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Autore Discussione: SERGIO RIZZO  (Letto 136058 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Giugno 23, 2010, 04:21:24 pm »

La Regione Marche ha 9 presenze all’estero, di cui ben quattro in Cina

Le Regioni e la «diplomazia fai-da-te» Spese pazze per 178 sedi nel mondo

Veneto, Lombardia e Piemonte sono al top della classifica.

E nessuno vuole rinunciare all'ufficio di Bruxelles

   
ROMA - Seguendo le orme di Marco Polo anche i moderni Dogi del Veneto hanno fatto rotta a Oriente: puntando dritti alla Città Proibita. Magari, esagerando un tantino. Il leghista Luca Zaia si è quindi ritrovato a governare una Regione che ha 10 (dieci) uffici in Cina. Avete letto bene: dieci. Ma la moltiplicazione dei «baili», come si chiamavano anticamente gli ambasciatori della Serenissima, non si è certamente fermata lì. Poteva forse il Veneto rinunciare ad aprire un ufficetto in Bielorussia? O un appartamento in Bosnia? Un paio di punti d’appoggio in Canada? Tre in Romania? Quattro negli Stati Uniti e altrettanti in Bulgaria (sì, la Bulgaria)? Un pied à terre in Vietnam? Un appartamento in Uzbekistan? Una tenda negli Emirati arabi uniti? Un bungalow a Porto Rico? E un consolato in Turchia, alla memoria dell’ambasciata veneziana alla Sublime Porta, quello forse no?

Si arriva così a 60 sedi in 31 Paesi: alla quale si deve aggiungere, ovviamente, quella di Bruxelles. E si sale a 61. Irraggiungibile, il Veneto: a elencarle tutte, sarebbe già finito l’articolo e non ci sarebbe spazio per raccontare quello che combinano invece le altre Regioni italiane. Perché scorrendo i dati che sono in un dossier del Tesoro su questo incredibile fenomeno della diplomazia regionale «fai da te», il Veneto è soltanto in cima a una piramide molto più grossa. Le Regioni italiane hanno all’estero qualcosa come 157 uffici, ai quali si devono aggiungere i 21 di Bruxelles. Per un totale di 178. Già: a un’antenna nel quartier generale dell’Unione europea non ha voluto rinunciare proprio nessuna. «D’altra parte», ha spiegato il governatore lombardo Roberto Formigoni, «è importante avere un presidio a Roma e Bruxelles. Non è affatto un lavoro inutile quello che i nostri funzionari svolgono organizzando a esempio numerosissimi incontri istituzionali per aziende, centri culturali, organizzazioni non governative e così via, che vengono supportati nel dialogo con le autorità nazionali ed europee». La Lombardia, che ha quasi 10 milioni di abitanti: ma il Molise? Che senso ha per una Regione con 320 mila abitanti come quella di Michele Iorio mantenere un ufficio a Bruxelles, peraltro pagato un milione 600 mila euro, oltre ai due di Roma?

Per non parlare dei valdostani, che sono 124 mila. Peccato però che la Lombardia non abbia solo un presidio Roma e uno a Bruxelles. Bensì, secondo il Tesoro, altri 27 sparsi in giro per il mondo. Ce n’è uno in Argentina, un paio in Brasile e Cina, quattro in Russia (esattamente come la Regione Veneto), e poi uno in Giappone, Lituania, Israele, Moldova, Polonia, Perù, Uruguay, Kazakistan... E il Piemonte? Che dire del Piemonte? La Regione appena conquistata da un altro leghista, Roberto Cota, presidia 23 Paesi esteri. Con la bellezza di 33 basi. Frutto di scelte apparentemente sorprendenti. Per esempio, ce ne sono due in Corea del Sud. Altrettanti in Costa Rica (perché il Costa Rica?). Altri due in Lettonia (perché la Lettonia?). Roba da far impallidire i siciliani, che avevano riempito mezzo mondo di «Case Sicilia»: dalla pampa argentina a Boulevard Haussmann, Parigi. Poi la Tunisia, e New York, Empire state building. Ma volete mettere il fascino della Grande Mela? Dove gli uomini dell’ex governatore Salvatore Totò Cuffaro si ritrovarono in ottima compagnia. Quella dei dipendenti della Regione Campania, allora governata da Antonio Bassolino, che aveva preso in affitto un appartamento giusto sopra il negozio del celebre sarto napoletano Ciro Paone. Nientemeno.

Costo: un milione 140 mila euro l’anno. A quale scopo, se lo chiese nell’autunno del 2005 Sandra Lonardo Mastella, in quel momento presidente del Consiglio regionale, visitando una struttura il cui responsabile, parole della signora, «viene solo alcuni giorni ogni mese ». Struttura per la quale venivano pagati tre addetti il cui compito consisteva nell’organizzare, per promuovere l’immagine regionale, eventi ai quali non soltanto non partecipava «alcun esponente americano », ma nessuno «che parlasse inglese». Quello che colpisce, però, sono sempre i luoghi. La Regione Marche, tanto per dirne una, ha nove basi all’estero. Di queste, ben quattro nella Cina. Il Paese decisamente più gettonato: alla Corte di Hu Jintao ci sono ben sette enti locali italiani, con addirittura ventitrè uffici. Il doppio che nella federazione russa. Quattro, in Cina, ne ha pure il Piemonte. Regione che si distingue da tutte le altre per avere attivato anche una sede a Cuba. Oltre a due in India, dove hanno un punto d’appoggio pure le Marche. Ma non l’Emilia-Romagna, che paradossalmente ha meno presidi esteri della piccola Regione confinante: cinque anziché nove, numeri a cui bisogna sempre aggiungere quello di Bruxelles. Quasi tenerezza fanno gli ultimi in classifica. Il Friuli-Venezia Giulia, che si «accontenta» (si fa per dire) di tre «consolati» oltre a quello europeo: in Slovacchia, Moldova e Federazione russa.

La Basilicata, andata in soccorso ai lucani dell’Uruguay e dell’Argentina. La Valle D’Aosta, che non sazia della sede di Bruxelles ne ha pure una in Francia. Ma dove, altrimenti? Infine la Puglia: come avrebbe fatto senza un comodo rifugio dai dirimpettai albanesi? Quello che non dice, il dossier del Tesoro, è quanto paghiamo per tale gigantesca e incomprensibile Farnesina in salsa regionale. Per saperlo bisognerebbe spulciare uno a uno i bilanci degli enti locali. Dove intanto non è sempre facile trovare i numeri «veri». E soprattutto non è spiegato a che cosa serva tutto questo Ambaradam. A favorire gli affari delle imprese di quelle Regioni? Al prestigio dei governatori presenti o passati? A mantenere qualche stipendiato illustre? Il sospetto, diciamolo chiaramente, è che nella maggior parte dei casi l’utilità di tutte queste feluche di periferia sia perlomeno discutibile. Come quel Federico Badoere, nel 1557 ambasciatore veneziano a Madrid presso la corte di Filippo II, autore di una strepitosa relazione spedita al Senato della Serenissima nella quale liquidava come una trascurabile quisquilia ciò che stava succedendo dopo la scoperta dell’America, evento che un suo predecessore si era addirittura «dimenticato» di riferire a Venezia: «Sopra le cose delle Indie non mi pare di dovermi allargare, stimando più a proposito compatire il tempo che mi avanza a narrare le cose degli altri stati di Sua Maestà».

Sergio Rizzo

23 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/economia/10_giugno_23/le_regioni_e_le_spese_pazze_per_178_sedi_nel_mondo_sergio_rizzo_3ca5e014-7e88-11df-b520-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #61 inserito:: Giugno 26, 2010, 06:19:27 pm »

NOMINE E CONFLITTI D’INTERESSE

Il valzer un po’ stonato


L’invenzione di un ministero per Aldo Brancher al solo scopo di consentirgli di svicolare da un processo ricorrendo al «legittimo impedimento», operazione stigmatizzata ieri anche dal Quirinale, ha fatto sorgere il dubbio se il governo e la maggioranza abbiano davvero a cuore la gestione corretta ed efficiente della cosa di tutti. Dubbio che adesso rischia di rafforzarsi alla luce di quanto si preannuncia per la puntata successiva delle nomine pubbliche, dove sembrano prevalere logiche puramente personalistiche. Le cronache riferiscono di un probabile valzer di poltrone innescato dalla scadenza di alcune importanti cariche, prima fra tutte quella del presidente della Consob. Per Lamberto Cardia, che è nella commissione addirittura dal 1997, si profila all’età di 76 anni un singolare trasferimento al vertice delle Ferrovie dello Stato.

Candidato a sostituirlo è l’attuale esperto presidente dell’Antitrust Antonio Catricalà, che però lascerebbe libera una poltrona delicatissima. Destinata a chi? Fra i nomi che si fanno, quelli del segretario della Farnesina Giampiero Massolo e di Mauro Masi, direttore generale di una Rai in una situazione economica e di ascolti non certo scintillante, sommerso dalle critiche di chi gli imputa una gestione non esattamente imparziale della tivù di Stato. La quale, per giunta, è stata nell’ultimo anno multata ben due volte dalla stessa autorità Antitrust per pubblicità ingannevole (Ansa, 6 luglio 2009) e pratica commerciale scorretta (Ansa, 5 ottobre 2009). Insomma, proprio il viatico necessario per fare il Garante della concorrenza. Ma non è finita qui. Inopportunamente catapultato nel 2005 dal posto di sottosegretario alle Comunicazioni a quello di componente dell’Agcom, l’ex deputato di Forza Italia ed ex dirigente delle tivù di Silvio Berlusconi, Giancarlo Innocenzi si è dimesso dopo essere stato coinvolto nell’inchiesta avviata dalla Procura di Trani sulle presunte pressioni per far chiudere il programma di Michele Santoro «Annozero ». Non rimarrà disoccupato a lungo, se sono vere le voci che prevedono per lui una sistemazione sul ponte di comando di Invitalia, ovvero ciò che resta del carrozzone Sviluppo Italia. Il senso di questa nomina? Nessuno.

