola Siena: sono le scorie della vecchia riforma che ha fatto nascere in tutta Italia le fondazioni bancarie dalle ceneri delle vecchie banche pubbliche. Sarebbe anche ingiusto negare che i contributi del Monte abbiano messo in moto iniziative di pregio, come la realizzazione di strutture sanitarie d’eccellenza e di centri di ricerca all’avanguardia. Ma è chiaro che adesso Siena e la sua banca sono a un bivio. Paradossalmente, dunque, questo scandalo dei derivati offre un’occasione da non perdere per cambiare registro. A tutti: al Monte, al sistema bancario, agli organi di vigilanza. E alla politica. Sempre che la sappiano (e la vogliano) cogliere.

Sergio Rizzo

25 gennaio 2013 | 7:33© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_25/colpe-non-viste_59daf872-66b6-11e2-95de-416ea2b54ab7.shtml
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« Risposta #137 inserito:: Gennaio 27, 2013, 05:54:51 pm »

La storia - Il corto circuito nel Pd cittadino

Stop a contrade, squadre e cedole

Così la banca si «sgancia» da Siena

Riuscirà Profumo a staccarsi dalla politica? «Sono un uomo fortunato»


In questa storia del Monte de Paschi di Siena la politica è una foglia di fico ed è bene non farsi fuorivare. Perché copre beghe locali, interessi di contrada e di corporazione. Anche di logge, dicono i bene informati. Alessandro Profumo si considera «un uomo fortunato». Tanto fortunato da poter rinunciare allo stipendio da presidente del Monte dei Paschi di Siena. La sua retribuzione è il gettone da consigliere di amministrazione: 60 mila euro l'anno.

Se lo può permettere, certo. Ma se il banchiere un tempo fra i più potenti d'Europa ha deciso di essere oggi il meno pagato del mondo non è certo, crediamo, perché abbia deciso di iscriversi a un club filantropico. Sembra piuttosto legittima difesa. Perché il minimo che possa capitare qui a un signore che ha appena ricevuto da UniCredit un benservito da 38 milioni di euro e viene messo alla presidenza del Monte dei Paschi, per giunta senza essere senese, è finire sui carboni ardenti.

Non che Profumo non ci sia passato comunque, sulla graticola. Anzi. C'era chi considerava la nomina uno scandalo: il suo sostenitore Franco Ceccuzzi, ex segretario diessino locale, ex deputato democratico e sindaco di Siena, ha pagato a carissimo prezzo. Questo l'antefatto. La scorsa primavera il partito democratico, che ha la maggioranza in Comune, è andato in mille pezzi. La scintilla è stata la decisione di Ceccuzzi di mandare in tilt il patto tutto interno al centrosinistra senese che da 12 anni garantiva gli equilibri del Monte dei Paschi, di fatto l'ultima banca pubblica controllata dalla politica. Il patto coincide con l'uscita di scena dell'ex sindaco Pierluigi Piccini, diessino, bloccato da un anatema romano quando stava per diventare presidente della Fondazione azionista della banca. Quella poltrona fu invece affidata al suo avvocato Giuseppe Mussari, anch'egli diessino. Dopo cinque anni, la staffetta. Mussari alla presidenza della banca e al suo posto, in Fondazione, Gabriello Mancini: uomo del potentissimo capo della Margherita locale, l'ex dipendente del Monte ed ex deputato dc Alberto Monaci, presidente del consiglio regionale toscano.


Ma sbaglierebbe chi la considerasse una faccenda che riguarda solo i partiti. In questa storia la politica è una foglia di fico, ed è bene non farsi fuorviare. Perché copre beghe locali, interessi di contrada e di corporazione. Anche di logge, dicono i bene informati.
E se era chiaro che l'arrivo di Profumo avrebbe messo in discussione quel patto dalle sfaccettature più svariate, la decisione di negare la poltrona di vicepresidente del Monte ad Alfredo Monaci, il presidente della società immobiliare del gruppo bancario nonché fratello minore di Alberto, è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso.

Gli ex margheritini del Pd non hanno votato il bilancio e la giunta Ceccuzzi è saltata per aria. Con effetti collaterali micidiali. Per dirne una, ci ha rimesso il posto anche il direttore della «Nazione» Mauro Tedeschini: reo di aver dato conto dei contrasti fra la Fondazione e il Comune, si era già complicato la vita con una inchiesta sui costi della Regione Toscana che Monaci senior non aveva esattamente gradito. Per dirne un'altra, Monaci junior, trombato alla vicepresidenza della banca, è ora candidato al Parlamento nella lista Monti.

Ceccuzzi, invece, si è presentato alle primarie del centrosinistra e le ha vinte: ma in un momento che non potrebbe essere peggiore.
In piena campagna elettorale, lo scandalo dei derivati ha scatenato una tempesta sul Partito democratico e ogni giorno propone nuove rivelazioni. Fino al sospetto di tangenti corse intorno all'affare della banca Antonveneta. Un acquisto sciagurato da 10 miliardi. Non bastasse la spesa, fatto in contanti: il che ha messo letteralmente in ginocchio la banca.

Insomma, una situazione oggettivamente difficilissima. Ma la bufera, è ciò di cui si lamenta Profumo, oscura quanto è stato fatto negli ultimi sette-otto mesi. Lui ci tiene a sottolineare che è stato chiuso un accordo con i sindacati, sia pure senza la firma della Cgil, per ridimensionare il costo del lavoro. Che cento dirigenti su 490 sono stati avvicendati. Che i consiglieri «esterni», spesso di nomina politica, delle società controllate, sono stati sostituiti (finora una trentina) con dipendenti della banca. E che si è già decisa la dismissione di un centinaio di filiali sulle 400 previste dal piano industriale.
Per non parlare delle sponsorizzazioni. Il Monte foraggia con otto milioni l'anno il Siena calcio della famiglia di costruttori Mezzaroma, e di cui la Fondazione possiede anche una quota di minoranza: il contratto scade a fine stagione e non sarà rinnovato. Stessa sorte subirà nel 2014 l'accordo per la sponsorizzazione della pluridecorata squadra di basket.
Ma anche il generosissimo rubinetto della Fondazione, che secondo il sito «Lettera43» di Paolo Madron ha distribuito sul territorio negli ultimi dieci anni qualcosa come un miliardo di euro, ovvero 4 mila euro per ognuno dei 270 mila abitanti della Provincia di Siena, è destinato a inaridirsi. Quest'anno, niente dividendi. E con l'aumento di capitale di un miliardo la quota nella banca scenderà dall'attuale 34 al 25 per cento.

Il Tesoro ha già avvertito la stessa Fondazione che non potrà più avere in futuro come unico asset la partecipazione nel Monte.
Giovedì scorso, poi, Ceccuzzi ha sparato un bel siluro, dichiarando che se verrà riconfermato sindaco il prossimo presidente della Fondazione potrebbe anche non essere senese.
Segnali che qualcosa sta cambiando nel rapporto fra la città, la banca e certa politica? Profumo si dice sicuro che quel legame sia già di fatto spezzato, in modo irreversibile. Perché per Siena e i senesi è preferibile un Monte dei Paschi sano ed efficiente a una banca che distribuisce un po' di becchime nel circondario ma procede senza rotta. Con il risultato che alla fine si va a sbattere. A parte gli ultimi scandali, la storia recente è costellata di scelte «industriali» a dir poco discutibili. Come l'incorporazione a carissimo prezzo della Banca 121 o la mancata acquisizione della Bnl, per fare solo un paio di esempi.

Per giunta, la vicenda del Monte dei Paschi piomba come un macigno sugli accordi che centralizzano nella Bce di Mario Draghi la vigilanza sulle grandi banche. Suscitando timori e perplessità a proposito del ruolo del nostro Paese in questo passaggio cruciale. Ma riattizzando anche certe nordiche diffidenze, mai del tutto scomparse, a proposito della teoria secondo la quale le banche italiane sarebbero uscite dalla crisi finanziaria mondiale del 2008-2009 meglio degli altri istituti europei perché meno contagiate dai derivati. Fino a qualche giorno fa Giuseppe Mussari non era forse il presidente dell'Abi, ovvero la persona che aveva condotto le trattative sulle nuove regole di Basilea?
E se questo succedeva proprio nella banca del capo dei banchieri italiani....

Sergio Rizzo

27 gennaio 2013 | 8:20© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/13_gennaio_27/montepaschi-derivati-contrade-squadre-cedole_8df94676-6851-11e2-b978-d7c19854ae83.shtml
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« Risposta #138 inserito:: Gennaio 28, 2013, 11:31:37 pm »

IL CASO MONTEPASCHI

Debiti e amicizie in Fondazione

Analisi di una colossale anomalia


È normale per una Fondazione, ente sulla carta senza scopo di lucro, ritrovarsi con centinaia di milioni di debiti sul groppone? La risposta è ovvia: no. Ovunque, ma non a Siena. Pur di mantenere la maggioranza, anche se non più assoluta, del Monte dei Paschi, non hanno esitato a indebitarsi. Fino al collo. Per partecipare all'aumento di capitale da 2,1 miliardi che ha tenuto a galla per un po' la banca, la Fondazione ha dovuto chiedere a 11 banche 600 milioni di euro. Chi mai avrebbe potuto rifiutarle un finanziamento? Il pacchetto del 34 per cento di azioni del Monte che l'ente ha ancora in portafoglio copre ampiamente i debiti. Anche se questa singolare operazione ha soltanto rinviato l'inevitabile resa dei conti. E alla fine la toppa si è rivelata anche peggiore del buco.

