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Autore Discussione: SERGIO RIZZO  (Letto 135849 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Settembre 14, 2012, 10:24:02 pm »

SPRECHI DELLA POLITICA

Sedi e convegni: le folli spese del Lazio

Contributi pubblici più alti che alla Camera

Lo scorso anno il bilancio del Consiglio regionale invece di diminuire è aumentato di sei milioni, un aumento del 7%

di  SERGIO RIZZO



ROMA - La targa sopra il portone dice: «Carlo Goldoni, padre immortale della italiana commedia, dimorò in questa casa». Se avesse saputo cosa sarebbe accaduto fra quelle mura due secoli e mezzo dopo, il celebre drammaturgo veneziano vi avrebbe magari ambientato un atto unico. Protagonista: il solito Pantalone. Perché chi paga la ristrutturazione di un appartamento signorile della Regione Lazio nello stabile di largo Goldoni 47 all'angolo con via dei Condotti, a Roma, è sempre lui. Cioè noi. I condomini, dopo aver sventato il tentativo di piazzare tappeto rosso e palmizi stile Sanremo all'ingresso dopo l'avvenuta trasformazione in elegante «ufficio del centro» dell'ex ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo di un secondo alloggio regionale nel palazzo, paventano che i lavori siano il preludio per l'apertura di un'altra sede di rappresentanza ancora. Stavolta, della governatrice Renata Polverini.

Fosse così, saremmo davvero alla commedia. Non soltanto perché quell'appartamento proviene da un antico lascito per opere di bene al Santo Spirito. Soprattutto perché a poca distanza, in via Poli, c'era già un ufficio «di rappresentanza» del consiglio regionale. Era stato affittato da Sergio Scarpellini, il proprietario dei palazzi affittati alla Camera e al Senato, al tempo della giunta di Francesco Storace e due anni fa si era deciso di rescindere il contratto: 320 mila euro l'anno. Una spesa demenziale, visto che il consiglio regionale del Lazio, come del resto la giunta, ha una più che confortevole sede a Roma. Chiudere quell'ufficio era il minimo. Peccato soltanto, lamenta Scarpellini nella causa civile intentata contro la decisione, che la rescissione sia avvenuta oltre i termini. E se il tribunale dovesse accogliere la tesi sarebbero dolori: 700 mila euro. Più la parcella del legale. Un avvocato esterno, ovvio.

Ma ce ne fossero di rogne così, con l'aria che tira oggi dalle parti della Pisana. La storia incredibile dei finanziamenti pubblici ai gruppi consiliari innescata dai Radicali con la meritoria pubblicazione sul loro sito internet del bilancio 2011, è ormai una palla sempre più grossa che rotola a valle. Inarrestabile e minacciosa, come dimostra l'inchiesta per peculato che si è abbattuta sull'ex capogruppo del Pdl Franco Fiorito. Ma non servivano certo le cravatte di Marinella, le cene a base di ostriche, le bottiglie di champagne, i servizi fotografici, i Suv, né le altre spese sfrontate che hanno inghiottito i lauti contributi al partito di Silvio Berlusconi e sulle quali ora indaga la magistratura, per capire che si era passato il segno. E non era nemmeno necessario guardare, come molti fanno oggi con ipocrita stupore, quella cifra rivelata dai radicali, il cui gruppo composto da due persone, Giuseppe Rossodivita e Rocco Berardo, ha incassato nel solo 2011 ben 422 mila euro. Il quadruplo, in proporzione, dei soldi che la Camera dei deputati stanzia per i gruppi parlamentari.

Era sufficiente, diciamo la verità, controllare i bonifici che arrivavano di volta in volta sul conto corrente. Per questo fanno sorridere oggi tanto il decalogo sui tagli dei costi della politica proposto dal consigliere udc Rodolfo Gigli quanto dichiarazioni come quelle del capogruppo del Pd Esterino Montino, che annuncia un tour de force per «ridurre le spese della giunta e del consiglio». Mentre alcune misure che avrebbero introdotto l'unico antidoto valido alla dissipazione di denaro pubblico, vale a dire la trasparenza, sono finite su un binario morto. È il caso della legge sull'anagrafe degli eletti e dei nominati, proposta sempre dai Radicali nel 2010 e arenata in qualche cassetto di qualche commissione.

Ai gruppi finiscono cifre inimmaginabili. Tanti soldi che non si sa nemmeno come spenderli. Basta dare un'occhiata ai due bilanci dei gruppi finora resi noti: oltre a quello dei Radicali, quello del Partito democratico. Il gruppo del Pd ha incassato nel 2011 la bellezza di 2 milioni 17.946 euro. Che divisi per i 14 componenti fa oltre 144 mila euro pro capite: quasi il triplo dei contribuiti erogati da Montecitorio. Inutile allora stupirsi che i democratici spendano 210.207 euro (!) per «riunioni, convegni, conferenze, incontri», 622.083 euro (!!) per i collaboratori e 738.863 euro (!!!) per «diffusione attività del gruppo, stampa manifesti». E nonostante questo ci sono ancora in cassa 304 mila euro.

Invece ai Radicali, che con i contributi al gruppo ci hanno pagato anche un convegno sui diritti civili a Tirana oltre ai congressi del partito a Chianciano e a Roma, sono avanzati 270 mila euro. Così da pensare che si possa ripetere la scena del ferragosto 1997, quando Marco Pannella in piazza del Campidoglio restituì i denari del finanziamento pubblico regalando 50 mila lire a chi mostrava un documento.

Tanti soldi, che contribuiscono ad alimentare una macchina completamente impazzita. Basta dire che nessuno sa dire con esattezza quanta gente gira intorno al consiglio regionale. Lo scorso anno i dipendenti ufficialmente presenti in quella struttura erano 786. I collaboratori dei gruppi, 180. Le persone addette alle segreterie dell'ufficio di presidenza, 87. Quelle delle segreterie delle commissioni, 71. Ma è niente in confronto alle poltrone che danno diritto a chi le occupa di incassare un'indennità aggiuntiva rispetto a una retribuzione base minima di 7.211 euro netti al mese. Sono un'ottantina, decisamente più numerose dei 70 consiglieri. Ci sono 17 gruppi consiliari, otto dei quali composti da una sola persona. Fra commissioni e giunte se ne contano 21. Le sole commissioni permanenti sono sedici: due più della Camera, che ha però 630 deputati. Alcune, a dir poco stravaganti. C'è per esempio la commissione Affari comunitari e internazionali, presieduta da Gilberto Casciani della Lista Polverini: nel 2012 si è riunita quattro volte. E poi la commissione Piccola impresa che fa il paio con la commissione Sviluppo economico. Oppure la commissione Lavori pubblici, più la commissione Urbanistica, più la commissione Ambiente. Quest'ultima, però, si occupa pure, chissà in base a quale criterio, della «cooperazione tra i popoli». Avete letto bene: «cooperazione tra i popoli».

Non rammentiamo più quante volte hanno promesso che le avrebbero ridotte. Ricordiamo invece bene le affermazioni rese dal presidente del consiglio Mario Abbruzzese il 22 dicembre 2011: «Quest'anno chiudiamo il bilancio con circa sei milioni di risparmi rispetto al 2010. Dà il senso della strada che abbiamo intrapreso». Il consuntivo dell'anno scorso, ancora non approvato, parla di impegni di spesa per 103 milioni 529.311 euro. Mezzo milione oltre le previsioni iniziali e ben sei milioni 772.701 euro in più nei confronti del 2010. L'aumento è del 7 per cento. Se questa è la strada...

Sergio Rizzo

14 settembre 2012 | 10:56© RIPRODUZIONE RISERVATA

http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/12_settembre_14/finanziamenti-pubblici-spese-folli-lazio-rizzo-2111814718103.shtml
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« Risposta #121 inserito:: Settembre 16, 2012, 04:25:33 pm »

IL CASO DEL CONSIGLIO DEL LAZIO

Piccoli faraoni in nota spese

Negli altri Paesi funziona in questo modo: davanti a un fatto che mette in discussione la credibilità delle istituzioni se ne traggono le conseguenze. Quando lo scandalo delle note spese gonfiate ha scosso il prestigio del Parlamento britannico, lo speaker della House of Commons, Michael Martin, figura corrispondente al nostro presidente della Camera, si è dimesso. Nonostante nei suoi confronti non esistesse alcun addebito specifico, ha ugualmente ritenuto di assumersi la responsabilità oggettiva. Ha pagato per tutti. E nessuno l’ha trattenuto.

In sedicesimi, la squallida vicenda che ha investito il consiglio regionale del Lazio, con la rivelazione che i faraonici fondi destinati ai gruppi politici venivano dirottati su conti personali o utilizzati per pagare cene a base di ostriche e champagne o book fotografici, ricorda quella storia. Quanto però a trarne le conseguenze, siamo ancora ben lontani. Dodici ore non sono bastate ai vertici del Popolo della libertà per indurre il loro capogruppo Franco Fiorito, indagato per peculato dopo la scoperta di 109 bonifici bancari fatti a se stesso dal conto del partito sul quale affluivano i soldi dei contribuenti, a sollevare dall’imbarazzo l’istituzione di cui fa ancora parte (e vedremo come si comporteranno gli altri partiti, compreso il Pd). Tanto basta per rafforzare la convinzione che non soltanto non verrà imitato l’esempio britannico, ma nemmeno quello tedesco.

