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Autore Discussione: SERGIO RIZZO  (Letto 135934 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Ottobre 01, 2011, 04:45:02 pm »

PRIVATIZZAZIONI

Il patrimonio venduto (a parole)

Venticinque anni di promesse, non è stata ceduta neppure una caserma

ROMA - Gli avessero dato retta, quella volta, ad Attilio Bastianini... «Per ridurre il debito pubblico diminuendo il peso degli interessi dobbiamo mettere in vendita parte del nostro patrimonio pubblico», andava ripetendo a tutti il deputato del fu Partito liberale. Ma i suoi colleghi della maggioranza, c'era il pentapartito e il Pli partecipava al governo, facevano orecchie da mercante. Il presidente del Consiglio Giovanni Goria liquidò la proposta, come fosse una mezza sciocchezza, con il consueto garbo. Per dargli un contentino sarebbe stato successivamente messo in piedi l'ennesimo comitato interministeriale che avrebbe dovuto esaminare le eventuali procedure da seguire per la vendita degli immobili pubblici. Tecnica collaudatissima: quando in Italia non si vuole fare una cosa si crea una commissione. E la faccenda morì lì.

Correva l'anno 1987. Durante i quattro anni del governo di Bettino Craxi il debito pubblico italiano era letteralmente esploso, arrivando a superare di slancio il 93% del Prodotto interno lordo. Il doppio rispetto a Francia e Germania, e già allora ben oltre il 60% che tre anni dopo sarebbe stato fissato a Maastricht come limite invalicabile per aderire alla futura moneta unica. Inutile aggiungere che gli interessi, spinti da tassi stratosferici, galoppavano. Nel 1988 pagammo l'equivalente attuale di 90 miliardi di euro. Più di quanto ci costano oggi (ma ancora per poco, se non ci si mette subito una pezza bella grossa).

Qualche conto, i liberali se l'erano già fatto. A dire il vero i conti precisi li stava facendo una commissione presieduta dal costituzionalista Sabino Cassese, che calcolò in 651.044 miliardi di lire il valore del patrimonio pubblico. Rapportato ai valori di oggi, 702 miliardi di euro: 141 miliardi in più rispetto allo stock del debito pubblico, che allora toccava l'equivalente attuale di 561 miliardi.

Un quarto di secolo dopo la situazione si è capovolta. E se ancora nel 2008 il procuratore generale della Corte dei conti regalava una suggestione al Cavaliere appena tornato al governo, spiegando che vendendo i beni di famiglia, valutati in circa 1.800 miliardi di euro, si sarebbe potuto «azzerare» la tremenda esposizione dello Stato italiano, oggi non è più nemmeno vero. Perché se quella valutazione può essere considerata ancora attendibile, il debito pubblico, è l'amara realtà, l'ha invece ormai superato di quasi un centinaio di miliardi.
Certo, vendere i beni pubblici «non è facile», come un giorno ha ammonito il ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Il suo predecessore Vincenzo Visco confessò a Orazio Carabini, allora al «Sole 24ore», tutta la propria frustrazione per non essere riuscito a vendere le caserme inutilizzate dell'esercito per colpa del ministero della Difesa che gli metteva i bastoni fra le ruote. Le caserme...Quante volte, a parole, sono state vendute?

Nel 2002 Tremonti disse che era stato «incivile» non aver pensato di valorizzare adeguatamente un patrimonio «che impaurirebbe perfino Paperon de' Paperoni». Due anni prima, annunciando di aver trovato un «buco» nei conti pubblici lasciati dal centrosinistra, aveva snocciolato la sua ricetta: «Bisogna operare dentro il patrimonio dello Stato con valorizzazione del patrimonio stesso, estrazione di dividendi, smobilizzo di risorse, accelerazione di privatizzazioni». Come si poteva dargli torto? Se nel 1988 il rendimento dei beni demaniali era stato dello 0,05%, quindici anni più tardi avrebbe raggiunto una vetta dello 0,72%.
Ma se le intenzioni erano ottime, lo stesso non si potè dire per i risultati. Fra annunci, dichiarazioni e pubblicazione di sterminati e dettagliatissimi elenchi di beni demaniali decretati «cedibili», con l'inevitabile strascico di polemiche, quell'epoca sarà ricordata soprattutto per la cessione degli immobili degli enti previdenziali attraverso le famose cartolarizzazioni, sulle quali pende un giudizio poco lusinghiero della Corte dei conti. Pasqualucci ha tirato queste somme: «L'operazione, a fronte di un portafoglio di 129 miliardi, ha fruttato ricavi per 57,8 miliardi, con un rapporto ricavi/cessioni pari al 44,7%». E sarebbe meglio non ricordare, per carità di patria, il clamoroso fallimento dell'operazione Patrimonio spa, ovvero la società che era stata creata dal Tremonti, il quale l'aveva affidata a Massimo Ponzellini, proprio allo scopo di valorizzare e cedere i beni dello Stato, come ad esempio le vecchie carceri nel centro delle città. Missione penosamente fallita.

Per non parlare di quello che è accaduto talvolta in periferia, quando gli enti locali hanno deciso di vendere. Per tutte valga la vicenda delle cessioni dei beni dell'Arsial, agenzia della Regione Lazio che un paio d'anni fa ha deciso di dismettere alcuni importanti cespiti. Fra questi una tenuta di 37 ettari con due casali di 400 metri quadrati nell'oasi naturalistica di Capocotta, a due passi dalla residenza presidenziale di Castelporziano: finita per la modica cifra di 483 mila euro, prezzo appena sufficiente per acquistare un appartamento decente nella periferia romana, a una società nella quale compare l'azionista di una ditta appaltatrice della stessa Regione.
Ma non basta. Perché lo Stato che avrebbe dovuto dimagrire vendendo i propri immobili, invece ingrassava comprando a rotta di collo, indifferente al nostro debito che si gonfiava sempre di più. Comprava Fintecna, società pubblica erede dell'Iri che si è trovata in pancia di tutto: dai palazzi delle Finanze a un ex ospedale di Genova, e ora non sa più a chi dare tutta quella roba. Compravano gli enti locali. Comprava Palazzo Chigi, comprava il Senato, comprava la Camera. Nel quinquennio dei due precedenti governi Berlusconi non si badò certamente a spese. E mentre i palazzi della politica si moltiplicavano allagando il centro di Roma, dove le sedi della presidenza del Consiglio e delle due Camere sono ormai 52, si privatizzava soprattutto a parole.

Pochi giorni prima delle Politiche del 2008, Berlusconi dichiarò a «Porta a Porta»: «Dalla vendita del patrimonio dello Stato avremo a disposizione un punto di Pil l'anno per la riduzione del debito pubblico del nostro Paese entro i limiti richiesti dall'Europa».
Qualche mese prima il suo futuro avversario, Walter Veltroni, l'aveva anticipato: «Esiste la necessità di vendere il patrimonio immobiliare pubblico attraverso processi più efficaci e veloci di quelli finora messi in campo al fine di dare un contributo immediato alla riduzione dello stock del debito».

Vinte le elezioni, il Cavaliere tornò alla carica a Santa Margherita ligure, davanti alla platea dei giovani imprenditori: «Abbiamo ereditato un debito che è al 105% del Pil, c'è un solo modo di operare, cioè mettere sul mercato parte del patrimonio pubblico. Per esempio le caserme nei centri città che non servono più a nulla». Applausi.
Tre anni dopo il debito pubblico è al 120% del Pil e le caserme sono sempre lì, come le aveva lasciate Visco masticando amaro. E adesso? Adesso è arrivato finalmente il momento di fare «l'inventario». Proprio così. Ha detto Tremonti giovedì al Tesoro, aprendo la riunione sul patrimonio pubblico: «Oggi facciamo l'inventario».


Sergio Rizzo

01 ottobre 2011 08:44© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/politica/11_ottobre_01/patrimonio-statale-venduto-parole-rizzo_49c61190-ebf8-11e0-827e-79dc6d433e6d.shtml
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« Risposta #91 inserito:: Ottobre 18, 2011, 04:49:36 pm »

I COSTI DELLA POLITICA

Il Parlamento? Solo 14 Leggi

Le norme promosse dalle Camere: dal nome del Parco del Cilento all'insalata in busta


Volendo proprio mettere i puntini sulle i, in «una complessiva superficie di 178.172 ettari, gli Alburni offrono il 65% delle aree naturali, il Vallo di Diano offre la Certosa di Padula e alcuni monti, il Cilento la maggior parte delle aree costiere». E se l'ha addirittura scritto su una proposta di legge l'onorevole Mario Pepe, rieletto nel 2008 nelle liste del Pdl per scoprirsi tre anni dopo «Responsabile», dobbiamo crederci. Lui è di Bellosguardo, un paese che sta alle pendici dei monti Alburni. Chi dunque meglio di lui avrebbe potuto impegnarsi per sanare una clamorosa ingiustizia? La verità storica è stata ristabilita a febbraio, grazie appunto alla legge da lui proposta. Un provvedimento con il quale il Parlamento nel febbraio scorso ha cambiato il nome del Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano in quello «più corrispondente alla realtà» di Parco nazionale degli Alburni, del Cilento e Vallo di Diano. Alleluia.

Vi chiederete: e ci voleva una legge? Ci voleva. Ma è legittimo domandarsi se davvero non ci fosse niente di più urgente e importante. Tanto più considerando che questa è una delle sole quattordici leggi di iniziativa parlamentare approvate da gennaio a oggi. Quattordici, a incorniciare un'apatia senza precedenti. Già nel 2010 l'attività del Parlamento aveva toccato i minimi storici, con 58 provvedimenti varati nell'arco dei primi dieci mesi. Adesso siamo scesi addirittura a 50. Se poi dal totale si tolgono le ratifiche di trattati internazionali, atti dovuti che non comportano alcun impegno, si cala ancora a 31, contro 36 dell'anno scorso. E poi va detto che la maggior parte di queste leggi, diciassette, non sono altro che conversioni di decreti o frutto di altre proposte governative.
Profetiche, le parole del presidente della Camera Gianfranco Fini, pronunciate a maggio del 2010: «A meno che il governo non presenti un decreto, c'è il rischio di una sostanziale paralisi dell'attività legislativa della Camera». Perché il rischio si fa sempre più concreto. In un Parlamento di nominati dai boss di partito, per il quale il premier Silvio Berlusconi era arrivato perfino a ipotizzare di dare il potere di voto esclusivamente ai capigruppo per evitare il fastidio dei lunghi dibattiti in assemblea, l'iniziativa è ridotta al lumicino. Non bastasse poi la quantità ridottissima delle leggi proposte dagli onorevoli che vengono sfornate da Camera e Senato, c'è anche il problema della qualità. Con tutto il rispetto, sia chiaro, per il Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano. Pardon: Parco nazionale degli Alburni, del Cileno e Vallo di Diano. Allora guardiamole, le leggi che in questi dieci mesi ha fatto il Parlamento senza che in nessuna di loro il governo ci abbia messo il suo zampino.

Ce n'è una che riguarda le assunzioni obbligatorie dei disabili nella pubblica amministrazione: giustissima. Una seconda che fissa il principio secondo il quale le madri di bambini piccoli non possono essere detenute: sacrosanta. Una terza che stabilisce come i consigli di amministrazione delle società quotate debbano essere composti per il 30% da donne: finalmente, argomenteranno in molti. Una quarta grazie a cui verranno indennizzati i familiari delle vittime del disastro ferroviario del 2010 in Val Venosta: assolutamente doverosa.