Il bilancio 2011 della Fondazione si è chiuso con un disavanzo di 331 milioni, da sommare ai meno 128 milioni del 2010: e tutto a causa della svalutazione di quei titoli del Monte che i vertici dell'ente si sono ostinati a difendere. Svenandosi. I generosi contributi destinati tradizionalmente al territorio si sono quasi dimezzati, da 232 a 126 milioni. Una catastrofe, per una Fondazione che in dieci anni aveva distribuito una media di 4 mila euro per ognuno dei 270 mila abitanti della Provincia. Quest'anno, poi, le cose certo non miglioreranno: dalla banca non arriverà neanche un euro di dividendi.

Qualcuno argomenterà che nessuno poteva prevedere che il Monte finisse al centro di un imbarazzante caso che sta assumendo proporzioni internazionali. E non è una spiegazione tanto assurda, se si pensa alla prospettiva provinciale da cui in Fondazione si è sempre guardato alle vicende della banca. Anche se i risultati dell'ispezione della Banca d'Italia qualche dubbio, e anche piuttosto serio, dovevano farlo venire. Certo, la faccenda dei derivati era stata ben nascosta, se i magistrati indagano anche sull'ipotesi di false comunicazioni agli organi di vigilanza. Ma a chi ritiene se stesso in grado di amministrare il pacchetto di maggioranza della terza banca italiana, che ha appena fatto un'operazione finanziariamente spericolata come l'acquisizione per cassa dell'Antonveneta, le perplessità emerse nel corso dell'ispezione dovevano per forza mettere la pulce nell'orecchio.

E invece, niente. Di certo comunque a Siena molte cose sono destinate a cambiare. Non soltanto perché la quota della Fondazione, così accanitamente difesa a forza di debiti, fatalmente si ridurrà e di molto. Fra qualche mese, la prossima estate, scadono gli amministratori. E se alle elezioni comunali vincerà ancora Franco Ceccuzzi, disarcionato sei mesi fa in seguito a manovre interne al suo partito, si preannuncia un azzeramento pressoché totale. Le poltrone della «deputazione generale» sono 16. Otto le sceglie il Comune, cinque la Provincia e una la Regione. Le rimanenti due spettano alla Curia e all'Università. Questa governance ha garantito al centrosinistra locale per anni il controllo dell'ente e perciò della banca, con un patto che da cinque anni assegna la presidenza della fondazione, come tante volte abbiamo ricordato in questi giorni, alla componente della ex Margherita nella persona di Gabriello Mancini, fedelissimo del presidente del consiglio regionale toscano Alberto Monaci, ex dipendente del Monte ed ex deputato Dc.

Degli otto attuali componenti di nomina locale, uno solo è stato designato dall'amministrazione targata Ceccuzzi, al posto di un dimissionario. Si tratta di Alessandra De Marco, dirigente di Palazzo Chigi priva di rapporti con gli ambienti senesi. Una specie di prova generale? Di sicuro Ceccuzzi ha già fatto sapere che non riterrà uno scandalo la sostituzione di Mancini con un «non senese». Applicando così anche alla Fondazione lo schema a lui caro che ha portato Alessandro Profumo alla presidenza della banca. Una operazione contrastatissima da Monaci, e che con ogni probabilità è stato il motivo principale della caduta della giunta comunale, dopo il voto contrario al bilancio proprio della componente del Pd che fa riferimento al presidente del consiglio regionale, insieme ad altre concause. Come per esempio la sostituzione, espressamente richiesta da Ceccuzzi alla Regione, del direttore generale dell'azienda ospedaliera di Siena. Lì dove è impiegata l'influente moglie di Monaci, Anna Gioia, agguerrita consigliere comunale della suddetta corrente Pd che ha bocciato il bilancio. Altro capitolo di un'assurda guerra locale intorno alla quale incredibilmente si giocano i destini di una delle più importanti banche italiane.

E che si combatte senza esclusione di colpi. Anche quelli sotto la cintura. Per avere un'idea del livello dello scontro, valga l'episodio di un ricorso legale sulle primarie del Partito democratico in vista delle elezioni senesi, vinte da Ceccuzzi contro il candidato vendoliano. A presentarlo, pur senza fortuna, è stato il giovane vicepresidente della Provincia di Siena, Alessandro Pinciani, già coordinatore comunale della Margherita. Incidentalmente, figlio di Anna Gioia e del suo primo marito Sergio Pinciani.

Sergio Rizzo

28 gennaio 2013 | 7:58© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/13_gennaio_28/debiti-findazione-analisi-rizzo_52e2de76-6914-11e2-a947-c004c7484908.shtml
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« Risposta #139 inserito:: Gennaio 31, 2013, 01:02:14 am »

Montepaschi: le colpe non viste

Nessuno può chiamarsi fuori dalla vicenda che coinvolge il Monte dei Paschi di Siena. Non il governo, e ciò vale tanto per quello passato quanto per quello ancora in carica: se nonostante la crisi devastante del 2008-2009 la bomba dei derivati rimane innescata, come sanno bene anche i tanti enti locali che hanno rischiato di rimetterci l’osso del collo, è perché non si sono prese le contromisure necessarie.

Non la Consob: che dovrebbe sorvegliare i mercati tutelando i risparmiatori, ma spesso si addormenta. Non la Banca d’Italia: alla quale spetta il compito di vigilare sulle banche e non vede sempre tutto, anche se va precisato che l’istituto di via Nazionale non ha poteri di polizia giudiziaria.

Non il sistema bancario, cui il terremoto finanziario sembra non aver insegnato niente: i rubinetti del credito verso le imprese sono ben chiusi mentre la macchina della finanza creativa ha ripreso a girare a pieno ritmo. Meno che mai i politici, soprattutto quelli senesi, possono dire: io non c’entro.

Ma il fatto che siano tutti in una certa misura responsabili, e in un sistema finanziario sempre più integrato vanno chiamate in causa probabilmente anche le carenze europee, non può significare che nessuno è responsabile. Tutt’altro.

Questa vicenda non può essere archiviata come uno dei tanti incidenti di percorso del nostro sgangherato sistema finanziario. Né le dimissioni di Mussari dall’Abi possono essere considerate una sanzione sufficiente.

Non fosse che per un motivo. Dev’essere ricordato come, ancor prima che saltasse fuori lo scandalo dei derivati, per tirare fuori la banca dai guai causati da una serie di errori della sua precedente gestione, il contribuente ha versato nelle casse del Monte 3,9 miliardi. Per quanto le polemiche elettorali sollevate da chi ha accusato il governo di aver introdotto l’Imu per salvare «la banca del Pd» siano del tutto prive di fondamento, considerando che su quel prestito l’istituto paga al Tesoro un interesse del 9 per cento, e non c’è investimento sicuro che renda una simile cifra, si tratta pur sempre di soldi pubblici.

E non può assolutamente passare il messaggio che con i soldi dei contribuenti, sia pure pagati a caro prezzo, le banche possono tappare i buchi di speculazioni finanziarie sbagliate. Se poi si scoprisse che mentre il Monte era allo stremo alcuni soggetti avessero continuato a godere di un trattamento di favore, con conti correnti a reddito elevato e garantito, sarebbe gravissimo.

Ecco perché siamo convinti che il governo non si possa limitare a gettare la palla nel campo di qualcun altro, come ha fatto ieri il ministro del Tesoro Vittorio Grilli puntando il dito contro la Banca d’Italia. Mario Monti, che si candida a rimanere a palazzo Chigi, non può ignorare che questa storia coincide con il debutto della vigilanza europea sulle grandi banche, e per l’Italia non è davvero un bel viatico. Da lui ci aspettiamo una presa di posizione risoluta, come premier ancora in carica.

Certo fa sorridere che il primo fra i suoi sostenitori a sollecitare «chiarezza» sulla vicenda chiedendo a ognuno «di assumersi le proprie responsabilità politiche» sia stato Alfredo Monaci. Ovvero, un tipico esponente della classe politica locale che per anni ha retto Mussari e che ora è candidato della lista Monti in Toscana. Presidente della Mps immobiliare e dirigente del Monte, è il fratello minore di Alberto Monaci: a sua volta ex dipendente della banca, ex deputato dc, oggi presidente (democratico) del Consiglio regionale toscano.

