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Autore Discussione: SERGIO RIZZO  (Letto 136060 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Novembre 09, 2009, 03:06:01 pm »

Dal piano 2000 agli sprechi Infratel: 10 anni di promesse

Quel pasticciaccio brutto di «internet superveloce»

Il progetto di superconnessione per tutti gli italiani non decolla.

La Finlandia in pochi anni arriverà ai 100 Mega


ROMA — Comprensibilmente irrita­to, l’attore Luca Barbareschi, oggi de­putato Pdl e vicepresidente della com­missione Comunicazioni non sa farse­ne una ragione: «Tutta questa storia è un mistero». Si riferisce alla decisione presa dal governo di congelare i finan­ziamenti (800 milioni di euro) per la banda larga «fino a crisi finita». A crisi finita? E chi decide quando finisce? Il pasticciaccio brutto della banda larga comincia una decina d’anni fa. Apprestandosi a vincere le elezioni del 2001, Silvio Berlusconi ha un piano. Di­gitalizzare l’Italia in un battibaleno, su­perando il divario che il Paese ha già accumulato con i concorrenti. Un an­no prima delle elezioni il futuro super­ministro Giulio Tremonti ha già le idee molto chiare.

Il 9 marzo 2000 dice a Dario Di Vico del Corriere : «Internet è quanto di più anti-giacobino possa esistere ed è ovvio che avvantaggi noi. La struttura delle vecchia società sta al­la nuova come un vecchio calcolatore sta a Internet. Quello era verticale, rigi­do, piramidale. La rete è orizzontale, flessibile, anarchica, federale». E obso­leta. Per questo il governo è intenzio­nato a lanciare un formidabile piano di modernizzazione. Nomina perfino un ministro. Non uno qualunque: nientemeno che l’ex manager europeo dell’Ibm, Lucio Stanca. Ma passa un an­no e mezzo, siamo nel dicembre del 2002, e del formidabile piano per digi­talizzare l’Italia nemmeno l’ombra. E Stanca consegna la sua delusione alla stampa. «Contavo di avere più soldi, ma in questa situazione è andata fin troppo bene. L’innovazione non ha lobby, girotondi, gruppi di pressio­ne... », si sfoga sempre con il Corriere.

La verità è che non ha una lira. Mentre vede i soldi che gli erano stati promes­si andare a ingrassare i bilanci dei par­titi politici, o qualche clientela, potreb­be forse rovesciare il tavolo e andarse­ne. Invece resta lì, a galleggiare. Lan­ciando di tanto in tanto qualche pol­petta alle masse. Come il primo agosto 2005: «La banda larga è un’assoluta priorità nell’agenda di governo, che ha varato una vera e propria riforma digitale per ampliare gli strumenti me­diante i quali possono esercitare una piena cittadinanza». Diventerà poi se­natore, quindi deputato, infine ammi­nistratore delegato dell’Expo 2015. Nel frattempo viene costituita pure una società, Infratel Italia, incaricata di cablare con la banda larga il Sud, col­mando così il cosiddetto digital divi­de . La mettono dentro Sviluppo Italia: poltrone, assunzioni, consulenze. Ine­vitabilmente. Nel 2007 la Corte dei con­ti gli riserva questo trattamento: «Alla data del 31 dicembre 2006 sono stati realizzati 510 chilometri di infrastrut­ture, pari al 29% delle opere previste nel piano. Va evidenziato che i chilo­metri realizzati sono risultati inferiori a quelli programmati mentre i costi di realizzazione risultano superiori». A quella data erano abilitate alla banda larga il 23% delle aree comunali previ­ste e delle 182 centrali telefoniche pro­grammate per la fibra ottica ne erano coperte appena 36.

Un «risultato poco soddisfacente», secondo la Corte dei conti, che rilevava pure come «la re­munerazione del personale manageria­le Infratel» era apparsa «particolar­mente elevata tanto da arrivare a 1.200 euro al giorno» mentre per gli «incari­chi di consulenza» (1.283.799 euro e un centesimo) si sottolineava che era­no stati «effettuati intuitu personae, in violazione dei principi di pubblici­tà, concorrenza e trasparenza». In seguito le cose sarebbero andate un po’ meglio. Ma pur sempre nella precarietà finanziaria. Sapete quanti soldi aveva destinato a superare il co­siddetto divario digitale un Paese che è agli ultimi posti in Europa per la dif­fusione di Internet? 351 milioni. Che sono poi diventati 301, perché, beffa nelle beffe, 50 sono stati prelevati per la copertura dell’abolizione dell’Ici, promessa in campagna elettorale dal­l’attuale premier Silvio Berlusconi. Non che le cose andassero molto me­glio durante il governo di Romano Pro­di, al punto che il presidente dell’Auto­rità per le comunicazioni, Corrado Ca­labrò, il 24 luglio 2007, avvertiva: «Sia­mo al capolinea. La situazione del mer­cato italiano della larga banda non ap­pare soddisfacente. La copertura, la dif­fusione, il livello concorrenziale delle offerte segnano il passo rispetto ai Pae­si più virtuosi d’Europa. La diffusione è al 14,5%, il che ci piazza all’ultimo po­sto dei Paesi del G7 e anche dei 27 membri dell’Unione europea».

Nel 2007 il tasso di crescita della banda larga in Italia era del 3%, il livel­lo più basso d’Europa con l’eccezione del Lussemburgo. Poi è arrivato il nuo­vo governo e il viceministro alle Comu­nicazioni Paolo Romani, assessore del Comune di Monza, ha preparato un piano da 800 milioni in cinque anni. Entusiasta, ha dichiarato non più tardi del 25 settembre 2009: «Il governo ri­tiene di poter digitalizzare il Paese en­tro il 2012 e di farlo anche prima di al­tre nazioni». Quando però gli 800 mi­lioni sono stati messi sul binario mor­to (servono forse per altre cose, come tappare il buco degli stipendi per i fo­restali calabresi?) non ha fatto una pie­ga: «Il blocco dei fondi da parte del Ci­pe è un falso problema. Il piano è parti­to e va avanti». Campa cavallo. La Fin­landia annuncia che fra qualche anno garantirà a tutti i cittadini la connes­sione a 100 mega e noi siamo sempre alle prese con le stesse sardine. Con tutto il rispetto per le sardine.

Sergio Rizzo

09 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #46 inserito:: Novembre 20, 2009, 11:48:58 am »

Il Senato moltiplica le poltrone: più segretari che alla Camera


Scritto da: Sergio Rizzo alle 11:43


E l’Italia dei Valori? Perché l’Italia dei Valori deve stare a bocca asciutta, se financo la Sudtiroler Volkspartei ha il suo senatore segretario d’aula?

L’interrogativo tormentava i dipietristi da molti mesi, da quando, in occasione della votazione per eleggere i segretari d’aula di palazzo Madama a inizio legislatura, gliel’avevano fatta sotto il naso. E ieri, finalmente, il tormento ha avuto fine. Come digestivo è stata servita ieri dopo pranzo al Senato una modifica del regolamento interno per ripescare un esponente del partito di Antonio di Pietro che era stato beffato sul filo di lana dall’autonomista Helga Thaler Ausserhofer.

In che modo?

Siccome il regolamento dice che risultano eletti segretari d’aula i dieci senatori ai quali sono andati più voti, e il dipietrista era scivolato all’undicesimo posto, è stato sufficiente sostituire la parola «dieci» con «dodici». Anche perché in questo modo è stato recuperato un altro posto per la maggioranza.