Il ministro della Difesa Karl-Theodor Zu Guttenberg, astro nascente del partito della cancelliera Angela Merkel, si è dimesso per aver copiato parte della tesi di dottorato. Il presidente della Repubblica federale tedesca, Christian Wulff, ha rimesso il mandato dopo le polemiche su un prestito di favore avuto da un suo amico banchiere. E anni prima il ministro dell’Economia del Land di Berlino, Gregor Gysi, aveva gettato la spugna insieme ad altri suoi colleghi del Bundestag per aver utilizzato per biglietti aerei personali i punti mille miglia accumulati con i voli istituzionali. Perché in Germania, e non solo, le conclusioni si traggono anche a livello individuale, e per molto meno rispetto a quello che è successo al consiglio regionale del Lazio. Da noi, invece, non si arrossisce neppure.

Principio sconosciuto, a certi nostri politici, quello secondo il quale l’istituto delle dimissioni fa parte della democrazia, e la rafforza: chi sbaglia paga, è la regola universale, Italia esclusa. Sconosciuto soprattutto a chi interpreta la politica come un mestiere nel quale l’obiettivo principale è il denaro, da raggiungere con qualunque mezzo. Ce ne sono tanti, di personaggi così, purtroppo, nelle Regioni, nelle Province, perfino nei Comuni. Lontano dai riflettori, puntati sempre sui costi e i privilegi del Parlamento, sono proliferate piccole Caste locali. Spregiudicate e fameliche, hanno responsabilità gravi: quella di aver ridotto la politica, nel punto in cui dovrebbe essere più vicina ai cittadini e ai loro problemi concreti, alla gestione di interessi personali quando non di veri e propri comitati d’affari.

Ma ancora più pesanti sono le colpe dei partiti, che hanno assecondato per pure convenienze elettorali la formazione di una classe politica locale spesso indecente, girandosi dall’altra parte per non vedere. Tanto la situazione è compromessa che servirebbe ora un repulisti radicale. Il fatto è che dovrebbero farlo gli stessi partiti. Non resta che augurarci buona fortuna.

Sergio Rizzo

15 settembre 2012 | 13:17© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_15/rizzo-piccoli-faraoni-nota-spese_c186aeb0-fef3-11e1-ac8a-69b762be71b6.shtml
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« Risposta #122 inserito:: Settembre 20, 2012, 04:56:24 pm »

L'EDITORIALE

Polverini, se la minaccia di dimissioni diventa una inutile sceneggiata

Renata mostra i denti ai colleghi del Pdl: «Andiamo tutti a casa».

Poi però il tormentone dell'addio finisce nel solito teatrino, mentre la Regione Lazio affonda nel fango

ROMA - C'è da chiedersi se ciò a cui i cittadini italiani stanno assistendo ormai da giorni sia una cosa seria o la solita sceneggiata. Dopo aver fatto sapere di essere pronta a dimettersi, Renata Polverini si presenta nel consiglio regionale del Lazio mostrando i denti. Formula una minaccia spaventosa: «Andiamo tutti a casa, oggi».

A quel punto ti aspetti di veder rotolare qualche testa. Almeno quella di qualche responsabile delle ruberie dei soldi pubblici ai gruppi politici regionali. Niente. Passa la linea che si prosciuga il fondo dal quale si rubava e si tira la cinghia di qua e di là. Tutti contenti di essere ancora tutti interi e si va davvero a casa, ma per cena. Il giorno dopo bisognerebbe cominciare a maneggiare le forbici. Invece nemmeno quello: qualcuno si dev'essere fatto i conti di quanto ci rimetterebbe e parte una indecente melina per salvare il salvabile.

La governatrice è fuori di sé. Lancia l'anatema: «Nel Pdl ci sono troppe mele marce». E ricomincia il tormentone delle dimissioni. Non le ha date il presidente del consiglio regionale, non le ha date il capogruppo del partito, non le ha date nemmeno il monumentale Franco Fiorito, quello dei 109 bonifici a se stesso con i soldi nostri, allora le darà lei. Per dimostrare di essere proprio determinata, va dal ministro dell'Interno Anna Maria Cancellieri. Le agenzie riportano che ha chiesto quando si può tornare a votare.

Gira voce che gli assessori siano già in lutto, avendo avuto la comunicazione che la giunta è caduta. Gira voce che per prendere ispirazione Renata Polverini abbia chiesto di leggere la lettera di dimissioni di Piero Marrazzo. Gira voce di una conferenza stampa alle 18, poi alle 18,30, poi più niente. Arrivano le smentite: sono tutte voci, solo voci.

La governatrice viene data in partenza per Palazzo Grazioli, dov'è in programma il confronto risolutivo con l'azionista di maggioranza, Silvio Berlusconi. Vertice in serata, riferiscono le agenzie. Ci risiamo: il solito stucchevole teatrino della politica mentre la Regione affonda nel fango. E avevano giurato che non l'avremmo più visto. Questa proprio non è una cosa seria. Le dimissioni sono una cosa seria. Soltanto le dimissioni: ma quelle vere.

Sergio Rizzo

20 settembre 2012 | 7:58© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://roma.corriere.it/roma/notizie/politica/12_settembre_20/rizzo-polverini-sceneggiate-2111892972637.shtml
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« Risposta #123 inserito:: Ottobre 02, 2012, 11:31:05 am »

In passato il Lazio pagò per mandare in orbita sulla Soyuz i cibi locali «Ambasciate»

Super viaggi in Indonesia e Australia

Le «missioni» all'estero delle Regioni

A Bruxelles ogni Regione e le due Province autonome di Trento e Bolzano hanno sedi di rappresentanza


Si poteva forse non ricambiare la visita della delegazione dei governatori delle Regioni indonesiane? Il sacrificio è toccato al vicepresidente del consiglio regionale del Lazio Raffaele D'Ambrosio, decano dell'Udc, che alla fine di aprile ha dovuto imbarcarsi su un aereo e andare a Giacarta. Questo il resoconto dell'impegnativa missione: «Nel corso della visita è stato ricevuto dal sultano di Ternate Mudaffar Sjiah e da altre autorità del luogo. Il vicepresidente ha incontrato anche il maraja Raja Agung e al termine della sua visita è stato ricevuto a Giacarta dal viceambasciatore Mario Alberto Bartoli con il quale si è intrattenuto a colloquio». Stop.

Dure incombenze della politica. Da quando le Regioni hanno deciso che fanno anche loro politica estera è un via vai continuo. D'Ambrosio vola in Indonesia? Isabella Rauti, consigliera pidiellina della Regione Lazio, va in Libano per incontrare la giornalista Jocelyne Khoueiry, esponente dei movimenti laici e la parlamentare Sethrida Geagea, impegnata a combattere la violenza sulle donne. Mentre il direttore generale dell'assessorato al Lavoro della Regione Sardegna Massimo Temussi partecipa con Fabio Meloni, addetto stampa dell'assessore all'emigrazione/immigrazione Antonello Liori, «impossibilitato a partecipare» come si premura di farci sapere l'agenzia Ansa (!!!), a una visita-incontro con i sardi residenti in Australia. E il consigliere regionale della Calabria ex nazional alleato Alfonsino Grillo parte alla volta di Montreal per un vertice con la Federazione calabro-canadesi Est Canada. Né Orfeo Goracci, presidente del consiglio regionale umbro dell'emigrazione, può rinunciare a una missione della Regione, sempre in Canada, però a Toronto: per incontrare gli emigrati umbri.

Ma quanto ad attività diplomatico-commerciale la Regione di Grillo non la batte proprio nessuno. Giugno 2011, Ucraina: Kiev, Donetsk e Mariupol. Febbraio 2012: Brasile, con l'assessore all'Internazionalizzazione Fabrizio Capua. Maggio 2012: Australia, con il nuovo assessore all'Internazionalizzazione, Luigi Fedele. Luglio 2012: Russia, sempre con il medesimo Fedele. Obiettivo, invadere il mondo di squisitezze agroalimentari calabresi. Gettonatissima, l'Australia. Basta dire che a febbraio di quest'anno, prima della delegazione della Calabria, ne sono arrivate ben due della Regione Puglia, per promuovere anche le loro golosità.

Ma si tratta di semplici dilettanti, in confronto a Francesco Storace. Quando c'era lui a governare la Regione Lazio, i prodotti tipici regionali uscivano dall'atmosfera terrestre, altro che Australia. Non ci credete? Ansa del 5 ottobre 2004: «La Regione Lazio andrà nello spazio in una missione congiunta che porterà in orbita la navicella Soyuz con a bordo il cosmonauta viterbese Roberto Vittori. Oltre a finanziare parte della missione, la Regione Lazio metterà a disposizione lo spazio a bordo per alcuni esperimenti scientifici nella ricerca di base, alimentare e medica». Che genere di esperimenti? Ansa del 13 aprile 2005, vigilia del decollo: «Vittori e i suoi colleghi sperimenteranno poi in orbita i cibi tipici del Lazio, con il vassoio progettato per la dieta degli astronauti e basato su prodotti come ricotta, olive di Gaeta, tozzetti di Viterbo, miele di acacia, caciottina di bufala e pecorino della Sabina». Buon appetito, assenza di gravità permettendo.

