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Autore Discussione: SERGIO RIZZO  (Letto 135923 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Marzo 15, 2012, 12:25:16 pm »

L'editoriale di Sergio Rizzo

Le risposte degli imprenditori

Bisogna ringraziare il Dott. Rizzo per il suo articolo, perchè è un contributo che guarda in faccia la realtà delle cose e la riporta per quella che è. E’ una dura verità da accettare ma è proprio così. Da dirigenti industriali che riportano ad un gruppo di capitali americano, sappiamo esattamente cosa significhi non trovare, nel proprio paese, interesse per la propria azienda. E’ successo anche a noi di Power-One. Sei anni fa eravamo parte del gruppo americano Magnetek, che entrò in crisi, e mise in vendita il suo goiello, cioè la nostra azienda qui ad Arezzo. Eravamo circa 400 persone e facevamo 140 mil di Euro. Cercammo di fare un management buy out ma non trovammo nessun imprenditore pubblico o privato, nè alcun istituto finanziario, che capì e che credette nel nostro progetto. Quindi ci acquistò l’americana Power-One che invece vide un grande potenziale nella nostra tecnologia e nei nostri prodotti. Adesso siamo 1200 persone e facciamo 585 mil di Euro (anno 2011). Quest’azienda poteva essere italiana e ciò per noi è un grande rimpianto. Ed è una storia che si ripete perchè, purtroppo, un sistema Italia non esiste e non esiste più, da decenni ormai, una politica industriale indirizzata allo sviluppo. Neanche Confindustria è in grado di svilupparne una, prigioniera com’e’ di lobby e interessi particolari, spesso in netto contrasto con politiche innovative e con visioni di lungo periodo. Questa è la vera ragione per cui in Italia non attiriamo investimenti stranieri: non esiste una politica industriale che stabilisca linee guida per il medio, lungo termine. L’Audi potrà anche comprare la Ducati, ma mai si sognerebbe di trasferire qui da noi un loro stabilimento. Se non riusciremo a rispondere a quella domanda (perchè l’Audi non porterebbe mai un loro stabilimento qui da noi) non riusciremo a risolvere il problema dello sviluppo industriale del paese. Il governo Monti ha promesso nuovo slancio e nuova definizione di politiche industriali e di sviluppo ma mi permetto di dire che è già partito male. I suoi interlocutori sono ancora, per lo più, le stesse vecchie associazioni di sempre e se ci aspettiamo che lasciando tutto invariato, qualcosa cambi, allora stiamo solo creando un’ illusione. Il governo farebbe bene a consultare nuove aziende: quelle che hanno investito in innovazione e ricerca e possono portare un contributo di nuove idee e nuovi modelli di sviluppo industriale per il bene del paese.

Averaldo Farri
Consigliere Delegato Power-One Italy Spa

Gentile direttore, ho letto con attenzione l’articolo di Sergio Rizzo dall’eloquente titolo “Gli imprenditori dove sono?”. E mi permetto di rispondere che sono qui, direttore, a Roma a pochi centinaia di metri da Rizzo e in tante altre parti di questo Paese. Un Paese dove per fare impresa si deve fare molta più fatica non solo rispetto al mondo anglosassone ma anche al resto dell’area Euro per non parlare dei Nuovi mondi, i cosiddetti Bric. L’Italia è piena di imprenditori e di imprese come la nostra, la Salini costruttori Spa, che si fono fatte onore nel mondo e hanno portato ovunque con orgoglio il Made in Italy, spesso più apprezzate dove sono andate che nella terra d’origine. Noi abbiamo la gioia nel cuore di aver portato l’acqua e l’elettricità dove prima non c’era, di aver costruito infrastrutture dall’ Africa alla Cina e progresso e sviluppo in tante zone del Pianeta , con semplicità, con il nostro lavoro. Ogni giorno migliaia di nostri dipendenti, qui e altrove, iniziano la giornata sapendo di portare con sé un pezzo del nostro Paese, delle nostre capacità che ci hanno reso così speciali, della nostra storia.. Se mai Ducati andrà in mani straniere, sarà certamente un peccato. Ma mi permetto di concludere dicendo che sarebbe bene che i media e la politica italiani si ricordassero di chi fa impresa e la supportassero non solo quando c’è il rischio di perderne un pezzetto, ma tutti i giorni, nella vita quotidiana. Forse con questo aiuto sarebbe più facile mantenere in Italia i nostri gioielli di cui andiamo orgogliosi ed il nostro paese sarebbe più ricco di opportunità ed occasioni per i giovani.

Pietro Salini
Ad. Salini Spa

“Dove sono gli imprenditori” si chiede Sergio Rizzo questa mattina sul Corriere, ricostruendo i passaggi di proprietà di uno dei nomi più gloriosi dell’industria metalmeccanica italiana, la Ducati. E la sua conclusione è inequivocabile: in questo Paese “molti imprenditori hanno lo sguardo corto”.

LE DOMANDE - Non so quali imprenditori conosca Rizzo, ma prima di tutto vorrei replicare: dove sono le semplificazioni per chi fa impresa? Dove sono le infrastrutture e i servizi per facilitare insediamenti produttivi? Se ci guardiamo intorno, tutto ciò che si muove, ora, in Italia ruota intorno al mondo delle imprese, che proprio in Emilia-Romagna esporta nel mondo più del 70% della sua produzione, da tempo, e da solo. La nostra regione è una delle maggiori realtà produttive del paese, nonostante gli imprenditori, a differenza dei competitor stranieri, debbano continuamente fare i conti con nuove tasse, con un costo del denaro superiore alla media europea, districandosi in cento adempimenti burocratici, per ritagliarsi un minimo di condizioni che gli consentano di continuare a lavorare qui: vale a dire a lavorare in un Paese che sta chiedendo proprio a loro, ed al mondo del lavoro, gli sforzi maggiori, perchè da sè non ce la fa più.

I SACRIFICI - I sacrifici per fronteggiare un mercato competitivo globale che ci sta schiacciando sono immensi: perchè quando c’è una sproporzione di uno a cento fra quello che il sistema fiscale ti prende e quello che lo Stato ti restituisce in termini di servizi, o quando i tuoi concorrenti si avvantaggiano di un sistema di costo del lavoro che è tre volte inferiore al tuo, la competitività è un miraggio. In altre parole, e per concludere: oggi gli imprenditori, tantissimi imprenditori, compresi molti che lavorano con la Ducati e per la Ducati, sono impegnati a continuare a creare “qui” benessere e sviluppo, e vogliono continuare a farlo. Così facendo, fanno valere ancor di più il nome dell’Italia in tutto il mondo, senza comode rendite, con grande senso di responsabilità.

Alberto Vacchi
Presidente di Unindustria Bologna

14 marzo 2012 | 23:00

da - http://www.corriere.it/economia/12_marzo_14/rizzo-imprenditori-risposte_c89c9ade-6e07-11e1-98c2-a788cd669a01.shtml
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« Risposta #106 inserito:: Marzo 20, 2012, 06:28:14 pm »

I costi della politica

Sui terreni di Stato sbocciano poltrone

In 17 mila ettari un dedalo di enti

Al vertice delle società pubbliche ex parlamentari e rappresentanti dei partiti.

Tutto in mano a un ministero che un referendum nel '93 aveva cancellato


ROMA - Rassegniamoci: i 7 milioni di ettari che il magnate brasiliano Cecilio do Rego Almeida comprò nel Mato Grosso sono inarrivabili. Però nemmeno i 338 mila che in Italia secondo la Coldiretti appartengono a soggetti pubblici, sono da buttare via. È una superficie più grande della Valle D'Aosta, con piazzamento assicurato nella top ten dei latifondisti mondiali. Molte terre coltivabili sono di proprietà di Regioni ed enti locali. Ma lo Stato centrale, da solo, ne possiede ben 17 mila ettari. Ossia cinque volte la tenuta di Maccarese, considerata la più grande azienda agricola italiana, ceduta dall'Iri ai Benetton a fine anni Novanta.

Ironia della sorte: proprietario del ben di Dio è un ministero (l'Agricoltura) che gli italiani avevano cancellato per referendum nel 1993. E quei 17 mila ettari, dice un'indagine dei gruppi del Pd nelle Commissioni agricoltura di Senato e Camera guidati da Leana Pignedoli e Nicodemo Oliverio, sono ora uno dei problemi più grossi ereditati dal nuovo ministro Mario Catania insieme a una massa di enti (undici, più un dedalo di società controllate) che fanno capo al suo dicastero. Un groviglio proliferato negli anni per ragioni politiche, che ora i democratici chiedono di sciogliere, riassemblando tutto in soli quattro soggetti, con una proposta di legge per tagliare sovrapposizioni, sprechi e diseconomie.

Prendiamo la ricerca. Il Cra (Consiglio per la ricerca in agricoltura) ha 1.800 dipendenti, 47 centri sparsi per l'Italia e 5.300 ettari a colture sperimentali. Fino al commissariamento è stato in mano all'ex senatore Domenico Sudano, professore di francese già segretario siciliano dell'Udc e in seguito coordinatore locale del Pid, il partito del ministro Francesco Saverio Romano che l'aveva nominato. Però anche l'Inea, con 300 dipendenti e 20 filiali regionali, opera nella ricerca: è presieduto dall'ex consigliere regionale veneto Tiziano Zigiotto, eletto nel 2005 con il listino del governatore e futuro ministro Giancarlo Galan, autore della sua nomina. E fa ricerca pure l'Inran, che ha 160 addetti e un cda dove hanno trovato posto un ex deputato Ds (Giuseppe Rossiello) e un ex candidato azzurro alle regionali venete (Amedeo Gerolimetto).

L'Ismea, 153 dipendenti, finanzia invece l'acquisto dei terreni da parte degli agricoltori. E se gli acquirenti non riescono a rimborsarlo diventa padrone. In questo modo, avendo investito circa 1,5 miliardi, si ritrova proprietario di 11.309 ettari. Non bastasse, l'istituto presieduto da Amedeo Semerari, un tempo esperto agricolo di Forza Italia, controlla altre cinque società. Fra cui Buonitalia, ora in liquidazione. Liquidatore è Alberto Stagno D'Alcontres, fratello del deputato Francesco Stagno D'Alcontres eletto nel 2008 con il Popolo della libertà.
Ma l'Ismea non è l'unica struttura «finanziaria» del ministero. C'è infatti l'Isa, l'Istituto di sviluppo agroalimentare creato nel 2004 dall'ex ministro di An Gianni Alemanno. Ha una quarantina di dipendenti e oltre a finanziare le imprese, detiene una manciata di partecipazioni in aziende agricole. Le risorse investite sono 650 milioni. Denari affidati all'amministratore delegato Annalisa Vessella, consigliere regionale della Campania e consorte del deputato Michele Pisacane, cofondatore del partito di Romano. Con lei, due leghisti (Nicola Cecconato e Giampaolo Chirichelli) e un ex deputato regionale siciliano (Decio Terrana) bocciato alle ultime elezioni.