Monaci senior già vedeva come il fumo negli occhi lo sbarco a Siena di Alessandro Profumo. Ma dopo che è sfumata la vicepresidenza per suo fratello Alfredo è scoppiata una guerra interna al Pd che ha fatto saltare per aria la giunta comunale. Questa poco edificante lotta di potere contribuisce a far capire perché siamo arrivati qui. Il fatto è che il Monte è un formidabile strumento di welfare cittadino. Finanzia il Comune, la squadra di calcio, quella di basket, gli stessi cittadini. A Siena dà lavoro a circa 5 mila persone: quasi il 10 per cento dell’intera popolazione. Per non parlare delle decine di poltrone nei consigli di amministrazione. Nonché del fiume di denaro che attraverso la fondazione si è riversato, anno dopo anno, nel territorio circostante.

Intendiamoci, questo non è un problema limitato alla sola Siena: sono le scorie della vecchia riforma che ha fatto nascere in tutta Italia le fondazioni bancarie dalle ceneri delle vecchie banche pubbliche. Sarebbe anche ingiusto negare che i contributi del Monte abbiano messo in moto iniziative di pregio, come la realizzazione di strutture sanitarie d’eccellenza e di centri di ricerca all’avanguardia. Ma è chiaro che adesso Siena e la sua banca sono a un bivio. Paradossalmente, dunque, questo scandalo dei derivati offre un’occasione da non perdere per cambiare registro. A tutti: al Monte, al sistema bancario, agli organi di vigilanza. E alla politica. Sempre che la sappiano (e la vogliano) cogliere.

Sergio Rizzo

25 gennaio 2013 | 7:33© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_25/colpe-non-viste_59daf872-66b6-11e2-95de-416ea2b54ab7.shtml
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« Risposta #140 inserito:: Febbraio 02, 2013, 12:01:17 am »

L'infrazione delle norme europee ha prodotto un danno di 75 euro per ogni italiano

I truffatori delle quote latte ci sono costati 4,5 miliardi

Nel 2009 l'allora ministro leghista Zaia salvò gli «splafonatori» privando Equitalia del potere di riscossione


La giustizia farà certamente il suo corso. Confidiamo che i magistrati impegnati nell'inchiesta sulle quote latte, che nei giorni scorsi ha scatenato una tempesta politica, individueranno e puniranno i responsabili di una delle più clamorose truffe del nuovo secolo. Nel frattempo, ai cittadini italiani resta sul groppone il conto astronomico che i furbetti del latticino hanno fatto pagare finora allo Stato. Tenetevi forte: 4 miliardi 494 milioni 433.627 euro e 53 centesimi. Ovvero, 75 euro e 62 centesimi per ogni italiano, neonati compresi. Una somma che basterebbe a soddisfare il fabbisogno di latte fresco dell'intera nazione per un anno. Il calcolo l'ha fatto la Corte dei conti in una relazione appena sfornata, nella quale, oltre a numeri terrificanti, c'è una cattiva notizia. Rassegniamoci: recuperare quei soldi sarà quasi impossibile.

Esattamente trent'anni fa, nel 1983, la Commissione europea stabilì per la produzione di latte delle quote nazionali, con la motivazione che un'eccessiva quantità sul mercato avrebbe fatto crollare i prezzi. Per chi non avesse rispettato il plafond erano previste multe salate. L'assegnazione delle quote, com'era intuibile, finì per favorire i Paesi nordici. Ma i produttori italiani, invece di adeguarsi alla nuova situazione, continuarono come se nulla fosse accaduto. Risultato: dopo 12 anni si erano accumulate multe per l'equivalente attuale di circa 2 miliardi di euro. Il caos era totale. C'erano ritardi nell'adeguamento delle normative, dati taroccati, latte che arrivava dall'estero ma figurava italiano, quantitativi enormi di prodotto non fatturato... Che fare? Il governo accollò il conto all'Erario. Da allora in poi, però, gli allevatori che non avessero rispettato le quote, avrebbero dovuto pagare. Eccome.

Peccato che quasi nessuno, dal 1996, ha pagato. Mentre l'Unione europea continuava a incassare dallo Stato italiano i soldi delle multe, che scontava direttamente dai trasferimenti dovuti ai nostri agricoltori. La Corte dei conti dice che dal 1996 al 2010 «l'onere che l'Italia ha sopportato» per «gli esuberi produttivi accertati è quantificato dai 2.537 milioni di euro, versati alla Commissione». Denari che, prevede la legge, avrebbero dovuto restituire gli allevatori «splafonatori», ai quali sono state concesse ripetute agevolazioni, come quella di pagare in comode rate. Ma finora «il recuperato effettivo», avverte la Corte, «è trascurabile».

Il fatto è che ogni mezzo è stato buono per aggirare gli obblighi. Proroghe su proroghe, inefficienze degli organi preposti a far pagare, ricorsi e controricorsi. Per non parlare del valzer dei commissari ad hoc nominati di volta in volta dal governo. E dell'incredibile vicenda toccata all'ex senatore leghista Dario Fruscio, messo dal suo partito a capo dell'Agenzia incaricata di riscuotere le multe, e prontamente rimosso quando si è scoperto che le voleva far pagare sul serio. Ecco che cosa scrivono i magistrati contabili: «Costante è risultata, nel corso degli anni, l'interpretazione delle leggi vigenti da parte delle amministrazioni a favore dei produttori eccedentari». Fino all'ultima norma passata nel 2009, quando era ministro dell'Agricoltura il leghista Luca Zaia, attuale governatore del Veneto, che ha privato Equitalia del potere di riscossione. Riesumando addirittura, per il recupero delle somme dovute, le procedure bizantine di un regio decreto del 1910: centrotré anni fa.

Niente male, considerando che qui hanno scorazzato indisturbati anche i truffatori, responsabili di aver caricato sulle spalle degli ignari contribuenti centinaia di milioni di multe non pagate. Cooperative nate e fallite a ripetizione, migrando per tutto il Nord da Cuneo a Pordenone, inseguite dalla Finanza, dai giudici contabili, dai magistrati. E tutto alla faccia degli allevatori onesti. I quali hanno anche sborsato, dice la Coldiretti, la bellezza di 1,8 miliardi per rilevare o affittare le quote.

In tutta questa storia, anche se la Corte dei conti lo fa appena intuire, ci sono precise ed enormi responsabilità politiche. Perfino rivendicate da Umberto Bossi, il quale due anni fa prometteva sul pratone di Pontida ai Cobas del latte: «Non vi ho dimenticati. La Lega risolverà i vostri problemi». Il rapporto fra Carroccio e Cobas è stato sempre strettissimo. Lo dimostrano i finanziamenti al partito da parte di associazioni quali la Emilat del parlamentare leghista Fabio Ranieri. Ed è incarnato, quel rapporto, nella figura di Giovanni Robusti, storico leader dei Cobas, nel 1994 senatore della Lega cui venne perfino affidato l'incarico di presidente della commissione d'inchiesta sull'Aima, poi nel 2008 europarlamentare. Giusto un mese fa la procura della Corte dei conti ha chiesto di condannarlo a risarcire 182 milioni all'erario per la vicenda delle quote latte in Piemonte dove alcune cooperative battezzate «Savoia» figuravano fittiziamente come acquirenti del latte prodotto in eccesso da alcuni allevatori. A fine giugno 2012 Robusti si era già beccato quattro anni e mezzo di carcere nel processo d'appello che lo vedeva imputato.

Sergio Rizzo

1 febbraio 2013 | 7:54© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/13_febbraio_01/truffatori-quote-latte_a443a8ca-6c3b-11e2-9729-7dce41528d1f.shtml
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« Risposta #141 inserito:: Febbraio 02, 2013, 05:52:57 pm »

L'infrazione delle norme europee ha prodotto un danno di 75 euro per ogni italiano

I truffatori delle quote latte ci sono costati 4,5 miliardi

Nel 2009 l'allora ministro leghista Zaia salvò gli «splafonatori» privando Equitalia del potere di riscossione


La giustizia farà certamente il suo corso. Confidiamo che i magistrati impegnati nell'inchiesta sulle quote latte, che nei giorni scorsi ha scatenato una tempesta politica, individueranno e puniranno i responsabili di una delle più clamorose truffe del nuovo secolo. Nel frattempo, ai cittadini italiani resta sul groppone il conto astronomico che i furbetti del latticino hanno fatto pagare finora allo Stato. Tenetevi forte: 4 miliardi 494 milioni 433.627 euro e 53 centesimi. Ovvero, 75 euro e 62 centesimi per ogni italiano, neonati compresi. Una somma che basterebbe a soddisfare il fabbisogno di latte fresco dell'intera nazione per un anno. Il calcolo l'ha fatto la Corte dei conti in una relazione appena sfornata, nella quale, oltre a numeri terrificanti, c'è una cattiva notizia. Rassegniamoci: recuperare quei soldi sarà quasi impossibile.