In quattro e quattr’otto la votazione si è conclusa, con soli 12 contrari e 15 astenuti. Tutti i partiti d’accordo, se si eccettua la sparuta pattuglia radicale e qualche esponente democratico. Invano il senatore ex margheritino Riccardo Villari ha suggerito lo stesso metodo seguito per farlo fuori dalla presidenza della commissione parlamentare di vigilanza Rai: votare prima la decadenza degli attuali dieci commissari e quindi rivotare i nuovi dieci. Invano è stato proposto di mettere nero su bianco, semmai, che l’aumento dei segretari non avrebbe dovuto comportare oneri aggiuntivi. Già, perché due segretari d’aula in più sono anche spese in più.

I senatori che hanno questo incarico sono tenuti a «sovrintendere alla redazione del processo verbale delle sedute pubbliche» oltre a «redigere quello delle sedute segrete».
Poi fanno l’appello, leggono i verbali del giorno prima, accertano i risultati delle votazioni e vigilano che nessuno faccia il furbo con i pulsanti. Per queste incombenze hanno diritto a un ufficio, un budget di segreteria che gli consente di ingaggiare fino a tre collaboratori esterni ciascuno, all’uso dell’auto blu, al telefonino di servizio e a una indennità aggiuntiva a quella dei normali senatori, parametrata allo stipendio dei sottosegretari. Con la modifica approvata ieri, il loro numero è ora doppio rispetto a quello dei gruppi parlamentari di palazo Madama, che sono sei. Ma è anche superiore a quello dei segretari d’aula della Camera: undici in tutto. Ma per 630 deputati, invece di 321 senatori (compresi quelli a vita).


Pubblicato il 19.11.09 11:43
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« Risposta #47 inserito:: Dicembre 09, 2009, 04:32:06 pm »

Centrali -

Per il deposito delle scorie si sta studiando l’ipotesi di una località al Sud

Prima centrale nucleare al Nord Il dossier porta alla Regione Veneto

L'ipotesi di realizzare un sito nell’area del Polesine, vicino a Chioggia


ROMA — «Se potessi scegliere dove mette­re una centrale nucleare me la metterei nel giardino di casa». Parola di Claudio Scajola. Peccato che la casa del ministro dello Svilup­po economico si trovi in Liguria, regione che non avrebbe neanche un centimetro quadrato idoneo a ospitare un impianto atomico. Figu­riamoci un giardino. Per giunta la Liguria, go­vernata dal centrosinistra, è una delle dieci Re­gioni che hanno fatto ricorso alla Consulta contro la legge 99 con la quale il governo ha riaperto la strada al nucleare. Una iniziativa che, visti i precedenti, può rappresentare un ostacolo serissimo a tutta l'operazione.

Intanto il tempo passa. Ed è sempre più vici­na la scadenza del 15 febbraio, data entro cui dovrebbero essere pronti i quattro provvedi­menti del governo necessari per poter costrui­re le nuove centrali. Serve una delibera del Ci­pe che dirà quali tecnologie si potranno impie­gare, e probabilmente saranno ammesse tan­to la francese (Epr) che l'americana (Ap 1000). Serve un decreto che dica dove si farà il depo­sito delle scorie, ed è un problema mica da ri­dere. Serve un decreto per decidere le compen­sazioni economiche per gli enti locali che acco­glieranno gli impianti. Serve, soprattutto, il de­creto sulle localizzazioni: un provvedimento che stabilirà non dove si possono fare, ma do­ve «non» si possono fare le centrali. Sulla base di questa mappa «al negativo», l'Enel e chi al­tro vorrà realizzare un impianto avanzerà pro­poste all’Agenzia per la sicurezza nucleare. Che dovrà dire sì o no.

Soltanto a quel punto si potrà avere l’elen­co dei siti. Da mesi circolano tuttavia presunte liste nelle quali figurano i luoghi dove erano già presenti i vecchi impianti. Oppure dove era stata avviata la costruzione di centrali quando, nel 1987, il referendum antinucleare bloccò tutto. Il quotidiano Mf ha rilanciato ie­ri i nomi di Trino vercellese, Caorso, Montalto di Castro, Latina e Garigliano: quelli di 22 anni fa. E sempre ieri il presidente dei Verdi Angelo Bonelli ha rivelato la dislocazione dei siti a sua conoscenza. Quali sarebbero? Gli stessi, più Oristano, Palma (in Sicilia, Agrigento) e Mon­falcone. Località considerate idonee da trent’anni. Risale infatti al 1979 la mappa ela­borata dal Cnen sulla base di alcuni parametri come il rischio sismico, la presenza dell’ac­qua, il tasso di urbanizzazione, l’esistenza di infrastrutture. Parametri che da allora posso­no essere anche molto cambiati. La portata idrica del Po, per esempio, non è più quella del 1979. Molte aree poco urbanizzate sono og­gi iperabitate. E anche la carta del rischio si­smico, con il progresso delle tecniche d’indagi­ne, potrebbe riservare tante sorprese.

Senza considerare che la scelta dei siti «ido­nei » non spetta formalmente all’Enel, che può soltanto proporli, ma all’Agenzia per la sicu­rezza nucleare che ancora dev’essere costitui­ta. Non che qualche idea non ci sia già. Per esempio, un orientamento «politico» di fondo del governo: realizzare al Nord la prima delle quattro centrali previste dal piano. Dove, è dif­ficile dire. Com’è comprensibile, nessuno par­la: adducendo come motivazione la circostan­za che la mappa del 1979 è in fase di aggiorna­mento. Ma si sa, per esempio, che l’area non dovrebbe coincidere con quelle che hanno già ospitato un vecchio impianto atomico e que­sto porterebbe a escludere Caorso e Trino. Se il sito in questione dev’essere poi in prossimi­tà del mare, a causa delle sofferenze del Po, allora la ricerca si restringe. C’è la Toscana set­tentrionale con l’area di Cecina, città natale del ministro nuclearista Altero Matteoli, ma la regione è governata dal centrosinistra e ha già fatto ricorso contro la legge Scajola: la batta­glia sarebbe durissima. Nella mappa dei siti possibili figura anche l’isola di Pianosa, ma ol­tre ai problemi di cui sopra ci sarebbe la con­troindicazione del costo esagerato. Minori dif­ficoltà esisterebbero per la costa adriatica, in particolare quella Friuli Venezia Giulia e il del­ta del Po. Ma se la zona di Monfalcone è abba­stanza congestionata, il Polesine, area a una trentina di chilometri da Chioggia, lo è molto meno. Va ricordato che a favore della localizza­zione di una centrale atomica in Veneto si era già espresso il governatore Giancarlo Galan (uno dei pochi a non aver fatto ricorso alla Consulta) con riferimento alla conversione a carbone di Porto Tolle. Ovviamente contesta­to dagli ambientalisti.

Per ora, comunque, restiamo agli indizi. L’Agenzia, che ha potere decisionale, non è an­cora nata. Da settimane si attende la nomina dei suoi vertici: per la presidenza sarebbe ora in pole position il settantenne Maurizio Cu­mo, ex presidente della Sogin. Irrisolta resta anche la questione dei finanziamenti. L’Agen­zia dovrebbe avere un centinaio di dipendenti ma non una lira in più delle risorse già esisten­ti. Un emendamento alla finanziaria che le de­stinava 3 milioni di euro è stato bocciato in extremis dal Tesoro. E non si sa nemmeno do­ve avrà sede. Il ligu­re Scajola preme per Genova, mentre il suo collega venezia­no Renato Brunetta, che deve dare il pro­prio parere, punte­rebbe Slitta a dopo il voto la scadenza del 15 febbraio per i siti su Venezia.

Per non parlare degli altri problemi politici. Il primo di tutti: le prossime elezioni regionali. Una scadenza troppo importante per non far scivolare a una data successiva la presentazione dei decreti del governo, prevista entro il 15 febbraio. Alla luce di quello che sta accadendo, spiegano al ministero, quel termine dev’essere considera­to soltanto «ordinatorio». Se ne parlerà maga­ri in aprile, se non a maggio. E ci sarà anche più tempo per risolvere il problema delle sco­rie. Se la prima centrale dovrebbe essere fatta al Nord, sembra garantito che il deposito delle scorie sarà al Sud. A quanto pare non più nel sottosuolo, ma in superficie. Contando su una reazione più blanda delle popolazioni coinvol­te. Già. Ricordate Scanzano Jonico?