Il pezzo forte è però l'Agea, che distribuisce i fondi comunitari: sette miliardi l'anno. L'Agenzia per le erogazioni in agricoltura, 300 dipendenti, agisce anche come esattore. Il che ha dato luogo a non pochi effetti collaterali. Come un clamoroso doppio ribaltone che ha riportato al vertice, dopo una sentenza del Tar, l'ex senatore della Lega Nord Dario Fruscio silurato dai suoi perché voleva far pagare le multe appioppate da Bruxelles agli allevatori che sforano le quote latte. I contributi sono pagati sulla base dei dati gestiti dalla Sin, società informatica posseduta al 51% ma sulla cui funzionalità esistono serie riserve da parte degli attuali vertici dell'Agea e dello stesso ministro. Rigorosamente bipartisan la governance: presidente l'ex europarlamentare Ds Francesco Baldarelli, vice l'ex presidente della Provincia di Ragusa Concetta Vidigni, candidata Udc alle europee del 2009 e già esponente del partito di Romano. Mentre le verifiche sono all'Agecontrol, che ha 25 sedi periferiche dalla Sicilia al Veneto e risulta paradossalmente controllata dalla stessa Agea, cioè dal soggetto che eroga i contributi. Presidente è l'ex candidato Udc alla presidenza della Provincia di Caltanissetta, Massimo Dell'Utri, e fra i consiglieri c'è l'ex deputato Ds Ugo Malagnino.

Il massimo però è l'Unire, appena ribattezzata Assi, Agenzia per lo sviluppo del settore ippico. Con il tempo è diventata l'ingombrante presenza dello Stato nel mondo delle scommesse ippiche. Settore, peraltro, che versa in una crisi profonda e a quanto pare irreversibile. Gestisce i calendari delle corse e ha anche una televisione che trasmette le immagini degli ippodromi alle agenzie dove si raccolgono le puntate: dal 2006 al 2008, secondo quanto riferisce lo studio del Pd, ha bruciato 110 milioni di soldi pubblici. Occupa 195 persone e attualmente è in mano a un commissario, il consigliere di Stato Claudio Varrone. Il governo di Silvio Berlusconi l'ha nominato mentre ricopriva l'incarico di capo di gabinetto del ministro del Turismo Michela Vittoria Brambilla.

Sergio Rizzo

20 marzo 2012 | 8:20© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_marzo_20/sui-terreni-di-stato-sbocciano-poltrone-in-17-mila-ettari-un-dedalo-di-enti-sergio-rizzo_a63ff052-7259-11e1-a140-d2a8d972d17a.shtml
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« Risposta #107 inserito:: Marzo 31, 2012, 10:03:48 pm »

IL COMMENTO

Lo Stato ambiguo e gli evasori

Imprenditori, gioiellieri e ristoratori sull'orlo della miseria

Con gli Studi di settore l0 Stato patteggia con gli evasori


Sarebbe da chiedersi se mai qualcosa cambierà dopo aver avuto dai numeri delle ultime dichiarazioni dei redditi la conferma che un dipendente guadagna più del suo datore di lavoro. Fino a quando i gioiellieri si ostineranno a tenere aperte gioiellerie che gli danno a malapena da vivere, i ristoratori continueranno a servire pasti rimettendoci denaro e gli idraulici insisteranno a riparare bagni per beneficenza?

Ci era sembrato che quell'epoca storica fosse ormai al capolinea, come se le incursioni della Finanza a Cortina o nelle strade della movida milanese avessero certificato un radicale cambiamento nel rapporto fra l'Italia e le tasse. Invece non era altro che un miraggio. Perché in un Paese nel quale un contribuente su quattro non paga un centesimo di Irpef e soltanto uno su cento dichiara oltre 100 mila euro, mentre quasi metà delle società di capitali chiude i bilanci in perdita, delle due l'una: o siamo poveri in canna oppure il Fisco continua a restare il nemico assoluto. Al punto che consola appena il dato dei 13 miliardi recuperati nel primo trimestre di quest'anno con la lotta all'evasione. I numeri del dipartimento delle Finanze ci dicono che la strada della pacificazione è ancora molto lunga.
Ma c'è un aspetto che viene sempre ignorato ogni volta che vengono diffusi dati così macroscopicamente incoerenti con la realtà dei nostri consumi. Si chiama in causa l'infedeltà fiscale e si dipinge l'evasione alla stregua di uno sport nazionale, trascurando responsabilità altrettanto gravi di chi ha contribuito a trasformare il Fisco nel nemico assoluto. Per, esempio, quelle che Bruno Tonoletti, professore dell'Università di Pavia, definisce «politiche implicite». Traduzione: si persegue una politica per raggiungere «ufficialmente» un determinato obiettivo, ma gli effetti «ufficiosi» che se ne ottengono sono ben diversi. Talvolta perfino opposti.

Un esempio? L'Italia ha probabilmente i regolamenti edilizi più rigorosi d'Europa. Ma la massa di disposizioni è così imponente e complicata, differente da Regione a Regione da Comune a Comune, e i controlli così inesistenti, che questa impalcatura finisce per favorire un abusivismo senza eguali nel continente. E poi, puntualmente, arrivano i condoni: tre negli ultimi trent'anni. In questo sistema gli italiani e chi li governa si trovano perfettamente a proprio agio. Anche le nostre regole fiscali non sfuggono alla logica diabolica delle «politiche implicite». La prova? Negli ultimi trent'anni ci sono stati regalati, oltre alle tre sanatorie edilizie, tre condoni fiscali tombali.

Non bastasse lo sterminato groviglio di leggi e circolari, ecco i nostri «Studi di settore». Creati dopo il tentativo, andato a vuoto nel 1992, di introdurre la famigerata «minimum tax», allo scopo di far pagare le imposte ai lavoratori autonomi, si sono tradotti nella realtà in un patto con le categorie più vessate da adempimenti, gabelle e burocrazia, e di conseguenza più allergiche al Fisco. Il principio è a dir poco elementare: se paghi almeno un tot ti risparmiamo i controlli. Come se fosse il governo a stabilire una soglia minima di evasione «consentita». Il Fisco ha la coscienza a posto, il professionista o il commerciante pure.
Una ipocrisia travestita con matematica precisione in un meccanismo che arriva a stabilire quanto almeno debba dichiarare il titolare di un esercizio in una certa strada di una certa città. Ma che frana miseramente di fronte alle 206 mila auto del prezzo superiore a 100 mila euro vendute ogni anno dalle concessionarie italiane. O a statistiche impietose, come quelle secondo cui il 64% degli yacht circolanti in Italia sono intestati a nullatenenti, ad arzilli prestanomi ultraottantenni se non a società di comodo italiane o estere. E viene puntualmente smascherata ogni volta che le Fiamme Gialle si accorgono nel corso delle loro indagini che mancano all'appello valanghe di scontrini fiscali. Oppure si scopre che nelle banche svizzere non ci sono più cassette di sicurezza disponibili. Non resta che aspettare il prossimo anno e sperare che finalmente gli imprenditori si decidano a guadagnare qualcosina più degli operai. Ma sappiamo che non succederà, se il primo a credere in questa possibilità non sarà proprio il Fisco.

Sergio Rizzo

31 marzo 2012 | 8:08© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_marzo_31/lo-stato-ambiguo-e-gli-evasori-sergio-rizzo_0349723a-7af4-11e1-b4e4-2936cade5253.shtml
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« Risposta #108 inserito:: Aprile 01, 2012, 12:06:20 pm »

Il dossier |

Trasporti costosi & Internet lento

Perché l'estero non investe in Italia

Determinanti anche durata dei processi e corruzione: dal 2001 al 2010 perse 38 posizioni nella graduatoria Transparency


ROMA - Racconta Rodrigo Bianchi che da due anni non riesce a mettere un mattone dell'asilo nido per le mamme impiegate nella fabbrica di Pomezia della Jonhson&Johnson medical, azienda di cui è presidente e che ne sopporterebbe interamente la spesa. Il motivo? «Esplorazioni archeologiche, problematiche amministrative... Vai a sapere...». Fa presente Nando Volpicelli, amministratore delegato di Schneider electric industrie Italia come le nostre infrastrutture siano in una condizione tale che il costo di trasporto per unità di prodotto dallo stabilimento di Rieti della multinazionale transalpina è «di due euro più caro rispetto al Sud della Francia». Aggiunge il suo collega della Procter & Gamble Italia, Sami Kahale, che da noi costa di più anche la pubblicità per il lancio di una novità: mediamente del 30% rispetto alla Gran Bretagna. E il presidente della Ericsson telecomunicazioni Italia, Cesare Avenia, conclude che «il problema dell'Italia non è tanto l'articolo 18 quanto la certezza del diritto, se si considera che ci sono imprese obbligate a reintegrare dopo cause durate anche sette anni dei dipendenti in posti di lavoro che non esistono più».

Tutto questo e altro ancora c'è in quel numero, 20 miliardi nel 2010 secondo l'Ice, che ci relega nelle posizioni di rincalzo della classifica dei Paesi destinatari degli investimenti esteri. Venti miliardi sono un terzo dei soldi che lo stesso anno sono andati in Francia o a Hong Kong. Un quinto rispetto alla Cina, meno della metà nei confronti della Gran Bretagna. E una cifra due volte e mezzo inferiore perfino a quella incassata dal Belgio. Ma i 20 miliardi del 2010, anno nel quale l'economia europea e mondiale sembrava aver dato segni di ripresa, sono al di sotto anche della media degli investimenti esteri arrivati in Italia fra il 2000 e il 2007. Il che la dice lunga su quanto la situazione si sia ormai incancrenita.

Certo, abbiamo la palla al piede del Sud, dove in vaste zone i capitali stranieri sono frenati anche dal più potente dei dissuasori: la criminalità organizzata. Nel 2006, secondo la Svimez, tutte le Regioni meridionali non assorbivano che lo 0,66% degli investimenti esteri, contro il 68,21% della sola Lombardia. Regione nella quale, dice Invitalia, ci sono 4.433 imprese a partecipazione straniera, contro le 719 dell'intero Mezzogiorno. E se il numero delle aziende italiane nelle quali sono presenti azionisti esteri è aumentato rispetto al 2006 da 7.059 a 8.916, ciò è dovuto principalmente ad acquisizioni di società già esistenti, piuttosto che a nuove iniziative. Pesa il ritardo infrastrutturale. Se nel 1970 eravamo al terzo posto in Europa per dotazione autostradale in rapporto agli abitanti, ora siamo al quattordicesimo. Questo nonostante gli italiani vivano praticamente in automobile. Nel 1991 ce n'erano 501 ogni mille abitanti, nel 2010 eravamo arrivati a 606. Il top, a Roma: più di 700 auto ogni mille abitanti, oltre il doppio di Berlino, e in una città che ha 36 chilometri di metropolitana e 195 di ferrovie suburbane contro, rispettivamente, 145 e 2.811 chilometri della capitale tedesca.