Non dite che erano soldi buttati. Certo, ci sarebbe da chiedersi perché proprio la Regione Lazio abbia dovuto contribuire al finanziamento di una missione spaziale. Anche se conosciamo la ragione: il cosmonauta viterbese. Ma quanto a utilità per i cittadini che forse dalla Regione si aspettano altre cose, c'è poi così tanta differenza con certe missioni? Memorabile la spedizione della Campania a New York per il Columbus day, con sfilata sulla Quinta strada. Conto finale: 680 mila euro. Altrettanto indimenticabile l'inaugurazione della sede della stessa Regione Campania a Manhattan, che costava di solo affitto un milione 140 mila euro l'anno. A quale scopo se lo chiese nell'autunno del 2005 Sandra Lonardo (la consorte di Clemente Mastella) che era allora presidente del consiglio regionale, visitando una struttura il cui responsabile, parole sue, «viene solo alcuni giorni ogni mese» e per la quale venivano pagati tre addetti il cui compito consisteva, allo scopo di promuovere l'immagine della Campania, nell'organizzare eventi ai quali non soltanto non partecipava «alcun esponente americano», ma nessuno «che parlasse inglese». Alla faccia.

Vogliamo parlare delle ambasciate? Un paio d'anni fa il ministero dell'Economia, c'era ancora Giulio Tremonti, ha contato 178 fra «antenne», uffici o vere e proprie sedi estere. A Bruxelles ogni Regione ha la sua. Sono ventuno, considerando le due Province autonome di Trento e Bolzano. E non sono certamente gratis. Esempi? La Regione siciliana ha acquistato tre anni fa una nuova sede di rappresentanza di 650 metri quadrati, pagando 2 milioni 600 mila euro: un bel risparmio, considerando che prima spendeva 300 mila euro l'anno di affitto. Per il suo ufficio la Regione Veneto ha speso ancora di più: 3 milioni 600 mila.

Ma a che cosa servono tutte quelle sedi? Fra chi se lo è sempre chiesto c'è Paola Brianti, che nella scorsa legislatura era presidente della commissione per gli Affari comunitari del consiglio laziale. In una lettera spedita al Corriere un paio d'anni fa ha spiegato che s'era messa in testa di approfondire la motivazione in base a cui la Regione doveva spendere 2 milioni l'anno per mantenere un ufficio con otto-persone-otto a Bruxelles che costano solo di stipendi 900 mila euro l'anno. Senza però giungere mai a capo della questione: «Chiamata in audizione presso la mia commissione, la direttrice dell'ufficio si risolse a venire dopo innumerevoli richiami ma nel corso della seduta non riuscì a illustrare efficacemente la presenza a Bruxelles di quel nostro ufficio e si limitò a presentare le sue lamentele al presidente della Regione (Piero Marrazzo, ndr ) per il disturbo che le era stato arrecato». La direttrice era Cinzia Felci, collocata da Storace a capo di quell'ufficio e poi confermata da Marrazzo. Rientrata a Roma, ha avuto un incarico direttivo dalla giunta di Renata Polverini che le dà diritto a 155 mila euro annui.

Sergio Rizzo

2 ottobre 2012 | 8:25© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_ottobre_02/viaggi-indonesia-regioni-australia_fc2ec228-0c4f-11e2-a61b-cf706c012f27.shtml
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« Risposta #124 inserito:: Ottobre 23, 2012, 06:00:34 pm »

I dubbi, le conseguenze


Abbiamo capito perché la commissione Grandi rischi si chiama così. I Grandi rischi sono quelli che corrono i suoi componenti, come si deduce dalla sentenza che li ha condannati a sei anni di prigione per non aver previsto il devastante terremoto dell'Abruzzo. Qui non è in discussione il merito della decisione dei giudici, a proposito della quale va comunque ricordato che non esiste alcun precedente a livello mondiale. Ma le conseguenze di una tanto singolare interpretazione del concetto di giustizia non possono essere taciute.

La più immediata è la delegittimazione della stessa commissione Grandi rischi, che stando a quella sentenza sarebbe formata da incompetenti assoluti. La più evidente è invece lo sconcerto planetario suscitato dalla notizia che in Italia esperti considerati responsabili della mancata previsione di un terremoto, a differenza dei loro colleghi giapponesi o americani che a casa loro non hanno evidentemente saputo fare di meglio, vengono spediti in galera per omicidio. La più preoccupante, tuttavia, è che d'ora in poi non ci sarà uno scienziato disposto a far parte di quella commissione, sapendo di poter andare incontro a pesantissime condanne penali per non aver indovinato il verificarsi di una scossa catastrofica.

Sanzioni che invece non hanno mai neppure sfiorato i veri responsabili dei disastri. Per esempio, certi amministratori che non si sono accorti di palazzine spuntate come funghi nei letti dei fiumi. Per esempio, i politici nazionali che pensando soltanto al consenso hanno approvato tre condoni edilizi, e quelli locali che ne hanno promessi decine, alimentando così la piaga dell'abusivismo: ben sapendo come in un Paese fragilissimo si sarebbero condonate milioni di costruzioni prive di qualunque precauzione asismica. Per esempio, gli autori di piani regolatori sconsiderati che hanno consentito all'Italia di conseguire il deprecabile record nel consumo del suolo, in molti casi senza nemmeno verifiche geologiche accurate né prescrizioni di elementari prudenze costruttive. Non ci dice forse questo l'ultimo terribile, e già dimenticato, terremoto dell'Emilia-Romagna e della Lombardia con la strage dei capannoni industriali?

Per riparare ai danni di tutti gli eventi sismici che si sono susseguiti dal 1968 al 2003, non considerando quindi le tragedie dell'ultimo decennio, abbiamo speso l'equivalente di 162 miliardi di euro. Senza calcolare ovviamente le vite umane: quelle non hanno prezzo. Avendo più cura per l'ambiente e il modo di costruire, forse, non si sarebbe potuto evitare tutto questo. Ma buona parte sì. Secondo i tecnici sarebbero stati sufficienti fra i 25 e i 41 miliardi per mettere in sicurezza sismica il patrimonio edilizio. Risparmiando tanto dolore.
E di una cosa almeno siamo sicuri. Se non è stato fatto, non è per colpa di scienziati incapaci di prevedere i terremoti.

Sergio Rizzo

23 ottobre 2012 | 8:46© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_23/i-dubbi-le-conseguenze-sergio-rizzo_e0ecae0a-1cce-11e2-99b8-aac0ed15c6ac.shtml
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« Risposta #125 inserito:: Ottobre 27, 2012, 05:38:37 pm »

I dubbi, le conseguenze

Abbiamo capito perché la commissione Grandi rischi si chiama così. I Grandi rischi sono quelli che corrono i suoi componenti, come si deduce dalla sentenza che li ha condannati a sei anni di prigione per non aver previsto il devastante terremoto dell'Abruzzo. Qui non è in discussione il merito della decisione dei giudici, a proposito della quale va comunque ricordato che non esiste alcun precedente a livello mondiale. Ma le conseguenze di una tanto singolare interpretazione del concetto di giustizia non possono essere taciute.
La più immediata è la delegittimazione della stessa commissione Grandi rischi, che stando a quella sentenza sarebbe formata da incompetenti assoluti. La più evidente è invece lo sconcerto planetario suscitato dalla notizia che in Italia esperti considerati responsabili della mancata previsione di un terremoto, a differenza dei loro colleghi giapponesi o americani che a casa loro non hanno evidentemente saputo fare di meglio, vengono spediti in galera per omicidio. La più preoccupante, tuttavia, è che d'ora in poi non ci sarà uno scienziato disposto a far parte di quella commissione, sapendo di poter andare incontro a pesantissime condanne penali per non aver indovinato il verificarsi di una scossa catastrofica.
Sanzioni che invece non hanno mai neppure sfiorato i veri responsabili dei disastri. Per esempio, certi amministratori che non si sono accorti di palazzine spuntate come funghi nei letti dei fiumi. Per esempio, i politici nazionali che pensando soltanto al consenso hanno approvato tre condoni edilizi, e quelli locali che ne hanno promessi decine, alimentando così la piaga dell'abusivismo: ben sapendo come in un Paese fragilissimo si sarebbero condonate milioni di costruzioni prive di qualunque precauzione asismica. Per esempio, gli autori di piani regolatori sconsiderati che hanno consentito all'Italia di conseguire il deprecabile record nel consumo del suolo, in molti casi senza nemmeno verifiche geologiche accurate né prescrizioni di elementari prudenze costruttive. Non ci dice forse questo l'ultimo terribile, e già dimenticato, terremoto dell'Emilia-Romagna e della Lombardia con la strage dei capannoni industriali?
Per riparare ai danni di tutti gli eventi sismici che si sono susseguiti dal 1968 al 2003, non considerando quindi le tragedie dell'ultimo decennio, abbiamo speso l'equivalente di 162 miliardi di euro. Senza calcolare ovviamente le vite umane: quelle non hanno prezzo. Avendo più cura per l'ambiente e il modo di costruire, forse, non si sarebbe potuto evitare tutto questo. Ma buona parte sì. Secondo i tecnici sarebbero stati sufficienti fra i 25 e i 41 miliardi per mettere in sicurezza sismica il patrimonio edilizio. Risparmiando tanto dolore.
E di una cosa almeno siamo sicuri. Se non è stato fatto, non è per colpa di scienziati incapaci di prevedere i terremoti.