Certamente più di quella che contiene surreali «Disposizioni concernenti la preparazione, il confezionamento e la distribuzione dei prodotti ortofrutticoli di quarta gamma». Di che cosa parliamo? Dell'insalata lavata e imbustata, per esempio. Legge frutto della fusione di due diverse proposte. Primi firmatari: il deputato Sandro Brandolini del Pd, titolare fino a un annetto fa del 30% di una società alimentare (Gustitalia) recentemente entrata nell'orbita del gruppo Saclà, e l'onorevole leghista Fabio Rainieri, esponente di spicco dei Cobas del latte.

Per non parlare della legge che aumenta di 1,7 milioni l'anno i contributi alla Biblioteca italiana per ciechi Regina Margherita di Monza, voluta dal leghista Paolo Grimoldi e da tre suoi colleghi di partito. O della impegnativa norma che riconosce alle associazioni «maggiormente rappresentative» dei mutilati e invalidi del lavoro una poltroncina nei comitati provinciali dell'Inail. Oppure del provvedimento che abroga una norma, approvata sei anni fa dallo stesso governo, che equiparava la laurea in scienze motorie a quella in fisioterapia: legge promossa dall'onorevole dipietrista Giuseppe Caforio, titolare di un piccolo impero nel campo delle protesi sanitarie. Se ne sentiva il bisogno. Ancora, nello scarno elenco troviamo una leggina che istituisce la «Giornata nazionale in memoria delle vittime dei disastri ambientali», il quale dice più o meno questo: il 9 ottobre di ogni anno si possono fare delle manifestazioni per sollevare l'attenzione su questo tema, però senza spendere un euro di fondi pubblici e senza andare in vacanza. Ce n'è quindi un'altra che esclude dal diritto di percepire la pensione di reversibilità il familiare che ha assassinato il pensionato. Una che decreta lo sconto massimo che gli editori possono applicare al prezzo di copertina dei libri...

Niente da dire, se però altre leggi, forse un tantino più decisive di queste, non arrancassero nelle Commissioni con il rischio di non riuscire a vedere l'approdo prima della fine della legislatura. Il disegno di legge anticorruzione, se lo ricorda qualcuno? Annunciato in pompa magna dal Consiglio dei ministri ormai 20 mesi fa, è stato approvato dal Senato ed è adesso nelle curve della Camera, dove sarà quasi certamente modificato per poi tornare a Palazzo Madama: se mai ne avrà il tempo. Il calderoliano codice delle autonomie che dovrebbe ridisegnare la nostra architettura istituzionale, quando sarà pronto? Il famoso disegno di legge sulla concorrenza, che fine ha fatto? E la riduzione del numero dei parlamentari, la vedremo mai?

Sergio Rizzo

18 ottobre 2011 08:30© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/politica/11_ottobre_18/il-parlamento-solo-14-leggi-sergio-rizzo_2e850190-f948-11e0-bc4b-5084eabf7820.shtml
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« Risposta #92 inserito:: Ottobre 30, 2011, 05:37:35 pm »

Il caso Inchiesta di Report in onda oggi

Un'azienda del premier nel poker online Mondadori, conflitto di interessi

L'azienda (privata) presieduta da Aldo Ricci che rappresenta la Sogei (pubblica) in un'altra società

ROMA - Alla ricerca di nuovi business con un mercato editoriale sempre più asfittico, la Mondadori si è gettata dunque a capofitto nel lussureggiante mondo dei giochi via internet: poker online, casinò virtuali...

La notizia non è nuova. Era contenuta in un comunicato stampa della casa editrice del 28 giugno scorso. Titolo dell' Ansa di quel giorno: «Mondadori: nasce Glaming, nuova società per giochi online». La cosa però, in quell'occasione, non ha avuto il risalto che invece sarebbe stato logico aspettarsi per tutta una serie di circostanze che questa sera svela un servizio di Sigfrido Ranucci per Report , la trasmissione di inchieste televisive di Milena Gabanelli che va in onda la domenica su Rai Tre.

Glaming è controllata al 70% dalla Mondadori e al 30% da un altro soggetto, la Fun Gaming, il cui capitale è a sua volta custodito in due scatole: Buel srl (51%) e Entertainment and gaming invest (49%). Per quanto riguarda la seconda, è inutile affannarsi a cercare di scoprire il proprietario. Le quote sono infatti custodite in una fiduciaria. La Buel è invece di proprietà di una vecchia conoscenza del mondo della televisione come Marco Bassetti. Il quale, incidentalmente consorte del sottosegretario agli Esteri Stefania Craxi, si ritrova ora in società con il premier Silvio Berlusconi, ossia il proprietario della Mondadori, in un business molto appetitoso, a giudicare dal bombardamento di spot che pubblicizzano sul piccolo schermo questo genere di divertimento.
E fin qui, in questa Italia, non ci sarebbe forse niente di strano. A meno di non voler passare per moralisti sollevando una questione di opportunità per un presidente del Consiglio nel ritrovarsi azionista di una società che opera nel settore dei giochi d'azzardo, sia pure virtuali. Del resto, perché mai scandalizzarsi se perfino le Poste italiane sono in quel business? Il fatto è, tuttavia, che per entrare in questa attività è necessaria una concessione. E quella concessione la può dare soltanto l'amministrazione dei Monopoli di Stato. Ovvero un organismo, affidato all'ex capo dell'agenzia delle entrate Raffaele Ferrara, che dipende dal governo presieduto dal Cavaliere. In qualunque altro Paese al mondo questo sarebbe un classico episodio di conflitto d'interessi. Ma qui chi ci fa caso?

La Glaming viene costituita il 21 aprile del 2011 sulla base di un progetto che il consiglio di amministrazione della Mondadori discute il 25 novembre del 2010: a quella riunione, dettaglio, è presente in videoconferenza anche un consigliere che ha un ruolo importante nel governo Berlusconi. Cioè il direttore generale del ministero dei Beni culturali Mario Resca.
Dallo scorso mese di settembre la Gamling è finalmente nell'elenco dei soggetti aggiudicatari dei giochi online pubblicato sul sito dei Monopoli. Il servizio di Report non manca di far notare come a luglio proprio la Mondadori di Berlusconi abbia dovuto pagare a Carlo De Benedetti un risarcimento danni di 564 milioni di euro, sottolineando pure la forte crescita dell'indebitamento della casa editrice. «La ciambella di salvataggio», conclude Ranucci, «potrebbe venire proprio dai giochi».
Ma in questa storia l'ombra del conflitto d'interessi è dietro ogni angolo e assume aspetti molteplici e imprevedibili. Si scopre, per esempio, che il presidente della Glaming risponde al nome di Aldo Ricci. Chi è costui? Per due volte è stato l'amministratore delegato della Sogei, la società pubblica che gestisce l'anagrafe tributaria: già protagonista di un doppio giro di valzer ai vertici di quella struttura (nominato da Giulio Tremonti, rimosso con liquidazione milionaria da Vincenzo Visco e rinominato da Tremonti) che ha coinvolto anche altri soggetti ed è costato all'erario, come ha segnalato la Corte dei conti in un suo rapporto, più di 11 milioni di euro. Rapporto, in seguito finito all'attenzione dei magistrati, nel quale erano contenuti anche alcuni particolari riguardanti la prima gestione Ricci.

Una inchiesta interna voluta da Visco aveva infatti rivelato che il 90% degli appalti della Sogei erano stati frazionati sotto i 200 mila euro, e che le gare europee erano limitate al 15%.
Un paio d'anni fa Ricci, il cui ritorno alla Sogei era stato sponsorizzato da Marco Milanese (l'ex braccio destro di Tremonti messo sotto inchiesta dalla magistratura che ne aveva perfino richiesto l'arresto) viene sostituito con soddisfazione del direttore dell'Agenzia delle entrate Attilio Befera. Ma riesce a rimanere ancora nell'orbita della Sogei. Attualmente figura ancora come consigliere di amministrazione di Geo Web, società controllata dal consiglio dei geometri di cui la Sogei ha il 40%.
Riassumiamo. Ex responsabile di un pezzo cruciale dell'amministrazione finanziaria, Ricci è ora presidente di una società privata (di cui sono azionisti il premier e il marito del sottosegretario agli Esteri) titolare di una concessione per gestire giochi online rilasciata dalla stessa amministrazione finanziaria che Ricci continua a rappresentare in un'altra società. E tutto questo può essere considerato normale?

Sergio Rizzo

30 ottobre 2011 10:28© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/11_ottobre_30/Un-azienda-del-premier-nell-affare-poker-online_8c94dbf0-02d7-11e1-8566-f96c33d2415f.shtml
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« Risposta #93 inserito:: Novembre 23, 2011, 12:25:03 pm »

Favori a pochi, danni per tutti

La prima imprevedibile emergenza di Mario Monti si chiama Finmeccanica. I fatti che stanno emergendo in queste ore ci offrono un quadro sconcertante nel quale le aziende pubbliche sono state utilizzate alla stregua di un bancomat da politici, faccendieri e affaristi senza scrupoli, grazie alla complicità di amministratori che definire spregiudicati sarebbe assai riduttivo. Prova ulteriore che l'epoca di Tangentopoli non si è mai chiusa e che il cancro della corruzione continua a corrodere le fondamenta morali del Paese, i conti pubblici e la nostra credibilità internazionale.

Le grandi imprese italiane con un ruolo e un peso sullo scenario mondiale si contano sulle dita di una mano. Finmeccanica è una di queste. Azionisti del gruppo ancora controllato al 30% dal Tesoro sono alcune fra le principali istituzioni finanziarie planetarie, i fondi d'investimento inglesi e americani, alcuni governi. Il suo capo storico Fabiano Fabiani ne rivendicava già quindici anni fa il primato fra le imprese manifatturiere nazionali. Ma oggi la Finmeccanica è anche qualcosa di più: per l'industria italiana rappresenta un patrimonio tecnologico unico. Guai a perderla. Purtroppo la sua situazione, ben al di là dei presunti fondi neri e delle vicende che dovranno chiarire i magistrati, oggi non è facile. La Finmeccanica ha un indebitamento elevatissimo, causato da alcuni investimenti pagati carissimi. È il caso dell'acquisizione della Drs tech, gruppo statunitense dell'elettronica. Il suo costo, quasi 4 miliardi di euro: cifra che comprende anche una provvigione stratosferica per il «mediatore» Lorenzo Cola. L'ex consulente della Finmeccanica, che sta ora vuotando il sacco sui fondi neri e le tangenti ai politici, intascò per quell'affare concluso nel 2008 qualcosa come 11 milioni di euro. Un affare, si capì subito, che presentava molti problemi, al di là del prezzo astronomico pagato, con un premio del 32% sulle quotazioni di borsa.

Dettaglio non trascurabile, alcune divisioni della Drs lavorano per l'intelligence americana. E il contratto d'acquisto prevede che quelle parti dell'azienda restino «secretate» perfino all'azionista italiano. Che ci deve mettere i soldi ma non può metterci la bocca. Ragion per cui il nuovo amministratore delegato Giuseppe Orsi è volato negli Stati Uniti nel tentativo di convincere gli americani ad accettare un divorzio parziale.

Le condizioni finanziarie della Finmeccanica sono rese ancora più pesanti dallo stato di cose in cui versano altre parti del gruppo. Da anni le perdite dell'Ansaldo Breda viaggiano al ritmo di un centinaio di milioni l'anno: nonostante questo la presidenza del Consiglio avrebbe voluto far acquistare alla Finmeccanica la Firema, azienda privata produttrice di componenti ferroviarie. Un tentativo comunque fallito. Orsi vorrebbe cedere l'Ansaldo Breda: impresa però difficile, a patto di non mettere sul piatto anche qualche pezzo buono, come l'Ansaldo Sts.

Poi c'è il caso dell'Alenia aeronautica. Basta dire che è stato necessario accantonare nei bilanci 783 milioni di euro in seguito a una «conciliazione» con la Boeing, che aveva contestato la qualità di alcune forniture provenienti dagli stabilimenti italiani e destinate a equipaggiare gli aerei civili della casa americana.