L'Italia è stato il primo Paese europeo a sperimentare l'Alta velocità ferroviaria: la costruzione della direttissima Roma-Firenze è iniziata nel 1970, quando il Tgv francese era ancora nei sogni. Oggi stiamo faticosamente recuperando un gap mostruoso con il resto del Continente, considerando che la Spagna, dove nel 1970 c'era ancora la dittatura franchista, ha 3.230 chilometri di linee veloci, contro gli 876 dell'Italia. E a che prezzo, sta avvenendo quel recupero: 48,9 milioni di euro al chilometro, a fronte dei 10,2 milioni della Francia e dei 9,8 della Spagna. Ma il resto della rete ferroviaria? Conosciamo il calvario al quale sono sottoposti, purtroppo, molti pendolari. Secondo un'indagine dell'Istat il grado di soddisfazione del servizio è sceso fra il 1995 e il 2009 dal 58,6 al 47,2%, toccando il fondo in Calabria: 28,8%.

Mentre attraverso tutti i principali porti italiani, per i loro problemi strutturali, sono transitati nel 2009 meno container (9 milioni 321 mila teu, l'unità di misura del settore) che nel solo scalo olandese di Rotterdam (9 milioni 743 mila teu).

Per non dire dell'infrastruttura oggi più importante: la rete informatica. La classifica 2010 di netindex.com sulla velocità media delle connessioni internet collocava l'Italia al settantesimo posto nel mondo, dietro Georgia, Mongolia, Kazakistan, Thailandia, Turchia e Giamaica.

Ma sulla scarsa attrattività dell'Italia per gli investitori esteri pesa forse ancora di più la burocrazia. Per la Confartigianato rappresenta per le imprese un costo supplementare di 23 miliardi l'anno. Dati Cna e Confindustria ci dicono che per avviare un'attività in Italia sono necessari in media 68 adempimenti, con 19 uffici da contattare. Procedure, secondo il rapporto Doing business della Banca mondiale, che richiedono 62 giorni, contro i 36 della Grecia, i 53 della Francia, i 45 della Germania, i 16 dell'Irlanda, i quattro degli Stati Uniti e i due del Canada. Il che contribuisce a spiegare, almeno in parte, la cattiva reputazione dell'Italia in tema di libertà economica, ben rappresentata dal cinquantottesimo posto nella graduatoria stilata dalla Confindustria elaborando dati della Heritage foundation.

E questo è niente, rispetto al dramma della giustizia civile. Per risolvere un'inadempienza contrattuale davanti al giudice ci vogliono 1.210 giorni: più di tre anni. Il quadruplo del tempo necessario in Francia e il triplo rispetto alla Germania. Addirittura avvilente è il confronto con Paesi come Gran Bretagna, dove sono sufficienti 229 giorni, Svezia (208) o Danimarca (190).

Ancora più avvilente, e drammatica, è la faccenda dei pagamenti della Pubblica Amministrazione. Stato italiano ed enti locali onorano mediamente i propri impegni con i fornitori in 186 giorni, contro i 36 della Germania e i 30 stabiliti come termine tassativo da una direttiva dell'Unione europea. Chi viene pagato in sei mesi, però, può ancora ritenersi fortunato rispetto agli sventurati imprenditori che lavorano con la sanità pubblica: nelle Asl calabresi si arriva a tempi di attesa che sfiorano gli 800 giorni. E non esistono strumenti di autodifesa. Le norme in vigore impediscono di dare il via ad atti esecutivi nei confronti delle Regioni che hanno piani di rientro dal deficit sanitario.

Ci sarà dunque un motivo se nella classifica della competitività internazionale del World economic forum non andiamo oltre la quarantaseiesima posizione. In una situazione del genere non può neppure meravigliare che la corruzione dilaghi, come ha ricordato giusto qualche settimana fa il presidente della Corte dei Conti Luigi Giampaolino. Secondo i magistrati contabili è un macigno che pesa sui conti pubblici per 60 miliardi di euro l'anno. Ma quello che davvero brucia è il paragone con gli altri. Nel 2001 l'Italia era al ventinovesimo posto nella graduatoria di Transparency International della corruzione percepita. Ed era, già allora, messa peggio degli altri Paesi europei. La Germania, per esempio, era al ventesimo posto. Nel 2010 l'Italia è scesa al sessantasettesimo posto, mentre la Germania è risalita al quindicesimo. E anche gli altri partner continentali, pur avendo un pochino peggiorato il proprio ranking, sono ben distanti. Nel 2011, poi, un'altra piccola scivolata, al posto numero 69: quaranta posizioni più giù, e in soli dieci anni...

Sergio Rizzo

1 aprile 2012 | 10:14© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_aprile_01/trasporti-costori-internet-lento-rizzo_699fc15e-7bc3-11e1-95a2-17cafbbd8350.shtml
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« Risposta #109 inserito:: Aprile 10, 2012, 12:00:39 pm »

POLITICAI E REGOLE

Partiti, un fiume di denaro scorre senza controllo. E con il fisco a favore

Soldi ai gruppi, sgravi e fondi ai giornali. Oltre ai rimborsi 220 milioni all'anno. Chi dona alla ricerca detrae 51 volte meno


ROMA - Se non ora, quando? Quando si metterà fine a quel sistema indecente per cui un privato cittadino che finanzia un partito può beneficiare di uno sgravio fiscale 51 volte più favorevole rispetto a chi versa un contributo alla ricerca sulla leucemia infantile? Sono anni che la domanda «se non ora, quando?» risuona in Parlamento: senza risposta. Sono state presentate diverse proposte di legge per chiudere quello sconcio, senza che per nessuna di loro si sia aperto uno spiraglio. Ne ricordiamo in particolare una che ha più di quattro anni, firmata dall'attuale sindaco di Roma Gianni Alemanno e dal capo dell'Italia dei valori, Antonio Di Pietro: mirava a mettere almeno sullo stesso piano le erogazioni liberali alla politica con quelle alle associazioni benefiche. Mai messa all'ordine del giorno, nonostante l'autorevolezza dei proponenti. Destino analogo a quello di un disegno di legge del dipietrista Antonio Borghesi, presentata a giugno del 2008. Così oggi chi dà 100 mila euro a un partito può continuare a risparmiarne 19 mila, visto che la detrazione del 19% è ammessa fino a un tetto di 103 mila euro, mentre chi dona la stessa cifra alla ricerca sulla distrofia muscolare ha uno sconto massimo di 392 euro: perché in questo caso il tetto della detrazione è di 2.065 euro.

LA PROPOSTA - Ma se pensate di scorgere un rossore sulle guance dei politici che non hanno voluto cambiare finora questo stato di cose, vi sbagliate. Perché c'è perfino chi pensa che gli sgravi fiscali astronomici per i partiti siano insufficienti. Il deputato Daniele Galli e il suo collega Giancarlo Lehner, entrambi eletti con il Pdl e passati il primo al Fli e il secondo ai Responsabili hanno depositato il 13 febbraio una proposta di legge per ridurre, sì, i rimborsi elettorali, ma contemporaneamente innalzando dal 19 al 70 (settanta!) per cento la detrazione fiscale per i finanziamenti privati alla politica e portando il tetto per ottenere quel beneficio da 103 mila a 200 mila euro. Disegno di legge il cui esame è già iniziato insieme ad altri, con incredibile solerzia, alla commissione Affari costituzionali della Camera. Traduzione: mentre oggi chi versa 200 mila euro a un partito può risparmiare al massimo 19.570 euro, se passasse questa proposta potrebbe caricarne sulle spalle dei contribuenti 140 mila.

MANI PULITE - Ecco il clima in cui sta iniziando, con imperdonabile ritardo, la discussione sulla trasparenza dei bilanci delle formazioni politiche e sui grassi contributi pubblici che queste ottengono. Sorvoliamo su un particolare: il referendum del 1993 con il quale 34 milioni 598.906 italiani bocciarono la legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Quasi il triplo dei 12,7 milioni di cittadini che nel 1946 votarono per la Repubblica. Sorvoliamo, anche se non si dovrebbe. Quel voto referendario di vent'anni fa fu la prevedibile conseguenza di una situazione profondamente degenerata. Le inchieste di Mani Pulite avevano squarciato il velo su una corruzione diffusa che stava corrodendo il sistema politico. E la risposta del Paese non poteva che essere categorica: basta soldi ai partiti.

LA TESI - A distanza di vent'anni, se dobbiamo prendere per buone non le risultanze delle inchieste dei magistrati ma le denunce della Corte dei Conti, da ultima quella del suo nuovo presidente Luigi Giampaolino secondo il quale oggi il cancro della corruzione è più esteso di allora, c'è il rischio che la situazione sia perfino peggiore. Al punto da far apparire grottesca la giustificazione inconfessabile con la quale i partiti hanno fatto saltare due anni fa, riducendolo a un misero 10%, il taglio del 50% dei rimborsi elettorali proposto dal ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Circolava la tesi, in Parlamento, che una riduzione eccessiva dei fondi pubblici avrebbe rilanciato la corruzione: pensate!

IL TETTO - Ma dopo aver sorvolato su quel referendum del 1993 non vorremmo assistere a qualche sgradevole sorpresa, e cioè che invece di ridurre un conto già salatissimo, si facesse semplicemente sparire la fattura. Magari spostandola dalla luce dei riflettori, oggi tutti concentrati a illuminare i «rimborsi elettorali», la definizione ipocrita che ha assunto dal 1993 continuando così a sopravvivere il famoso finanziamento pubblico, ad altre voci. Tipo detrazioni fiscali maggiorate, per intenderci. Perché i rivoli di denaro dei contribuenti che affluiscono nelle casse dei partiti sono molteplici. Uno di questi è rappresentato, appunto, dagli sgravi fiscali per i contribuiti privati. Quanti soldi sono, nessuno, tranne l'Agenzia delle Entrate, è in grado di dirlo. Con una leggina approvata all'inizio del 2006 è stato infatti portato da 2.500 euro alla rispettabile cifra di 50 mila euro il tetto al di sotto del quale una «erogazione liberale» a un politico o alla sua formazione può tranquillamente restare anonima. Di conseguenza anche la stima che si può fare sui versamenti denunciati ufficialmente alla Camera rischia di essere notevolmente inattendibile. Da questi risulta che nel 2010 privati cittadini e aziende hanno versato ai partiti circa 49 milioni di euro: il che significa un costo per il Fisco di almeno 9 milioni. Ma è inutile dire che potrebbe essere anche molto di più.

LE ASSEMBLEE LEGISLATIVE - Fra quei contributi ci sono anche quelli dei parlamentari. Molti deputati e senatori girano ai partiti una parte dei loro emolumenti: su queste cifre hanno diritto anche loro al famoso sgravio del 19% fino al limite di 103 mila euro annui. Alcuni però attingono non dall'indennità, bensì dal fondo per il collaboratore parlamentare. Al partito vanno quindi soldi pubblici che sarebbero destinati a retribuire il cosiddetto portaborse, sui quali per giunta è possibile applicare una detrazione del 19% nonostante siano esentasse. Impossibile calcolare che cosa significhi questo per le casse di tutte le formazioni politiche. Molto più facile, invece, stimare l'impatto di altre voci. I contributi ai gruppi parlamentari di Camera e Senato non sono altro che un finanziamento pubblico supplementare ai partiti: circa 75 milioni l'anno. Idem vale per i contributi ai gruppi consiliari delle 20 Regioni italiane, il cui totale non è inferiore a quello del Parlamento. In tutto, dunque, alla politica vanno altri 150 milioni pubblici l'anno attraverso le assemblee legislative.