Esattamente trent'anni fa, nel 1983, la Commissione europea stabilì per la produzione di latte delle quote nazionali, con la motivazione che un'eccessiva quantità sul mercato avrebbe fatto crollare i prezzi. Per chi non avesse rispettato il plafond erano previste multe salate. L'assegnazione delle quote, com'era intuibile, finì per favorire i Paesi nordici. Ma i produttori italiani, invece di adeguarsi alla nuova situazione, continuarono come se nulla fosse accaduto. Risultato: dopo 12 anni si erano accumulate multe per l'equivalente attuale di circa 2 miliardi di euro. Il caos era totale. C'erano ritardi nell'adeguamento delle normative, dati taroccati, latte che arrivava dall'estero ma figurava italiano, quantitativi enormi di prodotto non fatturato... Che fare? Il governo accollò il conto all'Erario. Da allora in poi, però, gli allevatori che non avessero rispettato le quote, avrebbero dovuto pagare. Eccome.

Peccato che quasi nessuno, dal 1996, ha pagato. Mentre l'Unione europea continuava a incassare dallo Stato italiano i soldi delle multe, che scontava direttamente dai trasferimenti dovuti ai nostri agricoltori. La Corte dei conti dice che dal 1996 al 2010 «l'onere che l'Italia ha sopportato» per «gli esuberi produttivi accertati è quantificato dai 2.537 milioni di euro, versati alla Commissione». Denari che, prevede la legge, avrebbero dovuto restituire gli allevatori «splafonatori», ai quali sono state concesse ripetute agevolazioni, come quella di pagare in comode rate. Ma finora «il recuperato effettivo», avverte la Corte, «è trascurabile».

Il fatto è che ogni mezzo è stato buono per aggirare gli obblighi. Proroghe su proroghe, inefficienze degli organi preposti a far pagare, ricorsi e controricorsi. Per non parlare del valzer dei commissari ad hoc nominati di volta in volta dal governo. E dell'incredibile vicenda toccata all'ex senatore leghista Dario Fruscio, messo dal suo partito a capo dell'Agenzia incaricata di riscuotere le multe, e prontamente rimosso quando si è scoperto che le voleva far pagare sul serio. Ecco che cosa scrivono i magistrati contabili: «Costante è risultata, nel corso degli anni, l'interpretazione delle leggi vigenti da parte delle amministrazioni a favore dei produttori eccedentari». Fino all'ultima norma passata nel 2009, quando era ministro dell'Agricoltura il leghista Luca Zaia, attuale governatore del Veneto, che ha privato Equitalia del potere di riscossione. Riesumando addirittura, per il recupero delle somme dovute, le procedure bizantine di un regio decreto del 1910: centrotré anni fa.

Niente male, considerando che qui hanno scorazzato indisturbati anche i truffatori, responsabili di aver caricato sulle spalle degli ignari contribuenti centinaia di milioni di multe non pagate. Cooperative nate e fallite a ripetizione, migrando per tutto il Nord da Cuneo a Pordenone, inseguite dalla Finanza, dai giudici contabili, dai magistrati. E tutto alla faccia degli allevatori onesti. I quali hanno anche sborsato, dice la Coldiretti, la bellezza di 1,8 miliardi per rilevare o affittare le quote.

In tutta questa storia, anche se la Corte dei conti lo fa appena intuire, ci sono precise ed enormi responsabilità politiche. Perfino rivendicate da Umberto Bossi, il quale due anni fa prometteva sul pratone di Pontida ai Cobas del latte: «Non vi ho dimenticati. La Lega risolverà i vostri problemi». Il rapporto fra Carroccio e Cobas è stato sempre strettissimo. Lo dimostrano i finanziamenti al partito da parte di associazioni quali la Emilat del parlamentare leghista Fabio Ranieri. Ed è incarnato, quel rapporto, nella figura di Giovanni Robusti, storico leader dei Cobas, nel 1994 senatore della Lega cui venne perfino affidato l'incarico di presidente della commissione d'inchiesta sull'Aima, poi nel 2008 europarlamentare. Giusto un mese fa la procura della Corte dei conti ha chiesto di condannarlo a risarcire 182 milioni all'erario per la vicenda delle quote latte in Piemonte dove alcune cooperative battezzate «Savoia» figuravano fittiziamente come acquirenti del latte prodotto in eccesso da alcuni allevatori. A fine giugno 2012 Robusti si era già beccato quattro anni e mezzo di carcere nel processo d'appello che lo vedeva imputato.

Sergio Rizzo

1 febbraio 2013 | 7:54© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/13_febbraio_01/truffatori-quote-latte_a443a8ca-6c3b-11e2-9729-7dce41528d1f.shtml
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« Risposta #142 inserito:: Febbraio 07, 2013, 11:28:08 pm »

CATTIVI ESEMPI DI GESTIONE AZIENDALE

Distruzioni di valore


Leggendo le cronache di questi giorni c'è da rabbrividire. I magistrati sospettano che al Monte dei Paschi di Siena agisse una banda del 5 per cento, destinataria di una tangente su ogni operazione. Comprese quelle che danneggiavano la banca. La Seat Pagine Gialle, venduta nel 1996 dal Tesoro per 850 milioni, ha fruttato ai privati nei vari passaggi di mano almeno 12 miliardi. E sta ora scivolando in un penoso concordato dopo aver subito una colossale distruzione di valore, dai 23 miliardi dell'epoca d'oro a 17 milioni.

Su quel cadavere già spolpato a dovere volteggiano consulenti, professionisti, banche d'affari. Perché quando succede una cosa del genere state sicuri che lì intorno si muovono un sacco di soldi. Ha fatto scalpore la cifra impegnata nei primi due anni per la liquidazione Parmalat affidata a Enrico Bondi, pari a 32 milioni. Ma altrettanti ne avrebbe distribuiti in consulenze il liquidatore dell'Alitalia Augusto Fantozzi che, dopo aver ricevuto 6 milioni di compensi, ne avrebbe pretesi altri 3 successivamente alle dimissioni causate dalla decisione del precedente governo di sostituire il commissario unico con una terna. Tre commissari, tre compensi: mentre gli italiani già tiravano la cinghia.

Va detto che sarebbe ingiusto non considerare anche i risultati ottenuti, per esempio il salvataggio della Parmalat (poi finita ai francesi). Ma se in Italia le procedure di liquidazione durano decenni un motivo c'è, ed è legato ai soldi. In ogni caso l'ordine di grandezza di alcuni compensi ha oltrepassato di gran lunga la soglia moralmente accettabile.

E le astronomiche parcelle delle banche d'affari? Per i derivati del Comune di Milano, oggetto di un processo concluso in primo grado con la condanna di quattro istituti, l'accusa stimava 80-90 milioni. Gli advisor finanziari incaricati di seguire la ristrutturazione del debito Seat, ha scritto il Sole 24Ore, hanno portato a casa ben 40 milioni: e non è servito a evitare il concordato. Mentre 20 milioni di commissione avrebbe incassato per l'ormai famoso «Fresh» del Monte dei Paschi, finito nel mirino della magistratura, l'americana JPMorgan. La medesima banca che, dopo aver gestito quel singolare prestito obbligazionario, all'inizio di gennaio abbassava il rating dell'istituto senese. Strabiliante.

Duecento milioni sono invece i balzelli pagati a banche e studi legali per l'acquisizione di Fonsai da parte di Unipol. Per non parlare del pregresso. Dal 2005 al 2011 la famiglia di Salvatore Ligresti ha guadagnato 407 milioni grazie a operazioni concluse dalla Fonsai «con parti correlate», come l'acquisto di immobili della stessa famiglia. Di più. La società che negli ultimi due anni perdeva 2,7 milioni al giorno versava 42 milioni per «consulenze» al suo azionista di riferimento e 11 milioni di buonuscita all'amministratore delegato. Alla faccia dei risparmiatori che avevano comprato le azioni in Borsa.

C'è da domandarsi che cosa sia successo a questo Paese, per essere diventato terreno di tali scorribande. E se pure questo non abbia a che fare con il degrado morale della politica e della vita civile. Di una cosa però siamo sicuri: senza un recupero di etica anche da parte di un altro pezzo della nostra classe dirigente, dalla grande finanza alle potenti corporazioni, ai professionisti e agli imprenditori, sarà molto difficile risollevarsi.

Sergio Rizzo

7 febbraio 2013 | 7:54© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_07/distruzioni-valore_c7ad72ce-70ef-11e2-9be5-7db8936d7164.shtml
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« Risposta #143 inserito:: Febbraio 17, 2013, 09:11:57 pm »

Il caso finmeccanica

Latitanti sono le regole


Dopo l'arresto di Giuseppe Orsi la sospensione dei pagamenti alla Finmeccanica da parte dell'India era scontata. Non finirà lì, temiamo. Si parla di un'azienda pubblica nel cui capitale sono presenti molti investitori privati, che opera in un settore strategico e ha una fortissima proiezione internazionale, con rapporti anche governativi. È impossibile prevedere quali ripercussioni avrà questa vicenda in quei contesti. Ma nell'opera di ricostruzione dell'immagine aziendale i nuovi vertici dovranno impegnarsi a fondo. La Finmeccanica ha 70 mila dipendenti, rappresenta il cuore tecnologico dell'industria italiana ed è espressione di quel poco che ancora ci resta della grande impresa manifatturiera.