È semplicemente la prima poltrona che si renderà disponibile, il 30 giugno. Lo stesso giorno scadono anche le convenzioni per le gestioni degli spazi commerciali nei musei, che vanno quindi rinnovate. Competente per questa partita è un direttore generale dei Beni culturali stimatissimo da Berlusconi: il bocconiano Mario Resca, già capo della McDonald’s in Italia e oggi protagonista di un caso di conflitto d’interessi a testata multipla. Nell’aprile 2009, tre mesi prima che la sua assunzione al ministero venisse ufficializzata, è stato rinominato consigliere di amministrazione della Mondadori, casa editrice di proprietà della famiglia del premier che attraverso la Electa è attiva nel campo dei servizi museali. Al pari di tante aziende aderenti alla Confimprese, associazione della quale, per inciso, Resca è anche presidente. Senza il minimo imbarazzo. Che in certi casi, è sicuro, sarebbe invece doveroso. Almeno quello.

Sergio Rizzo

26 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_26/valzer_stonato_rizzo_0018048c-80e1-11df-9a47-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #62 inserito:: Luglio 26, 2010, 11:14:12 pm »

I CONTI DELLE CITTA'

Centrali elettriche e casinò

Se il Comune fa l'azienda

Il miracolo di Ussita, nelle Marche, in vetta alla classifica delle entrate Tra le grandi, Roma supera Milano


ROMA — La domenica mattina il sindaco è in ufficio. Siamo in piena estate, ma la stagione turistica invernale è dietro l’angolo. C’è da seguire il progetto del palazzo del ghiaccio e curare la manutenzione delle seggiovie. E poi la rete del gas, le centrali idroelettriche, i pannelli solari… Più che il sindaco, il primo cittadino di Ussita, 426 anime in provincia di Macerata, è l’amministratore delegato di un’azienda. Il bilancio del suo Comune è da leccarsi i baffi. Ogni anno entrano in cassa 6 milioni di euro: tre milioni e mezzo dalla produzione di energia elettrica, un milione dalla stazione sciistica, e qualche soldarello anche dalla gestione del gas. «Quando devo fare i conti», confessa Sergio Morosi, «non aspetto certo di conoscere quello che mi deve arrivare dallo Stato». Sfido: i trasferimenti pubblici non rappresentano che un quattordicesimo di tutti gli incassi. Morosi dice che questo si deve alla lungimiranza di un altro sindaco, Nicola Rinaldi, classe 1914, che fu deputato democristiano nel 1963 e del quale l’attuale primo cittadino è stato segretario. Fu lui a investire nell’elettricità. E ora si continua su quella strada. Sentite Morosi: «Stiamo acquistando un impianto fotovoltaico fuori dal territorio comunale. Cosa volete, se vogliamo finanziarci non possiamo che fare in questo modo. Diversamente i piccoli comuni sono destinati a sparire». E diversamente, si potrebbe aggiungere, Ussita non potrebbe nemmeno essere il Comune italiano con la spesa corrente pro capite più elevata (10.369 euro), ad eccezione di Campione d’Italia.

E allora le multe
Inutile dire che nel panorama dei municipi italiani un caso così è piuttosto raro. Perché se Ussita ricava da attività per così dire «collaterali» addirittura l’86% dei propri introiti, superato anche qui solo da Campione d’Italia, le entrate indipendenti dalle tasse locali o dai trasferimenti pubblici incidono nei bilanci comunali mediamente per il 20%. Si tratta di voci che vanno dalle rette scolastiche ai trasporti, dai dividendi dei pacchetti azionari alle concessioni, fino agli interessi sugli investimenti finanziari. Vero è che con questi chiari di luna ciascuno si arrangia come può. Le contravvenzioni, per esempio. Secondo uno studio condotto dalla fondazione Civicum, è Firenze la città più severa con gli automobilisti indisciplinati. Nel 2007 ha incassato 134 euro per ognuno dei suoi 356 mila residenti. Una bella batosta, che ha portato nelle casse del capoluogo toscano 47 milioni di euro. Ma è niente in confronto a Roma, che ha intascato con le contravvenzioni quasi 320 milioni: 125 euro ad abitante, cifra che colloca i romani al secondo posto nella classifica dei più multati. Al terzo i bolognesi (119 euro ciascuno), per un introito municipale di 44 milioni, e al quarto i milanesi (106 euro). Mentre a Napoli, notoriamente una delle città meno disciplinate dal punto di vista del traffico, l’incasso delle multe si fermava a 65 milioni, cioè 66 euro per cittadino, meno della metà di Firenze. Per non parlare di Palermo: 49 euro.

Ci sono poi Comuni che riescono a far fruttare bene i loro mattoni. Ma sono pochi. Qualcuno, al Sud, ci rimette. Una indagine del 2007 della Corte dei conti sul patrimonio edilizio della Campania (su dati del 2003) ha rivelato che il Comune di Napoli era stato capace di perdere 16 milioni pur possedendo decine di migliaia di unità immobiliari. E non è un caso che le classifiche dei municipi più poveri siano piene di località del Mezzogiorno. Esemplare il caso di Ravanusa, 12.819 anime a 50 chilometri da Agrigento: appena 171 euro a testa di entrate tributarie e 12 di extratributarie. Ma riceve 542 euro pro capite di trasferimenti dallo Stato e dalla Regione e spende 746 euro per residente. Più assistenza che efficienza, una distanza siderale dai comuni che sembrano aziende. Non solo la citata Ussita. Per molte amministrazioni, soprattutto al Nord, le aziende locali sono una vera manna. Brescia, nel 2008, con gli utili delle società municipalizzate ha incassato 84 milioni. Nello stesso anno Milano 105 milioni. Ma il capoluogo della Lombardia può contare soprattutto sui proventi dei servizi pubblici: 253 milioni. Al pari di Campione d’Italia, anche Venezia ha poi un autentico tesoro: il casinò, che nel 2008 ha fruttato circa 190 milioni.

A Maiolati Spontini, paese con 5.979 residenti che diede i natali al compositore Gaspare Spontini, non ci sono invece né slot machine né roulette né tavoli da baccarà. Ma una discarica per rifiuti urbani e industriali che fa intascare al municipio qualcosa come 6 milioni l’anno, a dimostrazione del fatto che il denaro non ha odore. Maiolati è stato premiato dal ministero dell’Economia come il Comune più virtuoso d’Italia. Medaglia d’argento Sirmione, che può contare su consistenti entrate dell’Ici per la seconda casa ma anche sui ticket dei parcheggi: 3 milioni per ognuna delle due voci. «Il 70% di tutte le entrate correnti», ha spiegato il sindaco Alessandro Mattinzoli ad Antonella Baccaro del Corriere. E, gonfiando il petto: «Qui non si è mai pagata l’addizionale Irpef». In più, rispetto a Sirmione, Livigno (Sondrio) può godere dello status di zona franca, una calamita per il «turismo commerciale ». Ma la graduatoria delle cosiddette entrate «extratributarie» delle città è guidata da Roma. Dove nel 2008, dice l’assessore al Bilancio Maurizio Leo, parlamentare del Pdl, «ai 70 milioni dei dividendi dell’Acea, che nel 2009 non ci sono stati, si sono sommate le entrate del condono edilizio».

E veniamo ai tributi locali. L’abolizione dell’Ici sulla prima casa ha fatto comprensibilmente infuriare le amministrazioni comunali di tutta Italia perché hanno perso la fetta forse più grossa di autonomia impositiva. Quella che dovrebbero conquistare pienamente con la riforma federalista e il decreto legislativo ad hoc promesso dal governo, anche se i dati di bilancio dimostrano non solo che ci vorrà un fondo perequativo tra comuni ricchi e poveri, ma anche che per molti municipi, soprattutto nel Sud, la sfida della autonomia impositiva sarà dura: ci vorrà decisione nel chiedere le tasse ai compaesani e nel punire gli evasori.

Non resta che la Tarsu
Per ora, oltre all’Ici sulle seconde case, che è stata risparmiata, restano, è vero, altre tasse: quella sui rifiuti, sull’occupazione degli spazi pubblici, sulle insegne e la pubblicità e l’addizionale Irpef. Quest’ultima però ogni tanto viene bloccata dal governo per impedire che la pressione fiscale salga troppo. Adesso è ferma da un paio d’anni. Tranne in un caso: quello di Palermo. Un anno fa, per tappare la voragine aperta dall’azienda dei rifiuti, il sindaco ottenne dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi un’ordinanza che gli ha consentito di raddoppiare l’addizionale dallo 0,4% allo 0,8%. Anche se pochi mesi dopo l’amministrazione ha deciso di fare retromarcia su una misura così impopolare. Va detto che per scelta alcuni Comuni non hanno mai voluto introdurre l’addizionale sull’Irpef. Come Milano, che però può contare su cospicue entrare «alternative»: per esempio, come si è visto, i dividendi delle imprese pubbliche locali.

Il capoluogo lombardo, tuttavia, è dopo Torino quello che ha l’indebitamento pro capite più elevato. Secondo il ministero dell’Interno, nel 2008 ogni cittadino milanese aveva sulle spalle una esposizione con le banche e con la Cassa depositi e prestiti di 2.938 euro. I torinesi 3.450 euro, contro una media nazionale di 1.207. Al terzo posto, secondo la classifica pubblicata dal Sole24 ore, Siena, con 2.515 euro. Ma i senesi possono dormire sonni tranquilli: più della metà di quei debiti sono coperti ogni anno dai contributi della Fondazione Monte dei Paschi di Siena, l’ente che controlla una delle principali banche italiane. Grazie a questo introito la città è al secondo posto nella graduatoria delle entrate extratributarie.

Il combinato disposto dell’abolizione dell’Ici prima casa e del blocco dell’Irpef ha avuto l’effetto di far lievitare la tassa sui rifiuti, l’unico tributo di una certa consistenza rimasto in mano ai sindaci. Lo scorso anno la Tarsu è salita mediamente del 23,1%. Una stangata di quasi 30 euro per ogni cittadino, che invece di 127,6 euro ne ha dovuti pagare 157,1. La botta più grossa l’hanno presa i beneventani, con un aumento del 70,2%. In quella città la tarsu è arrivata a 286 euro. Ma nemmeno a Napoli si scherza: 203 euro, con un aumento del 50,4%. Con quali risultati si sa.

Enrico Marro
Sergio Rizzo

26 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/economia/10_luglio_26/rizzo-marro-casino-centrali-elettriche-comuni-come-azienda_8d350950-9883-11df-a51e-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #63 inserito:: Agosto 12, 2010, 05:19:03 pm »

Sull' «anagrafe pubblica degli eletti»

In Calabria resta il segreto sul patrimonio dei consiglieri

Silenzio anche per i politici di Caserta. A Roma mancano i dati del sindaco.