Sergio Rizzo

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« Risposta #48 inserito:: Gennaio 07, 2010, 11:52:17 pm »

La lettera

Un gesto necessario

I costi dei giornali e una proposta sui sussidi


Caro direttore, siamo convinti che sarebbe stato meglio aspettare prima di alzare il prezzo del giornale. Sappiamo che la situazione di tutta la stampa italiana è difficile.
Sappiamo che i conti economici delle aziende editoriali soffrono per il calo della pubblicità: un po’ per la crisi economica, un po’ per colpa di un sistema scientificamente costruito per dirottare le risorse verso la televisione. Però…

Nel 2008, se abbiamo capito bene, i ricavi della Rcs quotidiani sono calati da 716 a 666 milioni di euro e il fatturato pubblicitario si è ridotto da 288 a 265 milioni: il tutto continuando a fornire con Corriere.it una informazione totalmente gratuita a un milione e mezzo di lettori on line. Nel 2009, poi, la situazione sarebbe ulteriormente peggiorata.
Concordiamo: sono dati che non possono non preoccupare, nonostante i buoni segnali, a dispetto dei tempi non propizi, di aumenti delle vendite del Corriere. Dati che hanno costretto anche la redazione, con il buonsenso e lo spirito di sacrificio sempre dimostrati già in passato, a farsi carico di tagli dolorosi alle retribuzioni e ai posti di lavoro.

Sappiamo anche che molti concorrenti hanno aumentato il prezzo a un euro e venti ben prima che lo facessimo noi: la Stampa, il Giornale, Libero... Altri ancora. E sappiamo che negli ultimi mesi in tutta Europa il prezzo dei giornali è aumentato, qua e là, anche di 50 centesimi. Né ignoriamo che il prezzo del Corriere era fermo da cinque anni, e che un euro del 2010, per quanto nel 2009 sia stata registrata l’inflazione più bassa da cinquant’anni a questa parte, non ha lo stesso valore di un euro del 2005.

Ma 20 centesimi in più sono pur sempre un aumento del 20%. Non è poco. Si dirà che in realtà il ritocco è di poco superiore al 12%, tenuto conto del fatto che il giovedì e il sabato con i supplementi il prezzo resta invariato. Ma neanche il 12% è poco. Non è poco alla luce della situazione, molto pesante, di tante famiglie italiane. Ma anche alla luce di un dovere preciso che ha sempre avuto un quotidiano indipendente come il Corriere: offrire al suo lettore il meglio, nello spirito della concorrenza e del libero mercato. Di cui il prezzo è una componente non trascurabile.

E veniamo al punto. Ricordiamo quanto disse il presidente di Rcs, Piergaetano Marchetti, all’assemblea degli azionisti del 28 aprile 2008, quando già la crisi economica mordeva: «Non vogliamo essere un’azienda che vive di sussidi perché non solo questo mette in dubbio la capacità di reddito che una società per azioni deve perseguire ma mette a rischio l’indipendenza », anche perché «non possiamo diventare parte di una casta assistita e parassitaria. È una condizione di coerenza».

Giustissimo. Siamo costretti ad aumentare del 20% il prezzo del Corriere appellandoci al mercato e alla comprensione dei lettori? Bene, è l’occasione giusta per rinunciare parallelamente una buona volta al 4,4 per mille dei nostri ricavi: gli ultimi residui dei contributi e delle agevolazioni pubbliche. Certo, i contributi veri alla stampa indipendente sono finiti già nel 2006, con l’esaurimento delle agevolazioni per la carta, e sopravvivono solo sussidi che riguardano le tariffe telefoniche e facilitazioni del tutto secondarie. Come i sussidi per le vendite all’estero, vendite perseguite nonostante sia un gioco a perdere in nome della necessità di consentire a tanti italiani che vivono o viaggiano in Paesi extraeuropei di mantenere un legame con l’Italia.

Ci sono le agevolazioni postali, è vero. Ma meritano un discorso a parte, perché sono un’anomalia nell’anomalia: lo Stato le riconosce infatti, con pelosa e ipocrita generosità, perché vuole tenersi stretto, per motivi squisitamente politici e clientelari, il «monopolio» delle Poste. Vogliamo scommettere che in un regime di concorrenza vera i giornali, senza più alcun «favore», ci guadagnerebbero sia sul piano economico sia nella puntualità delle consegne? All’estero funziona così. Lo Stato abolisca il «monopolio», abolisca le tariffe agevolate e vedremo se i giornali più sani non ci guadagneranno. Noi, ne siamo certi, stapperemmo una bottiglia.

Bene, al netto di quella voce postale ci risulta che Rcs quotidiani abbia ricevuto dallo Stato nel 2008 contributi e agevolazioni per 2,9 milioni, che scenderebbero quest’anno a 2,4 milioni. Stiamo parlando del 4,4 per mille (per mille!) del fatturato della Rcs Quotidiani, ovvero l’uno per mille (per mille!) dell’intero fatturato della Rcs Mediagroup. Niente a che vedere con i sussidi destinati a giornali concorrenti che accedono a contributi di vario genere facendo lo slalom in mezzo a norme confuse e anacronistiche che partono dalla famigerata legge 250 del 1990, quella per la stampa di partito.

C’è chi, magari facendo prediche sugli sprechi, incassa dallo Stato sotto varie forme di aiuti (che il Corriere non si è mai sognato non solo di avere ma men che meno di invocare) il 10 per cento del fatturato, chi il 16,3 per cento, chi addirittura il 20 per cento. Chiudiamola lì almeno noi, con quello 0,4 per cento e non se ne parli più. E potremo finalmente spazzare via tutte quelle chiacchiere pretestuose di chi, in perfetta malafede, vorrebbe lasciare le cose così come stanno con quegli «aiutini» a doppio taglio proprio per potere starnazzare di fantomatici e faraonici «soldi dello Stato» dati a chi preferirebbe di gran lunga regole chiare, patti chiari, concorrenza chiara. E vinca il migliore. Insomma, direttore, restiamo dell’idea che sarebbe stato meglio aspettare ad aumentare il prezzo del Corriere. E siamo consapevoli che ormai, fatto il passo, è difficile fare retromarcia. Ma un segnale, ai nostri lettori, glielo dobbiamo. Che sia la volta buona?

Sergio Rizzo
Gian Antonio Stella

07 gennaio 2010
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« Risposta #49 inserito:: Gennaio 10, 2010, 10:39:23 am »

ANNUNCI E REALTA'

Calderoli, ministro della complicazione

Dopo il decreto taglia-leggi si è dovuto fare il decreto salva-leggi

 di Sergio Rizzo


ROMA - Dal Carroccio aveva giurato battaglia, Alberto Da Giussano-Calderoli, alla burocrazia del Barbarossa romano. Mulinando sopra la testa lo spadone da ministro della Semplificazione Normativa: «Taglierò 50 mila poltrone! 34 mila enti impropri! 39 mila leggi inutili!». Ma di poltrone, finora, manco una. Degli enti impropri, poi, non ne parliamo.