GIORNALI DI PARTITO - Bisogna poi considerare i finanziamenti ai giornali di partito: una cinquantina di milioni l'anno. Se sommiamo tutte queste voci si può calcolare che ai rimborsi elettorali, ancora oggi e fino alle prossime elezioni politiche formalmente pari a 200 milioni l'anno, debbano essere aggiunti altri fondi pubblici per 210-220 milioni. Anche per questa ragione concentrare la discussione sui soli rimborsi rischia di essere riduttivo. Certo su quel versante c'è molto da fare, anche volendo far finta che il referendum del 1993 non ci sia mai stato. Intanto non si può chiamare «rimborso» l'erogazione di una somma a forfait senza alcuna relazione, come non si stanca di ripetere la Corte dei Conti, con i denari effettivamente spesi per la campagna elettorale. Inoltre è quantomeno singolare che questo «rimborso» a forfait venga calcolato anche per il Senato, eletto con il voto di chi ha almeno 25 anni d'età, sulla base del numero decisamente più grande degli elettori della Camera, dove com'è noto si vota a partire dai diciott'anni. Infine è surreale che per entrare in Parlamento occorra superare (finora) una soglia di sbarramento del 4% mentre per accedere ai famosi rimborsi sia sufficiente arrivare all'1%.

LA CORSA IMPAZZITA, LA DIGNITA' - Ma soprattutto è assurdo che tutto questo fiume di denaro scorra senza controlli e nella più assoluta opacità. Qui sta il punto, e qui bisogna prima di tutto intervenire, scrivendo regole chiare e semplici che impongano ai partiti di mettere nei bilanci tutte le loro entrate reali, nero su bianco, e documentando le spese fino all'ultimo euro. Stabilendo dure sanzioni per chi non le rispetta, come il divieto a candidarsi a cariche elettive. Solo partendo da qui si può pensare di arrestare la corsa impazzita dei finanziamenti ai partiti, restituendo alla politica la dignità che merita. Se non ora, quando?

Sergio Rizzo

10 aprile 2012 | 8:51© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_aprile_10/soldi-ai-gruppi-sgravi-e-fondi-ai-giornali-sergio-rizzo_588816d0-82cd-11e1-b660-48593c628107.shtml
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« Risposta #110 inserito:: Aprile 24, 2012, 05:24:53 pm »

UNA RESISTENZA ASSAI INGLORIOSA

I frenatori di Palazzo


Aprendo la fase due del suo governo, Mario Monti aveva annunciato «un lavoro intenso sulla spesa pubblica». Se lo aspettavano i mercati, ma soprattutto gli italiani. Dopo i sacrifici necessari per allontanare il Paese dall'orlo del baratro, dopo il giro di vite sulle pensioni, dopo l'aumento delle addizionali Irpef e dell'Iva, dopo i rincari della benzina, sarebbe finalmente arrivato il momento di tagliare sprechi e spese inutili: liberando così risorse per la crescita, asfittica da anni, e offrendo a tutti la speranza che si sarebbe potuta presto ridurre la pressione fiscale diventata insostenibile. Interessi sul debito compresi, la spesa pubblica supera abbondantemente il 50% del Prodotto interno lordo.

Dal 2000 al 2011, secondo il centro studi Eutekne.info, è salita in termini reali di 124 miliardi di euro, mentre il nostro Pil pro capite , dicono i dati del Fondo monetario, è diminuito del 2,1%. Un macigno pesantissimo. Che alimenta lo spread fra i nostri Btp e i Bund tedeschi, tornato a livelli preoccupanti, nonché lo scetticismo internazionale circa la possibilità che l'Italia consegua il pareggio di bilancio nel prossimo anno.

Di tutto questo Monti sembra perfettamente consapevole, almeno a giudicare da alcune iniziative. I voli blu, che nel 2009 avevano addirittura superato del 22% i livelli record del 2005, quando gli aerei della presidenza del Consiglio solcavano i cieli 37 ore al giorno, sono stati ridotti di oltre il 90%. Mentre le consulenze che Palazzo Chigi per una prassi tanto generosa, quanto irrispettosa del rigore, garantiva a funzionari già in pensione, sono state azzerate.

Vorremmo però che altrettanto consapevoli, oltre ai politici arroccati a difesa dei propri privilegi e dei lauti rimborsi elettorali, fossero anche alcuni ministri e frenatori di cui è piena la pubblica amministrazione: centrale e locale. Il piano taglia-spese, frutto della famosa spending review , doveva partire alla fine di gennaio. Ora sembra che della «revisione della spesa» se ne parlerà a maggio. Inutile girarci intorno. Tutte queste difficoltà hanno a che fare con resistenze radicate e diffuse in una burocrazia potente e refrattaria ai cambiamenti. E che con ogni probabilità si sente ancora più forte nel momento in cui ai vertici politici dell'amministrazione ci sono «tecnici», beninteso validissimi, che ne sono espressione.

Immaginiamo che non sia facile per un militare, qual è l'ammiraglio Giampaolo Di Paola, tagliare come dovrebbe le spese della Difesa. Né per un altissimo dirigente dell'Interno, come il prefetto Anna Maria Cancellieri, affondare quanto sarebbe necessario il bisturi nei conti del Viminale. E neppure per un diplomatico, nella fattispecie l'ambasciatore Giulio Terzi di Sant'Agata, infliggere qualche sana mutilazione al bilancio della Farnesina. Comprensibile che gli pianga il cuore. Ma sarà difficile spiegarlo agli italiani, schiacciati da una tassazione ai record europei con servizi da Terzo mondo. Il tempo della comprensione è scaduto: ora è quello dei tagli. Se ne facciano tutti una ragione.

Sergio Rizzo

22 aprile 2012 (modifica il 24 aprile 2012)© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_22/frenatori-di-palazzo-rizzo_6e5f2586-8c44-11e1-a888-e468d0e8abab.shtml
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« Risposta #111 inserito:: Maggio 06, 2012, 10:46:49 am »

Partiti e fondi

E salta la rinuncia all'ultima tranche

Nelle bozze discusse finora nessun cenno al rifiuto dei soldi di luglio


MILANO - Avevano scherzato. Il congelamento della tranche di luglio dei «rimborsi elettorali», annunciato qualche settimana fa fra i mugugni, sembra destinato a evaporare nel percorso della legge che dovrebbe introdurre controlli sui bilanci dei partiti. Rinunciare a quei 182 milioni è evidentemente ritenuto un sacrificio inutile, ora che ha trovato posto l'idea, in linea con quella del Pd, di ridurre a metà il finanziamento pubblico.
A partire da quando, chissà? In realtà la spiegazione forse è più semplice: quei soldi qualche partito li ha già spesi. Magari facendoseli anticipare dalle banche, come consente la legge. Ecco spiegato perché nella bozza del disegno di legge che circola in queste ore non c'è alcuna traccia dell'atteso «congelamento». Vedremo il testo definitivo, che non sarà reso noto se non dopo le elezioni amministrative di questo fine settimana. Era atteso per ieri, ma i due relatori Giuseppe Calderisi e Gianclaudio Bressa hanno chiesto più tempo per approfondire questioni «tecniche».

SGRAVI FISCALI - Certo, gli aspetti «tecnici» non mancano. Per esempio la composizione della commissione esterna che dovrebbe controllare i bilanci, di cui faranno parte (per evitare gelosie) non più i presidenti delle varie magistrature, ma giudici designati da costoro. Per esempio, l'entità dello sgravio fiscale concesso a chi finanzia la politica: dovrebbe essere raddoppiato dall'attuale 19% al 38%, ma riservando lo stesso trattamento ai contributi versati a tutte le onlus. Se fosse così almeno si porrebbe fine all'odioso e inaccettabile sistema che concede ai finanziamenti alla politica erogati dai privati cittadini un vantaggio fiscale 51 volte più grande rispetto a quello consentito per le donazioni alla ricerca o alle associazioni benefiche. Staremo anche qui a vedere.

SCANDALI - I nodi, però, sono chiaramente politici. Trascorsi ormai dalla presentazione della proposta alla Camera più di 20 giorni, ovvero quanti furono sufficienti al Parlamento nel 1974 per approvare la legge sul finanziamento pubblico dei partiti, si avverte l'ostilità crescente degli apparati. Poco o per nulla turbati, è la sensazione, dagli scandali a ripetizione: come l'ultimo, che investendo l'ex tesoriere del Carroccio Francesco Belsito ha provocato un terremoto ai vertici del partito di Umberto Bossi. Prima la decisione, imposta dalla stessa Lega assieme ad alcuni parlamentari fra cui qualche appartenente al gruppo dei cosiddetti Responsabili, di far deragliare la legge dalla corsia preferenziale dell'approvazione diretta in commissione. Deragliamento sostenuto senza mezzi termini anche da qualcuno nei partiti che avevano proposto la «legislativa», come il deputato del Pd Salvatore Vassallo. «Che cosa si può approvare di veramente urgente oggi che non possa essere approvato fra tre mesi?», era stata la sua reazione quando era stata ventilato il ricorso all'iter abbreviato.

RINUNCIA - Del resto, che il congelamento della tranche di luglio sarebbe stato un boccone assai indigesto non l'aveva nascosto quasi nessuno, nei partiti della maggioranza che oggi sostiene il governo di Mario Monti. Il tesoriere del Pd Antonio Misiani aveva dichiarato: «Con onestà, diciamo di non poter rinunciare al rimborso di luglio». E ancora prima di lui il vice tesoriere del Popolo della Libertà Massimo Corsaro si era rifugiato in corner, definendo «tecnicamente complicata» la rinuncia alla prossima rata. Che cosa potessero significare queste affermazioni, rese da chi materialmente maneggia i quattrini, era intuibile. Come poi si è visto. Ora resta soltanto da capire se chi ha annunciato di non voler intascare quei soldi girandoli al ministro del Lavoro Elsa Fornero (Antonio Di Pietro) o dandoli in beneficenza (il leghista Roberto Maroni) manterrà la coerenza.

OSTILITÀ - Ma l'ostilità crescente degli apparati a una riforma seria deve averla avvertita anche Monti, se ha ritenuto di dover affidare a Giuliano Amato l'incarico, testuale, «di fornire al presidente del Consiglio analisi e orientamenti sulla disciplina dei partiti per l'attuazione dei principi di cui all'articolo 49 della Costituzione, sul loro finanziamento nonché sulle forme esistenti di finanziamento pubblico, in via diretta o indiretta, ai sindacati». Una decisione accolta nel Palazzo con freddo siberiano. Se il sarcasmo del leader della Destra Francesco Storace («Da accapponare la pelle... Dracula all'Avis!») e dell'ex sottosegretario del Pdl Guido Crosetto («Sarei ugualmente polemico se mi proponessero Erode all'Unicef») poteva essere forse prevedibile, meno scontata era certamente la bora che ha investito l'ex premier dal suo stesso schieramento di centrosinistra. Una ventata gelida prontamente registrata da Europa , il quotidiano già della Margherita: per il cui ex tesoriere Luigi Lusi, coinvolto nello scandalo dei rimborsi elettorali, i magistrati ieri hanno chiesto l'arresto. A chi gli domandava se il suo partito avrebbe collaborato con Amato, il segretario democratico Pier Luigi Bersani ha replicato impassibile: «Abbiamo presentato la nostra proposta che è calendarizzata in Parlamento». Mica male, per essere l'inizio.