I Radicali denunciano: la legge esiste da 28 anni, ma non viene applicata sull' «anagrafe pubblica degli eletti»


ROMA - Volete conoscere se un consigliere regionale calabrese eletto dai cittadini possiede una casa, la villa al mare, un'auto, qualche società? Toglietevelo dalla testa: è top secret. Lo ha scoperto Giuseppe Candido, un militante radicale che ha chiesto, come prevede una legge dello Stato approvata ben ventotto anni fa (è la numero 441 del 1982), di avere notizie sulla situazione patrimoniale dei componenti del Consiglio regionale. Ricevendo una risposta sconcertante firmata dal segretario generale Giulio Carpentieri: «In riferimento alla sua istanza di accesso agli atti si comunica che la stessa non può trovare accoglimento, come si evince dal parere espresso dal settore legale».
Eppure quella legge di ventotto anni fa è chiarissima. Entro tre mesi tutti i titolari di cariche elettive nazionali, regionali, provinciali e comunali devono presentare una dichiarazione con l'elenco dei beni mobili, immobili e partecipazioni societarie, oltre alla lista degli incarichi ricoperti e l'ammontare delle spese sostenute per la campagna elettorale. E «tutti i cittadini hanno diritto di conoscerle»: c'è scritto proprio così. Già per questo può sembrare singolare che si debba chiedere un parere all'ufficio legale. Ma è niente rispetto a quanto scritto in quel parere. Intanto «il diritto di accesso documentale richiederebbe la sussistenza in capo all'istante di un interesse qualificato strumentale alla tutela di una situazione giuridica soggettiva che, nel caso in questione, non risulta dimostrato». Ma soprattutto «l'accesso previsto dalla citata legge» non «appare allo stato concretamente esercitabile stante la mancata emanazione di una normativa regionale circa la pubblicazione della documentazione relativa alla situazione patrimoniale dei consiglieri regionali, ciò che ha impedito la pubblicazione sul Bollettino regionale dei dati in questione, modalità attraverso la quale andrebbe espletata la pubblicità».

Riepilogando: a parte l'assenza di un interesse specifico per cui un cittadino debba sapere che cosa possiede un suo eletto (come si permette?) la Calabria non ha mai fatto una leggina che dice come quelle informazioni devono essere pubblicate sulla gazzetta regionale e siccome possono essere pubblicate soltanto lì... vi attaccate. A onor del vero va detto che l'avvocato della Regione dice di ritenere ormai «improrogabile» fare quella leggina, riconoscendo che esiste un problema di trasparenza. Ma tant'è. Per ora non c'è niente da fare. Dopo il parere dell'ufficio legale del Consiglio regionale calabrese aspettiamo ora di conoscere quello del ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta, che sul Sole 24 Ore aveva risposto così alla questione sull'anagrafe patrimoniale degli eletti sollevata dall'editorialista Guido Gentili: «Vorrei ricordare che esiste già una legge, la 441/1982, che obbliga tutti gli eletti, a partire dal Comuni con più di 50 mila abitanti, a dichiarare la propria situazione patrimoniale. Ogni cittadino può chiederne una copia».

Il bello è che non succede soltanto in Calabria. Da mesi il partito radicale ha avviato un'offensiva sull'«anagrafe pubblica degli eletti» in tutta Italia. E ne sono saltate fuori di tutti i colori. Il Comune di Caserta, per esempio, ha risposto: «Le disposizioni relative alla pubblicità della situazione patrimoniale si applicano sulla base delle modalità stabilite dai rispettivi consigli. Ad oggi tale disciplina non risulta adottata e, non avendo la disposizione trovato applicazione, non risultano agli atti gli elementi oggetto di richiesta». Traduciamo: non soltanto i dati non si possono comunicare, ma siccome non sono state stabilite le modalità tecniche, i consiglieri comunali non li presentano nemmeno. Da ventotto anni!

E Roma? Che dire del Comune più grande d'Italia? Racconta il segretario radicale Mario Staderini: «Nell'elenco delle dichiarazioni patrimoniali non risulta quella del sindaco Gianni Alemanno, eletto più di due anni fa. Per non parlare di irregolarità, lacune e in qualche caso omissioni che riguardano molti altri consiglieri che, per esempio, non dichiarano le spese elettorali». Ma almeno, nel caso di Roma, le informazioni consentono ai cittadini di farsi un'idea sul tenore di vita dei loro rappresentanti e i costi della politica. Qualche caso di entrambi gli schieramenti? Il consigliere comunale del Partito democratico Mario Mei, funzionario del ministero dell'Interno, ha un reddito di 46.069 euro e ha dichiarato di aver sostenuto spese elettorali per 216.346 euro: un investimento notevole, da quattro anni e mezzo di stipendio. Il consigliere del Pdl Maurizio Berruti guadagna invece poco più della metà di lui, 27.164 euro. È il presidente di Coeuropa, cooperativa di tassisti: categoria che ha sostenuto fortissimamente Alemanno.

Sergio Rizzo

12 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/cronache/10_agosto_12/rizzo-calabria-patrimonio-consiglieri_5a0974b0-a5dc-11df-8d3b-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #64 inserito:: Agosto 17, 2010, 09:23:14 pm »

I dati dell'ufficio studi della Confartigianato sulla generazione che va dai 15 ai 29 anni

I novecentomila «invisibili» senza studio né lavoro

Un giovane su sei risulta fuori da ogni attività

   
ROMA - Pure loro sono tecnicamente «invisibili». Ancora più degli esponenti di quelle tante categorie di lavoratori autonomi che non hanno protezione sociale. Invisibili per la scuola o l'università, l'Inps, il fisco. Perfino per gli uffici di collocamento. Sono i 641 mila giovani italiani fra i 15 e i 24 anni che non studiano, non lavorano ma nemmeno lo cercano, il lavoro. Un numero impressionante, considerando che si tratta del 10,5 per cento di tutte le persone di quell'età. E il bello è che di questi «invisibili» i due terzi circa sono al Sud: 415 mila, ovvero il 16,2 per cento di tutti i giovani meridionali. Quasi tre volte rispetto al Nord. Nelle regioni settentrionali coloro che si trovano in questa condizione sono 157 mila, ovvero il 6,5% del totale. Ancora meno, il 6,3 per cento, nel Centro: dove il loro numero non raggiunge i 70 mila, un sesto nei confronti del Mezzogiorno. Per un Paese sviluppato qual è il nostro si tratta di un fenomeno decisamente rilevante. Se poi la fascia d'età «giovanile» di estende dai 24 ai 29 anni, ecco che gli «invisibili» diventano addirittura 908 mila. E il loro peso sale ancora al 18,7% dell'intera popolazione italiana compresa in quella fascia d'età. Ciò significa che fino ai 29 anni è «invisibile» un giovane su sei.

Un segnale chiaro, secondo l'ufficio studi della Confartigianato che ha elaborato questi dati: con la crisi si è ancora accentuato nel nostro Paese il fenomeno della concorrenza sleale nei confronti delle piccole imprese regolari. Segnale che troverebbe conferma in altri dati preoccupanti. Per esempio la diminuzione del tasso di attività fra gli italiani della fascia d'età 25-54 anni. Fra il primo trimestre del 2008 e lo stesso periodo di quest'anno è calato dell'1,2 per cento, passando dal 78,2 al 77 per cento. E questo mentre negli altri Paesi europei, dove il tasso di attività dei cittadini non più considerati in età scolare né ancora pensionabili è superiore a quello nostrano, si registravano aumenti pur modesti. Anche qui, se il peggioramento ha riguardato tutta Italia, è al Sud che il fenomeno si è sentito di più: nel Mezzogiorno la flessione è stata del 2,5 per cento. La Confartigianato ha stimato che durante la crisi economica ben 338 mila adulti fra i 25 e i 54 anni siano usciti dalla forza di lavoro, e di questi ben 160 mila donne: categoria che da noi ha il poco invidiabile primato europeo del minore tasso di attività (appena superiore al 46 per cento). Ben 230 mila sfortunati, pari al 68 per cento dell'intera platea, sono meridionali: 143 mila uomini e 97 mila donne.

Considerando tutto il Paese, nel primo trimestre di quest'anno i maschi «inattivi» non più in età scolare ma non ancora pensionabili erano un milione 361 mila, contro 4 milioni 628 mila donne. Totale: 5 milioni 989 mila persone, il 10 per cento dell'intera popolazione italiana. Più di un milione dei quali (esattamente un milione 69 mila) nella sola Campania. In questa regione i maschi fra 25 e 54 anni «inattivi» sono 277 mila, il 21 per cento del totale.

Per non dire poi dell'aumento del lavoro «autonomo» irregolare o «abusivo», come lo definisce l'organizzazione degli artigiani. La quale ha calcolato, sulla base dei dati dell'Istat, che tra il 2008 e il 2009 il numero degli occupati indipendenti non regolari è aumentato dal 9,2 al 9,4 per cento del totale della forza di lavoro autonoma, raggiungendo 639.900 unità. Parliamo di una cifra pari al 62 per cento di tutti gli occupati indipendenti nel settore manifatturiero. Si tratta anche di una quantità di persone pressoché identica a quella dei giovani «invisibili» fra i 15 e i 24 anni. Una semplice coincidenza, ma significativa.

Secondo la Confartigianato il flusso del lavoro irregolare viene alimentato anche da politiche del welfare profondamente distorsive. L'indagine porta l'esempio dei sussidi di disoccupazione in agricoltura che spettano a chi ha lavorato in un anno almeno 51, 101 o 151 giornate secondo i casi. E non manca di citare il Rapporto di monitoraggio delle politiche occupazionali di due anni fa nel quale il ministero del Lavoro denuncia apertamente «distorsioni e comportamenti collusivi». Nel 2007 hanno goduto delle varie indennità di disoccupazione, secondo l'Inps, ben 504.377 individui, cioè il 48,9 per cento di tutti gli operai agricoli attivi in Italia. Ma se nel Nord Ovest la quota dei beneficiati non è andata oltre il 14,4 per cento, al Sud è arrivata a uno stratosferico 65,4 per cento del totale. Dei 504.377 operai agricoli sussidiati dall'Inps, ben 422.337, ossia l'83,7 per cento, è nel Mezzogiorno.