Sulle prime Roberto Calderoli li aveva definiti minacciosamente nel suo Codice delle Autonomie addirittura «enti dannosi»: consorzi di bonifica, bacini imbriferi, comunità montane, difensori civici, tribunali delle acque, enti parco… Poi, dopo aver cancellato con un tratto di penna quel termine «dannosi» (troppo crudo?) la lista degli enti da abolire è stata alleggerita fino a svanire completamente. Come neve al sole. Qualche taglietto era rimasto nella manovra del 2010? Via anche quello. Secondo Italia Oggi l’abolizione dei difensori civici (ma solo quelli comunali) e delle circoscrizioni nei Comuni slitterà di un anno grazie a un emendamento al decreto milleproroghe, varato dal governo tre giorni dopo la Finanziaria. E slitterà anche la prevista riduzione delle poltrone delle giunte e dei consigli degli enti locali. Mentre anche gli enti pubblici non economici che dovevano finire sotto la mannaia del cosiddetto taglia-enti hanno ottenuto una scappatoia per la sopravvivenza: gli è stato sufficiente presentare un piano riordino prima del 31 ottobre 2009. E la semplificazione delle leggi? Almeno quella è andata in porto, come ha orgogliosamente rivendicato il Nostro («Calderoli, missione compiuta, via 39 mila leggi», titolava l’Ansa il 19 ottobre 2009)? Dipende che cosa si intende per semplificazione. Eliminare migliaia di leggi inutili perché «esauste», che cioè hanno esaurito la propria funzione e quindi non sono più concretamente vigenti, anche se formalmente continuano a essere in vigore, è un’operazione di per sé inutile. Anche la legge che le elimina può quindi essere considerata una legge inutile.

La prova? Siccome lo spadone del ministro era calato all’inizio anche su provvedimenti magari un po’ vecchiotti ma forse non proprio inutili, come la legge che ha abolito la pena di morte o quella che ha istituito la Corte dei conti, dopo il decreto taglia-leggi si è dovuto fare il decreto salva-leggi. Ben altro è semplificare. Significa scrivere norme chiare e comprensibili a tutti i cittadini. Come evidentemente sa bene anche Calderoli. Lui stesso ha voluto che in una legge approvata il 18 giugno dello scorso anno ci fosse un articolo intitolato: «Chiarezza dei testi normativi». Una norma draconiana, con la quale si stabilisce che quando si cambia o si sostituisce una legge, esercizio da noi piuttosto frequente, sia obbligatorio indicare «espressamente» che cosa viene cambiato o sostituito. E che quando in una legge c’è un «rinvio ad altre norme contenute in disposizioni legislative», si debba anche indicare «in forma integrale, o in forma sintetica e di chiara comprensione» il testo oppure «la materia alla quale le disposizioni fanno riferimento». Ma si afferma pure il principio che le disposizioni sulla chiarezza dei provvedimenti «non possono essere derogate, modificate o abrogate se non in modo esplicito». Ebbene, da quando queste norme sono state approvate, il governo del Semplificatore ha scritto leggi se possibile ancora più indecifrabili e complicate. L’ultima perla scintillante è il cosiddetto decreto milleproroghe.

Un comma a caso. Il numero 14 dell’articolo 1: «Al comma 14 dell’articolo 19 del decreto legislativo 17 settembre 2007, n. 164, le parole: "Fino all’entrata in vigore dei provvedimenti di cui all’articolo 18 bis del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e comunque non oltre il 31 dicembre 2009, la riserva di attività di cui all’articolo 18 del medesimo decreto" sono sostituite dalle seguenti: "Fino al 31 dicembre 2010, la riserva di attività di cui all’articolo 18 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58..."». Che cosa vuol dire? Che fino a quando non sarà operativo l’Albo dei consulenti finanziari gestito dalla Consob, potrà fare il consulente finanziario soltanto chi già lo faceva alla data del 31 ottobre 2007. Un’altra norma a caso. Sempre articolo 1, comma 19: «All’articolo 3, comma 112, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 e successive modificazioni, le parole: "Per l’anno 2008" sono sostituite dalle seguenti: "Per l’anno 2010" e le parole "31 dicembre 2009" sono sostituite dalle seguenti: "31 dicembre 2010"». La traduzione? Il distacco di 21 dipendenti delle Poste presso la pubblica amministrazione viene prorogato di un altro anno. Se questo è il risultato, ministro Calderoli, non sarebbe stato meglio chiamare il suo dicastero in un altro modo? Magari «Ministero della Complicazione normativa»?

10 gennaio 2010
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« Risposta #50 inserito:: Febbraio 02, 2010, 02:24:51 pm »

I regali elettorali delle regioni


Se è vero che tre coincidenze fanno una prova, come diceva il grande principe del foro Carnelutti, che cosa succede quando le coincidenze sono decine? La Regione Lazio fa un concorso per assumere 141 impiegati e 25 dirigenti, si presentano in 94 mila e dei 116 già dichiarati vincitori ben 37 sono casualmente collaboratori dei politici: una decina riferibili al centrodestra e i restanti al centrosinistra. In Campania con una mano si tagliano le consulenze e con l’altra si confermano per tre anni 46 dirigenti in scadenza. La Liguria, ha raccontato il Sole 24 ore, bandisce un contratto per regolarizzare i precari regionali. Nelle Marche si approva un piano per stabilizzare i dipendenti a termine, senza escludere gli staff di assessori e consiglieri. Ma si potrebbe continuare, con i generosi stanziamenti anticrisi (1,2 miliardi) della Lombardia, il taglio dell’addizionale Irpef deciso dal Veneto... È in vista delle elezioni che molti amministratori locali danno il meglio di sé.
Le sanatorie, per esempio, sono un classico. E non soltanto quando interessano i precari. Semplicemente memorabile quella approvata dalla Regione Campania nel 2000, che riguardava la bellezza di 25.368 alloggi pubblici occupati abusivamente. Era un venerdì. Il venerdì precedente la domenica delle elezioni regionali. Ma come si può pretendere che la classe dirigente regionale non cada in tentazione prima del voto, se l’esempio del livello istituzionale superiore è quel che è? Basta vedere cosa accade tutte le volte che si comincia a sentire odore di scioglimento delle Camere. Da scuola è il caso dell’abolizione del canone Rai per gli ultrasettantacinquenni non abbienti, previsto nella Finanziaria 2008 con uno stanziamento simbolico di 500 mila euro.
Un mese dopo quella decisione improvvisamente si materializzavano le elezioni. Altrettanto improvvisamente, nel decreto milleproroghe, quei 500 mila euro diventavano 26 milioni, mentre spariva l’ostacolo rappresentato dall’obbligo di un successivo decreto per mettere in moto concretamente lo sgravio. L’obiettivo evidente era quello di rendere immediata l’esenzione, moltiplicare il numero dei beneficiari e incassare più voti. Ma non è andata esattamente così. Dei voti, neanche l’ombra. E due anni dopo, nell’indifferenza generale, i poveri anziani pagano sempre il canone nonostante siano esentati per legge: la Rai dice di aspettare ancora un decreto che nessuno sa di dover fare. Tutto questo a dimostrazione del fatto che talvolta scelte del genere possono essere perfino controproducenti. Anche se per chi le ha fatte non cambia niente.
Il conto tocca all’amministrazione che verrà dopo. Se si vincono le elezioni, bene: altrimenti, poco male. I sei milioni e mezzo di spesa in più che l’attuale Consiglio regionale del Lazio lascia in eredità al prossimo (l’aumento è dell’8,1%, dieci volte l’inflazione del 2009), in qualche modo salteranno fuori. Come anche i denari necessari alle iniziative clientelari di altre Regioni. I cui promotori devono soltanto sperare che un bel giorno i contribuenti elettori non si accorgano che a rimetterci, in fondo, sono sempre soltanto loro. Ecco perché, se ancora c’è tempo, tutti quanti dovrebbero darsi una bella regolata.