Sergio Rizzo

4 maggio 2012 | 8:53© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_maggio_04/finanziamenti-partiti-Rizzo_192b6318-95b3-11e1-b2cf-0f42ed87ec02.shtml
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« Risposta #112 inserito:: Maggio 13, 2012, 05:50:38 pm »

Bruxelles / Micro-interventi a pioggia, per il 40% non c'è una proposta scritta

Speso solo il 9% degli investimenti Ue

Lo scandalo dei contributi non utilizzati

Fra le 200 regioni del continente, quelle meridionali in dieci anni perdono quaranta posizioni per Pil pro capite


ROMA - Ricordava soprattutto l'«imbarazzo», Carlo Azeglio Ciampi. Una sensazione sgradevole che provava quando a Bruxelles, da ministro del Tesoro, si sentiva dire che fra i Paesi europei l'Italia era quello «più indietro» nell'uso dei fondi comunitari. L'ex governatore della Banca d'Italia rese questa amara confessione a Nuoro, il 10 ottobre del 2000. A Roma c'era il governo di Giuliano Amato. Due anni prima l'attuale ministro della coesione Fabrizio Barca, chiamato al Tesoro proprio da Ciampi, aveva lanciato «Cento idee» per lo sviluppo del Sud. Fu accorata, la requisitoria del presidente della Repubblica, al Quirinale da appena un anno e mezzo. Accorata ma durissima contro il «grande spreco» dei soldi europei inutilizzati, che avrebbero potuto far crescere il Sud. Uno spreco ancora più insultante perché «sono in qualche modo soldi nostri, che vengono dalle nostre tasche, dal nostro lavoro». Ciampi disse che era arrivato il momento di voltare pagina, farla finita con le opere incompiute e mettersi d'impegno per usare i soldi. Perché «ognuno è artefice del proprio destino».

Parole che potrebbero essere state pronunciate oggi: in questi dodici anni non è stato fatto neanche un piccolo passo avanti. E se il divario fra il Sud e il Nord si è fatto ancora più spaventoso la responsabilità è anche di chi non ha provveduto a sfruttare quel tesoro. Secondo la Svimez il Prodotto interno lordo medio delle Regioni meridionali era nel 1951 pari al 65,5% di quello del Centro Nord. Nel 2009, al culmine della recessione precedente, era sceso al 58,8%: appena sopra al 56% del 1995. Conseguenza della più bassa crescita, ovvio. Ma il confronto con le altre aree europee svantaggiate fa toccare con mano che cosa abbia significato per il Sud d'Italia «lo spreco» immane dei fondi europei inutilizzati denunciato nel 2000 da Ciampi. Nella graduatoria delle 208 regioni continentali meno sviluppate, quelle del Sud Italia si situavano nel 1995 tra il 112° e il 192° posto. Dieci anni dopo erano scivolate tra il 165°e il 200°. Dal 1999 al 2005 il Prodotto interno lordo di ogni singolo cittadino delle aree dell'«obiettivo 1» (le più arretrate) è cresciuto del 3%, in Italia dello 0,6%. Cinque volte di meno. Ci sono regioni che si erano affrancate da quel livello di povertà, traducibile per le statistiche comunitarie in una ricchezza media procapite inferiore al 75% della media continentale, e ci sono ripiombate. Nel 2001 la Basilicata aveva raggiunto l'83%, sei anni dopo era al 75%. La Sicilia è passata dal 75% al 66%. La Puglia, dal 77% al 67% del 2007.

Va detto che quelli dell'Europa non sono gli unici denari a giacere nei cassetti. L'Associazione dei costruttori, per esempio, si lamenta che da agosto 2011 il Cipe ha stanziato 19 miliardi per le infrastrutture: tuttora fermi. Ma ha ragione Rita Borsellino, europarlamentare democratica e sorella del giudice Paolo Borsellino, a definire «irresponsabile» una certa gestione dei fondi strutturali europei: rammentando come in Sicilia al 30 giugno dello scorso anno fosse stato completato appena l'8% dei progetti finanziati a valere sui piani 2000-2006. Per rendersi conto di quanto la situazione sia grave basta leggere l'ultima relazione della Ragioneria generale dello Stato, sfornata giusto un anno fa. La massa finanziaria destinata all'Italia da Bruxelles per il periodo che va dal 2007 al 2013 è imponente: fra finanziamento comunitario e contributo nazionale ben 59,4 miliardi di euro, di cui ben 47 destinati al Sud. Ebbene, alla fine del 2010 soltanto un quinto di quella somma enorme era stato già impegnato. In tutto 12 miliardi, il 18,9% del totale. Ma i denari effettivamente spesi erano molti, ma molti meno: 5,9 miliardi, ovvero il 9%. Un bilancio imbarazzante, considerando che il primo triennio 2007-2010 era già scaduto.

Semplicemente abissale, poi, la differenza fra Sud e Nord. Nelle Regioni meridionali la spesa reale era all'8,2%, contro il 16,3% del resto d'Italia. Tenendo conto delle risorse utilizzabili nel solo primo triennio, pari a 33,5 miliardi, ecco che le otto regioni meridionali erano riuscite a impegnarne il 23,6%, con una spesa effettiva, però, non superiore all'11,4%. E il bello è che le amministrazioni centrali, che tutti noi immaginiamo più efficienti rispetto alle strutture regionali, sono riuscite a fare appena meglio, con impegni pari al 41,2% e una spesa reale del 21%. Per fare un paragone, lo Stato ha realizzato una performance tripla rispetto alla Calabria, che si è fermata al 7%, ma soltanto un po' più decente di quella della Sardegna, regione che ha speso il 17,2%. Senza riuscire ad avvicinarsi al Veneto, dove l'utilizzo reale dei fondi europei si è attestato a un pur modesto 25,5%.

Sulle cause si è discusso a lungo. Spesso si tira in ballo la scarsa (o scarsissima) capacità progettuale delle amministrazioni locali o centrali. Ma non c'è dubbio che ci sia anche il concorso dell'indolenza burocratica e di una certa miopia della politica. Le conclusioni a cui sono giunti i magistrati della Corte dei conti in una recentissima indagine sull'uso dei fondi comunitari nel periodo 2000-2006 da parte della regione siciliana sono illuminanti. Si parla di «eccessiva frammentazione degli interventi programmati e notevolissima presenza di progetti non conclusi, pari al 35 per cento della spesa certificata», che «hanno sfavorevolmente inciso sullo sviluppo locale e non hanno prodotto l'auspicato miglioramento delle condizioni di vita della popolazione». Non bastasse, i ricambi ai vertici delle strutture regionali seguiti alle vicende politiche, «hanno di fatto rallentato la spesa compromettendo l'efficacia del programma regionale» mentre il livello molto elevato di errori e irregolarità «denota la carenza dei controlli e una generale scarsa affidabilità degli stessi».

L'Ifel, il centro studi dell'Associazione dei Comuni, sottolinea che gli interventi sono spesso troppo frammentati, con una generale incomprensione fra gestione a programmazione, quando i fondi non vengono utilizzati per progetti non strategici. L'Anci ha calcolato che i Comuni, destinatari di una trentina di miliardi per il periodo 2007-2013, hanno messo in cantiere qualcosa come 2.410 progetti distribuiti per 1.293 municipi. La dimensione media è infinitesima: il valore del 43,5% delle iniziative non supera 150 mila euro. Nella sola Calabria si sono mobilitati, sulla carta, 264 Comuni. La dimensione media è infinitesima: il 43,5% delle iniziative non supera nemmeno 150 mila euro. E poi ci si stupisce che per il 40% dei progetti non ci sia nemmeno una pagina scritta, né un segno sulla carta.

Sergio Rizzo

12 maggio 2012 | 12:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_maggio_12/speso-poco-degli-investimenti-ue-rizzo_4fe7f472-9bfb-11e1-a2f4-f4353ea0ae1a.shtml
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« Risposta #113 inserito:: Maggio 15, 2012, 11:39:21 am »

Il costo dello Stato

Ogni cittadino spende 2.849 euro per i dipendenti pubblici

Corte dei conti: produttività in calo. E critica l'intesa sugli statali


ROMA - Se si misura il costo degli stipendi pubblici in rapporto ai cittadini, noi italiani spendiamo decisamente più dei tedeschi: 2.849 euro ciascuno, contro 2.830 euro in Germania. Ovvio. Meno ovvio, forse, che la nostra spesa procapite sia superiore anche a quella di Grecia (2.436) e Spagna (2.708). Va detto che ci sono Paesi anche più generosi dell'Italia. Per esempio il Regno Unito (3.118) e l'Olanda (3.557). Per non parlare della Francia (4.001), dove peraltro dovrebbe salire quest'anno ancora di 4 miliardi.

Il vero problema non è però il livello della spesa, peraltro perfettamente allineato alla media europea dell'11,1% del Prodotto interno lordo (anche se di ben 3,2 punti superiore alla Germania dove in dieci anni è calato dello 0,3% mentre da noi è salito dello 0,6%). Piuttosto, la sua efficienza, e qui sta il vero problema della pubblica amministrazione made in Italy. Lo dice senza mezzi termini un rapporto della Corte dei conti: «In un contesto caratterizzato dalla perdita di competitività del sistema Italia preoccupanti segnali riguardano la produttività del settore pubblico».

In quella relazione appena sfornata dalla magistratura presieduta da Luigi Giampaolino c'è un grafico che mostra come proprio la produttività, cresciuta nel 2010 di oltre il 2%, sia tornata lo scorso anno a zero, ricominciando nel 2012 perfino a scendere «in linea con le stime dell'andamento del Pil». Dunque, il costo del lavoro per unità di prodotto riprende a salire. Di chi la colpa? L'assenza della meritocrazia. La relazione spiega che il blocco della contrattazione deciso nel 2010 per tamponare le spese ha «comportato il rinvio delle norme più significative in materia di valutazione del merito individuale e dell'impegno dei dipendenti contenute nel decreto legislativo n. 150 del 2009». Ma ha pure «impedito l'avvio del nuovo modello di relazioni sindacali delineato nell'intesa del 30 aprile 2009 maggiormente orientato a una effettiva correlazione tra l'erogazione di trattamenti accessori e il recupero di efficienza delle amministrazioni».

Musica per le orecchie dell'ex ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta, artefice di quella operazione. Mentre il successore Filippo Patroni Griffi, che era stato anche capo di gabinetto dello stesso Brunetta, non ha resistito: «Premiare i migliori e aumentare la produttività sono le nostre priorità. Bisogna metterle in pratica». Anche se i magistrati non ne sembrano proprio convinti, a giudicare dalle «perplessità» sul «contenuto della recente intesa fra Governo, Regioni, Province, Comuni e sindacati» manifestate nel rapporto. La Corte dei conti dice che quell'accordo, «azzerando il percorso» della riforma Brunetta, rischia di lasciare tutto com'è: consentendo cioè che nel pubblico impiego si privilegi la «distribuzione indifferenziata dei trattamenti accessori al di fuori di criteri realmente selettivi e premiali».