Il top si tocca in Calabria, con 100.757 disoccupati: numero pari quasi ai tre quarti (il 74,3 per cento) di tutti gli operai agricoli calabresi. Su livelli paragonabili anche la Sicilia, dove i destinatari di trattamenti di disoccupazione sono stati nel 2007 ben 116.589, il 74,2 per cento del totale. Seguono la Puglia, con 111.049 beneficiati (il 60,3 per cento), e la Campania, con 63.982 disoccupati (65,7 per cento). All'opposto, la Lombardia, dove nel 2007 sono state corrisposte appena 5.024 indennità (l'11,1 per cento).

Ma se le cose stanno così, come meravigliarsi se proprio la Calabria è l'area della penisola dove l'illegalità nel mercato del lavoro raggiunge i livelli più elevati? Sempre nel 2007, ha stimato l'Istat, i lavoratori «irregolari» erano in quella regione il 27,3 per cento di tutti quanti gli occupati. E quel che è più grave, il loro numero risultava superiore dell'1,3 per cento rispetto a quello del 2001, anno nel quale il governo (allora presieduto da Silvio Berlusconi) aveva approvato una legge con l'obiettivo di favorire l'emersione delle attività in nero. Provvedimento che si sarebbe però rilevato un sostanziale fallimento, come dimostrano proprio questi dati.

Sergio Rizzo

17 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/cronache/10_agosto_17/sergio-rizzo-invisibili_0aedd022-a9cb-11df-8b1f-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #65 inserito:: Agosto 22, 2010, 09:09:34 pm »

I dividendi dell'evasione

Un impegno sul taglio delle tasse

Il governo dovrà puntare al «pagare meno, pagare tutti»



In un Paese come l'Italia, nel quale gli evasori sottraggono ogni anno ai loro concittadini onesti almeno 100 miliardi di euro, ovvero il 6 per cento del Prodotto interno lordo, la lotta all'infedeltà fiscale dev'essere un obbligo morale straordinario di qualsiasi governo. Per questo, quando il direttore dell'Agenzia delle entrate Attilio Befera invoca un radicale cambiamento culturale, come ha fatto giovedì scorso sul Sole 24 ore, non si può non dargli ragione. Il suo invito, ne siamo certi, è rivolto soprattutto alla politica, che per miopi convenienze elettorali ha tollerato colpevolmente per decenni l'evasione.

ELUSIONE FAVORITA - Com'è andata, si sa. Non bastava un sistema sempre più contorto e vessatorio per i contribuenti rispettosi delle regole ma al tempo stesso tollerante e lassista con i furbacchioni. Il radicamento delle cattive abitudini nella società italiana è stato incoraggiato grazie all'introduzione di norme fatte apposta per favorire l'elusione. Senza parlare della devastazione culturale prodotta da condoni tombali e sanatorie di ogni tipo che hanno punteggiato gli ultimi quarant'anni di storia. Il lassismo nei controlli, la sostanziale mancanza di sanzioni e una giustizia tributaria lenta e inefficiente hanno fatto il resto, alimentando il senso di impunità. Ben venga, perciò, l'introduzione della fattura elettronica obbligatoria oltre i 3 mila euro. Ben venga il giro di vite sulle società di comodo che servono a mettere al riparo dal fisco i veri proprietari di yacht, ville e fuoriserie. Ben vengano i controlli sulle fiduciarie dietro le quali si possono nascondere (tutto legale, beninteso) i titolari dei grandi patrimoni. Ben venga il ripensamento sulla limitazione all'uso del contante voluta dal precedente esecutivo di centrosinistra e che gli attuali governanti, ricordarlo è d'obbligo, avevano bollato come una misura poliziesca, prima di farla propria. Ben venga il nuovo redditometro che dovrebbe permettere di scoprire se l'effettivo tenore di vita del contribuente è compatibile con quanto dichiara al fisco. E ben venga l'incrocio dei dati informatici: sia pure in ritardo di almeno vent'anni.

L'IMPEGNO MANCANTE - Aspettiamo ora fiduciosi i risultati. Ma questa offensiva contro gli evasori ha un difetto. Manca un solenne impegno del governo: il taglio delle tasse, proporzionato alle somme recuperate. È un impegno doveroso, quello di destinare i dividendi della guerra all'evasione a vantaggio di chi in tutti questi anni ha sempre fatto il proprio dovere, pagando anche per coloro che non lo facevano. E ricevendo in cambio soltanto vuote promesse di riduzione delle imposte: considerate così scandalosamente alte che il premier Silvio Berlusconi (ricordate?) arrivò a giustificare «moralmente» gli evasori. I quali continuavano a crescere e moltiplicarsi: mentre la pressione fiscale saliva inesorabilmente con il risultato di deprimere ulteriormente stipendi già fra i più bassi d'Europa. Qualcuno potrà obiettare che lo stato attuale del bilancio statale non consente un ridimensionamento delle imposte. Argomento fondato. Il rigore nei conti pubblici è la migliore garanzia per la stabilità e la crescita. Ma i proventi della lotta all'evasione sono comunque risorse aggiuntive. E la guerra, una guerra che va assolutamente combattuta e vinta, avrà maggiori probabilità di successo se lo Stato saprà dimostrare che oltre a colpire i disonesti, sa premiare gli onesti. Pagare meno, pagare tutti: quale migliore rivoluzione culturale per chi si dice liberale?

Sergio Rizzo

22 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/economia/10_agosto_22/un-impegno-sul-taglio-delle-tasse-sergio-rizzo_5bf98aac-adbc-11df-8e8b-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #66 inserito:: Settembre 10, 2010, 11:19:47 pm »

DALLA CORRUZIONE ALLE PROFESSIONI

Le riforme fantasma

Ricordiamo il contesto. La bufera sui Grandi Eventi affidati alla Protezione civile era da poco iniziata. I giudici di Firenze avevano scoperto gli affari della «cricca», squarciando il velo su una nuova trama del malaffare, impressionante per il numero e il calibro dei personaggi coinvolti: alti funzionari pubblici, imprenditori, politici, magistrati. Mentre la Corte dei Conti denunciava che il cancro della corruzione, mai sconfitto in questo Paese, ci costa ogni anno 60 miliardi di euro. Comprensibilmente scosso, il Palazzo sembrò reagire. Il primo marzo di quest’anno il Consiglio dei ministri approvò una legge che conteneva disposizioni senza precedenti: l’ineleggibilità degli amministratori corrotti, tanto per citarne una. E il giorno dopo questo giornale gliene diede atto. Senza però sospettare che quel provvedimento anticorruzione, com’è invece accaduto, sarebbe finito nel dimenticatoio. Fermo in Senato da più di sei mesi, in compagnia, purtroppo, di tante altre leggi. Leggi importanti, che stanno però diventando altrettanti fantasmi nel disinteresse di una maggioranza paralizzata a causa di uno scontro interno condito da miasmi e veleni.

Qualcuno ha forse visto la famosa «legge sulla concorrenza », quella che dovrebbe essere fatta ogni anno (l’ha deciso questo governo) con lo scopo di rimediare alle storture del mercato denunciate dall’Antitrust? Doveva essere pronta prima dell’estate e ancora non se ne ha notizia. Del resto non c’è neppure chi dovrebbe firmarla: l’incarico di ministro dello Sviluppo economico è vacante dal 4 maggio. Per non parlare di altre cosette, come la riforma della professione forense, approvata dalla Camera e abbandonata quattro mesi fa in Senato. Oppure della legge che dovrebbe dare un colpo ulteriore all’usura, smarrita a Montecitorio dopo aver avuto il via libera di Palazzo Madama nell’aprile 2009. O ancora la riforma delle banche popolari, il cosiddetto «pacchetto professioni », l’«istituzionalizzazione » del 5 per mille dell’Irpef, la nuova normativa delle fondazioni… Si è perfino arenata la legge sugli indennizzi alle imprese italiane espropriate dal regime libico del colonnello Gheddafi, così amico del nostro presidente del Consiglio. L’inerzia politica è arrivata al punto di non riuscire a far decollare provvedimenti già approvati, ma che per essere attuati hanno bisogno di un decreto ministeriale o di un regolamento.

La legge che consente di mettere il marchio made in Italy soltanto sui prodotti fatti prevalentemente in Italia, per esempio: le norme per metterle in moto erano attese entro il 23 agosto. Termine trascorso inutilmente. Stesso destino ha avuto la riforma delle Camere di commercio. Il rilancio dell’energia nucleare aspetta invece, da molti mesi, la nomina dell’Agenzia per la sicurezza. Si potrebbe andare avanti con il riordino della Sace, la riorganizzazione dell’Enea, la delega governativa per l’intervento nelle crisi aziendali (di cui si sono perse le tracce nell’ottobre 2009). E qualche volta, per trasformare le leggi in fantasmi, basta soltanto ignorarle. Come è accaduto alle norme (le ennesime) sullo sportello unico per le imprese: approvate dal Parlamento il 22 giugno, non sono ancora apparse sulla Gazzetta Ufficiale. Che questa sia la nuova via della semplificazione normativa, al posto della pira del ministro Roberto Calderoli?

Sergio Rizzo

10 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_10/rizzo_riforme_fantasma_28ced67c-bc9a-11df-bb9d-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #67 inserito:: Settembre 14, 2010, 08:09:35 am »

Il dossier

I precari sono oltre mezzo milione

Per assumerli tutti servono 30 anni

Quasi 230 mila gli iscritti in graduatoria. In Sicilia sono la metà dei docenti di ruolo


Precario a 68 anni: se Giancarlo Montemarani non è ancora entrato nel Guinness dei primati, è soltanto per mancanza di una specifica classifica. Insegnante di francese in una scuola media di Macerata, ha passato tutta la vita senza poter diventare di ruolo finché nel 2007 l'hanno spedito in pensione. Soltanto facendo ricorso al Tar è poi entrato nelle graduatorie per uscire dal precariato. Ma il calvario, allarga le braccia chiamando in causa «i tempi biblici della giustizia amministrativa» il suo legale Narciso Ricotta, non è ancora finito. Montemarani è ancora lì, in attesa di poter andare finalmente in pensione, prima dei fatidici settant'anni, da «professore» non più precario. Buona fortuna. A lui e agli altri. Perché il punto è: quanti sono destinati a seguire il suo destino? Con l'aria che tira non sono pochi coloro che corrono il rischio di vedersi pensionare prima ancora di poter uscire da quella condizione. «Impossibile dire con esattezza quanto tempo servirà per assorbire tutti i precari. In alcuni casi, secondo i nostri calcoli, anche trent'anni e più», spiega Francesco Scrima, il segretario generale della Cisl scuola. Il quale prende a esempio il precariato nelle materne. Gli iscritti alle cosiddette graduatorie ad esaurimento per questo settore dell'istruzione sono 74.744. Una volta colmati i vuoti degli organici (circa 4 mila unità) e tenendo conto che d'ora in poi sarà possibile occupare al massimo soltanto i posti lasciati liberi dai pensionati, circa 2 mila l'anno, ciò significa che il serbatoio dei precari non si svuoterà completamente prima di trentacinque anni. Nel 2045. Non resta che augurare lunga vita agli ultimi della lista.