Sergio Rizzo

23 ottobre 2012 | 8:46© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_23/i-dubbi-le-conseguenze-sergio-rizzo_e0ecae0a-1cce-11e2-99b8-aac0ed15c6ac.shtml
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« Risposta #126 inserito:: Ottobre 29, 2012, 10:45:17 pm »

Ambiente - Siamo i maggiori consumatori di suolo in Europa

Quelle Regioni che fermano la legge Salva-paesaggio

Gli interessi e i blocchi. Errani invoca gli urbanisti


ROMA - Colpa delle elezioni troppo vicine? Anche. Non è un caso che di questi tempi ogni iniziativa del governo tecnico di Mario Monti sia destinata a trasformarsi in un Calvario. Tanto più se tocca le Regioni, come si è visto con la clamorosa bocciatura del decreto sui costi della politica. Ma nel tentativo, ormai smaccato, di far arenare il disegno di legge presentato dal ministro Mario Catania per frenare lo scellerato consumo del suolo e la distruzione del paesaggio e dell'agricoltura, c'è qualcosa di più. Troppo grossi gli interessi in gioco per accontentarsi delle giustificazioni con cui le Regioni hanno trasformato il cammino di quel provvedimento in un percorso di guerra.

L'ultima mina: una telefonata di Vasco Errani, con la quale il presidente della conferenza delle Regioni ha comunicato al ministro dell'Agricoltura che senza il via libera degli urbanisti non si va avanti. La melina dunque ricomincia. Non stiamo affermando che manchi la sensibilità, sia chiaro. Errani è lo stesso che durante l'ultima campagna elettorale per le regionali proclamava nei suoi comizi: «Dobbiamo fare una scelta radicale, ma dobbiamo farla. Basta consumare territorio in questa regione, investire sulla qualificazione urbana, sul recupero degli spazi, ma il territorio è una risorsa finita». Salvo poi, qualche mese più tardi, sostenere pubblicamente: «Noi abbiamo detto che vogliamo fermare, e lo ribadisco, il consumo del territorio. Pensate che possiamo farlo, semplicemente con una legge? No, è impossibile farlo con una legge, dobbiamo essere realisti». Di quel «realismo» ne sa qualcosa. Da ben tredici anni Errani è governatore di una Regione, l'Emilia-Romagna, che secondo Legambiente ha conquistato il quinto posto nella poco invidiabile classifica della cementificazione dopo Lombardia, Veneto, Campania e Friuli-Venezia Giulia, con quasi il 9 per cento di territorio non più naturale. Una graduatoria scalata a morsi, invadendo la pianura padana di enormi e talvolta inutili capannoni industriali. Senza nemmeno troppe precauzioni, come ha dimostrato il terremoto di maggio. E i numeri certo dicono più di tante parole.

Dicono, per esempio, che il Paese più fragile d'Europa, cioè il nostro, ha la minore crescita demografica del continente e il maggiore consumo di suolo. Dal 1950 la popolazione è aumentata del 28 per cento, mentre la cementificazione è progredita del 166 per cento. Ogni giorno, informa uno studio dell'Istituto superiore per la ricerca ambientale, vanno in fumo cento ettari, ovvero dieci metri quadrati al secondo. In un solo anno il cemento impermeabilizza una superficie pari al doppio della città di Milano. A scapito, sì, del nostro meraviglioso paesaggio, dell'ambiente, delle risorse turistiche e dell'assetto idrogeologico, ma anche dell'agricoltura, cui sono stati sottratti in quarant'anni cinque milioni di ettari, facendo dell'Italia una nazione in fortissimo deficit alimentare: se fossimo costretti per qualche ragione a chiudere improvvisamente le frontiere non avremmo di che sfamare un quarto della popolazione. E le palazzine orrende che dilagano nelle periferie e nelle campagne, restando spesso senza acquirenti né occupanti, non si possono certo mangiare.

I numeri dicono, ancora, che il 7,3 per cento del territorio italiano, una superficie grande come la Toscana, è ormai cementificato. Per giunta sono dati vecchi di due anni: di questo passo avremmo già quasi doppiato la media europea di consumo del suolo, pari al 4,3 per cento. L'offensiva è particolarmente violenta al Nord. Il 16,4 per cento della pianura padana, una delle aree agricole un tempo più vaste e produttive del continente, è coperta da costruzioni. La Provincia più cementificata d'Italia è Monza, dove il 54 per cento del territorio è artificiale. Segue quella di Napoli, con il 43 per cento. Ma subito dietro c'è Milano, con il 37 per cento: quasi il doppio rispetto a Roma, attestata sul 20. E poi Varese (29), Trieste (28), Padova (23), Como (19), Treviso (19), Prato (18)...
Siamo un Paese popoloso con un Nord molto industrializzato, certo. Ma lo è anche la Germania, dove abitano 229 persone al chilometro quadrato contro le 200 dell'Italia e c'è una industria ancora più sviluppata. Di più: il 35,2 per cento del territorio tedesco non è, come quello italiano, di montagna. Eppure la Germania ha consumato il 6,8 per cento del suo territorio contro il nostro 7,3. Realizzando pure le infrastrutture che noi non abbiamo fatto.

Un processo guidato dalla speculazione, ancor più dell'abusivismo, le cui responsabilità maggiori ricadono proprio su chi detiene le competenze nella gestione del territorio. In primo luogo, proprio le Regioni.
Chi si meraviglia delle difficoltà che sta incontrando ora la legge proposta da Catania farebbe bene a ricordare quello che accadde a Fiorentino Sullo mezzo secolo fa. Quando l'allora astro nascente della Democrazia cristiana commise l'imprudenza di proporre una legge urbanistica che avrebbe reso più difficile la speculazione edilizia: il provvedimento non passò e lui scomparve dalla scena politica.
Altri tempi, naturalmente. Ma la storia sembra ripetersi.

Non appena Catania gli sottopone il testo, le Regioni eccepiscono: così non va. Da destra e da sinistra. Il coordinatore degli assessori regionali all'Agricoltura Dario Stefano, esponente di Sinistra, ecologia e libertà, dichiara che c'è «una montagna di problemi» che lo rende «inapplicabile». Primo: lo Stato non può prendere decisioni che invece spettano a Regioni ed enti locali, come appunto il consumo del suolo. Secondo: «la terminologia». La terminologia? Sì, le parole. Non sono quelle adatte.
Ecco allora che il 10 ottobre, tre settimane dopo il varo della legge da parte del consiglio dei ministri, Regioni, Province e Comuni si riuniscono ed emettono la sentenza: «il testo va completamente riscritto insieme a noi». Ci si mette al lavoro, con la promessa di rispettare tassativamente la scadenza del 18 ottobre per far approdare la legge in Parlamento. Anche perché il tempo stringe. Qualcuno arriva a ventilare perfino l'ipotesi di un decreto legge: non era stato forse lo stesso Mario Monti a dire «avremmo dovuto mettere queste norme nel decreto Salva Italia»? Ma è un gioco delle parti. Il 18 passa inutilmente, mentre si prepara la mossa successiva. Il 25 ottobre l'assessore all'urbanistica della rossissima Regione Toscana, Anna Marson, demolisce dalle fondamenta la legge sul Corriere Fiorentino . Argomenta che oltre a essere inutile e verticistico, il provvedimento potrebbe ottenere persino l'effetto contrario. Il giorno prima, mentre il suo intervento va in stampa, Errani telefona a Catania spiegando la novità. Ovvero, che adesso è necessario il placet degli urbanisti. E se il biglietto da visita è quell'articolo...

Sergio Rizzo

29 ottobre 2012 | 8:28© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/12_ottobre_29/rizzo-regioni-fermano-legge-salva-paesaggio_a4fe34d4-2194-11e2-867a-35e5030cc1c9.shtml
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« Risposta #127 inserito:: Novembre 23, 2012, 01:23:46 am »

RIFIUTI ALL'ESTERO, RICCHEZZA PER ALTRI

Un primato avvilente

In Germania finisce sotto terra meno del 3 per cento dei rifiuti urbani.

In Italia oltre il 50 per cento

Ultimi per crescita economica, occupazione e produttività, ci presentiamo in Europa con un avvilente primato: quello dell'export dei rifiuti.
Da anni Napoli e la Campania spediscono la spazzatura ai termovalorizzatori sparsi per il continente. La più recente destinazione conosciuta è l'Olanda, che si offre di bruciarla al modico prezzo di 150 euro la tonnellata. E adesso tocca persino all'immondizia di Roma finire sul mercato. L'azienda municipalizzata del Comune ha indetto una gara europea per lo smaltimento di 1.200 tonnellate al giorno: andranno a chi pretenderà la cifra più bassa per trasformarle in energia elettrica. Da tre anni non si riesce a individuare il sito, dicono provvisorio, per i rifiuti che l'ormai satura discarica di Malagrotta, la più grande d'Europa, non può più accogliere. Così il Campidoglio si è arreso: la raccolta differenziata è stimata al 25 per cento, 40 punti in meno rispetto al valore da raggiungere in base alle norme europee entro dicembre, e mancano gli inceneritori.