Intanto però gli effetti del giro di vite deciso un paio d'anni fa si sono fatti sentire, eccome. Basta dire che per la prima volta, da quando è stata introdotta una specie di «privatizzazione» del rapporto di lavoro, il costo del personale pubblico nel 2010 è diminuito. Esattamente dell'1,5%, per un esborso complessivo di 152,2 miliardi. Niente di eclatante, ma per un Paese come l'Italia è un fatto storico. I dipendenti pubblici a fine 2010 erano 3 milioni 458.857. Ovvero, 67.174 in meno rispetto a un anno prima. Si è sforbiciato dappertutto, con un paio di eccezioni. Come le solite Regioni e Province a statuto speciale, che neppure nel 2010 hanno voluto rinunciare ad accrescere gli organici: anche in un comparto come la scuola. Mentre nel resto d'Italia il personale scolastico diminuiva di circa 32 mila dipendenti, negli istituti di Trento e Bolzano si gonfiava di 441 unità.

E poi c'è Palazzo Chigi. Nell' annus horribilis del pubblico impiego, mentre scattava quel giro di vite senza precedenti, era l'unico posto dove paghe e dipendenti continuavano ad aumentare a ritmi forsennati. Alla presidenza del Consiglio dei ministri, nel 2010, si spendevano per gli stipendi al personale 198 milioni e 700 mila euro: l'11,2% in più in un solo anno. Depurando la cifra degli arretrati, si arriva addirittura al 15,5%. Semplicemente pazzesco l'aumento dell'esborso per le retribuzioni dirigenziali, cresciuto del 20%. Con punte astronomiche del 35,5% e del 57% rispettivamente per i dirigenti di prima e seconda fascia a tempo determinato. Il tutto mentre anche il numero dei cedolini saliva senza sosta. Alla fine dell'anno raggiungeva le 2.543 unità con un aumento del 7%, che toccava l'8,9% considerando il solo personale non dirigente. Motivo, la stabilizzazione di ben 142 precari.

Com'è possibile che questo sia accaduto nonostante il blocco delle buste paga di tutti i dipendenti pubblici? Elementare: «Incrementando gli addetti della Protezione civile ed estendendo l'applicazione dei contratti collettivi del comparto al personale trasferito alla presidenza del Consiglio», fra cui «gli addetti alla segreteria tecnica del Cipe» e quelli «in servizio presso il dipartimento del Turismo e dello sport», spiega la relazione della Corte dei conti. Nella quale si sottolinea come nel 2010 siano state finalmente considerate in quella voce di spesa anche le retribuzioni dei collaboratori dei politici, estranei alla pubblica amministrazione. Il dato di quanti fossero nel penultimo anno del governo di Silvio Berlusconi non è conosciuto: né il rapporto rivela il numero dei dipendenti presi «in prestito» da altri uffici pubblici. Specificando però che questi, "pur in flessione», continuano «a rappresentare oltre il 40% del personale in servizio». Se questo è vero, nella miriade di uffici della presidenza del Consiglio disseminati per Roma lavorano non meno di 4.500 persone.

Più o meno quante ne mancano nella pubblica amministrazione a causa dei permessi e dei distacchi sindacali. Rielaborando i dati della Funzione pubblica, la Corte dei conti giunge a questa conclusione: «la fruizione di aspettative retribuite, permessi, permessi cumulabili e distacchi relativamente al 2010 può essere stimata come l'equivalente all'assenza dal servizio per un intero anno lavorativo di 4.569 unità, pari a un dipendente ogni 550 in servizio». Con un costo «a carico dell'erario» pari a 151 milioni. E «al netto degli oneri riflessi».

Sergio Rizzo

15 maggio 2012 | 7:27© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_maggio_15/rizzo-dipendenti-pubblici-sprechi-corte-conti_559fd1bc-9e4b-11e1-b8e5-2081876c6256.shtml
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« Risposta #114 inserito:: Giugno 08, 2012, 05:41:50 pm »

SCELTE (NON TROPPO) INDIPENDENTI

Il mercatino delle autorità

È davvero bizzarro un Paese nel quale si pensa di risolvere ogni problema creando una nuova authority . L'ultima in ordine di apparizione è l'organismo indipendente che Camera e Senato dovranno costituire per sorvegliare le pubbliche finanze, previsto dalla legge costituzionale con cui è stato introdotto il pareggio di bilancio. Non bastava la Corte dei Conti, cui la nostra Carta fondamentale assegna quel compito? Per non parlare della Ragioneria generale, considerato il gendarme dell'Erario. E senza considerare che ciascuno dei due rami del Parlamento ha già una propria struttura dedicata all'esame dei bilanci.

Il tutto mentre lo Stato ha una vaga idea del perimetro della spesa pubblica, conosce a malapena il numero di stipendi pagati dai contribuenti e ignora perfino quanto guadagnano i suoi alti burocrati: al punto da dover chiedere a loro stessi, per poter applicare il tetto alle buste paga, di dichiarare la reale retribuzione percepita.

In compenso, sappiamo con certezza come saranno individuati i membri di questa ennesima authority . Dopo aver visto che cosa è successo con il Garante delle comunicazioni non ci facciamo illusioni. Sia chiaro: nessuno ce l'ha con i singoli. Non con Antonio Martusciello, ex dipendente di Silvio Berlusconi ed ex onorevole azzurro sbalzato fuori ancora giovane dai ranghi più elevati del partito, che non poteva certo ritrovarsi, a soli 50 anni, nella penosa condizione di baby pensionato del Parlamento. Né con Antonio Preto, ex capo di gabinetto del commissario europeo Antonio Tajani e autore di saggi insieme all'ex ministro Renato Brunetta. Ma neanche con Francesco Posteraro, vice segretario generale di Montecitorio sponsorizzato da Pier Ferdinando Casini, che potrà sommare alla lautissima pensione della Camera anche i 260 mila euro dello stipendio da commissario Agcom. E neppure con Maurizio Dècina, considerato superesperto del settore, indicato dal Partito democratico.
Ce l'abbiamo con chi li ha scelti, per il modo in cui l'ha fatto. Attendersi che questi partiti rinunciassero alle loro prerogative, magari designando i componenti dell' authority con bandi pubblici europei, era forse troppo.

Ma è pacifico che quei 90 curriculum arrivati in Parlamento per la selezione delle candidature nessuno di chi ha avuto voce in capitolo li ha mai aperti. Nemmeno nel Pd. Tutto era stato già deciso nelle trattative interne e con gli altri leader di partito: sfogliando non le note caratteristiche dei candidati, ma il caro vecchio manuale Cencelli in base al quale nella prima Repubblica i partiti si dividevano le nomine nelle aziende pubbliche. Con l'obiettivo non secondario, concedendo a Casini la seconda poltrona dell'Agcom teoricamente di spettanza democratica, di spianare la strada per un posto all'Autorità della privacy al primario dermatologo Antonello Soro, l'ex capogruppo democratico che aveva dovuto liberare quella poltrona per Dario Franceschini.

E gli altri, ovvio, non sono stati a guardare. La Lega ha piazzato alla Privacy Giovanna Bianchi Clerici, consigliere Rai. Mentre il partito di Silvio Berlusconi è stato soddisfatto con Augusta Iannini, capo dell'ufficio legislativo della Giustizia prima con Angelino Alfano e poi con Paola Severino, incidentalmente consorte del conduttore di «Porta a Porta», Bruno Vespa.
La sceneggiata penosa dei curriculum, quella almeno ce la potevano risparmiare.

Sergio Rizzo

7 giugno 2012 | 8:36
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da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_07/mercatino-autorita-rizzo_538ed22a-b060-11e1-b62b-59c957015e36.shtml?fr=correlati
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« Risposta #115 inserito:: Luglio 05, 2012, 11:55:36 am »

IL CASO - PALAZZO DEI NORMANNI

Sicilia, più dipendenti del Governo inglese

La presidenza della Regione ne conta 1.385 - Downing Street si ferma a 1.337


ROMA - Esiste in Italia un ufficio pubblico dove c'è un dirigente ogni sei impiegati. Si trova a palazzo dei Normanni, Palermo: è la presidenza della Regione siciliana. Ma il governatore Raffaele Lombardo sappia che non è l'unico in Europa a guidare un esercito pieno zeppo di generali. Il premier britannico James Cameron è nelle sue stesse condizioni: anche a Downing Street ogni dirigente ha in media sei sottoposti. Il fatto è che pure i numeri sono più o meno gli stessi. Cameron ha 198 dirigenti, Lombardo 192. Quanto ai dipendenti il Cabinet Office, equivalente della nostra presidenza del Consiglio, ne ha 1.337: quarantotto meno dei 1.385 che la presidenza della Regione siciliana contava alla fine del 2011.

Ciò basta per immaginare quali stupefacenti risultati potrebbe dare da queste parti una seria spending review . Afferma la relazione della Corte dei conti sul rendiconto del bilancio 2011 che la Regione siciliana ha ufficialmente 17.995 dipendenti. Su questo numero si è a lungo polemizzato, anche a proposito di paragoni che pure in Sicilia non vengono ritenuti congrui come quello con la Lombardia, Regione che ha il doppio degli abitanti ma un quinto del personale. Ma è una cifra che non dice ancora tutto. Intanto perché nel 2011, anno in cui riesplodeva la crisi economica più drammatica da un secolo a questa parte, ben 4.857 di questi dipendenti, in precedenza reclutati con contratto a termine, sono stati assunti in pianta stabile, a tempo indeterminato. Il che, argomentano i giudici contabili, non mancherà di avere ripercussioni future sui conti regionali. E poi perché a quei 17.995 se ne devono aggiungere altri 717 comandati e distaccati presso altre strutture che comunque fanno capo alla Regione. Oltre a 2.293 a tempo determinato il cui stipendio è pagato in qualche modo dall'ente. Totale: 21.005. Un totale, però, anch'esso incompleto. Dove mettiamo, infatti i 7.291 dipendenti delle 34 società controllate o collegate alla Regione siciliana? Se contiamo anche quelli arriviamo a 28.796. E facciamo grazia di forestali e lavoratori socialmente utili (24.880) in forza a molti Comuni, in parte a carico della casse regionali. Personale le cui retribuzioni sono state al centro di un durissimo scontro fra Lombardo e il commissario di governo che aveva impugnato l'ultima legge finanziaria nella quale era previsto il ricorso a un mutuo, anche per far fronte a quel problema, di 558 milioni. Una somma che avrebbe ingigantito ancora di più il debito della Regione, già cresciuto nel 2011 di altri 818 milioni arrivando al valore record di 5,3 miliardi.