Sergio Rizzo

02 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #51 inserito:: Febbraio 15, 2010, 10:59:32 pm »

I contenuti -

Anche il blocco agli interessi sui debiti insoluti nelle 97 pagine di articoli, poco amate nello stesso Pdl

Nel testo super poteri e 150 assunzioni

Oltre allo «scudo» giudiziario ai commissari, competenze speciali su carceri e Croce Rossa


ROMA — Ci avevano già provato, in Senato, a smontare il giocattolo. Del decreto non piaceva, soprattutto, Protezione civile Spa, nuova società pubblica alle dipendenze dirette del già potentissimo sottosegretario alla presidenza Guido Bertolaso. L’opposizione gridava allo scandalo della «privatizzazione». Ma soprattutto nella maggioranza c’era chi bofonchiava. Due mesi prima il Parlamento aveva già dato via libera, non senza mal di pancia, a Difesa servizi, una società per azioni controllata dal ministero di Ignazio La Russa, e ora gli mettevano sotto il naso una seconda nebbiosa operazione. Nebbiosi soprattutto i suoi confini. Una nuova Italstat in grado di rinverdire i fasti dell’epoca di Ettore Bernabei, come temevano i costruttori, o piuttosto un innocuo contenitore di attività proprie del Dipartimento? Nebbioso anche l’obiettivo: forse quello di aggiungere altro potere a quello già enorme del capo supremo della Protezione civile, che con la scusa dell’emergenza si estende dal terremoto dell’Aquila al G8, agli eventi sportivi, fino alle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia? A scanso di equivoci la Protezione Spa è stata bersagliata ben bene di emendamenti, a rendere concreta la diffidenza palesata anche dal ministero dell’Economia di Giulio Tremonti. In attesa del nuovo prevedibile bombardamento alla Camera: c’è chi spera definitivo.

Il clima di sospetto che l’inchiesta di Firenze sta addensando intorno agli appalti delle emergenze non aiuta. Ma se è vero che anche sondaggi riservati consiglierebbero prudenza, smantellare il provvedimento equivarrebbe a una clamorosa sconfessione di Bertolaso, intorno al quale la maggioranza avrebbe fatto muro seguendo il premier Silvio Berlusconi.

La gragnuola di emendamenti approvati al Senato ha trasformato il decreto originario nel solito guazzabuglio di articoli e commi che occupano qualcosa come 97 pagine di bollettino parlamentare. Con formulazioni spesso astruse e incomprensibili, che costringono chi ci vuole capire qualcosa a risalire la corrente impetuosa di leggi e decreti e «successive modificazioni »: alla faccia delle norme approvate (e sbandierate) da questo stesso governo, che imporrebbero la trasparenza e la leggibilità dei provvedimenti.

Dentro c’è posto per tutto. Perfino per una forma di «scudo» per mettere al ripario delle rogne il personale della Protezione civile. Fino al 31 gennaio 2011 «non possono essere intraprese azioni giudiziarie e arbitrali» nei confronti dei commissari e delle loro strutture, e anche «quelle pendenti sono sospese». Non basta, perché «i debiti insoluti non producono interessi, né sono soggetti a rivalutazione monetaria». E assunzioni: altre 150. E promozioni: anche al ministero dei Beni culturali, che potrà nominare dirigenti di prima fascia chi svolge da almeno cinque anni incarichi dirigenziali. E l’aumento dei componenti del governo: da 63 a 65. E nuovi poteri. Un esempio? La vigilanza sulla Croce Rossa italiana. Il cui commissario straordinario Francesco Rocca, ex stretto collaboratore del sindaco di Roma Gianni Alemanno che gli aveva affidato un importante incarico al Campidoglio, si è visto anche prorogare di due anni l’incarico proprio con questo decreto. Un altro esempio? Competenze speciali per la costruzione delle nuove carceri. Così speciali che il commissario straordinario per l’emergenza della sovrappopolazione carceraria può fare praticamente tutto: localizzare, espropriare, occupare. Così speciali che contro le sue decisioni si può ricorrere soltanto al giudice ordinario oppure, in casi davvero estremi, al presidente della repubblica. Niente Tar, meno che mai il Consiglio di Stato. Così speciali che la progettazione, la scelta delle ditte, la direzione dei lavori e la vigilanza saranno affidate a Protezione civile Spa. Guarda caso.

In un Paese dove ogni cosa è ormai commissariata (le grandi opere, le carceri, gli eventi sportivi, perfino la Croce Rossa) non potevano mancare commissari per la realizzazione delle reti di distribuzioni dell’energia e delle centrali elettriche: non escluse quelle nucleari. Sono previsti da un decreto legge della scorsa estate. Siccome però le procedure di nomina sono evidentemente un po’ complesse, ecco che qui gli si fa un bel regalino. Passando sopra a un comico controsenso: a quei commissari straordinari, una figura prevista dalla legge di riforma della presidenza del Consiglio datata 1988, quella legge non si applica. A questo punto manca la ciliegina sulla torta. Da dove si prendono i 355 milioni di euro necessari per tutto questo? Ma dal famoso Fas, il fondo per le aree sottoutilizzate, quello dei soldi per il Sud: che domande...

Sergio Rizzo

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« Risposta #52 inserito:: Febbraio 19, 2010, 04:23:14 pm »

18/02/2010

Draghi alla Bce e il Gesto di Tremonti

Scritto da: Sergio Rizzo


I rapporti fra Giulio Tremonti e Mario Draghi non sono mai stati particolarmente distesi. Anche per questo motivo, la dichiarazione del ministro dell' Economia, il quale ieri a Bruxelles ha assicurato che l' Italia «ha e avrà un ottimo candidato» per la Banca centrale europea è un bel segnale. Conosciamo la serietà con cui Tremonti ha sempre affrontato le questioni internazionali e la considerazione che gli viene riservata nelle cancellerie europee. E non dubitiamo che quando sarà il momento farà valere tutto il suo peso in una decisione tanto importante. Se una qualità va riconosciuta al ministro dell' Economia è quella di non essersi mai fatto condizionare, nelle scelte degli uomini, da simpatia personale o tessere politiche. Draghi non era il suo candidato alla Banca d' Italia: se alla fine del 2005 avesse potuto scegliere lui, a via Nazionale sarebbe andato Vittorio Grilli. Con l' attuale governatore, poi, ha avuto spesso visioni diverse delle cose. Per non dire opposte. Ancora ieri, all' «ottimo candidato» che sabato scorso all' assemblea dei cambisti del Forex aveva sottolineato come l' Italia stesse uscendo dalla crisi con una crescita economica «ai minimi europei», ha risposto per le rime. Ma Tremonti sa pure che se per la presidenza della Banca centrale europea può spuntarla un italiano, questa è un' occasione che il Paese non può farsi sfuggire. Con l' allargamento dell' Unione europea i posti a disposizione si sono drasticamente ridotti. E la logica della spartizione, a cui partecipano ora anche i piccoli Paesi, finisce per penalizzare soprattutto chi, come l' Italia, si è sempre storicamente disinteressata di avere un potere reale a Bruxelles, preferendo le poltrone italiane. Nel 1972 Franco Maria Malfatti lasciò improvvisamente la presidenza della Commissione delle Comunità economiche europee per partecipare alle elezioni politiche in Italia. E due anni fa Franco Frattini si è dimesso da commissario europeo alla Giustizia e vicepresidente dell' Ue per prendere le redini della Farnesina. Da allora abbiamo già incassato almeno due sconfitte: le mancate nomine di Mario Mauro alla presidenza del parlamento di Strasburgo e di Massimo D' Alema al posto di Mister Pesc, l' alto rappresentante per la politica estera dell' Unione europea. Ora c' è modo di rimediare. A patto di agire, una volta tanto, perseguendo un obiettivo che purtroppo in Italia molti politici perdono spesso di vista: si chiama interesse nazionale.