A questo si aggiungano i problemi di liquidità della Grecia, impossibilitata a far fronte ai pagamenti degli aerei C27J già ordinati all'Alenia, nonché alcune questioni sorte con la Turchia a proposito di alcuni pattugliatori marini, e il quadro è completo. A quanto ammonta il buco? Difficile dire, ma c'è chi ipotizza una cifra non inferiore al miliardo 200 milioni. Pure per ragioni politiche e «sociali», la struttura produttiva dell'Alenia è troppo frammentata e disordinata, il che ha reso necessario un piano di riorganizzazione destinato a lasciare molti segni. Piano nel quale, tuttavia, ha trovato spazio anche l'incomprensibile trasferimento della sede legale (dovuto a ragioni politiche), da Napoli a Venegono Superiore in provincia di Varese: quartier generale della Lega Nord, partito che ha fortemente sostenuto la nomina di Orsi.

Altrettanto disordinato è il comparto dell'elettronica. E veniamo alle vicende che più direttamente riguardano la famiglia Guarguaglini. Il gruppo Selex è composto da tre diverse aziende, con produzioni in qualche caso simili e che talvolta si fanno perfino concorrenza fra loro sui mercati internazionali. Da tempo circola l'idea di fonderle, operazione che avrebbe forse il vantaggio di razionalizzare il tutto ma contemporaneamente lo svantaggio di far sparire la Selex Sistemi integrati, azienda ora al centro delle indagini giudiziarie, e della quale è amministratore delegato Marina Grossi, la moglie di Guarguaglini. Il quale si è sempre opposto all'accorpamento.

Non è quindi un caso che la fusione delle tre Selex sia la ragione dei contrasti fra lo stesso Guarguaglini e Orsi. All'ultimo consiglio, con all'ordine del giorno quella integrazione proposta dall'ostinato Orsi, Guarguaglini non si è nemmeno presentato. E il progetto è passato all'unanimità. Decretando, forse, la fine di un'epoca.

La Finmeccanica è troppo importante perché interessi personali possano bloccare una svolta radicale. Si deve fare pulizia e subito, illuminando fino in fondo gli angoli ancora bui ed eliminando tutte le scorie della politica. Questo è compito del governo, che deve agire senza indugi: nell'interesse della società e del Paese. A Guarguaglini va dato atto che se la Finmeccanica è diventata, con tutti i suoi difetti, un gruppo di eccellenza tecnologica, questo è anche merito suo. Ma ciò non può cancellare responsabilità oggettive e pesanti. E il braccio di ferro privato che ha ingaggiato con il governo, annunciando di voler resistere, a questo punto non può che danneggiare l'azienda.

Dai partiti, invece, ci aspettiamo un sussulto di dignità. Adesso tirino fuori il disegno di legge anticorruzione dai cassetti nei quali giace. Il governo di Silvio Berlusconi l'aveva annunciato in pompa magna il primo marzo del 2010 subito dopo lo scoppio di uno dei vari scandali, quello degli appalti dei Grandi eventi della Protezione civile. Dopo la prima lettura si è incagliato in Parlamento, mentre le Camere sfornavano leggi per regolamentare la commercializzazione dell'insalata in busta o per cambiare il nome al parco del Cilento. Va approvato in fretta, introducendo norme severissime per gli amministratori infedeli e i politici corrotti, prevedendo, oltre a sanzioni penali durissime senza il beneficio della condizionale, anche la loro radiazione dalla vita pubblica.

Insieme al taglio dei costi insensati della politica è la cosa più urgente da fare se si vuole restituire un minimo di credibilità a un sistema che la sta perdendo del tutto.

Sergio Rizzo

23 novembre 2011 | 7:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_23/favori-a-pochi-danni-per-tutti-sergio-rizzo_164ffecc-159a-11e1-abcc-e3bae570f188.shtml
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« Risposta #94 inserito:: Dicembre 03, 2011, 04:25:32 pm »

Conflitto d'interessi

È meglio se Milone rimane fuori

Da Tangentopoli a Fintecna gli affari del sottosegretario

Nominato alla Difesa aveva un ruolo anche nella società del Tesoro


MILANO - Da qualunque punto di vista si guardi la cosa, non è normale. Non è normale che un ministro dia udienza al suo sottosegretario e al termine dell'incontro il ministero emetta un comunicato. E di che tenore, poi. Ansa , primo dicembre: «Il ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, ha ricevuto oggi il sottosegretario Filippo Milone. Durante il "cordiale colloquio" il sottosegretario ha voluto tra l'altro ringraziare il ministro "per le manifestazioni di considerazione e di fiducia che sono - riferisce il sottosegretario Milone - indispensabili per la proficua collaborazione"». Riletto in controluce, quel comunicato che getta acqua sul fuoco fa capire intanto una cosa. Che il fuoco c'è. Non era del resto difficile accorgersene.

Era opportuno nominare sottosegretario alla Difesa l'ex consigliere dell'ex ministro Ignazio La Russa sei giorni dopo che già era stata resa nota quella intercettazione telefonica fra i manager di Finmeccanica Lorenzo Borgogni e Marco Forlani (costui incidentalmente figlio dell'ex segretario Dc Arnaldo Forlani)? Eccone un frammento. Marco: «Senti mi ha chiamato Filippo eh, che dice su, su quel discorso che facciamo ogni anno della loro offerta di partito a Milano eccetera...». Borgogni: «Di partito? Del ministero!». Marco: «...Credo sia una cosa del Pdl, no? Dice che te ne ha parlato a te pure». Il giorno seguente al giuramento dei sottosegretari Fiorenza Sarzanini riferisce sul Corriere che «durante l'interrogatorio di sabato scorso di fronte al pm Paolo Ielo a Borgogni è stato chiesto di chiarire a che titolo avrebbe versato soldi a Filippo Milone, ex capo della segreteria di La Russa». E per ora fermiamoci qui, in attesa dei risultati di quel chiarimento.

Ma è appena il caso di sottolineare come la Finmeccanica sia il principale fornitore della Difesa. E come lo stesso Milone fosse consigliere di una società di quel gruppo, la Ansaldo Sts: settore trasporti. Incarico dal quale ha rassegnato le dimissioni una volta nominato al governo. Ma non l'unico che il sottosegretario, per la serie conflitti d'interessi, ha avuto nelle aziende pubbliche. Qualche anno fa, per esempio, è transitato nel consiglio di amministrazione delle Poste. Mentre non abbiamo ancora notizia ufficiale delle sue eventuali dimissioni dal collegio sindacale di una società che si chiama Quadrifoglio Real Estate srl. Collegio presieduto curiosamente dal presidente dell'Inps Antonio Mastrapasqua. La società in questione appartiene a Fintecna Immobiliare, cioè al Tesoro che è il proprietario del gruppo Fintecna. Holding statale che secondo gli esperti del settore potrebbe avere un ruolo importante nell'operazione di dismissione del patrimonio pubblico. Comprese magari le caserme della Difesa.

Ma Milone occupa anche una seconda poltrona del giro Fintecna immobiliare. Si tratta di un posto nel consiglio di amministrazione di Alfiere spa. È la società che Fintecna ha al 50% assieme ad alcuni privati riuniti nella Progetto Alfiere spa. Sono la Lamaro appalti della famiglia Toti, la Astrim di Alfio Marchini, il fondo immobiliare Fimit guidato da Massimo Caputi, la Tecnimont, la Immobiliare Fondiaria Sai di Salvatore Ligresti e la Eurospazio, i cui azionisti sono custoditi in due fiduciarie. Alfiere è l'impresa che dovrebbe realizzare un massiccio investimento immobiliare a Roma, con la trasformazione di tre torri alte 62 metri e di altri edifici al quartiere Eur, dove un tempo c'era il ministero delle Finanze, su progetto di Renzo Piano. Un'operazione fondiaria appetitosa, che prevede fra l'altro la realizzazione di locali commerciali e ben 350 appartamenti.

Che cosa c'entra Milone? C'entra evidentemente per Ligresti, costruttore e finanziere siciliano. Come siciliane sono le radici del sottosegretario, comunque milanese di nascita, e di La Russa. E la terra è un legame formidabile, a giudicare dai fatti. Il figlio di La Russa, Antonino Geronimo, è consigliere di amministrazione della holding di Ligresti Premafin. E Milone è presidente di Quintogest, impresa controllata da Fondiaria Sai. Nonché consigliere della Sviluppo Centro est, società fra Ligresti, Toti e i costruttori Santarelli. Ma in passato è stato molto di più. Negli anni ruggenti del tramonto della Prima Repubblica gestisce la Grassetto, poi finita come tutte le grandi imprese di costruzione nel vortice delle inchieste di Tangentopoli. E lui s'immola. A partire dal tintinnìo delle manette fino ai processi per corruzione subisce tutte le traversie di quella stagione. Da Messina a Napoli, ad Asti, a Padova.

Sperimentando, a seconda dei casi, praticamente ogni brivido che la ruota della giustizia sa offrire: la prescrizione, l'assoluzione in secondo grado, la condanna definitiva con lo zuccherino della «riabilitazione». Per non farsi mancare proprio nulla, nel 1995 Milone arriva a mettere su con il futuro capo di una nuova Dc, Giuseppe Pizza, poi ritrovato nel 2008 al governo Berlusconi come sottosegretario all'Istruzione, una ditta di impianti elettrici. Che però dopo qualche anno va per aria. Niente paura: il Nostro è iper vaccinato. Si narra che la sua carriera nelle costruzioni sia cominciata nell'impresa di Gaetano Graci. Proprio lui, uno dei Cavalieri di Catania, costruttori siciliani per decenni sulla cresta dell'onda quando negli anni Novanta vengono investiti dalle tempeste giudiziarie. A un certo punto Milone si trova addirittura in mano una piccola quota del 5%, chissà perché, in un'azienda di commercio all'ingrosso di carni di Placido Filippo Aiello, il genero di Graci. Finché nel 1993 la Ge.c.al. (così si chiama quella) va in liquidazione.

Per completezza d'informazione va detto che due anni dopo Aiello e il suocero si beccano una condanna per concorso esterno in associazione mafiosa. L'accusa dice che Cosa nostra aveva investito dei soldi nelle attività imprenditoriali di famiglia. Aiello patteggia 24 mesi. Passano dieci anni e la Guardia di Finanza lo accusa di aver trasferito in Svizzera 700 mila euro in barba alle regole del Fisco. Ma questa è un'altra storia. Composto l'intero quadro non può tuttavia che restare il dubbio: era proprio opportuna la nomina di Milone?

Sergio Rizzo

3 dicembre 2011 | 8:53© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/11_dicembre_03/milone-sottosegretario-affari-rizzo_0ee64418-1d81-11e1-806b-ab0ba8b41272.shtml
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« Risposta #95 inserito:: Dicembre 08, 2011, 05:18:47 pm »

I COSTI DELLA POLITICA

Un comma rinvia i tagli alle Province

I tempi saranno definiti con una legge.

L'incognita del via libera dei partiti

ROMA - Mario Monti ha imparato a proprie spese che cosa significhi toccare le Province. Tutti, a destra come a sinistra, sentenziano che sono inutili. Tutti, a sinistra come a destra, dicono che bisogna abolirle. Guai, però, soltanto a sfiorarle. Subito parte la sassaiola. Che mai è stata così violenta: questa volta avevano capito che si stava facendo sul serio, anche per l'urgenza di mandare un segnale chiaro e inequivocabile a Francoforte. Ricordate la famosa lettera della Banca centrale europea firmata congiuntamente dal presidente uscente Jean-Claude Trichet e dal suo successore Mario Draghi, pubblicata lo scorso 29 settembre dal Corriere ? Meno esplicito, il suggerimento che conteneva non poteva essere: «C'è l'esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province)». E Monti l'ha preso talmente sul serio da aver trovato un grimaldello micidiale per assestare un colpo mortale a quegli enti, senza dover ricorrere a una faticosa modifica costituzionale. Ha semplicemente svuotato le Province dei loro scarsi poteri, disponendo per decreto la conseguente abolizione delle giunte e la drastica riduzione dei consigli provinciali.