I soli dipendenti «ufficiali» assorbono 760,1 milioni, e si tratta di un costo superiore del 45,7% rispetto al 2001. Se però calcoliamo anche gli oneri sociali, allora si arriva a un miliardo 80 milioni. Cioè poco meno della metà del costo del personale delle quindici Regioni a statuto ordinario. Le quali hanno, tutte insieme, un numero di dirigenti pari a quello della sola Sicilia. Sono 1.836. Ce n'è uno ogni 9 impiegati, con vette di 5 o 6 in alcune strutture, come appunto la presidenza della Regione. L'anno scorso sono entrati in posizioni di responsabilità anche diversi soggetti esterni, circostanza che ha indotto la Corte dei conti a queste considerazioni: «È poco plausibile, a fronte di oltre 1.800 dirigenti di ruolo, ritenere che non siano già disponibili idonee professionalità all'interno dell'amministrazione. La mancata valorizzazione delle risorse interne è in definitiva la causa dei costi sostenuti per retribuire i dirigenti esterni per i cui emolumenti è previsto un tetto massimo di 250 mila euro, di gran lunga superiore alla retribuzione massima dei dirigenti generali interni». Per non parlare dei sette «uffici speciali» istituiti, secondo i magistrati, con «motivazioni alquanto generiche» e spesso «duplicazioni di funzioni già attribuite» ad altre strutture. Nel rapporto si cita a titolo di esempio l'ufficio speciale Energy manager , che ha funzioni del tutto analoghe a quelle del Dipartimento regionale per l'energia.

Ma se al costo del personale «ufficiale» sommiamo anche quello dei dipendenti delle società partecipate (226 milioni) e dei dipendenti pensionati, che in Sicilia sono a carico della Regione (641 milioni), allora veleggiamo di slancio verso i due miliardi. Dal 2004 al 2011 la spesa previdenziale è cresciuta del 31%, anche a causa di alcuni privilegi assolutamente sorprendenti sopravvissuti fino allo scorso mese di gennaio e che avranno effetti a lungo, negli anni a venire. È appena il caso di ricordare che per i dipendenti della Regione la riforma Dini, quella che ha introdotto il metodo di calcolo basato non più sulla retribuzione ma sui contributi effettivamente versati, è entrata in vigore con otto anni di ritardo: il primo gennaio 2004, anziché il primo gennaio 1996 come per tutti i comuni mortali. Per giunta, fino all'inizio di quest'anno potevano andare in pensione con soli 25 anni di servizio tanto quelli colpiti da disabilità, quanto coloro che avevano un genitore disabile. Nel 2011 si sono pensionati anticipatamente perché figli di disabili 464 dipendenti regionali, contro 297 nel 2010, 230 nel 2009, 196 nel 2008, 165 nel 2007, 125 nel 2006, 138 nel 2005 e 121 nel 2004. Da quando, proprio nel 2004, è stata perfezionata questa disposizione, hanno avuto la baby pensione, con un crescendo rossiniano, in 1.736. Celebre il caso di Pier Carmelo Russo, pensionato a 47 anni per assistere il padre disabile, nominato però subito dopo assessore della giunta Lombardo. Alle polemiche, lui ha replicato: «Quando sono andato in pensione il mio stipendio era prossimo a diecimila euro ed ero segretario generale della Regione, il massimo livello della carriera burocratica. Ho preferito il mio amatissimo padre e sono orgogliosissimo di averlo fatto. Da quando faccio l'assessore non ho mai percepito un centesimo. Tutta la mia indennità (300.000 euro lordi annui) l'ho devoluta in beneficenza. Mi considero una persona oltremodo fortunata e desidero sdebitarmi con la Divina Provvidenza».

Ai posteri l'ardua sentenza. Sempre che la Regione possa in futuro pagare anche le loro, di pensioni. Già oggi il tasso di copertura dei contributi non arriva che al 28,7%.

Sergio Rizzo

5 luglio 2012 | 8:03© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_luglio_05/sicilia-piu-dipendenti-governo-inglese-rizzo_dfbf11cc-c660-11e1-8ab7-67e552429064.shtml
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« Risposta #116 inserito:: Luglio 20, 2012, 10:19:07 am »

UN’EMERGENZA DA NON DIMENTICARE

C’era una volta il terremoto

Due mesi fa il terremoto feriva l’Emilia e la Lombardia, sfiorando anche il Veneto. Le scosse sbriciolavano chiese e torri in piedi da centinaia d’anni, sfigurando città e paesaggi. La strage dei capannoni ci presentava un conto impressionante di vite perdute e metteva in ginocchio il cuore pulsante dell’Italia produttiva.

La prima cosa che oggi va sottolineata è la dignità con la quale i nostri fratelli emiliani e lombardi stanno affrontando la prova terribile alla quale sono sottoposti. La seconda, che come nessun’altra calamità di analoghe proporzioni questo terremoto è stato velocemente dimenticato.

Con qualche lodevole eccezione, l’attenzione su ciò che sta accadendo nelle zone colpite dal sisma si è affievolita progressivamente. Fino quasi a spegnersi. Ci sono frammenti importanti di quel dramma, l’ha già denunciato il Corriere, che sono stati relegati nella serie B mediatica. Per esempio, i terribili danni subiti dai Comuni del Mantovano.

La tensione, insomma, si è allentata. Anche se questo non significa che lo Stato si sia disinteressato del terremoto padano. I Vigili del fuoco e la Protezione civile sono stati formidabili. E mettere sul tavolo due miliardi e mezzo, con l’aria che tira, non è stato proprio uno scherzo. Ma anche l’encomiabile decisione di pubblicare online tutti i dati sui contributi (e sui beneficiari) è senza precedenti. E le comunità locali? Ci sono Municipi con organici già al lumicino dove i pochi impiegati lavorano da due mesi diciotto ore al giorno. Mentre i capoluoghi di provincia si sono tenuti fuori dal cratere per non privare di risorse i piccoli centri più colpiti. Sapendo che il più difficile viene adesso e i problemi sono gli stessi di ogni terremoto. Le stime dei danni vanno a rilento perché si usa troppa carta e poca informatica. Le procedure burocratiche sono spesso complicate. I denari dell’emergenza, c h e non è esaurita, sono già finiti e quelli per la ricostruzione sicuramente non basteranno. Per i palazzi storici, poi, siamo in altissimo mare. E via di questo passo.

Il terremoto dimenticato conferma che nell’emergenza siamo bravissimi. Peccato che subito dopo saltino fuori tutti i nostri difetti. Così anche nella gestione della cosa pubblica: prendiamo decisioni in un baleno, ma quando si tratta di applicarle finiamo nel pallone. Veti incrociati, ricorsi, inerzie della burocrazia... Tutto si ferma. Tutto continua come prima. È un destino del quale ci dobbiamo liberare, se vogliamo risollevarci. Tanto da un sisma squassante, come dalla più grande crisi economica dell’ultimo secolo.

Perciò è importante non dimenticare. Anche se è più comodo il contrario: diversamente, avrebbero avuto il coraggio di allentare i vincoli edilizi sulle falde del Vesuvio, una delle aree più a rischio del mondo intero, dove vivono centinaia di migliaia di persone? Proprio adesso?

Sergio Rizzo

20 luglio 2012 | 7:52© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_20/cera-una-volta-il-terremoto-rizzo_195e80dc-d22a-11e1-8c20-46cab27756be.shtml
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« Risposta #117 inserito:: Luglio 30, 2012, 09:40:07 am »

I RESISTENTI DELLA SPESA PUBBLICA

Gli smemorati del Belpaese

Non serve la palla di vetro per immaginare come potrebbe andare a finire. Trasferendo le loro funzioni a Comuni e Regioni, il decreto salva Italia avrebbe cancellato di fatto le Province. Con la giustificazione di un ricorso pendente alla Corte costituzionale, anche se non si possono escludere pesanti pressioni politiche, il governo Monti aveva poi preferito imboccare con la spending review una strada diversa: non più l'abolizione, ma la riduzione del numero e l'accorpamento degli enti più piccoli. Una volta in Parlamento, si è però passati al semplice «riordino». Che non verrà deciso dall'esecutivo, ma dalle autonomie locali: cioè dalle stesse Province. Un po' come dare al cappone il potere di scegliere quando e in quale modo celebrare il Natale.

Ecco la lezione impartitaci ancora una volta dalla tanto attesa revisione della spesa che si vota domani al Senato. Nel momento in cui siamo chiamati ad affrontare un'emergenza, dal terremoto alla crisi finanziaria, riusciamo a dare il meglio di noi stessi. Con il governo tecnico siamo perfino riusciti a reinterpretare in chiave moderna il ruolo di Cincinnato. Ma quando sembra che l'urgenza immediata sia passata, anche solo per un momento, allora salta fuori il lato peggiore. Bastano una dichiarazione di Mario Draghi, lo spread che allenta la morsa e un paio di giorni di euforia in Borsa per far tornare a galla, intatti e se possibile incattiviti, tutti i vecchi vizi. Veti incrociati, interessi corporativi, tornaconti personali. Alla faccia di un debito al 123,3 per cento del Prodotto interno lordo, della recessione, dei tassi d'interesse alle stelle. E se poi, fatalmente, lo spread dovesse riprendere la propria corsa, ci sono già i colpevoli pronti. Qualcuno tirerà in ballo la crudeltà mentale di Angela Merkel, che vuole impedire alla Banca centrale europea di aiutare i Paesi in difficoltà. Altri si rifugeranno nell'ovvietà: l'Italia non è la Grecia né la Spagna. Indignandosi perché ci hanno messo insieme ai Pigs , i «maiali» dell'Unione monetaria. Fioriranno dotte argomentazioni circa il fatto che la differenza di rendimenti fra Btp e Bund non riflette il vero stato della nostra economia reale. Né mancherà chi ci spiegherà che noi, i compiti a casa, li abbiamo già fatti, e semmai adesso tocca ai maestrini di Berlino. Aggiungendo magari che fra lo spread di Monti e quello di Berlusconi non c'è alcuna differenza: tanto valeva, perciò, tenerci il Cavaliere.

In pochissimi diranno l'unica verità che vale la pena di ascoltare. Che se ci troviamo in questa situazione è perché i compiti a casa non li abbiamo fatti per vent'anni. E che la signora Merkel, alla quale si possono rimproverare tantissime cose, su un punto ha ragione da vendere: perché la moneta unica abbia un senso, chi ne fa parte deve avere i bilanci in ordine. Il tempo della finanza allegra è finito per tutti. Se l'Italia allineasse i costi per il funzionamento delle pubbliche amministrazioni a quelli della Germania il risparmio sarebbe di 50 miliardi l'anno. Far finta di ignorarlo è da irresponsabili. La revisione della spesa può essere l'occasione per una prova di maturità, dimostrando che siamo in grado di dare il meglio anche senza essere sull'orlo del baratro. Non sprechiamola.