A Parma, invece, l'impianto verrà completato ma non brucerà i rifiuti della città. Al massimo quelli degli altri Comuni del circondario.
Il sindaco Federico Pizzarotti, del Movimento 5 Stelle, non può bloccare l'inceneritore, visto che la competenza è della Provincia, ma intende tener fede alla promessa elettorale. Sarà dunque per paradosso esportata anche la spazzatura dei parmigiani, magari insieme a quella della Valle D'Aosta che con un referendum votato dal 94 per cento dei cittadini domenica ha detto no al «pirogassificatore»?

Nessun altro Paese d'Europa ha una situazione come la nostra. In Germania finisce sotto terra meno del 3 per cento dei rifiuti urbani.
In Italia oltre il 50 per cento, e poco importa che entro il 2020 le discariche (come pure gli inceneritori) dovranno essere bandite.
Il territorio nazionale ne è disseminato, con devastazioni ambientali inimmaginabili e rischi gravissimi per la salute. Secondo i magistrati siciliani la discarica di Bellolampo, in cui per anni è stata sversata la spazzatura di Palermo, avrebbe inquinato le falde acquifere nei pressi della quinta città italiana nella più completa indifferenza degli amministratori.

Storie purtroppo tragicamente normali per questa Italia, incapace di affrontare e gestire anche problemi apparentemente semplici per qualunque Paese civile. Un'Italia dove i livelli decisionali sono troppi, confusi e perennemente in lotta tra di loro. Dove tutto diventa sempre emergenza, generando spinte emotive che la politica, prigioniera di veti incrociati che paralizzano ogni scelta, non è in grado di governare.
E dove quindi cose altrove normalmente realizzabili si rivelano missioni impossibili.

La mediocrità della classe dirigente è insieme causa e conseguenza di questo stato di cose. Il ministro Corrado Passera ha parlato di una situazione causata a Roma da «anni e anni di non azione», durante i quali era molto più facile, e sul momento anche meno costoso, gettare i sacchetti dell'immondizia in discarica anziché affrontare seriamente il problema. Di volta in volta passando il cerino acceso ai successori.
Bel modo di amministrare. Come è davvero una bella figura quella che ora facciamo davanti a tutto il continente chiedendo se qualcuno ci può aiutare a smaltire l'immondizia della capitale. Pensate un po', proprio nel bel mezzo della «Settimana europea della riduzione dei rifiuti», una campagna sostenuta da Bruxelles per sensibilizzare al problema i cittadini dei 27 Paesi dell'Unione. Che tempismo...

Sergio Rizzo

21 novembre 2012 | 12:50© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_21/un-primato-avvilente-rizzo_cf12e286-33a2-11e2-a480-b74fe153b15c.shtml
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« Risposta #128 inserito:: Novembre 23, 2012, 09:31:02 pm »

Il caso

Quelle 90 poltrone in più per tagliare i parlamentari

Primo sì a un ddl per eleggere una commissione di riforma della Costituzione.

Con stipendi da deputati: indennità incluse

Di SERGIO RIZZO


ROMA - L'ultimo a rammaricarsi pubblicamente è stato Gianfranco Fini: «Abbiamo perso una grande occasione. La politica non ha capito che si doveva fare di più, per esempio con il taglio dei parlamentari». Dichiarazione di due mesi fa, quando il presidente della Camera certo ignorava l'esistenza di un'ipotesi suggestiva. Cioè che le politiche di marzo ci potrebbero regalare un numero di eletti addirittura superiore a quello attuale: 1.035 anziché 945. Novanta poltrone in più.

Non è uno scherzo. È quello che stabilisce un disegno di legge approvato a razzo dalla commissione Affari costituzionali del Senato con l'unica opposizione dell'Italia dei valori, il cui rappresentante Francesco «Pancho» Pardi ha invano cercato di demolirlo, e subito fiondato in Aula dove giovedì ha rischiato di essere ratificato al volo. Che cosa dice? Prevede semplicemente l'elezione a suffragio universale di una commissione Costituente che dovrebbe occuparsi della revisione della seconda parte della Carta costituzionale. Ne dovrebbero far parte novanta persone, che non potrebbero ricoprire altri incarichi elettivi, come quello di parlamentare o consigliere regionale. Con il risultato inevitabile di far crescere, sia pure per un solo anno (tanto dovrebbe durare l'incarico) il numero delle poltrone.

A loro saranno affidati interventi come il taglio dei parlamentari, l'abolizione del bicameralismo perfetto, i poteri del presidente della Repubblica... Il tutto mentre nei cassetti di Palazzo Madama giacciono proposte di legge a bizzeffe sugli stessi argomenti. Sulla riduzione del numero dei parlamentari si era perfino raggiunto un accordo fra tutti i partiti: 508 deputati e 254 senatori. Poi la cosa era sfumata.

Dunque il Parlamento non riesce a tagliare il numero degli eletti, pure in presenza di un accordo, poi però riesce a istituire a tempo di record, guarda caso, una commissione di novanta membri che deve provvedere al taglio.

Il disegno di legge è frutto dell'unificazione di numerose proposte variamente datate. E destinate probabilmente a sonnecchiare fino al termine della legislatura se il leader dell'Api Francesco Rutelli, autore di una di esse e relatore insieme a Pasquale Viespoli (prima Pdl, poi Fli, quindi Responsabile), non le avesse improvvisamente rianimate chiedendo e ottenendo il primo agosto scorso la corsia preferenziale della procedura d'urgenza. Che ha però conosciuto un intoppo ieri quando è mancato il numero legale. Se ne riparlerà la prossima settimana, e non si può escludere il moltiplicarsi dei mal di pancia, finora piuttosto isolati. Anche perché c'è la questione dei soldi. Questa commissione Costituente avrà infatti un costo che dovrà essere coperto, in parti uguali, dalla Camera e dal Senato. E lo stipendio dei Novanta? «Il trattamento economico dei membri della commissione Costituente è pari a quello dei membri della Camera dei deputati, ivi comprese le indennità accessorie», hanno proposto Luciana Sbarbati e il suo collega Giampiero D'Alia. Il conto? Una ventina di milioni in un anno. Per fare una riforma che, come ha ricordato Pardi, secondo l'articolo 138 della Costituzione è invece compito del Parlamento. Un po' caruccio di questi tempi, no?

23 novembre 2012 | 7:45

da - http://www.corriere.it/politica/12_novembre_23/poltrone-parlamentari-rizzo_55b08756-3535-11e2-a6ed-6f1dca7ec717.shtml
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« Risposta #129 inserito:: Novembre 29, 2012, 06:51:17 pm »

IL CASO RIVA E IL RUOLO DI FERRANTE

L'imprenditore e l'ex prefetto


Sono tante le ragioni per cui Fabio Riva deve consegnarsi immediatamente alla giustizia. Ma la prima è il rispetto di un principio fondamentale del vivere civile troppo spesso considerato un optional: la legalità. La sua azienda attraversa il momento più difficile della propria storia. Al punto che la stessa esistenza dell'Ilva di Taranto viene messa in discussione, con il rischio della desertificazione industriale di una delle poche aree del Sud dov'è presente la grande impresa.

Il passaggio è delicatissimo, visto che si tratta di conciliare l'imprescindibile tutela della salute con la difesa di migliaia di posti di lavoro: un'emergenza sociale, che spinge il governo a prendere un provvedimento senza precedenti come un decreto legge per impedire (trombe d'aria a parte) la serrata degli impianti. Le accuse sono pesantissime. I magistrati arrivano a parlare di «infiltrazione e manipolazione delle istituzioni da parte dei vertici Ilva» per ottenere autorizzazioni ambientali compiacenti. Fatti che vanno accertati al più presto, disinnescando quella bomba sociale che rischia di esplodere dopo la decisione di chiudere gli stabilimenti, contestuale all'ultima iniziativa della Procura. Soprattutto, avendo ben chiaro che la necessaria assunzione di responsabilità non prevede la fuga all'estero dell'imprenditore. E che la fine della sua latitanza favorirebbe anche le ragioni dell'impresa, in un Paese dove per meccanismi assai singolari la magistratura finisce per assumere ruoli propri di altri pezzi dello Stato.

Una contumacia, quella di Riva, tanto più grave se si considera che il legale rappresentante della sua impresa è stato per trent'anni un uomo delle istituzioni: il presidente Bruno Ferrante. È l'ex vice capo della polizia ed ex prefetto di Milano, il quale nel corso della sua lunga e molto apprezzata carriera pubblica ha ricoperto incarichi importantissimi. Per esempio, quello di capo di gabinetto dell'attuale presidente della Repubblica Giorgio Napolitano quando questi era ministro dell'Interno, oppure quello di alto commissario di governo per la lotta alla corruzione.

Nel 2006 ha pure conteso senza successo a Letizia Moratti la poltrona di sindaco di Milano, dopo aver sconfitto alle primarie del centrosinistra il premio Nobel Dario Fo. Proprio durante quella campagna elettorale ha dichiarato in un'intervista a Repubblica: «Ho vissuto tutta la mia vita credendo nel rispetto della legalità e delle regole». Può un ex prefetto restare presidente di un'azienda il cui imprenditore è destinatario di un ordine di cattura e sceglie la strada della latitanza? Crediamo di no. Qui si capisce quanto certe scelte «professionali» possano risultare insidiose. Quando un ex servitore dello Stato passa a occuparsi di interessi privati può capitargli di trovarsi un giorno dalla parte opposta della barricata. Anche soltanto mettendo la propria firma sui ricorsi contro le decisioni dei magistrati. E non deve succedere.