Difficile dire se avesse messo nel conto la pioggia di pietre che gli sono arrivate addosso da tutte le parti. Destra e sinistra ancora una volta davvero in sintonia. «Noi ce ne andiamo dall'Unione delle Province italiane», ha ringhiato il presidente della Provincia di Latina, Armando Cusani, pidiellino. «Tagliamo tutto quello che dobbiamo tagliare, ma non a casaccio», ha messo le mani avanti il leader della sinistra Nichi Vendola. Mentre dal segretario di Rifondazione comunista, Paolo Ferrero, arrivava ai rivoltosi un messaggio di tangibile solidarietà: «Avete tutto il nostro sostegno. Vi appoggiamo perché la vostra è una battaglia di democrazia». Intanto il presidente della Conferenza delle Regioni, il democratico Vasco Errani, ammoniva: «Attenti. Ci possono essere costi più alti. Il personale, per esempio, dove va a finire?». E il deputato del Pd Enrico Gasbarra, ex presidente della Provincia di Roma, tagliava corto: «Cancellare gli eletti dal popolo senza che abbiano terminato il loro mandato la trovo una scelta demagogica e grave». Ma a Monti nemmeno il suo successore Nicola Zingaretti le mandava a dire: «Siamo quelli che di più si sono impegnati per ridurre o eliminare la spesa pubblica. Chi oggi guida le Province lo fa perché è stato votato da milioni di italiani». Senza contare poi altri aspetti non marginali del problema, come dimostra il caso della Provincia di Bologna, attualmente impegnata in un investimento di oltre 30 milioni per costruire una nuova sede. A quel punto assolutamente inutile.

Nel Pd, insomma, il malumore cresceva fino a prendere la forma di una protesta semiufficiale contro la decadenza automatica e per decreto delle giunte e dei consiglieri. Idem capitava nel Pdl, dove volavano anche parole grosse all'indirizzo della decisione di Monti. «Gettano fumo negli occhi e fanno demagogia», ha commentato il presidente della Provincia di Milano Guido Podestà, berlusconiano di ferro. Né ha usato particolari diplomazie il presidente dell'Unione Province, Giuseppe Castiglione, pidiellino e presidente della Provincia di Catania: il quale ha minacciato il ricorso alla Corte costituzionale, anche dopo la notizia che il governo ci aveva ripensato.

All'articolo 23 della versione definitiva del decreto «salva Italia» è infatti spuntato a sorpresa un comma con il quale si stabilisce che sarà una «legge dello Stato» a dire entro quale termine gli organi delle Province decadranno. Se sia stato il Quirinale a imporre questa modifica, preoccupato per le possibili proteste alla Consulta, oppure se sia il risultato delle pressioni inaudite che si sono scatenate, lo sapremo presto. Vero è che difficilmente, se fosse scoppiato un contenzioso davanti alla Corte costituzionale, la Corte suprema avrebbe potuto dare man forte al governo bocciando i ricorsi di consiglieri eletti per cinque anni e dimissionati per decreto. La conseguenza è che nel frattempo in 4.520 hanno tirato un bel respiro di sollievo. Tanti sono consiglieri e assessori che potenzialmente avrebbero rischiato di perdere la poltrona, come diceva la versione di partenza della norma, il 30 novembre 2012. E che adesso, invece, potranno sperare di arrivare almeno fino alla fine del loro mandato. Il che non è un dettaglio. La maggior parte delle giunte provinciali in carica ha ancora tre anni e mezzo di vita.

Per allora potrà succedere di tutto. Questo è il vero rischio: il governo di Mario Monti non durerà oltre la primavera del 2013. E possiamo già scommettere che assisteremo a una estenuante melina per non far vedere la luce a quella legge prima di allora. L'importante è che questo imprevisto, che però non era nemmeno troppo complicato prevedere, non diventi la pietra tombale dell'operazione compromettendo la vera sostanza del provvedimento, cioè il trasferimento delle competenze provinciali a Comuni e Regioni entro il prossimo 30 aprile. Saranno quelli, e non i tagli delle poltrone (che la relazione tecnica alla manovra cifra in 65 milioni di euro), a dare i risparmi in prospettiva più consistenti. Meno passaggi intermedi, meno burocrazia, meno veti da dover rimuovere ogni volta che c'è da prendere una decisione. Vi pare poco?

Sergio Rizzo

8 dicembre 2011 | 11:00© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/11_dicembre_08/sergio-rizzo-costi-politica-no-province_fd63d178-217d-11e1-97f3-fb4c853f7d5d.shtml
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« Risposta #96 inserito:: Dicembre 10, 2011, 10:30:26 am »

IL DECRETO SALVA ITALIA

Dallo scudo agli enti inutili tutti i «buchi» della manovra

La norma sulla sanatoria e la ripresa della fuga dei capitali


Che il decreto «salva Italia» sia un esempio di semplicità e chiarezza, come prescrive una legge calderoliana di due anni fa, peraltro mai applicata, non si può proprio dire. Agli scettici suggeriamo di leggere gli articoli del «capo» intitolato «Misure per l'emersione della base imponibile e la trasparenza fiscale»: dove l'unico messaggio immediatamente comprensibile e inequivocabile, senza andare a consultare articoli di legge, regolamenti e decreti legislativi, è che la Guardia di finanza farà gli accertamenti presso le imprese, «per quanto possibile, in borghese».

E siamo certi che molte sorprese ancora devono saltare fuori. Intanto però il decreto che avrebbe fermato l'Italia sull'orlo del baratro mostra già qualche crepa, che bisognerà riparare quanto prima per evitare il rischio di mettere in pericolo pezzi importanti della manovra. È il caso della sovrattassa dell'1,5% sui capitali rientrati, o meglio regolarizzati, con lo scudo fiscale. Addizionale che viene considerata da molti osservatori, a ragione, assolutamente insufficiente. Chi ha esportato illegalmente capitali all'estero se la caverà pagando il 6,5% in tutto, vale a dire un settimo di quanto avrebbe dovuto versare se avesse dichiarato quelle somme al fisco. Ma soprattutto, negli ambienti bancari circola un discreto scetticismo sulla reale applicabilità della soprattassa, per com'è formulata. Bisogna infatti ricordare che l'ultimo scudo fiscale del governo Berlusconi prevedeva l'anonimato assoluto. Ragion per cui il Tesoro non conosce i nomi dei beneficiari e ciò, oltre a essere un'anomalia tutta italiana, rappresenta anche un bel problema che andrebbe superato. Non è poi detto che i capitali rientrati o regolarizzati con quella meravigliosa agevolazione concessa agli evasori siano ancora nelle stesse banche dove sono tornati o che li hanno messi in regola. In moltissimi casi potrebbero essere anche tornati all'estero, soprattutto in Svizzera: se è vero, come si sussurra negli ambienti bancari ben informati, che nelle banche elvetiche le cassette di sicurezza da mesi registrano il tutto esaurito. E che la crisi finanziaria ha indotto molti cittadini non certo patriottici quanto facoltosi, a esportare in Svizzera volumi di denaro inimmaginabili: c'è chi parla addirittura di cifre record, circolano stime vertiginose, che arrivano a 800 miliardi di euro nell'ultimo anno e mezzo. Quell'1,5%, ammesso che si riesca a riscuotere, non gli fa nemmeno il solletico.

C'è poi il delicato passaggio dei costi della politica. Il governo ha già dovuto fare una marcia indietro sulle Province, rimandando a una futura legge l'eliminazione delle giunte e il taglio dei consiglieri provinciali, mentre il giro di vite sulla previdenza ha risparmiato i privilegiatissimi dipendenti degli organi costituzionali come Camera e Senato.

Altri buchi? La fusione fra Inps, Inpdap ed Enpals non sarà una passeggiata: non a caso il precedente progetto di integrazione, che portava il marchio del centrosinistra, è fallito. Per ora l'unico a guadagnarci davvero, se si eccettuano i dirigenti che non perdono il posto ma vengono semplicemente spostati, è il presidente dell'Istituto nazionale della previdenza sociale, che incassa una proroga monstre del suo incarico di 30 mesi. Dal suo punto di vista, è il decreto «salva Mastrapasqua». Già. Nominato dal governo Berlusconi, Antonio Mastrapasqua sarebbe scaduto a luglio prossimo: il suo incarico durerà invece fino al 31 dicembre 2014.

Piuttosto complicato, diciamo la verità, sembra attuare anche la norma che stabilisce la fine del pagamento in contanti per le pensioni oltre 500 euro. Vi immaginate milioni di poveri vecchietti costretti ad aprire un conto in banca? E vi immaginate gli istituti di credito che non fanno loro pagare un euro di commissione? Boh...

Non poche perplessità sollevano poi le norme che dovrebbero far pagare finalmente un po' di quattrini ai proprietari di lussuosi yacht. La tassa colpisce le barche ormeggiate nei porti italiani. E quelle ormeggiate nei porti di Paesi esteri, magari battenti bandiera straniera? E quelle parcheggiate in società di comodo con sede nei paradisi fiscali? Con una legge congegnata così può stare tranquillo anche Silvio Berlusconi, proprietario di uno splendido yacht di 48 metri acquistato da Rupert Murdoch nel 2000 al prezzo di 28 miliardi e mezzo di lire e intestato alla società Morning Glory Yachting limited, con sede alle Bermuda. Gli basterà tenersi alla larga dai porti italiani... E l'ex premier tycoon non è certo l'unico. Considerazioni analoghe si possono fare per la tassa sugli aerei e gli elicotteri privati, che riguarda solo i velivoli iscritti nel registro aeronautico nazionale. Gli altri?

Ma non che non ci si renda conto delle difficoltà enormi a cui si va incontro quando si affrontano certi capitoli. Gli enti inutili, per esempio. Non c'è un governo che non ne abbia abolito qualcuno. Salvo poi fare marcia indietro. Il governo Monti non ha voluto essere da meno, decretando l'evaporazione dell'Enit, ente che avrebbe dovuto promuovere il turismo, e dell'Isa, società del ministero dell'Agricoltura con un consiglio di amministrazione lottizzato nel pieno rispetto dei rapporti di forza della maggioranza che sosteneva Berlusconi. Oltre che di alcuni organismi che rappresentano autentiche assurdità, come l'Agenzia per la regolamentazione sul settore postale, una specie di authority per le Poste creata in un battibaleno dal governo nonostante esistessero già l'Antitrust e l'Agcom, e al cui vertice era stato collocato il capo di gabinetto dell'ex ministro Renato Brunetta, il consigliere di Stato Carlo Deodato. Ma perché, mentre si procedeva a quelle sacrosante abrogazioni, far resuscitare con lo stesso decreto l'Istituto nazionale per il commercio estero, sotto forma di una nuova Agenzia?

Sergio Rizzo

10 dicembre 2011 | 9:07© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/11_dicembre_10/dallo-scudo-agli-enti-inutili-tutti-i-buchi-della-manovra-sergio-rizzo_116999d0-22f7-11e1-bcb9-01ae5ba751a6.shtml
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« Risposta #97 inserito:: Dicembre 15, 2011, 06:09:59 pm »

«Vendetta»

Manager di Stato, super buste nel mirino

Tagli (possibili) dai 50 ai 160 mila euro all'anno. Un altissimo burocrate: è una vendetta dei parlamentari


ROMA - La tremarella è tornata. Lo spettro di un taglio delle buste paga ben più crudele di quello che le ha colpite finora si aggira per le pubbliche amministrazioni, le società di Stato, le authority. Trema il capo di gabinetto di Mario Monti, Vincenzo Fortunato, recordman della sua categoria. Ma anche il capo del Poligrafico dello Stato, Maurizio Prato. E perfino il presidente dell'Antitrust.