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« Risposta #53 inserito:: Febbraio 24, 2010, 05:34:29 pm »

CAPITALI ALL’ESTERO, REGOLE E CONTROLLI

La malapianta del denaro

Politica, affari e ambienti fangosi: vanno ripristinate linee di confine morali diventate ormai impercettibili


Le accuse dovranno naturalmente essere provate. Ma nella vicenda che ha portato i magistrati a chiedere 56 arresti disorientano
l’incredibile ramificazione degli attori e le dimensioni del presunto riciclaggio, con ingranaggi ben innestati nella criminalità organizzata e perfino nella politica. Una fotografia, va detto, scattata qualche anno fa, quando le più recenti disposizioni contro il denaro sporco non erano ancora state approvate. L’impressione è comunque quella di un mondo nel quale i capitali mafiosi, come quelli dei trafficanti di droga o d’armi, possono penetrare in ogni fessura, come l’acqua.

Al punto che viene da domandarsi se un Paese come l’Italia, dove le cosche arrivano a controllare intere fette di territorio, e l’economia irregolare o illegale è un terzo del reddito nazionale, faccia davvero tutto quello che dovrebbe fare. Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha dichiarato guerra ai paradisi fiscali introducendo l’inversione dell’onere della prova: ora è chi esporta i capitali a doverne dimostrare la provenienza lecita. Sacrosanto. Nelle intenzioni dichiarate del governo anche lo scudo fiscale si inseriva in questa logica. Mario Draghi, però, non aveva nascosto le sue preoccupazioni chiedendo al Tesoro di chiarire gli obblighi antiriciclaggio imposti alle banche per il rientro dei capitali. Chiarimento arrivato nei giorni scorsi, mentre il governatore definiva il numero delle segnalazioni (50) arrivate finora dagli intermediari «esiguo». È l’aggettivo giusto? Le operazioni di rimpatrio sarebbero state circa 100 mila, mentre le segnalazioni antiriciclaggio arrivate nel 2008 alla Banca d’Italia sono state 14.602: su oltre 100 milioni di operazioni bancarie.

Nelle regole c’è sempre qualcosa da rivedere. Draghi chiede un testo unico e più sanzioni. L’ex procuratore antimafia Pier Luigi Vigna auspica addirittura una legge che conceda sconti ai pentiti. Ma che ne sarà delle 50 segnalazioni, e che ne è stato delle altre 14 mila? Ci saranno indagini accurate e sanzioni esemplari? Qualcuno pagherà, questa volta con il carcere vero? O finirà ogni cosa, come spesso accade, a tarallucci e vino? Perché la domanda cruciale è la seguente: vogliamo davvero vincere questa guerra? Se la risposta è sì, e non può che essere quella, allora ci si deve rimboccare le maniche. È ora di dare segnali chiari e decisi. Oltre a rendere più stringenti le regole, di sicuro bisogna ottenere che in Europa tutti i Paesi si impegnino a tappare i buchi, anche i più piccoli, che ancora esistono nell’Unione: dove i capitali possono andare dappertutto, imitando l’acqua, mentre le banche di un Paese come l’Austria pubblicizzano sui loro depliant la garanzia costituzionale del segreto bancario. Non solo. È necessario anche intervenire senza pietà sui legami poco chiari fra una certa politica, un certo mondo degli affari e gli ambienti fangosi che li circondano. Vanno ripristinate linee di confine morali diventate ormai impercettibili. Perché i fatti delle ultime settimane ci raccontano un’Italia dove si sta tornando pericolosamente a respirare il clima degli anni bui. Un’Italia nella quale, diciamo la verità, le persone perbene hanno sempre più difficoltà a riconoscersi.

Sergio Rizzo

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« Risposta #54 inserito:: Marzo 03, 2010, 11:31:09 am »

ETICA PUBBLICA E NUOVE REGOLE

Una promessa da mantenere

Ieri ci hanno promesso che la corruzione verrà colpita senza esitazione e che i parlamentari condannati non potranno essere candidati. Una promessa è una promessa e anche se i nostri politici non sono famosi per mantenerle, stavolta vogliamo crederci. Nel comunicato stampa di palazzo Chigi c’è una frase chiara: le iniziative contenute nel disegno di legge contro la corruzione «rispondono alla domanda di trasparenza e controllo proveniente dai cittadini». Pare di capire che senza gli scandali a ripetizione di queste settimane che hanno indignato l’opinione pubblica e riesumato il fantasma di Tangentopoli non si sarebbe fatto nulla. La credibilità del sistema politico non è mai stata così bassa dalla fine della cosiddetta prima repubblica. E l’unica cosa che può forse evitarle di precipitare definitivamente sotto i piedi è una legge che mostri in modo inequivocabile la volontà di rialzare il livello morale. Per questo la promessa merita attenzione. Ma l’istinto di sopravvivenza dei politici riuscirà a fare il miracolo? Purtroppo la strada è ancora molto lunga. Come è lunga quella dei disegni di legge che al pari di questo devono superare nell’identico testo l’esame della Camera e del Senato. Dove i parlamentari nei guai con la giustizia non mancano, e questo non è un presupposto ideale per immaginare un percorso in discesa. Ma soprattutto dove è passato il concetto che si possano pacificamente aggirare tutte le regole di ineleggibilità e incompatibilità semplicemente interpretando le leggi. E questo è un problema forse ancora più difficile da risolvere.

Roberto Calderoli avrà dunque il suo da fare per convincere molti colleghi a votare l’emendamento che equipara le regole per le candidature a Camera e Senato a quelle previste per gli amministratori locali. Qualcuno, è vero, avrebbe voluto misure ancora più drastiche. Come l’ineleggibilità perpetua per i corrotti. «Era troppo», ha ammesso il ministro della Semplificazione. Si tratta comunque di paletti molto più rigidi rispetto a quelli (praticamente inesistenti) che finora devono superare gli onorevoli, visto che vietano l’elezione ai condannati in via definitiva per una serie di gravi reati, quali sono quelli contro la pubblica amministrazione. Ma che nemmeno ora, proprio mentre la politica italiana è alle prese con uno dei passaggi più difficili dalle inchieste di Mani pulite, hanno potuto evitare il solito brutto spettacolo. Basta dare un’occhiata alle liste per le elezioni regionali chiuse poche ore prima che il Consiglio dei ministri approvasse il disegno di legge. Dalla Campania, dove la capolista del Pdl Mara Carfagna, ministro delle Pari opportunità, si è battuta con impegno («applicheremo il codice etico in maniera diffusa»), arriva purtroppo una lezione assai istruttiva. Lì si è presentato, questa volta con il centrodestra, un consigliere regionale ex centrosinistra condannato in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa già sospeso dall’incarico a maggio per decreto della presidenza del Consiglio. La sua candidatura è stata addirittura sconfessata dal possibile futuro governatore del suo schieramento, Stefano Caldoro, che ha pubblicamente dichiarato: «Non voglio i suoi voti».

Ma Roberto Conte ha avuto ugualmente il posto in lista. E il vicepresidente del Consiglio regionale Salvatore Ronghi, dell’Mpa, per protesta non si è candidato. Sempre in Campania sono stati poi riproposti in lista due esponenti del centrodestra e uno del centrosinistra «avvisati» con l’ipotesi che abbiano riscosso indebiti rimborsi chilometrici dal Consiglio regionale. Per non parlare della polemica innescata dalla presidente del Consiglio, Sandra Lonardo, moglie di Clemente Mastella. Destinataria di un «divieto di dimora» nell’ambito di un’inchiesta per cui è indagata, si è comunque ripresentata capolista dell’Udeur a Napoli e Benevento. Farà la campagna elettorale da Roma, e siccome non gli va giù se l’è presa con il candidato governatore della sinistra Vincenzo De Luca: «Lui può fare la sua campagna elettorale come se nulla fosse, nonostante abbia due procedimenti giudiziari in corso e io invece sono costretta all’esilio dalla mia terra». Che spettacolo! D’accordo che in base alle regole attuali l’ineleggibilità alla Regione scatta solo in caso di condanna definitiva. Ma la domanda finale resta: tutti segnali coerenti con le promesse?