Chi ha avuto responsabilità pubbliche di questo calibro dev'essere ben conscio che esiste un serissimo problema di opportunità nel caso in cui si accetta un incarico privato. Perché oltre alla coerenza personale c'è in ballo il prestigio delle istituzioni che si sono servite.

Sergio Rizzo

29 novembre 2012 | 8:59© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_29/imprenditore-ex-prefetto-rizzo_7352e5f6-39ef-11e2-8e20-34fd72ebaa93.shtml
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« Risposta #130 inserito:: Dicembre 10, 2012, 07:44:03 pm »

Retroscena

Province, le promesse del 2008 e la vittoria del partito anti abolizione

Dal Cavaliere a Cicchitto: vanno eliminate

Ma in Parlamento il Pdl ha scongiurato i tagli


ROMA - E' noto che in Italia le promesse fatte in campagna elettorale valgono quel che valgono. Parole al vento, il più delle volte. Ma sarà interessante, in questa occasione, vedere se Silvio Berlusconi ripeterà quello che disse nel 2008 alla signora Ines di Forte dei Marmi durante una chatline al Corriere : «Non parlo delle Province, perché bisogna eliminarle». E non era certo l'unico, nel suo Popolo della libertà, a pensarla così. Di più: della stessa idea non erano i peones del partito, ma i pezzi da novanta a lui fedelissimi. Il superberlusconiano capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto sentenziava il 29 novembre 2008: «L'appello sull'abolizione delle Province va preso in seria considerazione. C'è un gran bisogno di qualche altro taglio di spesa». E il ministro Renato Brunetta, competente per quella materia, gli faceva eco il 4 dicembre: «Le Province? Sono enti inutili, non servono». Proprio vero...

Come è andata, lo sappiamo. E si potrebbe amaramente concludere: lo avevamo detto. La maggioranza di centrodestra si è ben guardata dall'affrontare una questione sulla quale si erano detti d'accordo quasi tutti anche a sinistra. Se si eccettua l'uscita dell'ex ministro Roberto Calderoli, nell'agosto 2011, che aveva proposto di chiudere soltanto le Province più piccole. Idea subito smontata e quindi abortita. Erano le settimane in cui l'Italia si affacciava pericolosamente sull'orlo del baratro. In una lettera alla quale aveva dato un robusto contributo la Banca d'Italia, la Bce chiedeva al governo italiano durissimi interventi, sottolineando la necessità di riforme quali appunto l'abolizione delle Province.

E con l'uscita di scena del Cavaliere e l'arrivo di Mario Monti la musica sembrava cambiata. Il decreto salva Italia aveva ridotto le Province a enti non più elettivi, privi di qualunque funzione: la premessa per la loro scomparsa. Sarebbe stata però necessaria un'altra legge entro il 2012 per fissare le modalità della dissoluzione dei consigli. Inutile dire che le Province non se ne sono rimaste con le mani in mano. Subito è partito un ricorso alla Corte costituzionale. Ed è stato così che nella scorsa estate, anche con la motivazione di evitare la scure della Consulta, il governo ci ha ripensato: anziché l'abolizione, la riduzione per decreto. Più o meno con il vecchio e discutibile metodo Calderoli, ma fermo restando per le Province sopravvissute il principio di avere organi di governo non più eletti a suffragio universale. Peccato che anche questo progetto, sostenuto a parole, abbia incontrato fortissime resistenze nei corridoi del Palazzo. Dove il partito delle Province, forte di una decina di presidenti di giunte provinciali seduti in Parlamento, ha sempre manovrato, agguerritissimo, per guadagnare tempo. Perché più le elezioni si avvicinano, più le leggi che tagliano poltrone perdono forza. Questa è la regola in Italia.

Tuttavia è certo che in nessun Paese normale a pronunciare la condanna a morte di un simile provvedimento sarebbe stato proprio il partito il cui leader aveva promesso agli italiani l'abolizione delle Province. Perché è questo il significato della pregiudiziale di incostituzionalità presentata a palazzo Madama dal pidiellino Filippo Saltamartini addirittura prima che Monti annunciasse le sue dimissioni. Pur sapendo che il gesto costerà 500 milioni l'anno: tanto, dice il ministro Piero Giarda, sarebbe il risparmio dovuto all'accorpamento delle Province. Molto più di quanto sarebbe costato rinunciare all'election day, che il segretario del Pdl Angelino Alfano aveva rivendicato proprio con l'esigenza di evitare inutili sprechi.

Ma poco importa. Tirerà un respiro di sollievo il deputato del suo partito Antonello Iannarilli, presidente della Provincia di Frosinone che per protesta ha mandato giù un bel sorso di olio di ricino. Davanti al Senato, pensate un po'! Idem potrà fare il sindaco di Prato, Roberto Cenni, protagonista di una sconcertante conferenza stampa seduto su una tazza da gabinetto a segnalare la propria indignazione davanti alla prospettiva di vedere la sua Provincia tornare sotto Firenze. Come al tempo dei Medici, non sia mai! E pure Cosimo Sibilia, figlio dell'ex patron dell'Avellino calcio Antonio Sibilia, e come Iannarilli parlamentare e presidente di Provincia: Avellino, appunto. Si è dannato l'anima per far saltare il decreto che l'avrebbe costretto a fondersi con Benevento.

Gli irpini insieme ai sanniti? Contro natura! Brinderà, Sibilia, con Ciriaco De Mita, ottantaquattrenne eurodeputato dell'Udc che forse non si voleva rassegnare a cedere il capoluogo al rivale beneventano Clemente Mastella: anch'egli, grazie alla prodigiosa regola secondo cui certi politici non possono mai restare a spasso, parlamentare (per il Pdl, dopo l'evaporazione del suo Udeur) a Strasburgo. E brinderanno tutti insieme al senatore Claudio Fazzone, potente capo del partito a Latina, tanto ostile al decreto del ministro Filippo Patroni Griffi da farsi autore di 400 dei 700 emendamenti che gli sono piovuti addosso in Senato. Magari ci sarà anche Antonio D'Alì, il quale nei mesi scorsi aveva chiesto che fossero considerate nei parametri minimi di superficie anche le piattaforme marine antistanti le Province: lui è di Trapani. E chissà se accetterà l'invito il relatore del Pd Enzo Bianco convinto che dagli accorpamenti debbano essere escluse le Province confinanti fra loro per meno di 25 chilometri. Come Viterbo e la più piccola Rieti, che finirebbe per essere annessa: ma si dà il caso che la prima sia in mano al Pdl, mentre presidente della seconda è il democratico Fabio Melilli. Margheritino d'origine, proprio come Bianco. Guarda un po'...

Sergio Rizzo

10 dicembre 2012 | 17:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_dicembre_10/province-promesse-vittoria-anti-abolizione_a6b843e0-42e7-11e2-af33-9cafd633849d.shtml
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« Risposta #131 inserito:: Dicembre 17, 2012, 03:55:28 pm »

LA RICERCA DEL CONTENITORE POLITICO

Le scialuppe di salvataggio

«Monti è ok, la sua agenda è la nostra»: parola di Renato Brunetta. Chi ieri ha letto questo tweet dell’ex ministro della Funzione pubblica si dev’essere chiesto se l’ha scritto lo stesso Brunetta che soltanto quattro giorni prima rivendicava sul Corriere di aver convinto Silvio Berlusconi a staccare la spina. «Sostenere Monti non è stata solo una cosa assolutamente sbagliata, ma anche spaventosamente negativa per il Pdl e per l’Italia», sentenziava Brunetta ricordando di aver fatto per tredici mesi le pulci al suo governo con «238 slide di PowerPoint senza aver mai ricevuto una sola smentita». Il giorno dell’insediamento del professore a Palazzo Chigi l’aveva addirittura diffidato dal farsi tentare da future candidature politiche.

Perfino lui si è ora convinto. Monti è diventato il salvatore della patria del centrodestra, il possibile «federatore di tutti i moderati», come Brunetta ha spiegato al Secolo XIX. Anche se al posto di «federatore » sarebbe più appropriato un altro termine: scialuppa di salvataggio. Perché l’esplosione del centrodestra, con i sondaggi che da mesi descrivono un Popolo della libertà in picchiata, sommata alla fortissima crescita del Movimento 5 Stelle, rischia serissimamente di far naufragare le certezze di quanti fino a un anno fa davano per scontata la propria riconferma parlamentare. Il solo seggio di Silvio Berlusconi, in quello schieramento, può considerarsi al sicuro: ma per il puro consenso personale di cui ancora gode il Cavaliere.

Ecco dunque che Monti è visto da tanti, suo malgrado, come il possibile traghettatore verso una nuova vita politica. Nel centrodestra, e pure nel centrosinistra. C’è da dire che la scialuppa era già abbastanza affollata. Quando i primi dissidenti hanno cominciato a migrare dal Pdl al gruppo misto della Camera preparandosi a salirci, come l’ex pasionaria berlusconiana Isabella Bertolini ora portavoce di Italia libera, c’erano già casiniani e finiani. Poi, alla spicciolata, sono arrivati altri pezzi del Pdl, compresi nemici giurati di Gianfranco Fini e avversari di Pier Ferdinando Casini.