Le implicazioni rischiano dunque di rivelarsi ben più pesanti di una giornata di passione in Borsa. Anche perché, in concomitanza di una campagna elettorale che getta un'ombra di incertezza sulla stabilità di qualunque futuro governo inquietando i mercati, quella della Finmeccanica non è l'unica ferita a grondare sangue. Paolo Scaroni, amministratore delegato dell'Eni, altra grande impresa pubblica il cui ruolo viene spesso paragonato a quello di un vero e proprio ministero degli Esteri «parallelo», è indagato per una faccenda di presunte tangenti algerine. Mentre l'ex presidente della terza banca italiana, il Monte dei Paschi di Siena, è sotto inchiesta per aver nascosto agli organi di vigilanza alcune operazioni che hanno causato gravi perdite: con l'aggravante, per Giuseppe Mussari, di essere stato per tre anni il capo dei banchieri italiani, incaricato di trattare in nome e per conto di tutti loro gli accordi di Basilea. Lo scandalo senese, poco ma sicuro, non migliorerà i rapporti internazionali delle nostre banche.


In questa tempesta perfetta non mancano pesanti responsabilità. Così premurosa quando si tratta di spartire poltrone nelle aziende pubbliche e in certe banche, la nostra politica non mostra mai identica reattività quando sarebbe necessario. Nel caso del Monte dei Paschi, ha tollerato il permanere di un rapporto perverso fra banca e partiti locali. Per non parlare della colpevole inerzia del governo di fronte al dilagare del tumore dei derivati. Nel caso della Finmeccanica, invece, ha chiaramente sottovalutato il rischio. Si poteva intervenire prima? Probabilmente si doveva. Difficilmente, in Paesi come la Germania o il Regno Unito, l'azionista pubblico sarebbe rimasto completamente indifferente davanti a un'accusa di corruzione internazionale formulata dalla magistratura già molti mesi fa. Non fosse altro, per tutelare entrambi: l'azienda e l'accusato. In Italia, invece, no.


Anziché intervenire per tempo, qui si preferisce fare esercizi di dietrologia. Sempre dopo. C'è chi si chiede se lo scandalo del Monte non sia scoppiato ad arte proprio ora per mettere in difficoltà il Pd, e chi sospetta che l'arresto di Orsi nasconda un siluro alla Lega Nord, partito certo non ostile a quel manager, il cui leader Roberto Maroni punta a governare la Lombardia. Altri non escludono che pure l'inchiesta sull'Eni faccia parte di un'offensiva dei magistrati in piena campagna elettorale... L'unico fatto sicuro è che quando in certi casi la politica non agisce tempestivamente lo spazio vuoto viene occupato dalla magistratura. Lo sappiamo da almeno vent'anni. Peccato che la lezione non sia servita a niente.

Sergio Rizzo

14 febbraio 2013 | 10:49© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_14/Orsi-finmeccanica-latitanti-regole-Rizzo_1f3e7c1c-766e-11e2-bad5-bab3677cbfcd.shtml
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« Risposta #144 inserito:: Marzo 02, 2013, 03:25:53 pm »

DEMOCRAZIA E COSTI DELLA POLITICA

Un taglio serio (ora o mai più)


Ma come è venuto in mente a quelli della Conferenza delle Regioni di rimuovere dal sito la tabella con gli stipendi e le diarie dei governatori e dei consiglieri? Diranno: ora ci sono link delle leggi locali. Cliccate a caso: uno scroscio di commi, codicilli, subordinate... Non è trasparenza: è una presa in giro dei cittadini. Prima potevano confrontare vicepresidente e vicepresidente, assessore e assessore... Ora no. Davano fastidio le tabelle insolitamente chiare? Le hanno tolte per toglier acqua ai pesci dell'«antipolitica»? È sbalorditivo che dei «professionisti» (presunti) non capiscano i danni che fanno alla politica con errori così madornali. Di questi tempi, poi... Tutti lì a chiedersi sgomenti: e ora, cosa fare? Cambiate, è la risposta. Il risultato delle urne, oltre a un mucchio di problemi, offre a un sistema in crisi l'occasione di sterzare prima dell'abisso. Facendo finalmente cose indispensabili non per tirar su una diga contro l'ondata grilliana ma per recuperare un rapporto decente coi cittadini.

Proprio il trionfo di Grillo, senza manifesti, spot o camion-sandwich, smonta la tesi abusata che «i costi della politica» (esagerazioni e privilegi compresi) siano «i costi della democrazia». Non è così. Mentre il Pil precipitava sotto ai livelli del 2001, i costi del Palazzo hanno continuato a salire: del 65% in un decennio le spese correnti del Senato, del 43% il costo del consiglio regionale del Lazio solo dal 2007 in qua. Mentre imponevano agli italiani tagli drastici e immediati, «loro» contenevano o rimandavano i propri. Tanto che i consiglieri uscenti stanno facendo le pratiche per vitalizi regionali che qua e là si possono avere ancora a 50 anni. Proprio l'obbligo di recuperare la fiducia dei cittadini nella politica impone misure urgentissime anti Casta. Intorno cui cercare intese. Certo, alcune richiedono modifiche costituzionali. Ma se c'è la volontà, si è visto sull'obbligo del pareggio di bilancio, si fanno in fretta.

Per rivendicare la propria centralità il Parlamento deve cambiare se stesso. Siamo gli unici al mondo a imporre a un governo di guadagnarsi due fiducie in due Camere. Non ce lo possiamo più permettere. I parlamentari devono far chiarezza sugli stipendi loro e dei collaboratori. Fanno un lavoro importante, hanno diritto a buste paga decorose. Ma basta con le ambiguità sui collaboratori. E basta con l'andazzo dei due mestieri insieme, magari usando il ruolo parlamentare a favore dei clienti privati. Nei Paesi seri chi fa il deputato fa quello e basta. Così magari s'attacca meno alla poltrona. Vale per Roma, vale per le Regioni. Ancora: va spezzato quel rapporto anomalo costruito da una classe politica mediocre con la burocrazia. Più gli eletti sono scadenti, più devono affidarsi a burocrati (spesso strapagati) che diventano gli unici in grado di fare e poi interpretare gli atti. E dunque hanno interesse a rallentare ogni svolta vera che li renda meno indispensabili.

Ma il punto di partenza, insieme con atti di rottura quali l'abolizione delle Province visto che tranne la Lega si dicono tutti d'accordo, deve essere la trasparenza. Tutto online. Senza furbizie. Dai bilanci (leggibili però...) degli organi costituzionali a quelli delle municipalizzate, dai finanziamenti ai partiti fino ai patrimoni di ministri e parlamentari: gli italiani devono poter sapere come sono spesi i loro soldi e da chi. Non sarà semplice? Non lo sarà neanche per i cittadini recuperare la fiducia perduta.

Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

2 marzo 2013 | 8:42© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_02/un-taglio-serio_1c5507b6-82fb-11e2-839d-17a05d1096bb.shtml
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« Risposta #145 inserito:: Marzo 04, 2013, 07:14:55 pm »

Il dossier

Regione Lazio, quei 18.660 euro investiti in penne Montblanc

Le spese di rappresentanza di Mari Abruzzese. Il taglio (insufficiente) dei rimborsi elettorali e le Regioni «buco nero»


Diciottomilaseicentosessanta euro: una goccia nel mare magno della spesa pubblica. Per dare un'idea, la somma equivale a sei mesi di stipendio di un impiegato statale. Ma perché il presidente di un Consiglio regionale li debba spendere per acquistare 67 penne Montblanc da 278 euro ciascuna, non lo capiremo mai. Così come per i 100 (cento) cesti natalizi costati 21.408 euro. Oppure i 76.791 euro impegnati per un non meglio precisato numero di «agende da tavolo». O ancora i 10.560 investiti in biglietti di auguri: diecimilacinquecentosessanta euro!

Il palazzo della Regione LazioIl palazzo della Regione Lazio
Si chiamano «spese di rappresentanza del presidente del Consiglio regionale» della Regione Lazio. Il suo nome: Mario Abbruzzese. Nel 2011, anno di fallimenti a catena, disoccupazione galoppante, taglio delle pensioni, aumento delle tasse, gli impegni per questa voce hanno toccato, tenetevi forte, un milione 987.092 euro. Venticinque volte il budget concesso al presidente della Repubblica federale tedesca, Paese nel quale il Prodotto interno lordo saliva intanto del 3 per cento: una crescita che qui ci sogniamo da 12 anni.