Sergio Rizzo

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« Risposta #55 inserito:: Marzo 08, 2010, 07:06:00 pm »

L’architetto Boeri - Dal progetto allo scandalo: «Ho dedicato un anno di lavoro e sono in perdita. I tecnici dell’Unità di missione vivevano nel lusso»

«Era lui alla Maddalena che controllava ogni cosa I costi lievitati del 57%»


ROMA—Per chi ha progettato la parte centrale delle opere del G8 alla Maddalena, all’origine di un’indagine giudiziaria che da settimane sta facendo tremare il Palazzo, non dev’essere facile fare i conti con quello che è successo. Stefano Boeri ha comunque deciso che era arrivato il momento. E sul blog di Abitare, la rivista che dirige da quattro anni (www.abitare. it), potete trovare una sua ricostruzione dei fatti.

Architetto Boeri, si è pentito?
«Per aver dedicato un anno di intenso lavoro, con i miei 50 collaboratori, al recupero dell’Arsenale de La Maddalena lavorando in maniera intensa e onesta, assolutamente no. Per il fatto di essere stato involontariamente partecipe di una vicenda che oggi evidenzia lati indecenti e illegalità ingiustificabili non posso che rispondere: sì. Mi crederà se le dico che lo spirito di partenza era del tutto diverso?».

Per i lettori non sarà facile, visto com’è andata.
«L’idea iniziale, lanciata da Renato Soru, era quella di utilizzare un grande evento ormai inutile, come il G8 alla Maddalena, per recuperare un pezzo di territorio inquinato, bonificarlo e innescare un nuovo meccanismo di sviluppo per il nord Sardegna. Ci ho creduto, eccome. Quella era la vera sfida ed è stata vinta. Ma a che prezzo?».

Forse però non era impossibile sentire puzza di bruciato. Eravate i progettisti ma lavoravate senza avere più il controllo del progetto. Non è così?
«Eravamo di fatto esclusi dalle decisioni e dalle valutazioni economiche di cantiere. Se avessimo avuto anche soltanto una prova di quanto oggi è riportato dai giornali, ce ne saremmo subito andati via. Tenga presente che in Italia non esiste una legge che tuteli gli architetti, che gli consenta come in Francia di avere fino in fondo la responsabilità dell’opera. Perché allora ho accettato?».

Mi ha tolto la domanda dalla bocca.
«Oltre che per il desiderio di aiutare a realizzare un’architettura di alto valore civile, avevo le garanzie dei massimi livelli istituzionali: oltre al presidente della Regione Sardegna, il capo della Protezione civile e sottosegretario Guido Bertolaso, e Angelo Balducci, già Presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. Ci mancherebbe pure che si dovesse dubitare di una simile committenza».

Si è spiegato come hanno fatto i costi delle opere a passare da 200 a 327 milioni?
«Per quel che ne so buona parte di questo aumento è dovuto alle maggiorazioni già previste nell’appalto. Parliamo del 57% di aumenti dei compensi già previsti, per le difficoltà dovute all’urgenza ».

Che difficoltà?
«Il fatto che si lavorava su un’isola, i turni continui, il rispetto del cronoprogramma... ».

Scusi, ma le imprese non lo sapevano in partenza?
«Esatto. È un meccanismo assolutamente senza senso. Le maggiorazioni sono giustificabili per le vere (calamità) emergenze, che com’è noto sono cosa ben diversa dalle urgenze. In una situazione come quella del G8, hanno invece determinato margini ingiustificati di guadagno. Che premiavano solo le imprese, non i fornitori e tantomeno i progettisti...».

Voi quanto avete intascato?
«Abbiamo lavorato in cinquanta per meno di 100 mila euro al mese, e oggi avendo pagato tutte le spese e aspettando ancora il saldo finale, sono in rosso. Per me rischia di essere una piccola catastrofe economica. Forse a differenza di altri».

Altri chi?
«A quanto ne so gli stipendi dell’Unità tecnica di missione, la struttura di Angelo Balducci che aveva in mano tutto, erano alti, assolutamente incommensurabili rispetto ai nostri».

Lei racconta che i tecnici dell’Unità di missione abitavano in ville affittate sulla costa e circolavano con le Bmw o le Audi, mentre gli architetti si dividevano appartamenti in paese.
«Erano stili di vita molto diversi, due modi diversi di partecipare a quello che avrebbe dovuto essere una sfida comune ».

Sicuro che fosse proprio «una sfida comune»? Dice queste cose come se si sentisse tradito.
«Sì, ma in un senso più generale. Nei giorni dopo lo spostamento del G8 a l’Aquila, visitando nell’ex Arsenale di La Maddalena un cantiere finito in tempi miracolosi e pensando ai soldi pubblici spesi per realizzare le opere, mi sono chiesto quali fossero le ragioni vere di una scelta così assurda».

Sul blog c’è scritto «uno spreco ingiustificabile di risorse». Ho letto male?
«Alla Maddalena non c’era ostentazione di lusso che potesse offendere un Paese colpito dalla calamità del terremoto. E a l’Aquila c’era forse necessità di un piedistallo planetario che distraesse dalle tragedie della vita quotidiana? Ho cominciato in quei giorni a chiedermi se c’era una regia dietro una scelta che ha subito, troppo presto, convinto tutti».

Non crede che questa brutta storia una cosa l’abbia almeno chiarita? Cioè che i grandi eventi non possono essere gestiti in questo modo, tanto meno dalla Protezione civile?
«Sono d’accordo. Anche se va detto che a gestire l’operazione non è stata la Protezione civile».

Come?
«L’Unità di missione non è esattamente la stessa cosa. Non è la Protezione civile che interviene nei terremoti o nelle calamità naturali. Nel nostro caso era un gruppo di tecnici selezionati che faceva riferimento all’ingegner Balducci. Che aveva anche delle competenze e una consuetudine di rapporti, diversi dalla Protezione civile ».

Come, come?
«Solo la prima parte del progetto è stata elaborata assieme ai tecnici della Protezione Civile. Poi è subentrata l’Unità tecnica di missione, che è la stessa per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Loro erano sia stazione appaltante che coordinatori. La Protezione civile come la conosciamo noi non si è occupata del coordinamento dei cantieri del G8».

Sergio Rizzo

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« Risposta #56 inserito:: Marzo 17, 2010, 10:17:31 am »

Agcom, antitrust e la mano della politica

Quelle authority sotto tutela


Le intenzioni di partenza erano ottime. Le authority dovevano essere gli anticorpi della società moderna contro i soprusi dei monopoli, l’avidità degli speculatori e le intrusioni improprie della politica. Compiti da far tremare i polsi a chiunque, in un Paese con una lunga tradizione statalista dove il mercato ha sempre faticato ad affermarsi. Il requisito fondamentale per assolverli con efficacia era l’indipendenza. Una indipendenza non soltanto formale: nomine non influenzate dalla politica, autonomia finanziaria e possibilità di mostrare i muscoli.

Così doveva essere. Ma così non è stato esattamente. Le nostre authority hanno poteri limitati e spesso li esercitano timidamente. Anche perché le loro decisioni sono perennemente sotto il tiro dei ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato. Per giunta, sono state anche ingolfate di competenze insensate, totalmente prive di alcun potere sanzionatorio, come quelle sul conflitto d’interessi appioppate all’Antitrust e al Garante per le comunicazioni. L’autonomia finanziaria è quella che è, se si pensa che alla fine dello scorso anno era stato proposto un fondo unico (non a tutti gradito) con l’idea di risolvere il problema e alla fine si è resa necessaria una colletta fra le autorità per soccorrere qualcuna di esse in difficoltà economica. Per non parlare poi dell’influenza della politica. I meccanismi di nomina, tutti diversi l’uno dall’altro, offrono ai partiti spazi di penetrazione enorme. Dei 58 commissari che governano le dieci autorità considerate «indipendenti», ben 17 sono di emanazione diretta della politica: ex parlamentari o ex esponenti dei governi di vario colore. Quasi uno su tre. Di questi, ben cinque su otto componenti sono nel solo Garante per le comunicazioni: dove il presidente è indicato dal governo e gli otto componenti sono nominati per metà dalla maggioranza e per metà dall’opposizione.