Ma che cosa sono queste «graduatorie a esaurimento»? Si tratta di elenchi predisposti in seguito alla sanatoria approvata dal governo Prodi nel tentativo di regolarizzare una situazione assurda che si era determinata negli anni precedenti. Una situazione per la quale alla permanente lamentela di esuberi si rispondeva allargando a dismisura la zona grigia del precariato. Da tali elenchi, compilati rigorosamente sulla base di criteri oggettivi (l'anzianità, non il merito) si dovrà attingere per coprire il 50 per cento dei posti che di volta in volta risulteranno vacanti. Le «graduatorie» sono un numero enorme. Ben 8.433. E di queste più della metà, 4.456, sono considerate «molto affollate». E se il numero degli elenchi è enorme, figuratevi quello degli iscritti. Sapete quanti sono, secondo un dossier appena sfornato dalla Cisl? Sono 229.721. Con un rapporto di uno a tre rispetto all'organico del personale docente della scuola italiana, dalla materna al licei. Ai ritmi con cui procede lo smaltimento di questo arretrato umano (quest'anno sono stati regolarizzati in diecimila, fra il personale docente), va da sé che sarebbero necessari almeno 23 anni. Senza considerare poi che i precari non sono nemmeno tutti qui. Perché bisognerebbe aggiungerne ancora 20 mila circa, il numero di quanti sono iscritti a quelle «graduatorie» con riserva, perché in attesa di conseguire l'abilitazione. Volendo poi essere proprio pignoli non si potrebbero nemmeno escludere del tutto quelli che non sono nelle «graduatorie» perché non abilitati, ma che comunque fanno parte dell'area del precariato scolastico. Altri 300 mila, senza però al momento attuale alcuna speranza di avere un posto fisso. Almeno per i prossimi trenta o quarant'anni, visto che gli accessi alle «graduatorie» sono per legge bloccati.

Tenendo in ogni caso conto anche di loro, il numero dei «docenti» della scuola precari raggiungerebbe le 550 mila unità, per superare di slancio le 600 mila mettendo nel calcolo anche il personale precario non docente: ben 64.770 persone. Un universo mostruoso, che rappresenta un problema mostruoso, soprattutto in alcune realtà locali. La Sicilia, per esempio. Restando ai 229.721 precari ufficiali, per intendersi quelli delle «graduatorie», i siciliani sono 33.474. È il numero più alto d'Italia. Superiore anche a quello di Regioni più popolose, come la Campania, che ne ha 32.597, il Lazio (21.664) e perfino la Lombardia (28.507), dove gli abitanti sono quasi il doppio. Ebbene, in Sicilia i precari ufficiali sono una quantità pari al 51,1% dell'organico di diritto della Regione. Per non parlare della guerra fra poveri che è scoppiata per il personale non docente, a causa di alcune decisioni politiche scellerate prese in passato e di una serie di sentenze giudiziarie. Tanto per dirne una, a Palermo è successo nel 2000 che con il trasferimento del personale scolastico allo Stato sono passate negli organici statali anche legioni di lavoratori socialmente utili, inquadrati con mansioni per le quali non hanno alcuna competenza. Ma negli organici ci sono e ci restano, e così bloccano la strada ai precari che potrebbero essere assorbiti. La regolarizzazione del personale non docente, tuttavia, è un problema che si può considerare trascurabile rispetto a quello di insegnanti e professori.

Esclusa la possibilità che vengano incrementati gli organici, ipotesi che lo stesso sindacato definisce «irrealistica» considerando che la fredda legge delle cifre (il rapporto alunni-docenti) non concede margini di manovra, non restano cose come la rimodulazione dei tagli o qualche misura per allargare un po' le maglie della rete. Per esempio, propone la Cisl, attivando la mobilità verso altri settori (ma quanti accetterebbero?) o politiche «meno restrittive per la cessazione dal servizio» (i soliti prepensionamenti?). Vero, come sostiene il sindacato, che ci sarebbe una disponibilità teorica per 30 mila assunzioni: docenze attualmente non coperte da personale di ruolo. Ma i numeri sono pur sempre quelli che sono. Dall'arrivo del nuovo governo Berlusconi il personale docente della scuola ha perso quasi 50 mila posti di lavoro, riducendosi da 843.040 a 795.342 unità. Metà di questa emorragia ha riguardato proprio i precari, che sono passati da 141.735 a 116.976. Sono supplenti: chi è iscritto alle graduatorie a esaurimento, oltre a poter aspirare a un posto di ruolo, può accedere alle supplenze su posti liberi per tutta la durata dell'anno scolastico. Siccome però il numero dei supplenti è decisamente inferiore a quello degli iscritti nelle graduatorie, significa che circa 113 mila persone nell'area del precariato scolastico (cioè la differenza) sono senza lavoro.

Sergio Rizzo

14 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/economia/10_settembre_14/rizzo_precari_oltre_mezzo_milione_9b85cad6-bfbf-11df-8975-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #68 inserito:: Ottobre 13, 2010, 05:19:19 pm »

Dipendente in contemporanea di diversi enti pubblici.

«Restituisca due milioni»

Il legale pagato due volte dallo Stato

Giovanni Pascone, ex magistrato del Tar e consulente a Palazzo Chigi, ha collezionato 62 incarichi


ROMA - Come la beata Maria del Gesù, capace di convertire un'intera tribù di Indios del Nuovo Messico senza mai muoversi dalla città spagnola di Agreda, Giovanni Pascone ha avuto per anni il dono dell'ubiquità. Avrebbe potuto altrimenti essere giudice del Tar, direttore della Siae, dirigente dell'Agenzia spaziale italiana, capo dell'Acquedotto pugliese, avvocato del Comune di Pomezia, funzionario dell'Istituto nazionale alta matematica, consigliere del governo e contemporaneamente svolgere decine e decine di incarichi pubblici e privati?

Dall'alto delle sue quattro lauree lui non fa una piega. Intervistato qualche tempo fa da Gianfranco Compagno del Pontino.it, dopo essere diventato consulente del Comune di Aprilia, ha gonfiato il petto: «Sono stato giudice ordinario, magistrato del Tar, magistrato della Corte dei conti, consigliere parlamentare. Ho lavorato alla Banca d'Italia, al ministero dell'Interno e ho avuto tantissimi incarichi. Sono stato capo ufficio legislativo ai Lavori pubblici, consigliere giuridico di tutti i governi, di destra e sinistra». Alla faccia. Di incarichi, la Guardia di finanza ne ha contati sessantadue. Poi ha trasmesso tutto alla Corte dei conti. Dove stimano che tale fenomeno ai limiti del paranormale abbia prodotto un danno erariale di due milioni di euro.

Ma come, vi chiederete, prima il governo dichiara guerra ai fannulloni e poi i giudici mettono in croce chi si ammazza di lavoro? Il fatto è che per svolgere tutte quelle attività collaterali Giovanni Pascone avrebbe avuto bisogno delle autorizzazioni dei suoi datori di lavoro pubblici. Quelli, per inciso, che gli pagavano lo stipendio. Invece le autorizzazioni, dice il giudice contabile, non c'erano. E gli incarichi erano così tanti che è lecito domandarsi dove il Nostro trovasse tempo ed energie. Anche perché, non pago delle consulenze, riusciva perfino a essere in contemporanea dipendente di due amministrazioni diverse.

Nel 1991, non ancora trentenne vince il concorso al Tar, dove resta per dodici anni. Naturalmente, senza girarsi i pollici. Capo dell'ufficio legislativo dei Lavori pubblici nel governo Berlusconi, consulente di palazzo Chigi con Romano Prodi, direttore generale dell'Acquedotto pugliese... E poi le consulenze, come quelle per il gruppo edile Salini (che gli fruttano 354.685 euro), le Autostrade, l'Astaldi, la Regione Calabria...

Finché, il primo agosto del 2003, è dichiarato «decaduto dall'impiego ai sensi dell'articolo 127, lett. c), del Testo unico 10 gennaio 1957, n. 3». Una misura che viene adottata, dice la norma, quando un dipendente pubblico «senza giustificato motivo, non assuma o non riassuma servizio entro il termine prefissogli, ovvero rimanga assente dall'ufficio per un periodo non inferiore a quindici giorni». Ma con tutto quello che Pascone aveva da fare... Comunque poco male, perché contestualmente all'uscita dal Tar si iscrive all'Ordine degli avvocati e viene assunto con contratto a tempo indeterminato dalla Siae come capo dell'ufficio legale. Il 6 dicembre 2004, però, lo licenziano. La motivazione: mentre era dipendente Siae aveva pure un incarico di dirigente dell'ufficio legale all'Agenzia spaziale italiana. A nulla serve una interrogazione parlamentare presentata contro questa decisione dal senatore aennino Euprepio Curto. L'esilio dai ranghi della pubblica amministrazione dura un paio di annetti. Nel frattempo Pascone, che ha avuto modo di frequentare a più riprese gli uffici governativi ed è stato anche consigliere di amministrazione della società pubblica Bagnolifutura, indicato dai Ds, non si perde d'animo in attesa di tempi migliori, che puntualmente arrivano. Il 2 novembre 2006 il Comune di Pomezia lo assume come direttore generale. Prima a termine e poi, dal primo agosto 2008, a tempo indeterminato. Intanto, il 26 aprile 2007, è entrato pure nei ranghi di un altro ente pubblico, l'Istituto nazionale di Alta matematica Francesco Severi. Dirigente di seconda fascia, e anche qui a tempo indeterminato. Mentre non si arresta il tourbillon di consulenze e incarichi. Aziende private e pubbliche, enti locali: i comuni di Cagliari, Latina, Dorgali, Aprilia, la Provincia di Milano, la Asl di Casale Monferrato...