Questo confronto dice tutto. Non soltanto rende chiaro perché noi, oggi, non siamo la Germania. Spiega l'indignazione popolare che ha catapultato in parlamento le «orde» grilline. Spiega la sordità di certa classe politica alle urla disperate di un Paese dove i giovani non trovano lavoro e gli anziani lo perdono, i consumi calano e le imprese chiudono. Spiega perché oggi quella decisione presa appena sette mesi fa sull'onda degli scandali dei fondi della Margherita e della Lega Nord, cioè il dimezzamento dei rimborsi elettorali, non basta più. Nel Palazzo si è lavorato sperando di rinviare l'inevitabile resa dei conti per troppi anni. Anche durante l'ultimo, di lacrime e sangue. Ricordate com'è finita con l'abolizione delle Province? Sono ancora tutte lì. La riduzione del numero dei parlamentari, qualcuno l'ha vista? E la nuova legge elettorale, qualcuno ha visto anche quella?

Troppi soldi pubblici, troppo arbitrio nel loro uso, troppa poca trasparenza. Lo denunciavano inascoltati già nel 2006, dovrebbe rammentare chi oggi tira in ballo l'antipolitica e il populismo, non i seguaci di Beppe Grillo, ma due parlamentari della sinistra: Cesare Salvi e Massimo Villone, autori de «Il costo della democrazia». Tutto questo ha scavato un solco profondo fra la società e i partiti, che il taglio tardivo dei rimborsi elettorali e l'introduzione, probabilmente altrettanto tardiva, di controlli più stringenti, difficilmente riuscirà a colmare. Anche perché tanti quattrini hanno contribuito al rigonfiamento di apparati che invece avrebbero dovuto dimagrire, mentre la crescita esponenziale delle disponibilità finanziarie ha generato un'esplosione delle spese tale da alimentare un indotto perverso che ormai vive sulla politica. Un esempio? Basta scorrere le notizie sfornate ogni minuto dai giornali su scandali e scaldaletti disseminati in tutte le Regioni italiane, dove si parla di aperitivi «rinforzati» da 1.500 euro e cene a base di sushi da 800 euro per avere una sia pur pallida idea del giro d'affari dei ristoranti.

Si può stimare che in anni d'oro come il 2008, quando diventò operativa una leggina poi fortunatamente abolita con la quale si sono garantiti i contributi anche nel caso di scioglimento anticipato delle Camere, il finanziamento pubblico «reale» dei partiti si aggirasse intorno ai 500 milioni l'anno. Mezzo miliardo, fra rimborsi elettorali (quell'anno 292 milioni), contributi ai gruppi parlamentari (che il referendum del 1993 aveva abolito ma che poi sono inspiegabilmente sopravvissuti), fondi ai gruppi politici regionali e locali, soldi ai giornali di partito, sgravi fiscali, sconti postali...

Senza che nemmeno sia stato raggiunto l'obiettivo per cui il finanziamento pubblico dei partiti fu introdotto: la fine della corruzione. La legge del 1974 fu la risposta allo scandalo dei petroli che coinvolse i partiti allora al governo. In Parlamento tutti, tranne i liberali, concordarono: «finirà il malaffare». Diciotto anni più tardi scoppiava Tangentopoli, e ventuno anni dopo l'arresto di Mario Chiesa, quando il conto dei finanziamenti pubblici incassati in 39 anni considerando anche i contributi alla stampa veleggiava ormai verso i sette miliardi di euro, la Corte dei conti ha ricordato che la corruzione italiana rappresenta il 50 per cento di tutta quella europea.
Lo squarcio aperto dalle vicende degli ultimi mesi sta poi a dimostrare quanto sia diffusa l'idea di considerare il «denaro di tutti come se fosse il denaro di nessuno», per usare l'immagine folgorante di Tommaso Padoa-Schioppa. Con un'indifferenza che lascia sbigottiti. Grazie ai soldi destinati al partito un consigliere regionale sardo ha montato i sensori acustici per la retromarcia sull'auto del figlio. Un suo collega lombardo ha invece acquistato cartucce da caccia. E un consigliere del Friuli-Venezia Giulia, entrato anch'egli in armeria, ha comprato una pistola. Per saperlo c'è voluta la Guardia di Finanza. E passi.

Ma il fatto è che pure per venire a conoscenza di quelle spese di rappresentanza delle quali parlavamo all'inizio è stato necessario l'intervento della Corte dei conti. Nel bilancio ufficiale del Consiglio regionale del Lazio non troverete traccia delle penne Montblanc né dei cesti natalizi. È tutto accorpato in macrovoci. Per quale motivo? Forse perché certe spese sarebbero controllabili, rendendo inevitabili certe domande? Nella lista acquisita dai giudici contabili incaricati di indagare sulle spese del Consiglio sciolto dopo lo scandalo dei 13,9 milioni di fondi ai gruppi politici regionali usati anche per acquistare auto di lusso e pagare conti astronomici in ristoranti di lusso, c'è per esempio una sfilza di contributi ad enti e associazioni locali. Cose del tipo «I love Alatri», «Dorado fishing club», «Tarquinia allegra», «Passione cavallo», «Comitato sagra della bistecca»... Pochi soldi: mille, duemila euro. Sparsi però come una pioggerellina fitta e uniforme su vari collegi elettorali. E poi servizi fotografici, spese per il «buffet del presidente», l'acquisto di «30 piattini» al modico prezzo di 60 euro cadauno... Nonché un investimento librario di 23 mila euro nella stampa di «Cassino e i suoi monumenti»: città natale di Abbruzzese. Al quale, per inciso, la scabrosa vicenda dei finanziamenti ai gruppi consiliari distribuiti dall'ufficio da lui presieduto non ha affatto politicamente nuociuto. Nel tracollo del centrodestra è stato rieletto con 15.469 preferenze. Il popolo è sovrano...

Sergio Rizzo

4 marzo 2013 | 8:50© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://roma.corriere.it/roma/notizie/politica/13_marzo_4/rizzo-taglio-insufficiente-rimborsi-elettorali-2127542972.shtml
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« Risposta #146 inserito:: Aprile 02, 2013, 12:17:42 pm »

Lo stipendio medio è di circa 150 mila euro, 5 volte la paga di un impiegato

Taglio ai costi delle Camere, si gioca tutto sui dipendenti

Sindacati già preoccupati dopo il «richiamo» della Boldrini.

L'ufficio di presidenza discute del taglio di indennità


ROMA - Inutile illudersi: la bacchetta magica non esiste. Intendiamoci, non che siano mancate le buone intenzioni. A parole. Perché per i contribuenti il costo del Parlamento, in 65 anni, non è mai calato. Nel 2013, per la prima volta nella storia, la Camera ha chiesto meno soldi al Tesoro: da 992,8 a 943,6 milioni. Finalmente, direte. Ma si tratta di una cifra pur sempre superiore, e di molto, al costo degli altri Parlamenti europei.

Le uscite correnti di Montecitorio depurate della spesa pensionistica (altrove pagano gli enti di previdenza) sono state pari nel 2010 a 752 milioni, contro 576 del tedesco Bundestag, 498 della britannica House of Commons e 473 della francese Assemblée Nationale. Numeri che stonano di brutto con l'affermazione contenuta nel documento dell'ufficio di presidenza della Camera del 30 gennaio 2012: «I costi complessivi di un deputato italiano risultano in linea con quelli sostenuti per i parlamentari nei principali Paesi europei e nel Parlamento europeo, anzi sono nella maggior parte inferiori». Da allora è passato un anno, ma sembra un secolo.

Mentre annunciava fra le ironie grilline l'autoriduzione dell'indennità di carica del 30%, la presidente della Camera Laura Boldrini ha detto che anche l'amministrazione dovrà tirare la cinghia. «Con l'accordo dei sindacati», ha precisato. Non riuscendo a evitare il panico a Montecitorio, dove le 9 (nove) sigle sindacali sono già sul piede di guerra. Perché è chiaro che se davvero si vogliono ridurre le spese del Parlamento è lì che inevitabilmente si arriva. Le retribuzioni del personale peseranno nel 2013 sul bilancio della Camera, dicono le previsioni, per 231,1 milioni: il che, diviso per le attuali 1.541 buste paga significa uno stipendio medio di 150 mila euro. Parliamo di una somma pari a circa 5 volte la paga media di un dipendente pubblico e quasi il quadruplo rispetto allo stipendio di un dipendente del parlamento inglese, che si aggira sui 40 mila euro annui.

Ma affrontare questo capitolo sarà una rogna non da poco per Laura Boldrini, e soprattutto per i tre nuovi questori. Si tratta dell'ex magistrato antimafia Stefano Dambruoso, eletto con i montiani, del democratico Paolo Fontanelli, ex sindaco di Pisa, e di Gregorio Fontana, uno dei fondatori di Forza Italia. Esperto soprattutto l'ultimo dei tre, unico rieletto. Proprio l'esperienza tuttavia insegna che ogniqualvolta hanno tentato di frenare le retribuzioni del personale, sono stati respinti con perdite. Tanto alla Camera, che al massimo ha limitato qualche automatismo (ma non l'aumento del 3% scattato un paio d'anni fa) quanto al Senato. Dove nel 2008 un tentativo di rallentare la progressione degli stipendi fu in seguito annullato dalla commissione che ha il compito di regolare le controversie con il personale. L'autore, il questore Ds Gianni Nieddu, rimase senza seggio. Della serie: chi tocca i fili muore?