Giovanni Pitruzzella aveva già subito un bel salasso: 60 mila euro. L'incarico di consigliere giuridico di Ferruccio Fazio è evaporato assieme alle dimissioni dell'ex ministro della Salute. Poco male. Nel cambio, l'avvocato siciliano tenuto in grande considerazione dal suo conterraneo presidente del Senato Renato Schifani, ci ha senz'altro guadagnato. Prima era a capo della commissione di garanzia degli scioperi: 118 mila euro. Arrivato Mario Monti a palazzo Chigi, il presidente dell'Antitrust Antonio Catricalà l'ha seguito e lui ha preso il suo posto: 475.643 euro e 38 centesimi. Ragion per cui rischia ora che gli venga chiesto un nuovo e più doloroso sacrificio. Sempre che, naturalmente, abbia successo, e fino in fondo, l'ultima trovata dei relatori della manovra governativa: mettere un limite alle retribuzioni di «chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche emolumenti o retribuzioni nell'ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni statali». Non potranno superare lo stipendio del primo presidente della Corte di Cassazione. Trecentoundicimila euro, più o meno.
«È una vendetta dei parlamentari, che non digeriscono il taglio della loro indennità conseguente all'applicazione della media europea», ringhia un altissimo burocrate. Resta solo da vedere se questa volta, per tutti i manager pubblici che nonostante i tagli già fatti continuano a guadagnare più di quella cifra, sarà disperazione autentica. Perché quel tetto in realtà già esiste, anche se finora quasi nessuno se n'è accorto.

L'aveva introdotto Romano Prodi, fra i mugugni di tanti. Poi era ritornato Berlusconi ed era iniziata una melina di due anni. Finalmente, nel giugno del 2010, il Consiglio dei ministri aveva sfornato il regolamento attuativo di quella norma. Che però salvava i contratti in essere. Escludendo anche la Banca d'Italia e le authority. Ecco dunque che Pitruzzella può sperare, nel caso ora andasse in scena lo stesso copione. Perché per stabilire come e a chi esattamente quel tetto si applicherà, sarà necessario attendere il solito decreto attuativo.

Così non possiamo ancora dare nulla per scontato. Nella peggiore delle ipotesi, il presidente dell'Antitrust (inequivocabilmente pagato dalle pubbliche finanze, a differenza del presidenti delle altre authority) dovrà rinunciare a 160 mila euro lordi l'anno. Ma soffriranno anche i capi delle Agenzie fiscali, tutti retribuiti oltre quel limite. Il direttore dei Monopoli di Stato Raffaele Ferrara, titolare di una paga di 389 mila euro, dovrebbe perdere 78 mila euro. Idem il segretario generale della Farnesina, Giampiero Massolo. Il capo dell'Agenzia delle Entrate Attilio Befera ha emolumenti per 460 mila euro: non percepirà più il compenso di Equitalia (160 mila euro). Altrettanto dura sarà per il Ragioniere generale dello Stato Mario Canzio, al quale spettavano prima dei tagli imposti 516 mila euro l'anno. Destino simile dovrebbe avere Fortunato. Il suo compenso non è disponibile sul sito istituzionale del ministero dell'Economia, come del resto accade (incredibilmente, alla faccia della trasparenza) per quelli di quasi tutti i capi di gabinetto e gli alti vertici delle burocrazie. È tuttavia noto che è di gran lunga il più elevato per l'incarico: non inferiore a quello percepito dal direttore generale del Tesoro (oltre mezzo milione di euro). Un taglio ben più pesante di quello che rischia Fortunato avrebbe già subìto la retribuzione di chi occupava fino a qualche giorno fa quel posto, vale a dire Vittorio Grilli. A lui, paradossalmente, il tetto gli fa un baffo: passato al ruolo di viceministro dell'Economia si è dovuto accontentare della paga governativa (circa 50 mila euro) più un'indennità pari a quella parlamentare, come spetta per legge a tutti i componenti dell'esecutivo non provenienti dal Parlamento. Grasso che cola se adesso racimola (si fa per dire) centottantamila euro.

Ma le sorprese non finiscono qui. Perché l'emendamento «della vendetta» se la prende anche con i magistrati che hanno il doppio incarico. Capi di gabinetto e capi degli uffici legislativi, solitamente ingaggiati dai ruoli della Corte dei conti, dei Tar e del Consiglio di Stato non potranno più cumulare lo stipendio da magistrato «fuori ruolo» con il compenso governativo. Non tutto, almeno: soltanto il 25% di quello che già prendono dall'amministrazione di provenienza. Facciamo il caso non di un magistrato, ma di un ambasciatore: il consigliere diplomatico del ministero dello Sviluppo economico, ora retto da Corrado Passera. Ipotizzando che l'ambasciatore Daniele Mancini abbia dalla Farnesina uno stipendio (nel sito non figura, come al solito) di 200 mila euro, a questo aggiungerebbe la retribuzione di 102 mila euro prevista per il suo incarico allo Sviluppo. Ma siccome non potrebbe incassare più del 25%, allora dovrebbe subire un taglio di 50 mila euro.

E non se la caverebbero neppure gli amministratori delle società pubbliche non quotate. A loro non si applicherà il limite dei 311 mila euro: verranno invece fissati tetti per fasce diverse, a seconda delle dimensioni della rispettiva azienda pubblica. Ma anche in questo caso deciderà un futuro decreto attuativo. Circostanza che rende la partita ancora apertissima: almeno per i contratti in essere. Che fine farà la retribuzione dell'amministratore delegato delle Poste Massimo Sarmi (un milione e mezzo l'anno)? E quelle del suo presidente Giovanni Ialongo, ex sindacalista della Cisl (635 mila euro, dice la Corte dei conti)? Dell'amministratore delegato di Fintecna Massimo Varazzani (750 mila)? Del capo della controllata Fintecna Immobiliare Vincenzo Cappiello (505 mila)? Dell'amministratore delegato di Invitalia Domenico Arcuri (835 mila euro, rimborsi compresi, secondo la Corte dei conti)? O del suo collega della Fincantieri Giuseppe Bono, al quale spettano 600 mila euro l'anno senza considerare la parte variabile legata ai risultati? Belle domande...

Sergio Rizzo

15 dicembre 2011 | 8:26© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/11_dicembre_15/rizzo_manager-di-stato-super-buste-nel-mirino_5fdbfac4-26e2-11e1-853d-c141a33e4620.shtml
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« Risposta #98 inserito:: Gennaio 10, 2012, 10:48:15 pm »

Il ritratto

Tutti i super incarichi del «tecnico» trasversale

La parabola

Il suo curriculum va dalla fine della Prima Repubblica al governo di Romano Prodi


Carlo Malinconico ha giocato, correttamente, d'anticipo. Appena saputo che per lui si sarebbero schiuse le porte del governo di Mario Monti si è affrettato a dimettersi da tutti gli incarichi. E non ne aveva certamente pochi, l'ex presidente della Federazione degli editori. Contemporaneamente presidente dell'Audipress, consigliere di amministrazione dell'Agenzia Ansa, di Autostrade per l'Italia e di Atlantia, la holding che controlla le stesse Autostrade. Ma anche amministratore della Malinconico e associati. Il 7 novembre il timone della sua società di consulenza aziendale è passato nelle mani della sua signora Grazia Graziani, con la quale aveva trascorso diversi weekend nell'esclusivo resort di Porto Ercole, il Pellicano di Roberto Sciò.

Soggiorni pagati da Francesco De Vito Piscicelli, noto alle cronache per essere colui che la notte del terremoto in Abruzzo «rideva» al pensiero degli affari che la ricostruzione avrebbe garantito, per fare un favore, ha detto egli stesso ai giudici, ad Angelo Balducci, come gli era stato chiesto dall'appaltatore Diego Anemone. Comunque la si metta, un brutto scivolone per uno che adesso ha incarichi di governo. Il suo curriculum è lungo come la Quaresima. Le sue relazioni sono a 360 gradi.

Con l'ex presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici Angelo Balducci, successivamente indagato con Anemone per gli affari della Cricca, i rapporti erano fraterni. Almeno a giudicare dalle intercettazioni telefoniche pubblicate dal Fatto Quotidiano da cui è scaturita la vicenda del Pellicano. Ce n'è una, per esempio, nella quale Malinconico parla con «Angelo», che chiama per nome, di «una spintarella». Un segnale «un po' da Oltretevere», spiega meglio un terzo partecipante a quella conversazione della mattina dell'8 maggio 2008, Calogero Mauceri detto Lillo. «Oltretevere» sta ovviamente per il Vaticano, dove il Gentiluomo di Sua Santità Angelo Balducci ha ottime aderenze. A che cosa sia potuta servire la «spintarella», non si sa.

Si sa invece che qualche giorno fa Mauceri, dirigente di Palazzo Chigi (lo era anche all'epoca dei fatti) è stato nominato capo del Dipartimento degli Affari regionali. Carlo Malinconico Castriota Scanderbeg, questo è il suo nome completo, ha 61 anni, è avvocato ed è stato consigliere di Stato. Discende dalla nobile e antichissima famiglia albanese di Giorgio Castriota, eroe nazionale nella guerra contro i turchi. Più modernamente, nemmeno lui si è mai tirato indietro davanti a una sfida nella pubblica amministrazione, nei cui meandri si muove come pochi. Titolare della cattedra di diritto dell'Unione Europea a Tor Vergata, è l'unico italiano a essere diventato ordinario grazie a un meccanismo a dir poco curioso.

Una leggina, poi abolita, che consentiva agli insegnanti nominati dal ministro del Tesoro alla Scuola superiore di Economia e Finanze di transitare automaticamente nei ruoli dei professori universitari. Al Tesoro c'era stato fra il 1995 e il 1996, con Lamberto Dini. Capo dell'ufficio legislativo, esperienza che aveva già provato nel 1990 alle Partecipazioni statali, durante l'agonia della Prima Repubblica: ultimo governo di Giulio Andreotti. In seguito, si sarebbe aperta per lui la stagione delle authority, all'Antitrust e all'Autorità dell'Energia. E Palazzo Chigi, fino ad arrivare al vertice dell'amministrazione. Segretario generale, una potenza assoluta. Aveva fatto il suo nome per quell'incarico il ministro per l'attuazione del Programma Giulio Santagata.

C'era il governo di Romano Prodi e l'attuale sottosegretario vantava già una fiorente attività professionale. Che inevitabilmente, però, rischiava di entrare in rotta di collisione con il ruolo istituzionale. Come accadde. Lo studio Malinconico aveva avuto l'incarico di rappresentare Autostrade nel contenzioso che si era aperto a Bruxelles. La questione era pelosa, anche perché il governo, di cui Malinconico era al servizio, si era opposto alla cessione di Autostrade alla spagnola Abertis. Con la concessionaria autostradale c'era dunque in corso un pesante conflitto. E infatti Prodi, quella faccenda, non la digerì affatto. Nell'ottobre del 2007 fu la volta di un'altra singolarissima vicenda.

Il costruttore Edoardo Longarini, nome noto alle cronache di Tangentopoli, aveva attivato un arbitrato per il vecchio piano di ricostruzione di Macerata chiedendo allo Stato 70 milioni di euro. La clausola era nel contratto e il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro era con le spalle al muro. Nominò come proprio arbitro l'avvocato dipietrista Domenico Condello. Longarini designò invece l'ex amministratore di Autostrade, Vito Gamberale. I due arbitri di parte nominarono quindi di comune accordo come presidente del collegio il nostro Carlo Malinconico. Una scelta, si disse, «di garanzia». Ma che non mancò di sollevare inevitabili polemiche. Anche perché un segretario generale di Palazzo Chigi nelle vesti di arbitro in una controversia privata ancora non si era visto. Un paio d'anni dopo, per la cronaca, Malinconico entrava nei consigli di Atlantia e Autostrade.