Ma proprio nel 2008 cominciano i guai. Il 26 settembre è sospeso dal servizio perché il Gip di Velletri gli ha imposto l'obbligo di dimora nel comune di residenza, cioè Roma: sulla giunta di Pomezia si è appena abbattuta un'inchiesta per un certo affare di campi da tennis. Pochi mesi dopo scoppia la grana di Tributi Italia, che coinvolge anche la società di Aprilia A.ser, di cui Pascone è presidente dal 2007. Ancora qualche settimana e arriva la bomba. Fabrizio Peronaci rivela sul Corriere che l'avvocato, consigliere giuridico del governo Berlusconi, già magistrato e amministratore pubblico, è accusato di evasione fiscale: non avrebbe dichiarato al Fisco compensi per 40 milioni di euro in due soli anni. E adesso la ciliegina sulla torta. Un ricorso del vice procuratore generale della Corte dei conti Bruno Tridico nel quale si chiede il sequestro conservativo delle proprietà di Pascone fino a un ammontare di 2 milioni 119 mila euro: i soldi incassati dall'avvocato per tutti gli incarichi e le consulenze non autorizzate, che il magistrato contabile considera alla stregua di un «danno erariale». Sequestro puntualmente ottenuto prima di dare fuoco alle polveri. L'udienza iniziale della causa è fissata per il 20 ottobre. E stavolta non c'è incarico che tenga.

Sergio Rizzo

13 ottobre 2010
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http://www.corriere.it/cronache/10_ottobre_13/rizzo-legale-pagato-due-volte-dallo-stato_4dbef956-d68c-11df-831d-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #69 inserito:: Ottobre 14, 2010, 11:56:51 am »

«Sfuggiti» ai controlli

Tra i reati dei portatori di voti

Dopo l'accusa di Pisanu («Amministrative, nelle liste candidati indegni») un dossier sui candidati-condannati.

Da Napoli a Vercelli i nomi dei politici «indegni»


ROMA - «Famme chello che vuò/ indifferentemente/ tanto o' saccio che so'/ pe' te nun so' cchiù niente/...». Il pubblico andava in estasi mentre Mara Carfagna e Pietro Diodato intonavano Indifferentemente, una delle canzoni più struggenti del repertorio musicale partenopeo, dal palco del Teatro Metropolitano di Napoli, luogo prescelto per la chiusura in grande stile (e con sorpresa) della campagna elettorale del Pdl per le regionali. L'euforia era palpabile. Il ticket composto dalla ministra e dal recordman delle preferenze alle precedenti elezioni si avviava a una schiacciante vittoria, nonostante il brivido iniziale. A Napoli era infatti circolata la voce di una probabile esclusione di Diodato dalle liste. Voce che provocò una clamorosa occupazione della sede campana del Pdl da parte dei suoi fan. Così, «indifferentemente», Diodato rientrò in lista. Avrebbe mai immaginato Mara Carfagna, la quale oltre alla faccia sui manifesti aveva messo anche la voce al servizio della causa, che lunedì scorso, appena sei mesi dopo quella festa in teatro, la Prefettura di Napoli avrebbe scritto alla Regione per ricordare che il consigliere, nel frattempo nominato anche presidente di Commissione, ha sulle spalle una condanna definitiva (con la condizionale) a un anno e mezzo per i disordini del 2001 nei seggi elettorali, ma soprattutto l'interdizione per cinque anni dai pubblici uffici? Una bella rogna, per il Consiglio regionale, dal quale sono stati già sospesi altri due consiglieri del centrodestra.
Il primo è l'ex margheritino Roberto Conte, condannato in primo grado per concorso esterno in associazione camorristica, candidato in extremis per Alleanza di popolo (ed eletto), nonostante la tassativa opposizione del futuro governatore Stefano Caldoro: «Non voglio i suoi voti, e se risulteranno determinanti mi dimetterò». Il secondo è Alberico Gambino, del Pdl, condannato in appello con l'accusa di peculato. Ha dichiarato appena eletto: «Per ora mi godo la vittoria». Insieme al 50% dell'indennità (2.250 euro netti al mese), che per regolamento regionale spetta ai consiglieri sospesi dall'incarico.

Potevano pensarci prima, i responsabili politici? Magari è proprio quello che hanno fatto, a giudicare dalle parole di Angela Napoli, capogruppo di Futuro e libertà nell'Antimafia, che ha stigmatizzato «la disinvoltura con la quale la politica forma le liste elettorali». Liste, aveva detto il presidente della commissione Beppe Pisanu, «gremite di persone che non sono certo degne di rappresentare nessuno». Ma che portano voti. Tanti voti, e su quelli nessuno ci sputa. Come aveva avuto modo di denunciare pubblicamente, già tre anni fa, il coordinatore campano di Forza Italia Fulvio Martusciello, parlando del «pressapochismo con cui vengono scelti i candidati, se è vero che nella zona a nord di Napoli la criminalità tentò di infilarsi all'interno dei partiti». Se ne infischiano perfino del codice di autoregolamentazione dell'Antimafia, che dovrebbe sbarrare la strada alle candidature di soggetti condannati. Figuriamoci quando non c'è nemmeno la sentenza di un tribunale.

Le amministrative calabresi, per esempio. Alle ultime regionali si è presentato Tommaso Signorelli, ex Pd passato ai Socialisti Uniti (lista che sosteneva il centrodestra), arrestato nel 2008 quando era assessore del comune di Amantea, sciolto per infiltrazioni della 'ndrangheta. A niente è servita la dichiarazione di candidato «non gradito» formulata nei suoi confronti dal futuro presidente Giuseppe Scopelliti, il quale aveva minacciato: «Se necessario andrò personalmente ad Amantea per dire agli elettori di non votarlo». Dopo quella presa di posizione si è ritirato invece dalla corsa elettorale il candidato di Noi Sud Antonio La Rupa, figlio del consigliere regionale uscente Franco La Rupa, ex sindaco del paese calabrese e indagato nella medesima inchiesta.

Un fenomeno, quello dei parenti in lista, così diffuso in alcune zone, come la Calabria, che la commissione antimafia di Pisanu ha chiesto alle prefetture di avere anche informazioni sui rapporti di parentela e le frequentazioni dei candidati.

Sia ben chiaro: la decenza delle liste non è questione che si possa limitare alla zona grigia dei rapporti fra politica e criminalità organizzata. Ed è immaginabile che Pisanu non si riferisse soltanto a quell'aspetto, quanto piuttosto all'imbarbarimento generale che ha fatto saltare tutte le regole etiche, comprese quelle non scritte. Con il risultato che termini una volta sacri, come «opportunità», sono spariti dal vocabolario della politica. Due casi per tutti. Il presidente della Provincia di Vercelli Renzo Masoero era in piena campagna elettorale per le regionali quando l'hanno arrestato per concussione, accusa per la quale avrebbe poi patteggiato una condanna a due anni. Né il rinvio a giudizio per la droga del festino a luci rosse che lo vide protagonista in un albergo romano nell'estate del 2007 ha dissuaso l'ex deputato dell'Udc Cosimo Mele: che si è candidato in Puglia al fianco di Adriana Poli Bortone. Senza fare una piega.

Sergio Rizzo

14 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_ottobre_14/rizzo_candidati_6ff59cca-d761-11df-8fad-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #70 inserito:: Ottobre 14, 2010, 11:23:06 pm »

«Sfuggiti» ai controlli

Tra i reati dei portatori di voti

Dopo l'accusa di Pisanu («Amministrative, nelle liste candidati indegni») un dossier sui candidati-condannati.

Da Napoli a Vercelli i nomi dei politici «indegni»


ROMA - «Famme chello che vuò/ indifferentemente/ tanto o' saccio che so'/ pe' te nun so' cchiù niente/...». Il pubblico andava in estasi mentre Mara Carfagna e Pietro Diodato intonavano Indifferentemente, una delle canzoni più struggenti del repertorio musicale partenopeo, dal palco del Teatro Metropolitano di Napoli, luogo prescelto per la chiusura in grande stile (e con sorpresa) della campagna elettorale del Pdl per le regionali. L'euforia era palpabile. Il ticket composto dalla ministra e dal recordman delle preferenze alle precedenti elezioni si avviava a una schiacciante vittoria, nonostante il brivido iniziale. A Napoli era infatti circolata la voce di una probabile esclusione di Diodato dalle liste. Voce che provocò una clamorosa occupazione della sede campana del Pdl da parte dei suoi fan. Così, «indifferentemente», Diodato rientrò in lista. Avrebbe mai immaginato Mara Carfagna, la quale oltre alla faccia sui manifesti aveva messo anche la voce al servizio della causa, che lunedì scorso, appena sei mesi dopo quella festa in teatro, la Prefettura di Napoli avrebbe scritto alla Regione per ricordare che il consigliere, nel frattempo nominato anche presidente di Commissione, ha sulle spalle una condanna definitiva (con la condizionale) a un anno e mezzo per i disordini del 2001 nei seggi elettorali, ma soprattutto l'interdizione per cinque anni dai pubblici uffici? Una bella rogna, per il Consiglio regionale, dal quale sono stati già sospesi altri due consiglieri del centrodestra.
Il primo è l'ex margheritino Roberto Conte, condannato in primo grado per concorso esterno in associazione camorristica, candidato in extremis per Alleanza di popolo (ed eletto), nonostante la tassativa opposizione del futuro governatore Stefano Caldoro: «Non voglio i suoi voti, e se risulteranno determinanti mi dimetterò». Il secondo è Alberico Gambino, del Pdl, condannato in appello con l'accusa di peculato. Ha dichiarato appena eletto: «Per ora mi godo la vittoria». Insieme al 50% dell'indennità (2.250 euro netti al mese), che per regolamento regionale spetta ai consiglieri sospesi dall'incarico.