Sergio Rizzo

29 luglio 2012 | 8:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_29/gli-smemorati-del-bel-paese-sergio-rizzo_f27c52be-d945-11e1-baf7-133d6e5f95b5.shtml
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« Risposta #118 inserito:: Agosto 16, 2012, 07:15:21 pm »

RIFORME A OSTACOLI

Il taglio impossibile delle Province tra ribellioni, cavilli e rinvii

Anche gli enti che non vogliono sparire decideranno sul «riordino»

ROMA - «Morituri te salutant». Apostrofava così i cronisti, nell'agosto dello scorso anno, Fabio Melilli, presidente della Provincia di Rieti: l'unica del Lazio che in base ai criteri studiati dall'allora ministro della Semplificazione Roberto Calderoli sarebbe stata azzerata. Beffardo, ma per nulla rassegnato. «La procedura è incostituzionale e non porterà da nessuna parte», sussurrava. I giorni seguenti gli avrebbero dato ragione, perché la proposta di riforma delle Province avanzata dal governo di Silvio Berlusconi scomparve prima ancora di aver visto la luce.
Da allora sembra passato un secolo. Ma i salvavita che preservano lo status quo delle Province italiane continuano a entrare in azione. Ce n'è di ogni tipo: ricorsi al Tar, al Consiglio di Stato o alla Corte costituzionale, accordi sindacali... Adesso la valvola provvidenziale si chiama «Consiglio delle autonomie locali». Di che cosa si tratta? È l'organismo che in ogni Regione deve proporre non più «l'accorpamento» delle Province che non rispettano alcuni parametri, come era previsto nella prima versione del decreto sulla spending review, ma il loro «riordino», come invece stabilisce il testo emendato dal Senato.

Prendiamo un caso: quello della Toscana, Regione dove in base ai criteri messi a punto dal ministro della Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi per tenere in vita una Provincia, non ne sopravviverebbe nessuna delle attuali. Tranne quella di Firenze, che peraltro dovrebbe essere trasformata in città metropolitana, non ce n'è infatti nemmeno una con almeno 350 mila abitanti e 2.500 chilometri quadrati di superficie. Il Consiglio delle autonomie locali qui è composto da 50 persone. Chi è il presidente? Marco Filippeschi, il sindaco di Pisa. Città capoluogo di una Provincia in predicato per essere dissolta e fusa con quella limitrofa di Livorno, che da secoli sfotte i cugini. La più gentile sfornata dai livornesi: «Meglio un morto in casa che un pisano all'uscio». Vi immaginate la prima riunione per decidere chi si «riordina» con chi?

Ancora. Nel Lazio ci sono tre grossi problemi: quello di Latina, Viterbo e Rieti. Tre Province che non rispettano i limiti governativi e dovrebbero essere «riordinate». Nodi che anche in questo caso dovrà sciogliere il Consiglio delle autonomie locali, composto da 35 persone: e presieduto, guarda guarda, dal presidente della Provincia di Rieti, Melilli! Per non parlare degli altri casi, come quello della Lombardia, dove è stato insediato alla guida del locale Consiglio delle autonomie (58 componenti) il giovane leghista Fabrizio Cecchetti, già conduttore di Radio Padania libera, appartenente allo stesso partito di Dario Galli, il presidente della Provincia di Varese che giudicando non più tardi di quattro giorni fa «imbarazzante» il riordino delle Province, ha detto: «Visto che il Governo ha dato alle Regioni le competenze per la riforma delle Province, anche sulla base di un importante incontro avvenuto in Regione credo che la Lombardia non rispetterà i parametri imposti dal Governo, e Varese non si accorperà».

Sarebbe il degno epilogo di una storia, questa sì, davvero imbarazzante. Basterebbe ricordare le posizioni assunte dai leader dei due principali partiti, il Pdl e il Pd, nella campagna elettorale del 2008. Quando Walter Veltroni prometteva l'abolizione delle Province «inutili» e Silvio Berlusconi rilanciava garantendo tabula rasa. Per tre anni si è fatto finta di niente. Poi, nell'estate del 2011, è spuntata una proposta: via tutte le Province che hanno meno di 300 mila abitanti o una superficie inferiore a 3 mila chilometri quadrati. Immediatamente sono cominciate le proteste e i distinguo: e da 37 i «morituri» sono scesi a 23. Una burla. E la proposta è passata in cavalleria.
Finché Berlusconi non ha dovuto lasciare palazzo Chigi a Mario Monti. Erano le settimane terrificanti dello spread alle stelle fra i rendimenti dei nostri titoli di Stato e i bund tedeschi. Incombevano le prescrizioni contenute nella famosa lettera della Banca centrale europea, che suggeriva tra le varie misure proprio l'abolizione delle Province. E nel decreto «Salva Italia» comparve finalmente una tagliola. «Sarà la volta buona?» si domandavano i sostenitori della riforma. Tanto più fiduciosi perché sia il Pdl che il Pd, a parole favorevoli, questa volta sostenevano insieme il governo.

Ma subito scoppiarono le proteste che costrinsero l'esecutivo a fare una mezza marcia indietro, concedendo un anno di tempo per fissare i criteri in base ai quali ridimensionare gli apparati delle Province, che sarebbero state trasformate da organismi elettivi in strutture di diretta emanazione comunale.

Poi, questa estate, una nuova svolta. Allarmato da un ricorso alla Corte costituzionale contro la disposizione contenuta nel «Salva Italia» in discussione il prossimo 6 novembre, il governo Monti decide di cambiare strada: non più l'abolizione delle Province, che continuerebbero a esercitare funzioni come quelle ambientali e nei trasporti, ma la loro riduzione. Un taglio secco di almeno la metà: poi addirittura di 64 su 107. Anche in questo frangente, tuttavia, il partito delle Province non si rassegna. E al Senato riesce a ottenere che dall'«accorpamento» degli enti fuori dai parametri si passi al più morbido «riordino». Operazione che per giunta non sarà affidata allo Stato, ma alle stesse Province, attraverso i Consigli delle autonomie locali.

Qualcuno, come il relatore al decreto, il pidiellino Gilberto Pichetto Fratin, comincia a profetizzare «un allungamento dei tempi». Ma che pure nel governo non siano completamente rilassati lo testimonia la nota con cui la Funzione pubblica sente il bisogno di precisare il 3 agosto che va considerata «inutile», parole dell'agenzia Ansa, «la compravendita di comuni di confine da parte delle Province per salvarsi dalla cancellazione prevista dalla spending review». Segno che qualche furbetto della Provincina si stava già attrezzando per aggirare i famosi parametri. Del resto, in qualche caso sarebbe sufficiente un'inezia. Alla Provincia di Arezzo, per esempio, servirebbero meno di 500 abitanti per scampare alla cancellazione. Basterebbe annettere un minuscolo Comune limitrofo della Provincia di Siena o di Perugia.

Va detto che gli aretini non hanno mai ufficialmente preso in esame manovre del genere. Contrariamente a quanto è successo in Campania, dove il presidente della Provincia di Benevento Aniello Cimitile è furente all'idea che il suo ente sia l'unico fra tutti quelli della Regione a doversi sciogliere per il mancato rispetto dei limiti quantitativi imposti dal governo. «L'ipotesi da prendere in considerazione per lasciare in piedi anche la Provincia di Benevento», riferisce sempre l'Ansa citando una riunione della Conferenza permanente fra Regione e autonomie locali convocata dall'assessore regionale Pasquale Sommese, «sarebbe quella di un passaggio di Comuni da un territorio a un altro. Benevento potrebbe inglobare alcuni Comuni dell'Avellinese e, a sua volta, il territorio irpino guardare alla Provincia di Salerno». Non domo, Cimitile ha preannunciato intanto una causa al Tar e ha chiesto alla Regione di mettere in moto la Corte costituzionale. L'ennesimo ricorso.
Ma il cambio di rotta del governo, dall'abolizione tout court delle Province alla loro riduzione, non doveva servire a evitare scontri davanti alla Consulta?

Sergio Rizzo

13 agosto 2012 | 11:17© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_agosto_13/provincie_4f808b0c-e50c-11e1-97d9-de28e70d5d31.shtml
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« Risposta #119 inserito:: Agosto 23, 2012, 04:46:48 pm »

I MILLE RIVOLI DELLA SPESA PUBBLICA

Le mani bucate delle Regioni

La vera spending review decisiva per tagliare seriamente una spesa pubblica capace di divorare metà della ricchezza prodotta nel Paese è quella che dovrebbero fare le Regioni. Tutte: dal Sud al Nord. Perché se è vero che nella Sicilia assurta a simbolo degli sprechi il governatore regionale vanta un numero di collaboratori superiore perfino a quelli del premier britannico, anche i faraonici e costosissimi piani di espansione immobiliare messi in atto da alcune Regioni nordiste lasciano il segno nelle tasche dei contribuenti. Al pari della superficialità con la quale si distribuiscono fiumi di denaro ai gruppi politici delle assemblee legislative o della sfrontatezza che spinge taluni amministratori a elargire consulenze inutili ad amici e parenti. Pessimi esempi, tutti diversi fra loro per gravità e dimensione. Ma che fanno parte della stessa aberrante logica per cui «il denaro di tutti è il denaro di nessuno», secondo una folgorante definizione di Tommaso Padoa-Schioppa.

Un principio applicato «a tappeto» negli ultimi anni, che ha inflitto ferite profonde alle nostre finanze. Nei dieci anni fra il 2000 e il 2009 la spesa pubblica regionale è lievitata da 119 a 209 miliardi. L'aumento, per metà imputabile alla sanità, è stato del 75,6 per cento. Tre volte e mezzo l'inflazione, ma soprattutto il doppio rispetto alla crescita del 37,8 per cento registrata da tutta la spesa pubblica italiana nel suo complesso. La conclusione è semplice. Senza il contributo devastante delle Regioni il rapporto fra spesa pubblica e Prodotto interno lordo sarebbe, al netto degli interessi, più o meno lo stesso di una decina d'anni fa.

E oggi, che ci costano almeno 90 miliardi in più, sicuramente le Regioni e la sanità non funzionano meglio di allora. Questo, sopra ogni altra cosa, dovrebbe far riflettere i profeti di un federalismo casereccio, convinti che per risolvere i problemi dei conti pubblici sia sufficiente decentrare sempre di più. Compresa quella sinistra che nel 2001, al solo scopo di rincorrere la Lega sul suo terreno nella speranza di evitare un tracollo elettorale al Nord, ha creato con la riforma del titolo V della Costituzione le premesse per il disastro: privando nei fatti lo Stato centrale del potere di controllo. La stessa sinistra, con il medesimo personale politico, che fra qualche mese si ricandiderà a prendere in mano le redini del Paese.

Il fatto è che la sciagurata riforma di undici anni fa è stata soltanto la ciliegina sulla torta. Da quando le Regioni sono nate, oltre quarant'anni fa, sono più le cose che non hanno funzionato. I centri decisionali si sono moltiplicati, la pubblica amministrazione è sempre meno efficiente, le procedure più complesse, il groviglio di norme e competenze inestricabile. I veti incrociati paralizzano le scelte. A valle degli apparati regionali sono proliferati centinaia di enti e società che hanno alimentato sprechi e deprecabili pratiche di sottogoverno e clientelismo. L'autonomia si è rivelata talvolta un comodo paravento per dissipare denaro pubblico, senza che lo Stato possa mettere in atto contromisure.

Vedremo in quali programmi elettorali ci sarà l'unica proposta sensata che può rimettere l'Italia in carreggiata, ovvero una revisione radicale del ruolo e delle funzioni delle Regioni. A cominciare dall'abolizione degli statuti speciali. Ma servirà coraggio. Tanto coraggio. Molto più di quello che si vede in circolazione.

Sergio Rizzo

23 agosto 2012 | 7:49© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_23/mani-bucate-delle-regioni-sergio-rizzo_f12bfe2c-ece2-11e1-89a9-06b6db5cd36c.shtml
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