Sergio Rizzo

10 gennaio 2012 | 8:39© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_gennaio_10/tutti-i-super-incarichi-del-tecnico-trasversale-sergio-rizzo_6dd49654-3b5a-11e1-bd31-7de06b9c283b.shtml
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« Risposta #99 inserito:: Gennaio 18, 2012, 10:09:37 pm »

L'analisi E Le ambiguità della legge

Rimborsi spese e portaborse: le nostre anomalie

Lo stipendio dei deputati italiani è, almeno, di tremila euro lordi al mese più alto di quello dei loro colleghi di altri Paesi


ROMA - I dati della Commissione Giovannini, come premette lo stesso rapporto, vanno certamente presi con le molle. Mettiamoci il fatto che la norma con la quale la retribuzione (pardon, il costo...) dei nostri parlamentari dovrebbe essere equiparata alla media europea è chiarissima soltanto in apparenza: in realtà è il massimo dell'ambiguità. Aggiungiamoci poi che da mesi, avendo probabilmente fiutato l'aria, si moltiplicano gli studi di fonte non proprio imparziale tesi a dimostrare che contrariamente all'evidenza di un peso macroscopico sui contribuenti (per mantenere le due Camere ogni italiano spende 26,33 euro l'anno, il doppio di un francese, due volte e mezzo rispetto a un cittadino britannico!) deputati e senatori italiani costerebbero individualmente meno dei loro colleghi europei. La conclusione logica sarebbe che alla fine la montagna ha partorito un topolino.

Invece i risultati della Commissione offrono all'evidenza per la prima volta in un documento con i crismi dell'ufficialità, alcune storture del nostro sistema che mettono seriamente in crisi il catenaccio avviato dai difensori dello status quo, pronti non soltanto a respingere qualsiasi taglio a indennità, rimborsi e prerogative, ma addirittura a rivendicare più soldi proprio in virtù della famosa media europea. Intanto è palese che lo stipendio nudo e crudo dei parlamentari italiani è di almeno 3 mila euro al mese (lordi, s'intende) più alto degli altri. Anche dei tedeschi, nonostante la Germania abbia un prodotto interno lordo procapite del 25% più alto dell'Italia. E senza considerare la Spagna, dove l'indennità dei deputati è decisamente più bassa.

Ma soprattutto, sarà ora impossibile per la Camera e il Senato non fare i conti con alcuni scheletri nell'armadio da troppo tempo. Prendiamo la vicenda scandalosa dei collaboratori. Quello italiano è l'unico Parlamento in Europa nel quale deputati e senatori percepiscono una quantità non irrilevante di soldi con cui dovrebbero retribuire l'assistente personale. Sapevamo anche prima di leggere il rapporto della Commissione che i membri del Bundestag hanno diritto a una somma enormemente superiore. Ma c'è una differenza: i deputati tedeschi non toccano un euro. I loro collaboratori personali vengono infatti pagati direttamente dal Bundestag. Né più, né meno, come avviene altrove, a cominciare dal Parlamento europeo. I nostri, invece, in molti casi se li mettono in tasca: puliti, senza imposte. Di più. Quei soldi vengono da qualcuno utilizzati per fare il famoso versamento volontario al partito. Con il risultato che si può persino portare in detrazione dalle tasse il 19% dell'importo su una somma già esentasse. Molti assistenti intascano paghe da miseria e in nero. Non è un caso che i collaboratori ufficialmente riconosciuti siano meno di un terzo dei deputati. Speriamo che il rapporto Giovannini contribuisca finalmente a far cessare questo sconcio. Facendo venire al pettine pure altri nodi.

Per esempio la questione della diaria, che incassano tutti forfettariamente. Di che cosa si tratta? Del rimborso per le spese sostenute a causa della permanenza a Roma nei giorni di lavoro. Per quale ragione questo contributo (esentasse) debba spettare senza alcuna differenza anche a chi abita nella Capitale, è francamente un mistero. Adesso toccherà al Parlamento tirare le somme. La Commissione non le ha tirate. E non è arbitrario ravvedere dietro questa ovvia omissione una scelta precisa. Dare anche un semplice suggerimento sull'interpretazione dei dati e delle varie voci sarebbe stato probabilmente irrituale. Ma anche rischioso, vista l'indignata determinazione con cui le Camere hanno rivendicato la propria autonomia quando nel decreto «salva Italia» aveva fatto capolino una norma che affidava al governo il compito di fare la media, nel caso in cui i dati non fossero stati disponibili per fine 2011.

I numeri sono arrivati il 2 gennaio, pur con tutti i limiti di cui abbiamo parlato. Le Camere hanno voluto risolvere il problema da sole invocando l'«autodichia». E dandosi pure la zappa sui piedi, considerato che la media europea sarebbe dovuta scattare dalla prossima legislatura mentre ora il presidente di Montecitorio Gianfranco Fini ha promesso che si applicherà da subito. Dunque lo facciano: in fretta e senza fare ricorso alle solite piccole furbizie, quando si dovranno tirare le somme. Magari facendosi scudo di uno di quegli studi «imparziali» che mettono tutto nello stesso calderone, dall'indennità ai rimborsi spese fino ai costi del portaborse, per arrivare a una qualche conclusione gattopardesca. Non lo meritano i cittadini e non lo meritano le istituzioni democratiche. Per difendere il nostro Parlamento e restituire credibilità alla politica non c'è che una strada: quella della serietà e della trasparenza. Per favore, lasciate perdere i calderoni.

Sergio Rizzo

3 gennaio 2012 | 9:02© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/politica/12_gennaio_03/rimborsi-spese-portaborse_1be3bc72-35d2-11e1-8614-09525975e917.shtml
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« Risposta #100 inserito:: Gennaio 27, 2012, 03:21:58 pm »

Il confronto tra le buste paga delle giunte locali

Regioni, la giungla dei privilegi

In Sicilia e Sardegna stipendi record

Tagli per Vendola e Chiodi. Ma a Cota vanno 1.779 euro in più della Bresso


ROMA - Al governatore siciliano Raffaele Lombardo la sola definizione di gabbie salariali «fa schifo». La sua coerenza è da lodare. Alla guida di una Regione con un numero di abitanti pressoché identico a quello del Veneto, ma un costo della vita inferiore del 9,4%, Lombardo porta a casa fra indennità e rimborsi il 43% in più del suo collega Luca Zaia: 170.319 euro netti l'anno contro 118.703, secondo i dati contenuti nel sito ufficiale della conferenza dei governatori ( www.parlamentiregionali.it ). Senza considerare, poi, la differenza abissale nella ricchezza di quei due territori. Il prodotto interno lordo del Veneto, dice l'Istat, è del 75% superiore a quello della Sicilia.

La verità è che in Italia le uniche gabbie salariali esistenti (quel sistema in voga un tempo per cui gli stipendi erano più bassi dove il costo della vita era inferiore) ce le hanno i politici. Però al contrario. Ha senso che un consigliere regionale molisano, dove la vita costa il 32,8% in meno, intaschi ogni mese fra indennità e rimborsi vari 10.125 euro netti contro gli 8.639 del suo collega della Liguria? E sorvoliamo sul fatto che il Molise ha un quinto degli abitanti della Liguria e una ricchezza procapite del 37% inferiore.

Ha senso che un consigliere regionale dell'Emilia Romagna abbia un appannaggio netto pari a metà di quello del consigliere della Sardegna (5.666 euro contro 11.417)? O che la busta paga del governatore della Calabria, pure dopo essere stata tagliata di 27 mila euro, sia ancora di 43 mila euro l'anno superiore a quella del presidente della Toscana?

Conosciamo le argomentazioni di chi difende il proprio status quo: i dati vanno presi con le molle, anche quelli ufficiali. Vero, ma anche con queste precauzioni certi numeri fanno sempre fare un salto sulla sedia. Per quanto il presidente della Provincia di Bolzano Luis Durnwalder si dica profondamente convinto di meritarsi i 25.620 euro che fra stipendio e rimborsi gli toccano ogni mese, perché lui lavora dall'alba a notte fonda, è stato rilevato che l'impegno del presidente degli Stati Uniti Barack Obama non è certamente inferiore al suo: per 2.600 euro di meno nella busta paga.

Così, se si deve accogliere con un applauso l'affermazione del governatore sardo Ugo Cappellacci, il quale ha fatto presente di aver rinunciato «già da tempo all'indennità di presidente e anche all'auto blu per dare un segnale personale in un momento difficile per tutti», è impossibile non ricordare come per mantenere il Consiglio regionale ogni cittadino della Sardegna sopporti una spesa almeno sei volte superiore rispetto a ciascun lombardo o a ogni residente in Emilia-Romagna. Tanto che basterebbe semplicemente equiparare il costo dei 20 parlamentini regionali per far risparmiare ai contribuenti una somma tutt'altro che trascurabile: 606 milioni di euro l'anno. Anche perché se i Consigli regionali dell'Emilia-Romagna o della Lombardia funzionano bene con circa 8 euro per abitante, non si capisce perché per l'Assemblea regionale siciliana ne debbano servire quasi 35 e per il Consiglio della Valle D'Aosta addirittura 124.

Il fatto è che troppo spesso, nelle Regioni Italiane, l'autonomia ha avuto risvolti insensati, dando vita a una giungla di privilegi e retribuzioni nella quale sarebbe opportuno mettere finalmente un po' d'ordine. L'occasione per uniformare voci come le indennità e i rimborsi poteva essere offerta dalla necessità di tagliare i costi della politica. È accaduto invece esattamente il contrario, e quella giungla è diventata se possibile ancora più fitta. Istruttivo è il confronto fra gli emolumenti massimi dei governatori e dei consiglieri di cinque anni fa e quelli di oggi, entrambi rilevati dalla stessa fonte: il sito www.parlamentiregionali.it . La tabella in questa pagina paragona gli «stipendi massimi» mensili, pubblicati dalla conferenza dei presidenti regionali nell'estate del 2007, e riportati dal Corriere il 2 agosto di quell'anno, con quelli aggiornati al 23 gennaio scorso. Dove per «stipendio massimo» si intende la somma della indennità di carica e dei rimborsi (massimi) consentiti.

Fra i governatori, il taglio più consistente è quello subito dagli emolumenti di quello abruzzese. Roberto Chiodi ha diritto oggi a una retribuzione, comprensiva dei rimborsi, pari a 8.450 euro netti al mese: 5.394 euro in meno rispetto a quella spettante nel 2007 al suo predecessore di centrosinistra Ottaviano Del Turco. C'è poi la Puglia: al presidente della giunta regionale toccano 14.595 euro netti al mese. Fra indennità e rimborsi, Nichi Vendola ha ridimensionato il proprio assegno di 4.290 euro. Al terzo posto il Veneto, il cui governatore leghista, Luca Zaia, ha una busta paga più leggera rispetto a Giancarlo Galan, che guidava la giunta nel 2007, di 2.724 euro al mese. Una sforbiciata analoga a quella subita dagli emolumenti dei loro colleghi Vasco Errani (Emilia-Romagna, meno 2.238 euro) e Giuseppe Scopelliti (Calabria, meno 2.224). Fin qui i tagli più evidenti, ai quali si devono aggiungere quelli ancora più considerevoli apportati agli assegni dei consiglieri semplici emiliano-romagnoli (-5.387), abruzzesi (-7.283) e piemontesi (-8.975). In queste tre regioni le retribuzioni dei «peones» nei consigli regionali sono state ridotte di ben oltre la metà. A giudicare però dai dati forniti dalla conferenza dei governatori non si ride nemmeno in Puglia, i cui consiglieri hanno dovuto rinunciare a 3.398 euro netti al mese. E neppure nel Lazio, dove il giro di vite è stato di 2.747 euro mensili. Anche se in questo caso c'è da dire che la tosata interessa oggi praticamente un solo consigliere: Antonio Cicchetti, l'unico senza un incarico che dia luogo a qualche indennità supplementare.