Potevano pensarci prima, i responsabili politici? Magari è proprio quello che hanno fatto, a giudicare dalle parole di Angela Napoli, capogruppo di Futuro e libertà nell'Antimafia, che ha stigmatizzato «la disinvoltura con la quale la politica forma le liste elettorali». Liste, aveva detto il presidente della commissione Beppe Pisanu, «gremite di persone che non sono certo degne di rappresentare nessuno». Ma che portano voti. Tanti voti, e su quelli nessuno ci sputa. Come aveva avuto modo di denunciare pubblicamente, già tre anni fa, il coordinatore campano di Forza Italia Fulvio Martusciello, parlando del «pressapochismo con cui vengono scelti i candidati, se è vero che nella zona a nord di Napoli la criminalità tentò di infilarsi all'interno dei partiti». Se ne infischiano perfino del codice di autoregolamentazione dell'Antimafia, che dovrebbe sbarrare la strada alle candidature di soggetti condannati. Figuriamoci quando non c'è nemmeno la sentenza di un tribunale.

Le amministrative calabresi, per esempio. Alle ultime regionali si è presentato Tommaso Signorelli, ex Pd passato ai Socialisti Uniti (lista che sosteneva il centrodestra), arrestato nel 2008 quando era assessore del comune di Amantea, sciolto per infiltrazioni della 'ndrangheta. A niente è servita la dichiarazione di candidato «non gradito» formulata nei suoi confronti dal futuro presidente Giuseppe Scopelliti, il quale aveva minacciato: «Se necessario andrò personalmente ad Amantea per dire agli elettori di non votarlo». Dopo quella presa di posizione si è ritirato invece dalla corsa elettorale il candidato di Noi Sud Antonio La Rupa, figlio del consigliere regionale uscente Franco La Rupa, ex sindaco del paese calabrese e indagato nella medesima inchiesta.

Un fenomeno, quello dei parenti in lista, così diffuso in alcune zone, come la Calabria, che la commissione antimafia di Pisanu ha chiesto alle prefetture di avere anche informazioni sui rapporti di parentela e le frequentazioni dei candidati.

Sia ben chiaro: la decenza delle liste non è questione che si possa limitare alla zona grigia dei rapporti fra politica e criminalità organizzata. Ed è immaginabile che Pisanu non si riferisse soltanto a quell'aspetto, quanto piuttosto all'imbarbarimento generale che ha fatto saltare tutte le regole etiche, comprese quelle non scritte. Con il risultato che termini una volta sacri, come «opportunità», sono spariti dal vocabolario della politica. Due casi per tutti. Il presidente della Provincia di Vercelli Renzo Masoero era in piena campagna elettorale per le regionali quando l'hanno arrestato per concussione, accusa per la quale avrebbe poi patteggiato una condanna a due anni. Né il rinvio a giudizio per la droga del festino a luci rosse che lo vide protagonista in un albergo romano nell'estate del 2007 ha dissuaso l'ex deputato dell'Udc Cosimo Mele: che si è candidato in Puglia al fianco di Adriana Poli Bortone. Senza fare una piega.

Sergio Rizzo

14 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #71 inserito:: Ottobre 19, 2010, 11:56:14 am »

ANTIGUA E DINTORNI

Paradisi fiscali, evasione, affari

Nella «caverna di Alì Babà»


La globalizzazione ha abbattuto in tutto il mondo il tabù della libera circolazione dei capitali. Figurarsi perciò se l'Italia può impedire ai suoi cittadini di comprare ville ai Caraibi. Chi la governa ha però il dovere di verificare che gli investimenti siano fatti nel rispetto delle regole.

Quasi sempre, tuttavia, è impossibile. Anche se quei Paesi hanno sottoscritto protocolli e accordi internazionali, poi concretamente non li applicano. Così, al riparo dei segreti bancari e delle società anonime continuano a essere un comodo rifugio per chi non paga le tasse o peggio. Si chiamano infatti paradisi fiscali. E giustamente il governo italiano li combatte con determinazione, al fianco di tutti gli altri Stati occidentali. Consapevole che si tratta di una battaglia planetaria per la civiltà.

In un Paese con il record di evasione e dove la propensione all'esportazione illegale di denari non si è purtroppo fermata negli ultimi anni, come dimostra il «successo» dell'ultimo scudo fiscale, questo è un nervo scoperto. Sul quale il servizio di Report, la trasmissione di Milena Gabanelli andata in onda domenica sera, e prima ancora l'inchiesta di Luigi Ferrarella pubblicata su questo giornale, hanno avuto il merito di accendere un faro. Da qualche tempo ad Antigua, isola inserita dall'Ocse nella «lista grigia» dei paradisi fiscali, alcuni italiani stanno facendo grandi affari immobiliari. E li stanno facendo attraverso una società, la Flat point, con filiale a Torino ma sede legale in quel piccolo Stato, per la quale a quanto pare è impossibile risalire alla reale proprietà, nonostante fra chi la gestisce ci siano soggetti chiaramente di nazionalità italiana.

Intendiamoci, il problema dei paradisi fiscali va ben oltre i confini angusti di un'isoletta caraibica. Per dire quanto sia complicato affrontarlo e risolverlo, esistono piccole sacche «paradisiache» anche a due passi da casa nostra e perfino all'interno delle nazioni più impegnate in questa battaglia: molte società di comodo di Calisto Tanzi avevano sede nello Stato americano del Delaware, dove il codice è particolarmente «flessibile». Dunque è chiaro che la battaglia richiede innanzitutto grande impegno da parte delle classi politiche. E qui una riflessione è d'obbligo.

Fra i cittadini italiani che hanno investito nell'isola dei Caraibi c'è pure il nostro presidente del Consiglio: si parla di una somma superiore a 20 milioni di euro. Con i governanti di quel Paese, peraltro, Silvio Berlusconi aveva anche intrattenuto rapporti politici, se è vero che cinque anni fa si sarebbe speso per far ottenere in sede internazionale ad Antigua e Barbuda uno sconto del debito estero. Il suo avvocato Niccolò Ghedini ha ricordato che i terreni comprati dal premier ai Caraibi sono stati pagati con regolare bonifico e figurano nella dichiarazione dei redditi. Aggiungendo che «l'immobile è intestato regolarmente a Berlusconi e non già a fantomatiche società off shore.
E con regolari fatture assistite da stati di avanzamento lavori sono stati pagati i lavori di costruzione e arredo». Fatture presumibilmente emesse dalla stessa Flat point... Elemento che ha indotto Milena Gabanelli a sollevare la questione dell'«opacità» tanto contestata da Ghedini.

Ma qui non è in discussione la regolarità delle fatture. Perché si dà il caso che il Paese dove Berlusconi ha investito tutti quei soldi sia uno di quelli paragonati un giorno dal suo ministro dell'Economia alla «Caverna di Alì Babà», dove i Quaranta ladroni nascondevano il bottino. E alla luce del gravoso impegno internazionale che Tremonti ha assunto nella lotta ai paradisi fiscali, quell'investimento si può considerare opportuno?

Sergio Rizzo

19 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #72 inserito:: Ottobre 26, 2010, 06:50:07 pm »

Il caso L'attività è ridotta al minimo. Le cause? Pochi soldi, priorità e tempi dettati dal governo

Camere paralizzate, in un anno 10 leggi

Dal 1° gennaio l'Aula di Montecitorio si è riunita 126 volte, il Senato 92


ROMA - Alla Camera dicono che succede, qualche volta. Succede quando arriva la Finanziaria, che adesso si chiama «legge di stabilità». Allora si ferma tutto, in religiosa attesa che la commissione Bilancio partorisca. Ecco spiegato perché almeno per tutta la prossima settimana le luci dell'Aula di Montecitorio resteranno spente. Con il risultato che molti deputati, come ha sottolineato ieri sul Messaggero Marco Conti, potranno godersi un periodo di ferie supplementari.
Quella spiegazione «ufficiale», tuttavia, non spiega perché da tempo, ormai, i parlamentari non si ammazzano di lavoro. La verità è che non c'è il becco di un quattrino. Ma soprattutto che è il governo a dettare tempi, modi e priorità. Eppure, nonostante le difficoltà economiche, gli argomenti non mancherebbero. La commissione Giustizia della Camera, per esempio, ha praticamente concluso l'esame di un provvedimento antiusura già approvato dal Senato. Che però, senza apparenti motivazioni, procede lentissimo. Come anche il disegno di legge anticorruzione, approvato dal Consiglio dei ministri otto mesi or sono, e ora parcheggiato nelle commissioni di Palazzo Madama. A motori spenti. In questo caso però una ragione c'è. Si deve assicurare una corsia preferenziale al Lodo Alfano.

Per rendersi conto dell'apatia nella quale sono immerse le Camere è sufficiente dare uno sguardo ai calendari. Il Senato sarà impegnato nella discussione di mozioni sulla politica agricola comune, poi di risoluzioni, interrogazioni e interpellanze. Invece la Camera, quando la vacanzina sarà finita, dovrà fare i conti con le norme di «sostegno agli agrumeti caratteristici». Senza contare il trasferimento della Consob da Roma a Milano, preteso dalla Lega. Tutto questo, naturalmente, sempre che l'esecutivo non decida di sconvolgere il ruolino di marcia. Ma nemmeno il governo «del fare» di Silvio Berlusconi, che pure ha appena ripromesso una raffica di riforme, sembra percorso da un frenetico attivismo. Per dirne una, è da 117 giorni che aspettiamo la nomina del presidente Consob. Se non si riesce a fare quella, figuriamoci la riforma fiscale...

Cinque mesi sono passati da quando il presidente della Camera Gianfranco Fini sbottò pubblicamente («a meno che il governo non presenti qualche decreto c'è il rischio di una paralisi dell'attività legislativa della Camera!»), scandalizzato per il fatto che il lavoro dei parlamentari era ormai limitato a due giorni la settimana, e nulla è cambiato. Nei 298 giorni trascorsi dal primo gennaio l'assemblea di Montecitorio si è riunita 126 volte. Quella di Palazzo Madama ancora meno: 92.