Causa blocco del turnover i dipendenti di Montecitorio sono oggi 400 in meno rispetto al 2003, ma la spesa complessiva non è affatto calata. Come si spiega? Intanto con l'aumento degli stipendi. Poi con l'incremento del numero dei pensionati. E siccome le pensioni dei dipendenti le paga il Parlamento, il risultato non cambia. Nel 2012 la Camera ha speso 238,5 milioni per gli stipendi e 216 per le pensioni: nel 2014 pagherà 232 milioni di stipendi e 226,9 di pensioni. Per una spesa che invece di calare dovrebbe salire da 454,5 a 458,9 milioni. Qualcuno pensa che sia momento di abolire quantomeno la quindicesima mensilità. Ma la cosa è stata liquidata come una battuta di cattivo gusto.

Ecco spiegata la partenza soft . Oggi l'ufficio di presidenza è convocato per discutere il taglio delle indennità aggiuntive e dei contributi ai gruppi parlamentari. Parliamo di una posta di bilancio, quest'ultima, di 35,1 milioni, per cui il preventivo della Camera approvato a settembre scorso prevede nel 2014 una riduzione comica di 100 mila euro. Il tutto con il fucile spianato del vicepresidente (del M5S) Luigi Di Maio, che vuole discutere il piano grillino per ridurre le spese di 42 milioni. Ci sarà da divertirsi.

Di sicuro i tagli non risparmieranno alcuni privilegi inconcepibili: per esempio gli appartamenti di servizio. Che toccavano anche ai questori. Circostanza surreale, quella per cui i deputati incaricati di gestire con oculatezza i soldi di tutti risultavano fra i più privilegiati dell'intero parlamento. Ora tutti, a partire da Laura Boldrini, vi hanno rinunciato, senza che però sia stato ancora decisa la destinazione di quegli alloggi. Questione alquanto problematica. E c'è già chi sostiene che la rinuncia all'appartamento potrebbe far aumentare le spese, invece di abbatterle. Storie già sentite... 

Sergio Rizzo

2 aprile 2013 | 7:31© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/13_aprile_02/taglio-costi--delle-camere-rizzo_1388316e-9b54-11e2-9ea8-0b4b19a52920.shtml
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« Risposta #147 inserito:: Aprile 10, 2013, 06:37:51 pm »

Il commento| la scelta di Mario Abbruzzese come grande elettore nel Lazio

Abbruzzese, dallo scandalo fondi al voto sul Quirinale: Fiorito già dimenticato?

Inimmaginabile che l'ex presidente di quel consiglio regionale dimissionario partecipi all'elezione Presidente

di  SERGIO RIZZO


ROMA - Dopo lo scandalo dei contributi ai gruppi politici del consiglio del Lazio, che ha provocato la caduta della giunta Polverini e la fine anticipata della legislatura regionale, avevamo auspicato che nessuno dei protagonisti, né dei comprimari di quella poco onorevole pagina, venisse ricandidato. Così non è stato. Ma che addirittura l'ex presidente di quel consiglio regionale dimissionario, ovvero il capo dell'ufficio di presidenza nel quale si decideva la ripartizione fra i gruppi di quelle somme all'origine dello scandalo, fosse nominato fra i tre grandi elettori della Regione incaricati di partecipare all'elezione del presidente della Repubblica, rasenta l'inimmaginabile.

Immaginiamo la replica: Mario Abbruzzese non è accusato di alcun reato in relazione a quella vicenda, della quale devono invece rispondere l'ex capogruppo del suo partito, Franco Fiorito, nonché l'ex capogruppo dell'Italia dei Valori, Vincenzo Maruccio. Dunque non c'è alcun ostacolo a che, dopo essere stato rieletto, rappresenti la Regione Lazio nella scelta del successore di Giorgio Napolitano. Quelli del Pdl l'hanno votato in massa.

Vero: Abbruzzese non è parte in causa in quel giudizio. Ma è sul secondo punto che non si può in alcun modo essere d'accordo. Perché un conto è la responsabilità penale, un altro quella politica. Ed è difficile credere che il presidente di un consiglio regionale travolto da una storia come quella possa sfuggire a questo genere di responsabilità.

Potremmo citare innumerevoli casi nei quali chi era a capo di un'istituzione, di fronte a uno scandalo nel quale non aveva colpe dirette, ne ha tratto comunque le conseguenze politiche. Caso di scuola, le dimissioni del portavoce della House of Commons, Michael Martin, quando il prestigio della Camera bassa del Parlamento britannico venne stato messo in serio pericolo dall'episodio delle note spese gonfiate. L'Italia non è la Gran Bretagna, si sa. Infatti Abbruzzese all'epoca dei fatti non si dimise e poi si è anche ricandidato.

Questo è un Paese nel quale per stabilire che una persona condannata, ma soltanto in via definitiva, per un reato grave come la corruzione, e comunque a una pena non inferiore a due anni, non può essere candidato in Parlamento, si è dovuta fare una legge. Una legge! Approvata per giunta con il mal di pancia di mezzo Parlamento. Una legge per stabilire un principio che dovrebbe essere nel dna di tutti i partiti e che comunque spiana la strada della rappresentanza parlamentare ai condannati per reati gravi ma a pene considerate «leggere». All'estero non ci credono...

Impossibile dunque stupirsi se qui non esista sanzione politica, e se quando essa è prevista si tentino tutte le strade possibili per aggirarla. Ma non può certo essere una giustificazione. Non può esserlo in questo caso. Non può esserlo soprattutto nel momento in cui i cittadini chiedono a gran voce cambiamento e recupero di moralità. Quanto accaduto ieri dimostra che purtroppo parlano ai sordi.

10 aprile 2013 | 9:19

da - http://roma.corriere.it/roma/notizie/politica/13_aprile_10/abbruzzese-grande-elettore-212572541180.shtml
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« Risposta #148 inserito:: Maggio 07, 2013, 11:08:39 pm »

NUOVE CARICHE DOPO LA BOCCIATURA

Politici , il nuovo che non avanza

I ripescati dopo il flop elettorale

Dalla Regione Lombardia al governo Letta, il vizio bipartisan di restare sempre in carica


ROMA – Il nuovo che avanza, in Lombardia, ha il volto di Romano Colozzi da Cesena. Sessantatrè anni, è in politica da trentotto. Ha cominciato con la Dc nel consiglio comunale della sua città natale, 1975. Nel 1990 è sbarcato nel consiglio regionale dell’Emilia Romagna, per diventare sei anni dopo consulente di Roberto Formigoni. Da allora è stato la sua ombra più cara, quella che aveva in tasca le chiavi della cassaforte regionale. Assessore al bilancio e alle finanze per due mandati, Colozzi non ha mancato di collezionare anche incarichi nazionali: dall’Unione incremento Razze equine all’Agenzia del farmaco, al cda della Cassa depositi e prestiti. Una volta tramontato il regno di Formigoni poteva forse restare senza uno strapuntino? Eccolo dunque segretario generale del consiglio regionale. E pazienza se non conta come un assessorato: sempre un posto è.

RIPESCATI - Anche Andrea Gibelli, in Lombardia, è il nuovo che avanza. Leghista a quattro ruote motrici, è stato deputato per una decina d’anni, durante i quali ha beccato un paio di cartellini rossi. L’ultimo nel 2007, quando era capogruppo del Carroccio durante una clamorosa protesta in aula contro l’indulto culminata nell’ostensione di un cartello con su scritto: «Governo fuori dalle balle». Governo Prodi, naturalmente. Dopo la Camera, l’approdo nel consiglio regionale e l’ingresso nella giunta, nientemeno che come vice di Formigoni. Alle elezioni politiche di febbraio ha tentato di tornare a Montecitorio ma è stato trombato. Non restava, a quel punto, che sperare in un ripescaggio. Puntualmente arrivato: il successore di Formigoni, Roberto Maroni, suo compagno di partito, l’ha nominato segretario generale della giunta.

UN «VIZIO» BIPARTISAN - Ma dopo le elezioni ripescare è lo sport più praticato in tutti gli schieramenti. Prendete Alessio D’Amato, già consigliere regionale della sinistra per due legislature fino al 2010: il governatore Nicola Zingaretti l’ha messo a capo della cabina di regia per la sanità. Antonio Rosati è invece il nuovo commissario dell’Arsial, l’agenzia di sviluppo dell’agricoltura della Regione. Nella giunta provinciale di Roma guidata da Zingaretti era assessore: al Bilancio. C’è poi chi dalla Regione Lazio, seguendo il modello lombardo, non si è mai mosso. Per esempio Roberto Buonasorte, ex componente del consiglio azzerato dallo scandalo di Batman & co di cui presiedeva la commissione urbanistica. Esperto del ramo, in quanto titolare di una piccola impresa di costruzioni. Il suo partito, la Destra, l’aveva candidato al Senato: ma nonostante il cognome ben augurale è stato trombato. Ora farà il capo della segreteria dell’ex governatore Francesco Storace. Meglio che a spasso: paga sempre la Regione.