C’è Italia popolare, che va dal sindaco di Roma Gianni Alemanno al capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto, passando per Franco Frattini, Maurizio Lupi, Gaetano Quagliariello, Maurizio Sacconi... C’è Gabriele Albertini, che punta a diventare presidente della Regione Lombardia. Ci sono due ormai ex governatori con zero possibilità di riconferma, quali Roberto Formigoni e Renata Polverini. Ma pende dalle labbra di Monti pure qualcuno dei Responsabili: «Se Monti scende in campo cambia tutto», si è augurato il portavoce di Popolo e territorio, Francesco Pionati. Mentre il segretario repubblicano Francesco Nucara si appellava al premier «perché guidi il Paese portando a termine il risanamento». E se il leader dell’Api Francesco Rutelli aveva già annunciato a settembre «porte aperte» al prolungamento dell’esperienza montiana, ha sorpreso tutti nel Partito democratico l’uscita del suo ex collega margheritino Giuseppe Fioroni, per il quale «è indispensabile lavorare alla costituzione di un soggetto moderato-progressista intorno a Monti».

Come faranno tutti questi a stare insieme, ammesso che il premier se la senta di fare il timoniere e accetti di imbarcarli, è un bel mistero. Una scialuppa così piena non rischia di capovolgersi?

Sergio Rizzo

17 dicembre 2012 | 8:16© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_17/scialuppe-salvataggio_a7f1c9dc-4811-11e2-9b8b-e1acb7544763.shtml
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« Risposta #132 inserito:: Gennaio 06, 2013, 06:26:12 pm »

Dal peso delle tasse agli oneri aggiuntivi, ecco il conto delle famiglie

I costi occulti delle bollette del gas, perché l'aumento non si ferma

L'incremento delle tariffe è stato 4 volte superiore all'inflazione, spunta un'assicurazione aggiuntiva che costerebbe 800 milioni


ROMA - Premessa: stiamo parlando di una faccenda che muove poteri economici e interessi ciclopici. Immaginate quindi le pressioni che possono scatenare. Ma di tutti i misteri italiani quello attualmente più misterioso è la bolletta del gas (guarda la tabella su corriere,it). Da due anni il prezzo del metano sui mercati internazionali è in picchiata, ma 26 milioni di famiglie e quattro milioni di piccole imprese non se ne sono accorti. Anzi.

Si è provveduto, se possibile, a tosarle ancora di più: perché dal gennaio 2011 a oggi le bollette sono rincarate, tenetevi forte, del 23,7 per cento. Più o meno quattro volte l'inflazione. Tutto questo mentre il prezzo spot pagato dai venditori di gas sul mercato all'ingrosso italiano, ci spiega il superesperto della Staffetta quotidiana Gionata Picchio, è sceso di circa il 15 per cento soltanto nell'ultimo anno. Ci sono ragioni congiunturali, come la flessione della domanda europea, ma anche strutturali: per esempio la raggiunta autosufficienza degli Stati Uniti. Fatto sta che qualcuno, in questa situazione, sta facendo soldi a palate. Dall'inizio del 2011 l'Autorità dell'energia continua a rincarare i prezzi. Ed è appena il caso di notare che gli ultimi due anni sono stati i più difficili per le famiglie italiane.

L'ultimo aumento è di qualche giorno fa: +1,7 per cento. E qui la materia prima non c'entra niente. C'entra la distribuzione. Il paradosso è che meno gas passa nei tubi, più cresce il costo unitario del servizio. E dato che bisogna garantire ai distributori identici ricavi, se vogliamo che investano nella rete e facciano arrivare il metano alla caldaia, ecco che le tariffe salgono anziché scendere. Andrebbe benissimo, se non fosse per un paio di dettagli. Primo: l'infrastruttura pagata con i soldi degli utenti non è pubblica, ma resta di proprietà dei distributori privati (come i loro profitti). Secondo: il rischio d'impresa per costoro è praticamente azzerato. È il dilemma di tutte le reti, diranno gli esperti. Ma raccontatelo ai 26 milioni di famiglie di cui sopra. Soprattutto, spiegategli perché, se è vero che i criteri con i quali vengono decisi questi aumenti sono stati adottati anni fa, quando alla presidenza dell'Autorità non c'era ancora Guido Bortoni, non sono stati modificati negli ultimi due anni. Fosse solo per alleviare il peso della crisi sui bilanci familiari.

Il sistema di calcolo del prezzo della materia prima, quello invece è stato appena ritoccato. Anche qui, però, c'è qualcosa di difficile da far capire a chi si vede recapitare bollette sempre più salate. I giganti come Eni ed Enel operano prevalentemente con i contratti take or pay . Sono accordi pluriennali con fornitori internazionali, con la formula che si paga comunque, anche se il gas non viene ritirato tutto. Ne ha parlato il 16 dicembre la trasmissione Report di Milena Gabanelli, ricordando che l'amministratore delegato dell'Eni Paolo Scaroni ha rinegoziato con la Russia un onerosissimo contratto take or pay prolungandone la durata a trent'anni. È accaduto nel 2009, con straordinario tempismo: poco prima della vertiginosa caduta del mercato libero.

Ebbene, proprio per tener conto di questo calo, come ha disposto il governo di Mario Monti nel decreto cresci Italia, l'Autorità ha deciso di considerare nel calcolo del prezzo anche le quotazioni spot. Oggi pesano per il 5%, contro il 95% misurato con una formula che simula il prezzo (altro mistero misteriosissimo) take or pay legato all'andamento delle quotazioni del petrolio, dell'olio combustibile e del gasolio (!). Il fatto è che il gas acquistato sul mercato spot che corre nei nostri tubi va ben oltre quel misero 5%. Di più. Picchio ricorda che secondo una recentissima indagine dell'Autorità il prezzo medio spot è stato nel 2011 e nel 2012 rispettivamente del 16% e del 26% inferiore a quello calcolato con il sistema precedente a quel contentino del 5%. Il succo è il seguente: tenere il prezzo non troppo distante da quello dei contratti take or pay limita i danni per i grandi operatori, che possono compensare le perdite di quegli accordi con i super profitti del gas acquistato sul mercato libero e fa fare un mucchio di quattrini a chi (come alcune municipalizzate) compra esclusivamente spot e vende agli utenti finali con tariffe astronomiche.

Va da sé che è una situazione insostenibile. E lo sanno anche all'Authority, tanto da aver proposto una nuova formula di calcolo per allineare il prezzo della materia prima, che pesa per circa la metà sulla bolletta, a quella del mercato libero. Finalmente, direte. E avendo saputo che la stessa Autorità ha respinto la richiesta avanzata da Scaroni di far gravare sulle tariffe le perdite generate dai contratti con la Russia (un miliardo e mezzo, mica bruscolini) potreste tirare un altro respiro di sollievo.

Se non fosse per una sorpresina annidata in quella proposta. Siccome nessuno garantisce che il mercato spot sarà sempre così favorevole, ecco che gli utenti si devono caricare sulle spalle una bella assicurazione obbligatoria a favore dei signori del gas. Uno scherzetto che vale 800 milioni, e visto che ne beneficerebbero i titolari dei famosi contratti take or pay come appunto l'Eni, i piccoli sono imbufaliti. Ma anche fra i componenti dell'Autorità non sono mancate le discussioni. Per non parlare dei consumatori, che si vedrebbero ridurre il beneficio in bolletta dal teorico 10 per cento al 6, forse 7 per cento. La pratica si è quindi fermata: il taglio era previsto per aprile e certamente slitterà. Nel frattempo, le bollette continuano a correre.

Ciò nonostante chi si ostina a vedere il bicchiere mezzo pieno. Argomentando che sull'allineamento del prezzo italiano a quelli europei sono stati fatti sforzi sovrumani. Che le pressioni dell'Eni non hanno fatto breccia. E che se le tariffe del gas sono aumentate, proprio la piccola modifica al metodo di calcolo del prezzo ha fatto scendere dell'1,4 per cento le tariffe elettriche. Staremo a vedere se a questo zuccherino per le famiglie ne seguiranno altri più sostanziosi. La speranza è l'ultima a morire.
Intanto non si può non notare, come ha fatto la Staffetta quotidiana , che nell'ultimo anno i provvedimenti dell'Autorità a tutela dei consumatori sono stati appena l'11,3% del totale, contro il 17,7% del 2011 e il 25,8% del precedente collegio presieduto da Alessandro Ortis. Che in sette anni ha appioppato agli operatori multe per 200 milioni, a un ritmo di 28,5 milioni l'anno. Mentre dal 2011 l'Authority di Bortoni non è andata oltre i 7 milioni: 3 e mezzo l'anno. L'indipendenza non si può misurare soltanto con la violenza delle bacchettate, certo.

Soprattutto in un mondo come quello dell'energia dove le multe fanno il solletico. Verissimo.

Ma ci sono fatti, piccoli fatti, che comunque pongono per il presidente di un organismo «indipendente» una questione di opportunità. Come quella storia sollevata da un'interrogazione parlamentare nella quale si chiedeva al ministro Corrado Passera conferma del fatto che «alcuni funzionari e dirigenti ora distaccati presso l'Autorità» da Gse e Acquirente Unico, fossero stati assunti dalle due società pubbliche «pochi giorni prima di tale distacco». Una decina di persone in tutto: fra queste anche l'assistente personale di Bortoni, che era già con lui al ministero dello Sviluppo, di cui era stato nominato direttore generale nel 2009 da Claudio Scajola, per essere poi da lì direttamente paracadutato nel 2011 al timone dell'Authority. Si chiama Cecilia Gatti, ed è incidentalmente la figlia di Giuseppe Gatti, amministratore delegato di Gdf Suez energia Italia: quarto produttore italiano di energia termoelettrica, terzo venditore di gas naturale nel nostro Paese dopo Eni ed Enel.