Il 18 ottobre la Gazzetta Ufficiale ha pubblicato una legge approvata l'8 ottobre scorso, l'ultimo dei 74 provvedimenti entrati e usciti dal Parlamento quest'anno. In quel numero sono compresi 18 decreti legge del governo e altri tre provvedimenti di routine, sempre di fonte governativa, come la legge comunitaria. Poi ci sono le 17 leggi di conversione di altrettanti decreti. Quindi 22 ratifiche di trattati internazionali: atti dovuti. Ne restano dunque 14, fra cui ci sono però anche provvedimenti nati da disegni di legge governativi. Per esempio quello del ministro dell'Interno Roberto Maroni sulla nuova disciplina antimafia. Delle dodici leggi «superstiti» fanno poi parte provvedimenti a uso e consumo dei partiti e della politica, come la legge sul legittimo impedimento che ha consentito al premier di non partecipare per motivi istituzionali ai processi che lo vedono imputato, o come la sanatoria delle liste elettorali per le Regionali. Ne restano dunque una decina. Una pattuglia sparuta, nella quale, oltre a provvedimenti di indubbio spessore sociale, come le disposizioni a favore dei malati terminali, dei sordociechi, o degli alunni dislessici, troviamo per esempio una legge che consente di nominare un finanziere comandante delle Fiamme Gialle, una norma sul personale dell'agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie...

La carestia legislativa farà senza dubbio contento il ministro della Semplificazione Roberto Calderoli, immortalato mentre inceneriva con un lanciafiamme migliaia di provvedimenti inutili. Eppure anche nel suo partito, la Lega Nord, qualcuno ha masticato amaro. L'avvocato messinese Matteo Brigandì, fiero delle 199 cause vinte in difesa del suo leader Umberto Bossi, con coraggio leonino ha annunciato un giorno il gesto clamoroso: «Mi dimetto perché non ha più alcun senso fare il parlamentare. Le Camere sono state svuotate di ogni loro funzione. Non hanno più alcun potere di iniziativa legislativa e sono state messe nella condizione di fare solo il notaio del governo». È decaduto dall'incarico il 30 luglio 2010. Giusto poche ore dopo essere stato eletto nel Csm dal Parlamento. Per inciso, Brigandì era stato uno dei proponenti del legittimo impedimento.

Sergio Rizzo

26 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #73 inserito:: Novembre 07, 2010, 07:09:06 pm »

L'AREA ARCHEOLOGICA IN ABBANDONO

L'umiliazione di Pompei


Non passa giorno senza che qualcuno ci ricordi come l’Italia custodisca la maggior parte dei beni artistici e archeologici del pianeta. Ma meritiamo davvero un simile onore? Il dubbio sorge, osservando quello che accade a Pompei. Da tempo il Corriere del Mezzogiorno sta documentando lo scempio di alcuni «restauri » a base di colate di cemento e l’incuria che regna nell’area immensa degli scavi. Con la protesta montante attraverso i social network, come sta a dimostrare il record di adesioni a una pagina di Facebook che si chiama «Stop killing Pompei ruins». Al punto che viene da chiedersi: ma se quel tesoro ce l’avessero gli americani, oppure i francesi o i giapponesi, lo tratterebbero allo stesso modo?

Il fatto è che quell’area archeologica unica al mondo è purtroppo il simbolo di tutte le sciatterie e le inefficienze di un Paese che ha smarrito il buon senso e non riesce più a ritrovarlo. O forse semplicemente non vuole, affetto da una particolare forma di masochismo. Che però ha responsabili ben precisi. «Le istituzioni preposte alla tutela dei beni culturali sono costantemente umiliate da interessi politici ed economici del tutto privi di attenzione per la salvaguardia di quella che è la maggiore ricchezza del nostro Paese» ha denunciato qualche tempo fa Italia Nostra. Ed è proprio difficile dargli torto, quando proprio a Pompei l’indifferenza della politica si tocca con mano.

Per due anni, con la motivazione del degrado in cui versa l’area, hanno spedito lì il commissario della solita Protezione civile. Con il risultato di «commissariare » nei fatti anche la Sovrintendenza. E già questo non è normale (che c’entra la Protezione civile con gli scavi archeologici?). Ma ancora meno normale è il fatto che da mesi, ormai, Pompei sia senza una guida. A giugno il commissario è scaduto. Mentre a ottobre il sovrintendente ancora non c’è. O meglio, il posto è tenuto in caldo da un reggente in attesa del titolare. Che però il ministero dei Beni culturali non nomina.

Perfino inutile interrogarsi sui motivi di questa paralisi. Viene addirittura il sospetto che nella stanza dei bottoni nessuno si renda conto di avere fra le mani una risorsa economica enorme in una regione che ha disperato bisogno di lavoro e sviluppo. Per dare un’idea dell’attenzione riservata a questa materia basterebbe ricordare che dal 2004 a oggi il governo non è stato nemmeno in grado di mettere in piedi un portale nazionale di promozione turistica degno di tal nome. Nonostante i milioni (non pochi) spesi. Per verificare, f a t e v i un giretto su www.italia.it, dove la pratica pompeiana è liquidata in 66 parole, senza nemmeno una foto: «Per l’eccezionalità dei reperti e il loro stato di conservazione, l’Unesco ha posto sotto la sua tutela l’Area archeologica di Pompei ed Ercolano, che nel 79 d.C. furono completamente distrutte dal Vesuvio. La lava vulcanica segnò la loro distruzione ma, solidificandosi, la stessa lava che le distrusse divenne un’eccezionale "protezione" che ha preservato gli straordinari reperti, riportati alla luce molti secoli dopo ». Stop.

E poi c’è chi si lamenta che con il 70% delle bellezze artistiche e naturali di tutto il mondo continuiamo a scivolare in basso nelle classifiche internazionali del turismo...

Sergio Rizzo

05 ottobre 2010(ultima modifica: 06 ottobre 2010)
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http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_05/rizzo-pompei_66762f30-d03f-11df-9b01-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #74 inserito:: Gennaio 10, 2011, 05:57:47 pm »

16/11/2010

Supercomputer e frigobar, indispensabili

Scritto da: Sergio Rizzo alle 13:12

Non lo sapevano. Non avevano idea di quanto la situazione finanziaria della loro Regione, la Campania, fosse spaventosa. Che i debiti iscritti nel bilancio fossero schizzati del 90% in soli quattro anni. Che l' esposizione complessiva avesse raggiunto 11 miliardi e mezzo, o forse dodici, tredici, nessuno può dirlo con esattezza. Che le società regionali perdessero decine di milioni l' anno. Che la liquidità fosse scesa al livello di guardia. Che la sanità fosse un buco nero pieno di molte sorprese, come quella dell' Asl napoletana che aveva accumulato mesi di ritardo nelle fatture ma poi ha pagato due volte lo stesso fornitore. E non spiccioli: dodici milioni. Non conoscevano, perché l' ispezione ancora non era conclusa, gli sconcertanti risultati della due diligence sui conti della Regione fatta dalla Ragioneria dello Stato su richiesta del governatore Stefano Caldoro. È l' unica spiegazione possibile. Altrimenti il Consiglio regionale avrebbe potuto approvare il 28 settembre scorso una delibera come quella rivelata ieri da Paolo Mainiero sul Mattino di Napoli? Televisore, studio dirigenziale con trittico di poltrone in pelle, Telepass per evitare le code ai caselli autostradali, computer fisso, Ipad o notebook: a scelta. Qualcosa, diciamo la verità, manca. Il frigobar, per esempio. Quello spetta soltanto ai consiglieri che hanno qualche incarico, cioè presidente, vicepresidente e componenti dell' ufficio dei presidenza, i capi del gruppi e i presidenti di commissione. «Soltanto» si fa per dire: perché sono 27 su 60, poco meno della metà di tutti quanti. Non erano al corrente, certamente, dei dettagli. Ma a pensare che credessero di vivere sul pianeta Papalla si farebbe un torto alla loro intelligenza. Ognuno di loro, del resto, prende una busta paga a fine mese e sa quello che c' è dentro: 4.500 euro netti più rimborsi spese che possono arrivare a 6.472 euro. Totale, 10.972 euro. Dieci mesi di stipendio di un operaio. Per non parlare degli alti papaveri. Fra indennità e rimborsi il presidente del Consiglio della Campania, carica attualmente ricoperta da Paolo Romano del Popolo della libertà, può arrivare anche a 12.388 euro al mese. Certo, secondo gli ultimi dati contenuti nel sito parlamentiregionali.it i suoi colleghi della Sicilia (14.329 euro), della Calabria (13.353) e del Lazio (12.548) guadagnano qualcosina in più. Ma ce n' è in ogni caso abbastanza anche per comprarsi il frigobar. Eventualità che non è stata però nemmeno presa lontanamente in considerazione. Del resto, cosa volete che siano 27 Ipad o altrettanti frigobar nel mare magno delle spese del Consiglio regionale campano? Un carrozzone con 500 dipendenti per 60 consiglieri, con un rapporto di oltre otto a uno. Per capirci, alla Camera dei deputati quel rapporto è di tre a uno. Idem al Senato. Cinquecento, e tutti entrati per distacco da altre amministrazioni pubbliche o società controllate da enti locali, distacchi poi sanati con leggine regionali. Per quarant' anni non è mai stato fatto un concorso per reclutare i dipendenti del Consiglio regionale campano, nonostante la Costituzione stabilisca che nella pubblica amministrazione si possa entrare soltanto dopo averne superato uno. Per onestà va detto che la Regione Campania è in buona compagnia. Con una spesa nettamente superiore alla somma dei bilanci di Montecitorio e palazzo Madama, i consigli regionali rappresentano una fetta decisamente importante dei costi della politica. Anche se è quella sulla quale mai si è intervenuto come si sarebbe dovuto fare per rispetto ai cittadini che pagano le tasse. Qualche caso? L' assemblea regionale siciliana ha 90 consiglieri: il 50% in più rispetto alla Campania, regione che ha una popolazione superiore del 15% a quella della Sicilia. Novanta consiglieri sono dieci più anche della Lombardia, dove i residenti sono addirittura il doppio della Sicilia. Ciascuno di loro, per giunta, ha un costo medio superiore a quello di un senatore. La Calabria ha 50 consiglieri regionali, dieci in meno della Campania, pur avendo circa un terzo della sua popolazione. Il consiglio ha un numero di dipendenti che si aggira intorno ai 350. Con un rapporto, anche qui, nettamente squilibrato rispetto alla Camera e al Senato: sette a uno. Che dire poi del Lazio? Prima delle ultime elezioni, il consiglio uscente ha approvato un bilancio che ha previsto per il 2010 un incremento delle spese dell' 8,1%. Sei volte l' inflazione. Sergio Rizzo RIPRODUZIONE RISERVATA
Pubblicato il 16.11.10 13:12 | Permalink| Commenti(0) | Invia il post Condividi


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