NEL GOVERNO - Sorte decisamente migliore ha avuto Sabrina De Camillis. E dire che per lei s’era messa proprio male. Candidata alla Camera in Molise per il Pdl, non ce l’ha fatta per uno strano scherzo del destino: il seggio che doveva occupare è andato a un eletto dell’Umbria. Non ha abbozzato, scatenando una tempesta di ricorsi. Prima di essere recuperata, a sorpresa, addirittura nel governo di Enrico Letta. Sottosegretaria alla presidenza del Consiglio delegata ai Rapporti con il parlamento, nientemeno. Difficile che possa recriminare.

FEDELI E FEDELISSIME - L’ex senatore pidiellino Giampaolo Bettamio ha invece tutte le ragioni per lamentarsi. Dopo che Franco Carraro gli aveva soffiato il seggio, poteva almeno aspirare a essere riciclato in Senato come direttore «esterno»del gruppo del Pdl. Ma è andata male. Il nuovo capogruppo Renato Schifani ha preferito puntare sulla continuità garantita dalle sue fedelissime. Come Daniela Lucentini, preziosa contabile di fiducia, sotto la sua precedente presidenza, prima del gruppo di Forza Italia quindi del Pdl. E Annamaria Palma, sua ex capo di gabinetto da presidente del Senato, incidentalmente consorte dell’ex sottosegretario alla Salute Adelfio Elio Cardinale. E la fidatissima segretaria personale Letizia Cicinelli, incidentalmente compagna dell’ex sottosegretario, ex dirigente di palazzo Madama ed ex senatore, nonché attuale presidente della Consob Giuseppe Vegas. E l’ascoltatissima consulente per la comunicazione culturale Tiziana Ferrari, cittadina svizzera. E l’esperta delle relazioni esterne Alessandra Necci, scrittrice e figlia dell’ex capo delle Ferrovie Lorenzo Necci. Alla sua vice Simona Vicari, invece, dovrà probabilmente rinunciare: è entrata anche lei nella squadra di governo, come sottosegretario allo Sviluppo, ministero competente per l’energia. Al Senato la senatrice del Pdl era stata collocata dal presidente Schifani alla guida del comitato per il risparmio energetico.

Sergio Rizzo

6 maggio 2013 (modifica il 7 maggio 2013)© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_maggio_06/elezioni-regioni-politici-ripescati_fd245aea-b66c-11e2-9456-8f00d48981dc.shtml
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« Risposta #149 inserito:: Maggio 27, 2013, 04:37:11 pm »

La storia

Il consorzio di costruttori Eurolink ha già chiesto risarcimenti per 700 milioni

La maxifattura per il ponte che non ci sarà mai

Con i contenziosi internazionali costi di almeno un miliardo per l'opera sullo Stretto di Messina


ROMA - Correva l'anno 1980: l'Italia era sconvolta dalle stragi di Ustica e di Bologna e New York dall'assassinio di John Lennon, mentre a Danzica nasceva Solidarnosc e Ronald Reagan entrava alla Casa Bianca. La Sir di Nino Rovelli, detto il Clark Gable della Brianza, finiva in liquidazione e la società Stretto di Messina non era neppure in fasce. Trentatré anni dopo anche la concessionaria del ponte subisce la medesima sorte. E la liquidazione della Sir va avanti.

Due casi certo non paragonabili. Ma con la durata delle liquidazioni in questo Paese l'unica cosa che non deve temere Vincenzo Fortunato è di doversi cercare un'altra occupazione da qui alla pensione. L'ex capo di gabinetto del ministero dell'Economia è stato nominato liquidatore della Stretto di Messina, società controllata dall'Anas e fino a ieri incaricata di realizzare il ponte sospeso fra Scilla e Cariddi, il 22 aprile: sei giorni prima che il governo di Mario Monti uscisse definitivamente di scena. Consapevole che passerà alla storia.
La vicenda del ponte sullo stretto è senza precedenti e, confidiamo, irripetibile. Da qualunque punto di vista la si osservi, tanto da quello dei favorevoli quanto da quello dei contrari, il risultato è lo stesso. Si tratta di una sconcertante dimostrazione di superficialità, incapacità decisionale e dilettantismo politico. Quello che è peggio, con i soldi dei cittadini. Il conto di questa insensata avventura raggiungerà cifre inimmaginabili. Il ponte che non sarà mai fatto potrà costare ai contribuenti anche più di un miliardo di euro. Ai 383 milioni spesi per il progetto e il mantenimento della società Stretto di Messina si deve aggiungere il costo dell'inevitabile contenzioso, che potrebbe avere sviluppi sorprendenti. Il consorzio Eurolink, general contractor dell'opera guidato dalla italiana Impregilo, ha già invocato un risarcimento danni di 700 milioni più gli interessi.

E le implicazioni internazionali? Per un Paese nel quale gli investimenti esteri già arrivano con il contagocce, quanto accaduto non è una gran pubblicità. Di certo non la potranno fare i partner esteri del consorzio Eurolink, la spagnola Sacyr e la giapponese Ishikawajima-Harima Heavy Industries. Rimaste letteralmente di sasso, a veder evaporare per una pillola avvelenata messa in una legge dal governo italiano un contratto da alcuni miliardi di euro firmato con il governo italiano. Gli spagnoli hanno espresso il loro disappunto tramite l'ambasciata, non prima di aver presentato un bel ricorso all'Unione Europea.
È stata raccontata mille volte la lunga storia del ponte, insieme alle promesse, spesso fatue, di politici di ogni colore che l'hanno accompagnata. Ma con l'ultimo capitolo si è andati ben oltre. Eurolink firma il contratto nel 2006: premier è Silvio Berlusconi, ma siamo alla vigilia del ritorno al governo di Romano Prodi. Che blocca tutto. La Stretto di Messina vede la liquidazione ma il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro si oppone. Dice che si rischia un contenzioso infinito e spedisce alla concessionaria una lettera nella quale indica che il personale dovrà essere ridotto al lumicino. Sette persone in tutto. Nel 2008 ecco ancora il Cavaliere e il successore di Di Pietro, Altero Matteoli, scrive alla società: «Ripartiamo di corsa». Ci sono i soldi e i tecnici si rimettono al lavoro. Il progetto definitivo è pronto a dicembre 2010, senza un giorno di ritardo rispetto alla tabella di marcia. A quel punto, però, succede qualcosa. Le trattative con gli enti locali e i lavori preparatori procedono, è vero. Ma uno strano disinteresse intorno a quell'opera si percepisce anche nel governo del Cavaliere. I segnali sono inequivocabili: si arriva al punto che una trattativa con i cinesi viene lasciata inspiegabilmente cadere.

La mazzata arriva a ottobre 2011 con una mozione dei dipietristi che chiede di sopprimere i finanziamenti pubblici. Inspiegabilmente passa con 284 favorevoli e un solo contrario. Oltre allo scontato sì dei leghisti, c'è anche quello del governo per il tramite del sottosegretario Aurelio Misiti, poi sconfessato dal ministro Matteoli. Il quale evidentemente non sa che i suoi parlamentari si sono astenuti in massa, ma qualcuno ha anche votato a favore. Per esempio, il coordinatore del Pdl Denis Verdini, i ministri Mariastella Gelmini e Michela Vittoria Brambilla, nonché uno stuolo di sottosegretari. Arriva il governo di Mario Monti e la faccenda si trascina stancamente, insieme a una nuova valutazione d'impatto ambientale richiesta dal ministero competente che durerà ben 18 mesi, contro i 4 previsti dalla legge obiettivo. Uscirà dai cassetti a marzo 2013, quando i giochi ormai sono fatti.

Perché nel frattempo, il 2 novembre 2012, ricorrenza dei morti, spunta un decreto che ridefinisce il percorso di approvazione dell'opera, stabilendo che entro il primo marzo 2013 il general contractor sottoscriva un altro cosiddetto «atto aggiuntivo» impegnandosi con quello a rinunciare agli adeguamenti economici legati all'inflazione fino alla delibera definitiva del Cipe e anche a eventuali risarcimenti nel caso in cui l'opera venga cassata. Con lo Stato pronto a riconoscere, in caso di mancata firma, soltanto i costi progettuali maggiorati del 10 per cento. Il 12 novembre Eurolink contesta per iscritto la legittimità del decreto, comunicando di voler recedere dal contratto. E partono le carte bollate.
La vera domanda da porsi dopo tutto questo? Se, indipendentemente dal tempo e dai soldi necessari, il nostro Paese sia ancora in grado di realizzare opere pubbliche tanto impegnative. Quesito ben più importante di quello che per decenni ha diviso l'Italia. Cioè se quel ponte si debba fare oppure no.

Sergio Rizzo

26 maggio 2013 | 9:49© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/13_maggio_26/maxifattura-per-ponte-stretto-messina-rizzo_210f3972-c5cf-11e2-91df-63d1aefa93a2.shtml
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