Sergio Rizzo

6 gennaio 2013 | 9:37© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/13_gennaio_06/costi-occulti-bollette-gas-aumento_01abaff0-57db-11e2-9a31-1eca72c52858.shtml?fr=box_primopiano
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« Risposta #133 inserito:: Gennaio 07, 2013, 07:04:56 pm »

IL RITARDO CRESCENTE DEI PAGAMENTI

La tartaruga più antipatica

Centonovantatré giorni. Qualcuno in meno rispetto ai 226 impiegati sette anni fa dal vogatore solitario Alex Bellini per andare con una barca a remi da Genova a Fortaleza, in Brasile. Il doppio, addirittura, di quanti ne sono bastati nel 1990 a Reinhold Messner per attraversare a piedi l'Antartide. Imprese estreme: mai però come le sfide che propone di continuo la nostra pubblica amministrazione. Centonovantatré giorni, ha calcolato l'ufficio studi della Confartigianato, è il tempo che serve in media a una fattura emessa da un fornitore per trasformarsi in denaro. Sei mesi e mezzo. Nel frattempo l'impresa fallisce e i suoi lavoratori si ritrovano sul lastrico. Oppure, per tirare avanti, può indebitarsi fino al collo: trovando però, il che non è assicurato, qualche banca disposta a fare credito. In caso contrario ci sono sempre gli strozzini.


Questa faccenda va avanti da una vita. Correva l'anno 1997 quando le statistiche europee denunciarono come la nostra pubblica amministrazione saldasse le fatture mediamente in 87 giorni. Appena sette in meno della Grecia, allora a quota 94. Trascorsi quindici anni e alcune stagioni politiche, scandite da sei anni di centrosinistra, otto e mezzo di centrodestra e uno di coabitazione, eccoci a 193. Sei in più perfino rispetto alla Grecia.
Nel solo semestre finito a novembre del 2012, periodo di crisi economica feroce, i tempi medi di pagamento pubblici si sono allungati ancora di ben 54 giorni rispetto ai 139 del maggio scorso. E senza contare le forniture alla sanità, ormai regolate a ritmi biblici: la media è di 269 giorni, ma si arriva a 425 nel Sud, con punte di 793 in Calabria, 755 in Molise, 661 in Campania.


Gli effetti sono devastanti. Si calcola che i debiti commerciali accumulati dalla pubblica amministrazione abbiano raggiunto 79 miliardi, dei quali 35,6 soltanto verso i fornitori del servizio sanitario. Un macigno che si ingigantisce a velocità impressionante e nessuno, a dispetto delle promesse condivise da tutti, vuole davvero rimuovere. La motivazione? Inconfessabile: pagare i fornitori farebbe esplodere un debito pubblico già cresciuto nell'ultimo anno, secondo la stessa Confartigianato, di 187.008 euro al minuto. Anche se è impossibile ignorare le conseguenza catastrofiche sul sistema delle imprese, cui i ritardi di pagamento costano quasi due miliardi e mezzo l'anno solo di maggiori oneri finanziari.

Ma adesso siamo al dunque. E ancora una volta le nostre cattive abitudini si scontrano con il vincolo esterno. Ovvero, le regole europee. Proprio mentre scopriamo che i tempi medi di pagamento si sono allungati ulteriormente di quasi due mesi dobbiamo fare i conti con la normativa comunitaria in vigore dal primo gennaio che impone di saldare i conti entro trenta giorni.
I partiti che si stanno affrontando in campagna elettorale non possono eludere questo argomento cruciale. O liquidarlo con i soliti vaghi propositi. Occorrono impegni precisi. Perché non è soltanto un problema economico. È una questione di civiltà. E ciò, sia chiaro, vale tanto per lo Stato quanto per i molti privati da tempo purtroppo assuefatti alle pessime usanze pubbliche. Un Paese nel quale non si onorano gli impegni in tempi certi non è degno di dirsi civile.

Sergio Rizzo

7 gennaio 2013 | 9:21© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_07/tartaruga-antipatica_00cbc9da-5894-11e2-b652-002bcc05a702.shtml
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« Risposta #134 inserito:: Gennaio 21, 2013, 07:46:19 pm »

Finanziamenti

Ora diteci chi paga le spese dei candidati

Scandali inutili, le spese dei partiti restano top secret


In una campagna elettorale nella quale poco o nessuno spazio hanno i contenuti, rispetto alle chiacchiere su tattiche e alleanze, c'è un altro latitante speciale: le spese dei partiti. Anche se dopo quanto è accaduto, dalla storia dei rimborsi elettorali della Margherita agli spericolati investimenti dell'ex tesoriere della Lega Nord, fino agli scandali che hanno travolto i gruppi del consiglio regionale del Lazio, sarebbe stato lecito attendersi un cambio di passo.

Per esempio, la pubblicazione sui siti Internet dei budget dei vari partiti per le spese della campagna elettorale, con la contestuale indicazione delle fonti di finanziamento: pubbliche e soprattutto private. Informazioni che oggi è possibile conoscere, e non con la dovuta assoluta trasparenza, soltanto a consuntivo attraverso i bilanci e le dichiarazioni giurate.
I contribuenti privati, per esempio. Esiste, è vero, l'obbligo di comunicarli alla Camera, dove diventano di dominio pubblico: però con una procedura complessa, che prevede la presentazione agli uffici, e di persona, di una domanda scritta. Ma non c'è regola che impone la diffusione online dei finanziamenti liberali in tempo reale. Cosa che, crediamo, sarebbe doverosa.

Al di là degli obblighi di certificazione dei bilanci dei partiti, e dei controlli recentemente introdotti a furor di popolo dopo le sconcertanti vicende dei fondi della Margherita e della Lega Nord, questo consentirebbe ai cittadini di apprendere immediatamente (e prima del voto) quali interessi si materializzano dietro un candidato. Come negli Stati Uniti. Se prima delle elezioni del 2012 avreste voluto sapere quanti contributi avesse ricevuto il senatore del Massachusetts nonché futuro segretario di Stato americano John Kerry, per il fondo destinato alla sua campagna elettorale, sarebbe stato semplicissimo. Esiste un sito Internet con l'elenco dei lobbisti che hanno sostenuto lui e gli altri candidati, con le relative cifre. Nei due anni precedenti la campagna 2012 Kerry ha avuto 128.300 dollari da 56 persone: si va dai 9.600 dollari di Vincent Roberti ai 200 (circa 140 euro) di Edward P. Faberman. Chi è Roberti? Ancora più semplice. Basta cliccare sul suo nome per venire a conoscenza che rappresenta due società di lobbying, la Navigators global LLC e la Vincenti associated. I cui clienti sono At&t, Citigroup, Oracle America, General motors...

Tutto (abbastanza) alla luce del sole. E in Italia, dove non esiste nulla di tutto questo, di luce sulle fonti di finanziamento ne avremmo davvero bisogno. Soprattutto in una campagna elettorale nella quale alcuni contendenti non hanno avuto accesso in precedenza ai fondi statali. Mentre altri hanno letteralmente mandato in orbita anno dopo anno le proprie spese elettorali grazie proprio a «rimborsi» elettorali pubblici scandalosamente generosi. In occasione delle precedenti elezioni politiche del 2008 il Popolo della libertà ha investito la somma astronomica di 68 milioni 475.132 euro. Cifra ben 13,6 volte superiore rispetto a quella spesa nel 1996, dice il rapporto della Corte dei conti, da Forza Italia e Alleanza nazionale messe insieme. I contributi pubblici, al tempo stesso, sono passati da 18,6 a 206,5 milioni. Le spese elettorali del Partito democratico si sono attestate invece nel 2008 a 18 milioni 418.043 euro, contro i 7 milioni 839.653 euro investiti dodici anni prima da Ds, Margherita e Ulivo. Per contributi pubblici saliti da 17 a 180,2 milioni.

Numeri che fanno ben capire l'impazzimento verificatosi a partire da metà degli anni Novanta. E che non si è certamente esaurito con le elezioni politiche del 2008. Basta dare un'occhiata alle risorse messe in campo dai partiti per le elezioni regionali del 2010: più di 62 milioni. Il Partito democratico ha investito 14,2 milioni, una somma non troppo distante da quella spesa per le Politiche di due anni prima. Il Pdl ha sborsato addirittura 20,9 milioni. Per non parlare di alcune liste locali. Quella che ha sostenuto nel Lazio la candidatura di Renata Polverini ha speso la bellezza di cinque milioni e mezzo di euro. Cifra comunque pari alla metà dei contributi (circa 11 milioni di euro) assicurati a Letizia Brichetto Moratti dal suo consorte Gian Marco Moratti, industriale petrolifero, nella sfida elettorale perduta nel 2011 con Giuliano Pisapia per il Comune di Milano.

Sergio Rizzo

21 gennaio 2013 | 8:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_gennaio_21/rizzo-spese-candidati_f72dd062-6397-11e2-9016-003bf863ea6b.shtml
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