Fin qui le sforbiciate più appariscenti. Perché ci sono anche Regioni che al massimo hanno tagliato le doppie punte. Come la Sicilia: Raffaele Lombardo guadagna oggi 136 euro al mese in meno di Totò Cuffaro. O la Basilicata, che ha ridotto la paga del governatore di 285 euro al mese, da 9.506 a 9.221 euro netti. O ancora la Lombardia. Se Roberto Formigoni si è visto ridurre lo stipendio di 325 euro fra il 2007 e il 2012, un semplice consigliere regionale lombardo prende attualmente 12.523 euro al mese: 32 in meno nel confronto con cinque anni fa. Un caffè al giorno. E la sua retribuzione, considerando anche i rimborsi che gli spettano, è quella record fra tutte le Regioni. Di più: Lombardia e Puglia hanno un sistema di calcolo della liquidazione ben 2,4 volte più favorevole rispetto a quello delle altre assemblee legislative regionali, dello stesso Parlamento, nonché di tutti i comuni mortali. Lì, per ogni mandato di cinque anni, i consiglieri hanno infatti diritto a un anno di stipendio.
Per non parlare di chi quelle paghe le ha fermate nel tempo, come la Sardegna. Mentre c'è chi è arrivato anche ad aumentarle. Secondo il sito della conferenza dei presidenti regionali il governatore del Piemonte Roberto Cota ha diritto oggi, fra indennità netta (5.506 euro) e rimborsi (7.543 euro) a emolumenti per un totale di 13.049 euro. Cifra superiore di 1.779 euro a quella che lo stesso sito riportava cinque anni fa, quando la giunta piemontese era guidata da Mercedes Bresso. Con un aumento di 501 euro al mese il presidente della giunta regionale dell'Umbria, ha quindi scavalcato il suo collega toscano che è scivolato così in fondo alla classifica delle retribuzioni. Nelle Marche c'è stato invece un ritocchino di 184 euro al mese, mentre in Friuli-Venezia Giulia i consiglieri «semplici» hanno superato la barriera degli 8 mila euro netti al mese grazie a un incremento di 685 euro. Idem in Basilicata. Ma qui l'aumento è stato di oltre mille euro.

E continua a far sorridere il fatto che pur con tutti questi tagli i presidenti delle nostre Regioni restano ancora, e in qualche caso di gran lunga, più pagati dei governatori americani.

Sergio Rizzo

27 gennaio 2012 | 8:50© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_gennaio_27/rizzo-regioni-giungla-privilegi_f69799ca-48af-11e1-b976-995c60acee8e.shtml
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« Risposta #101 inserito:: Febbraio 15, 2012, 04:53:56 pm »

GRANDI PROGETTI E NUMERI INCERTI

La contabilità delle ambizioni

Comprendiamo i musi lunghi delle nostre alte gerarchie sportive: non capita tutti i giorni di arrivare così vicini all'appuntamento della vita (professionale, s'intende) senza riuscire ad afferrarlo. Né ci sorprende il senso di frustrazione del sindaco di Roma Gianni Alemanno: dopo due weekend di fila sotto la neve e le polemiche sulla gestione dell'emergenza meteorologica, il «No» di Mario Monti alla candidatura della capitale per l'Olimpiade del 2020 è un colpo impossibile da assorbire.

Temiamo tuttavia che abbia ragione l'organizzatrice di Torino 2006, Evelina Christillin. «Da sportiva ero assolutamente a favore di Roma 2020 e avrei sottoscritto l'appello firmato dai 60 campioni, ma sono più comprensibili le ragioni addotte da Monti», è stato il suo commento. Un realismo doloroso e appassionato, che fa il paio con quello di Pietro Mennea: «Mai potrò essere contrario all'Olimpiade. Ma ritengo che organizzare un evento come questo comporterebbe ulteriori sacrifici che potrebbero avere gravi conseguenze sul futuro».

Il futuro, appunto. Quello che il premier afferma di non voler compromettere con un impegno finanziario che «potrebbe gravare in misura imprevedibile sull'Italia». Monti se la sarebbe potuta cavare dicendo che «mancano i soldi». Invece è andato oltre. «Imprevedibile» è una parola che denuncia la fragilità estrema del nostro sistema. Un fattore che nessuno, fra i tifosi di Roma 2020, è sembrato tenere in debito conto. Si è arrivati a sostenere che sarebbe stata un'operazione «a costo zero» con le spese coperte da introiti fiscali e incassi dei biglietti. Spese astronomiche già in partenza. Otto miliardi? Dieci? Quanti davvero?

Il partito dei Giochi avrebbe dovuto ricordare che da troppi anni sbagliamo, e per difetto, ogni preventivo. Di soldi e di tempi. Non per colpa dei ragionieri, ma di una macchina impazzita che macina ricorsi al Tar, arbitrati, revisioni prezzi, varianti in corso d'opera, veti di chicchessia: dalle Regioni alle circoscrizioni. Un impasto mostruoso di burocrazia, interessi politici e lobbistici che spesso alimenta la corruzione e ci fa pagare un chilometro di strada il triplo che nel resto d'Europa. E in due decenni non è cambiato proprio nulla. Anzi.
Per rifare gli stadi di Italia 90 abbiamo speso l'equivalente di un miliardo e 160 milioni di euro attuali, l'84% più di quanto era previsto? Nel 2009 ci siamo superati, arrivando ai mondiali di nuoto senza le piscine. In compenso, però, con una bella dose di inchieste giudiziarie.

Questo è un Paese nel quale da dieci anni si monta e poi si smonta, quindi si rimonta, per poi smontarla di nuovo, la giostra del Ponte sullo Stretto di Messina: incuranti di penali monstre che nel frattempo lo Stato si è impegnato a pagare. Dove i costi della metropolitana C di Roma esplodono in modo così fragoroso che non è possibile immaginare quando e se la vedremo finita. E uno sguardo andrebbe rivolto anche all'Expo 2015 di Milano, per cui la Corte dei conti ha eccepito che «la complessità, l'onerosità e la ridondanza delle strutture» decisionali rischia di causare «difficoltà e disfunzioni sul piano operativo».

Conosciamo l'obiezione: i precedenti disastrosi non sono un buon motivo per non fare le cose. Giustissimo. Ma sono un'ottima ragione per andarci con i piedi di piombo. Almeno quando rischiare una montagna di denari pubblici non è proprio necessario. Come adesso.

Sergio Rizzo

15 febbraio 2012 | 8:12© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_15/la-contabilita-delle-ambizioni-sergio-rizzo_ac0fc88e-5799-11e1-8cd8-b2fbc2e45f9f.shtml
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« Risposta #102 inserito:: Febbraio 17, 2012, 05:08:57 pm »

GRANDI PROGETTI E NUMERI INCERTI

La contabilità delle ambizioni


Comprendiamo i musi lunghi delle nostre alte gerarchie sportive: non capita tutti i giorni di arrivare così vicini all'appuntamento della vita (professionale, s'intende) senza riuscire ad afferrarlo. Né ci sorprende il senso di frustrazione del sindaco di Roma Gianni Alemanno: dopo due weekend di fila sotto la neve e le polemiche sulla gestione dell'emergenza meteorologica, il «No» di Mario Monti alla candidatura della capitale per l'Olimpiade del 2020 è un colpo impossibile da assorbire.
Temiamo tuttavia che abbia ragione l'organizzatrice di Torino 2006, Evelina Christillin. «Da sportiva ero assolutamente a favore di Roma 2020 e avrei sottoscritto l'appello firmato dai 60 campioni, ma sono più comprensibili le ragioni addotte da Monti», è stato il suo commento. Un realismo doloroso e appassionato, che fa il paio con quello di Pietro Mennea: «Mai potrò essere contrario all'Olimpiade. Ma ritengo che organizzare un evento come questo comporterebbe ulteriori sacrifici che potrebbero avere gravi conseguenze sul futuro».
Il futuro, appunto. Quello che il premier afferma di non voler compromettere con un impegno finanziario che «potrebbe gravare in misura imprevedibile sull'Italia». Monti se la sarebbe potuta cavare dicendo che «mancano i soldi». Invece è andato oltre. «Imprevedibile» è una parola che denuncia la fragilità estrema del nostro sistema. Un fattore che nessuno, fra i tifosi di Roma 2020, è sembrato tenere in debito conto. Si è arrivati a sostenere che sarebbe stata un'operazione «a costo zero» con le spese coperte da introiti fiscali e incassi dei biglietti. Spese astronomiche già in partenza. Otto miliardi? Dieci? Quanti davvero?
Il partito dei Giochi avrebbe dovuto ricordare che da troppi anni sbagliamo, e per difetto, ogni preventivo. Di soldi e di tempi. Non per colpa dei ragionieri, ma di una macchina impazzita che macina ricorsi al Tar, arbitrati, revisioni prezzi, varianti in corso d'opera, veti di chicchessia: dalle Regioni alle circoscrizioni. Un impasto mostruoso di burocrazia, interessi politici e lobbistici che spesso alimenta la corruzione e ci fa pagare un chilometro di strada il triplo che nel resto d'Europa. E in due decenni non è cambiato proprio nulla. Anzi.
Per rifare gli stadi di Italia 90 abbiamo speso l'equivalente di un miliardo e 160 milioni di euro attuali, l'84% più di quanto era previsto? Nel 2009 ci siamo superati, arrivando ai mondiali di nuoto senza le piscine. In compenso, però, con una bella dose di inchieste giudiziarie.
Questo è un Paese nel quale da dieci anni si monta e poi si smonta, quindi si rimonta, per poi smontarla di nuovo, la giostra del Ponte sullo Stretto di Messina: incuranti di penali monstre che nel frattempo lo Stato si è impegnato a pagare. Dove i costi della metropolitana C di Roma esplodono in modo così fragoroso che non è possibile immaginare quando e se la vedremo finita. E uno sguardo andrebbe rivolto anche all'Expo 2015 di Milano, per cui la Corte dei conti ha eccepito che «la complessità, l'onerosità e la ridondanza delle strutture» decisionali rischia di causare «difficoltà e disfunzioni sul piano operativo».
Conosciamo l'obiezione: i precedenti disastrosi non sono un buon motivo per non fare le cose. Giustissimo. Ma sono un'ottima ragione per andarci con i piedi di piombo. Almeno quando rischiare una montagna di denari pubblici non è proprio necessario. Come adesso.

Sergio Rizzo

15 febbraio 2012 | 8:12© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_15/la-contabilita-delle-ambizioni-sergio-rizzo_ac0fc88e-5799-11e1-8cd8-b2fbc2e45f9f.shtml
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« Risposta #103 inserito:: Febbraio 21, 2012, 05:25:43 pm »

Buste paga dei manager pubblici

Centinaia oltre i 300 mila euro

Si apre il caso delle aziende controllate dallo Stato e dei «difficili» tagli

ROMA - C'è un desiderio inconfessabile che unisce destra e sinistra: alleggerire gli stipendi degli alti burocrati di Stato. Buste paga in alcuni casi scandalosamente alte, che lievitano come panna montata grazie al cumulo degli incarichi o a codicilli che hanno finora consentito per esempio ai magistrati «fuori ruolo» impegnati negli incarichi di governo di portare a casa due stipendi facendo un solo lavoro. Vi sareste mai immaginati di veder salire proprio dal partito di Silvio Berlusconi l'onda della protesta, fino a chiedere a gran voce di ripristinare quella misura «stalinista» voluta da Romano Prodi ben quattro anni fa «ma mai attuata», si rammaricavano lo scorso agosto una quarantina di onorevoli pidiellini? E avreste mai pensato che il tetto alle retribuzioni dei manager pubblici sarebbe stato reintrodotto fra gli applausi della sinistra proprio dal governo delle liberalizzazioni? Dove, al solo pensiero di doverlo applicare, qualcuno ha già l'orticaria. «Credo che a causa del tetto faremo fatica a trovare professionalità di alto livello», ha confessato ieri Mario Monti. E non tarderà a verificarlo. In un altro momento si sarebbe formata una fila chilometrica davanti alla porta del ministero del Tesoro, che è alle prese con la scelta dell'amministratore delegato della Banca del Mezzogiorno. Ma non ora, che quel posto può valere al massimo... Già, quanto può valere? Perché a quanto pare non sanno nemmeno esattamente a quanto ammonta quel tetto, vista la quantità di cifre che sono circolate. Si va dai 311 mila ai 294 mila euro lordi all'anno, passando per 299 mila e 305 mila, a secondo dei gusti.

Ma il numero di quanti, nella pubblica amministrazione, superano abbondantemente quella cifra, è certo impressionante. Se fa effetto la clamorosa denuncia dei redditi del capo di gabinetto del ministro dell'Economia Vincenzo Fortunato, che tre anni fa toccava un livello di 788 mila euro, semplicemente inconcepibile per un dirigente pubblico, non desta minore sorpresa l'incredibile sovrapposizione di incarichi del suo ex collega dell'ufficio legislativo del medesimo ministero, Gaetano Caputi: direttore generale della Consob (395 mila euro), componente dell'autorità per gli scioperi (altri 95 mila), nonché docente fuori ruolo ancorché retribuito dalla Scuola superiore di economia e finanze. Retribuzione a cinque zeri, dicono i bene informati, ma top secret .

Ed è questo il punto. Se grazie alle norme volute dall'ex ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta, possiamo conoscere (e giustamente) perfino lo stipendio dell'ultimo dirigente di seconda fascia, e anche la paga di un soggetto apicale qual è il Ragioniere generale dello Stato Mario Canzio, accreditato di 516 mila euro l'anno (il vecchio miliardo di lire, tondo), a proposito delle reali retribuzioni non meno stellari dei più stretti collaboratori dei ministri si possono fare solo congetture. Una cosa inaccettabile, che fa salire ancora di più la temperatura.
Così non meraviglia che molti parlamentari, i quali oltre a dover subire qualche sforbiciatina sono stati pure messi alla berlina, non vedano l'ora di vendicarsi a spese di una tecnocrazia sempre più opulenta e sempre meno trasparente. Anche se non si può escludere che quella lobby potentissima riesca a convincere i politici a far naufragare il tetto. Non è successo così forse anche con la norma voluta da Prodi? Il limite era lo stesso di oggi: ma alla fine di una melina durata più di due anni il regolamento attuativo partorito dal governo Berlusconi l'ha di fatto cancellato. Stabilendo che valeva solo per gli incarichi aggiuntivi. Dunque, senza sfiorare gli stipendi.

Monti si trova in una situazione leggermente diversa. Siamo in piena recessione, il potere d'acquisto delle famiglie è in sofferenza, i poveri aumentano, la disoccupazione galoppa. Come spiegare agli italiani che c'è gente pagata dallo Stato che guadagna come trenta impiegati e non può rassegnarsi a incassare «soltanto» dieci di quegli stipendi? Ecco perché chi conta di salvarsi grazie alle «deroghe», ha probabilmente fatto male i propri calcoli. Monti non sarà così generoso. Come li ha sbagliati, a meno di sgradevoli sorprese, chi è sicuro di far passare il principio che il famoso tetto debba essere applicato soltanto a partire dai contratti futuri. Anche qui: come lo spiegherebbero agli italiani?
Ma se il principio per cui nessuno stipendio potrà superare quello del primo presidente della Corte di Cassazione potrà essere faticosamente fatto digerire ai «pezzi da novanta» nei ministeri e nelle authority, problemi ben più grossi ci saranno nelle società pubbliche non quotate in borsa. Il tetto in teoria riguarda anche loro. E rischia di essere una questione complicatissima da risolvere, tanto più alla luce della confessione fatta ieri dal premier. Il regolamento che il ministro Filippo Patroni Griffi ha annunciato per maggio non sarà una passeggiata.

Avete idea di quanti siano nelle aziende di Stato gli stipendi che superano i 300 mila euro l'anno? Centinaia. E non parliamo soltanto dei capi azienda. L'amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato Mauro Moretti nel 2008 guadagnava 871 mila euro: poco al di sotto di quel livello era il presidente Innocenzo Cipolletta, ora sostituito dall'ex presidente della Consob Lamberto Cardia. La retribuzione di Massimo Sarmi, amministratore delegato delle Poste, si aggira intorno al milione e mezzo di euro? Il presidente Giovanni Ialongo ha diritto secondo la Corte dei conti a 635 mila euro: un bel salto, rispetto a quando era segretario del sindacato postelegrafonico della Cisl. Per non parlare dei più alti dirigenti di quei gruppi. Decine di persone con retribuzioni certamente più alte di 300 mila euro. Ma andiamo avanti. L'amministratore delegato dell'Anas Pietro Ciucci intasca 750 mila euro. La stessa cifra del suo collega di Fintecna Massimo Varazzani, ex altissimo dirigente di Intesa San Paolo, paragonabile a quella del presidente del Poligrafico Maurizio Prato. Il capo della controllata Fintecna immobiliare Vincenzo Cappiello, una vita nelle partecipazioni statali, è fermo (si fa per dire) a 505 mila. Mentre l'amministratore delegato di Invitalia Domenico Arcuri, già capo di Deloitte consulting, ha una retribuzione di 835 mila euro (rimborsi compresi).
Ma è niente in confronto alla densità di buste paga galattiche riscontrabile in Rai. Il presidente Paolo Garimberti incassa 448 mila euro. Il predecessore di Lorenza Lei alla direzione generale guadagnava 715 mila euro. Che porzione di quel fantastico stipendio l'ha seguito alla Consap, altra società pubblica dove Mauro Masi ha traslocato? Boh. Ha raccontato poi nel 2010 Emiliano Fittipaldi sull' Espresso che l'ex direttore Claudio Cappon, rimasto senza un incarico corrispondente, continuava a percepire 600 mila euro. Per non dire dei giornalisti: la tivù di Stato ha decine di direttori, che non guadagnano certo soltanto come un presidente di Cassazione. E dei dirigenti di rete: si va dai 400 mila di Fabrizio del Noce ai 449 mila di Gianfranco Comanducci.

E poi ci stupiamo che in Parlamento qualcuno pretenda gli elenchi dei candidati alla ghigliottina? Però fra questi, è bene che gli onorevoli ne prendano coscienza, non ci saranno i dipendenti degli organi costituzionali: lì si aprirebbe una pagina ancora più sconcertante, tenuto conto che la retribuzione media di un dipendente del Senato, commessi e barbieri compresi, è più alta dell'indennità parlamentare. E 300 mila euro è lo stipendio di un consigliere con 25 anni di anzianità. Il segretario generale della Camera Ugo Zampetti e la sua collega del Senato Elisabetta Serafin intascano più del doppio del capo dell'amministrazione del parlamento britannico. Che guadagna 235 mila euro: meno di uno stenografo di palazzo Madama .

Sergio Rizzo

21 febbraio 2012 | 8:19© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_febbraio_21/buste-paga-manager-pubblici-rizzo_238d07b6-5c5c-11e1-beff-3dad6e87678a.shtml
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« Risposta #104 inserito:: Marzo 15, 2012, 12:23:15 pm »

LA DUCATI E I SIMBOLI DEL MADE IN ITALY

Gli imprenditori dove sono?

Se con Google cercate la parola «Ducati» otterrete circa 123 milioni di risultati. Per capirci: «Ferrari», uno dei marchi italiani più famosi nel mondo, è a quota 548 milioni. Questo già fa capire quanto sia sbagliato considerare il passaggio di mano della casa di Borgo Panigale come un semplice affare fra privati.

La Ducati ha una storia travagliata e magnifica. Nata nel 1926, fa apparecchi radio. Il suo fondatore Antonio Cavalieri Ducati muore l'anno seguente e l'azienda va ai figli. Poi la guerra, la fabbrica distrutta e la ricostruzione. Nel 1946 inizia a produrre piccole moto, ma di lì a poco finisce nel calderone delle Partecipazioni statali. Resta pubblica, passando dall'Efim alla Finmeccanica, per 35 lunghi anni, senza infamia né lode. Unica eccezione, i colpi di genio dell'ingegnere Fabio Taglioni che a fine anni Sessanta progetta un motore rivoluzionario, del tutto simile a quello ancora oggi montato sulle moto bolognesi.

Dopo il parcheggio nella pancia dello Stato, la Ducati è messa male e rischia una fine ingloriosa. Ma nel 1985 i fratelli Castiglioni, quelli della Cagiva, la comprano. E si inizia a risalire la china. La chiave è nelle corse: nel 1988 inizia un nuovo campionato per moto estreme di serie e il bicilindrico progettato da Taglioni fa mangiare la polvere ai giapponesi. Delle ventiquattro edizioni della Superbike la Ducati ne vince quattordici. Arriva nel 2007 anche il titolo nella Motogp, la Formula Uno delle due ruote, a 33 anni dall'ultimo alloro italiano conquistato dalla Mv Agusta. Impresa fantascientifica, per una fabbrica che vende 40 mila moto l'anno, contro i 3 milioni della Honda. Artefice è Filippo Preziosi, un ingegnere di quarant'anni costretto sulla sedia a rotelle da un grave incidente motociclistico. Il quale riesce pure in una seconda impresa, fino ad allora impensabile: ingaggiare Valentino Rossi.

I successi commerciali vanno di pari passo con quelli sportivi e la Ducati è ormai una icona planetaria. La «Ferrari delle moto», tanto assomiglia alla Rossa. Il rombo del bicilindrico di Borgo Panigale è brevettato in America, al pari di quello di un altro mito dell'industria motociclistica mondiale, la Harley Davidson. Nel frattempo, la società passa di mano altre due volte: prima va al fondo americano Tpg, quindi ad Andrea Bonomi. E ora tocca alla tedesca Audi. Bonomi ha fatto i suoi conti e li ha fatti bene. Incasserà il triplo di quanto speso solo sei anni fa. Bravissimo. Bravissimi pure quelli dell'Audi: vedono lontano.

Meno bravi, invece, i tanti imprenditori che si lamentano perché l'alta tecnologia emigra, perché le aziende italiane soffrono di nanismo, perché perdiamo quote nel commercio mondiale. Salvo poi essere i primi ad abbandonare l'industria per rifugiarsi nelle comode rendite di posizione dei servizi pubblici, oppure a trasferire gli stabilimenti in Serbia o Romania. E addirittura girarsi dall'altra parte quando gli si offre l'occasione per non lamentarsi più.

Lasciano basiti l'indifferenza e il silenzio che hanno accolto, fra i nostri industriali, la notizia della cessione. Impossibile credere che in Italia non ci sia nessuno disponibile a scommettere sulla Ducati, e che ci dovremo rassegnare a vedere Valentino Rossi sfrecciare su una moto «tedesca». Ma forse è inevitabile, in un Paese nel quale anche molti imprenditori hanno lo sguardo corto.

Sergio Rizzo

14 marzo 2012 | 20:09© RIPRODUZIONE RISERVATA

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