Alla luce di ciò, ben si comprende perché non sia mai andata in porto la riforma, annunciata dal centrodestra e dal centrosinistra, che avrebbe dovuto rendere omogenei i criteri di nomina sottraendoli alle logiche spartitorie. E anche perché un’authority come quella dell’Energia, i cui componenti sono designati con un sistema bipartisan, cioè a maggioranza qualificata dalle commissioni parlamentari, sia monca di tre commissari su cinque da addirittura un quinquennio. Mentre negli ultimi due anni si sono registrati in Parlamento almeno quattro tentativi di limitarne i margini di manovra su suggerimento del governo.

La verità è che una riforma del genere nessuno la vuole. Meglio avere a che fare con autorità «formalmente» indipendenti ma che nella sostanza sono permeabili dalla politica. O che almeno la politica può trattare come una comoda foglia di fico da mettere o togliere a piacimento. Con risvolti talvolta assurdi. Un caso? L’Autorità delle comunicazioni può sanzionare i programmi Rai che non rispettano in campagna elettorale le parità di condizioni fra i vari partiti, non può mettere bocca sulle regole della par condicio se queste riguardano la tivù di Stato. Di quelle si occupa la commissione parlamentare di vigilanza. Con il risultato che i talk show «privati» sono di competenza dell’authority e quelli «pubblici» del Parlamento. Con tutta la buona volontà, ma che senso ha?

Sergio Rizzo

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« Risposta #57 inserito:: Aprile 27, 2010, 12:00:55 pm »

Il dossier

Governatori freddi, Agenzia in ritardo

La partenza nel 2013 obiettivo difficile

No da molti presidenti pdl e pd. Veti incrociati sui 46 nomi in lizza per l'organismo di vertice

ROMA — «Il nucleare nessuno lo vuole»: parola di Renata Polverini, neogovernatore del Lazio. «Non lo voglio io e non lo vuole Roberto Formigoni», ha precisato. Si potrebbe aggiungere che non lo vuole nemmeno il presidente del Veneto, Luca Zaia, secondo il quale la sua Regione «è autosufficiente». Autosufficiente, come presto sarà anche, dice Formigoni, la Lombardia. Mentre il governatore della Campania, Stefano Caldoro, sostiene che la sua Regione non è adatta a ospitare impianti atomici causa rischio sismico: identica motivazione addotta dal suo collega calabrese Giuseppe Scopelliti. Contrarissimi, e non poteva essere diversamente, sono poi i governatori del centrosinistra, dalla Liguria all'Emilia-Romagna.

Per quanto riguarda invece i presidenti della Puglia Nichi Vendola e della Sardegna Ugo Cappellacci, ci ha pensato Berlusconi in persona a cavargli le castagne dal fuoco. Ecco che cosa ha detto il premier in una intervista pubblicata dalla Gazzetta del Mezzogiorno il 24 marzo 2010, quattro giorni prima delle Regionali: «La Puglia non ha bisogno di una centrale nucleare perché è già energeticamente autosufficiente». E che cosa aveva dichiarato in un'altra intervista alla Nuova Sardegna, il 24 gennaio 2009, in vista delle elezioni sarde: «Siamo nell'ambito della totale disinformazione. Non è esistita mai e mai esisterà nessuna ipotesi di centrale nucleare in Sardegna». Evviva la sincerità. Forse basta questo per capire quanto sarà difficile rispettare la promessa di iniziare entro tre anni la costruzione del primo impianto italiano. Difficile, per non dire impossibile. Se nessuno, a parte il presidente del Piemonte Roberto Cota («Meglio una nuova centrale in Piemonte che una vecchia nella vicina Francia») vuole il nucleare a casa propria, e se addirittura lo stesso Silvio Berlusconi, dovunque va, si sente in dovere di rassicurare tutti che lì l'energia atomica non arriverà mai, la partenza è decisamente in salita. Il fatto è che le resistenze politiche più complicate da superare, paradossalmente, vengono dal suo stesso schieramento.

Nel centrosinistra, infatti, si prepara perfino a uscire allo scoperto un fronte più possibilista nei confronti dell'atomo, sull'esempio delle posizioni assunte dall'oncologo Umberto Veronesi, senatore democratico per il quale «attualmente il nucleare si presenta come una fonte di energia pulita, con rischi pressoché azzerati». Sarebbe in preparazione una lettera di alcuni parlamentari del centrosinistra indirizzata al segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, nella quale si chiederebbe ai vertici del partito un atteggiamento meno rigido rispetto a quello tenuto finora verso le proposte nucleariste. Se il primo scoglio è dunque politico, e si trova all'interno della stessa maggioranza di governo, non mancano neppure i problemi tecnici. Anche a prescindere dalle opposizioni dei sindaci e dei governatori, e dalla valanga di ricorsi giudiziari che erano stati già presentati ancora prima delle elezioni regionali, la scelta dei siti non si presenta proprio facilissima. Molte delle aree indicate come adatte nella mappa del 1979 sono state riempite di costruzioni. La situazione dei corsi d'acqua, la cui presenza è essenziale per quegli impianti, è in alcune circostanze assai diversa rispetto alla fotografia scattata trent'anni fa. Si è parlato di Montalto di Castro, nella Maremma laziale, da dove partì negli anni Settanta la contestazione al nucleare. Si è parlato del delta del Po, nei dintorni di Chioggia. Ma si è parlato anche della Sardegna. Secondo i nuclearisti più accaniti si potrebbe rimettere addirittura in funzione la centrale di Caorso. Ed è questa l'unica ipotesi che consentirebbe a Berlusconi di onorare la promessa di far ripartire il nucleare italiano entro tre anni.

Il fatto è che, secondo chi ha fatto i calcoli del tempo necessario per tutti gli adempimenti, tre anni sarebbero appena sufficienti per avere tutte le autorizzazioni. Se naturalmente ce ne fossero le premesse. Prima di Natale del 2009 il ministro dello Sviluppo Claudio Scajola si era sbilanciato: «Metteremo la prima pietra entro il 2013». Evidentemente però non aveva calcolato gli intoppi che già si manifestavano per la scelta dei siti, e non soltanto. La questione dell'Agenzia per la sicurezza nucleare, per esempio. Senza quell'organismo non si può fare nulla. L'Enel o le altre imprese interessate a fare le centrali non sono in grado di fare nemmeno un passo, perché tutto dipende dalle decisioni che saranno adottate dall'Agenzia. Che però ancora non esiste. Doveva essere operativa già da qualche mese. Perché non lo è ancora? Si può supporre che sia per i veti incrociati sui nomi che di volta in volta sono stati fatti per le tre poltrone da occupare. Se Veronesi ha declinato l'offerta di fare il presidente, nemmeno l'ipotesi che sembrava più prossima, quella di collocare al vertice della struttura il settantunenne ingegnere nucleare Maurizio Cumo, si è ancora concretizzata. Forse soltanto perché dev'essere ancora individuato il resto della squadra, composta in tutto da cinque persone. Il ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo avrebbe proposto per l'agenzia che dovrebbe vigilare sull'energia atomica un magistrato amministrativo (il suo capo di gabinetto Michele Corradino) e un avvocato (il capo della sua segreteria tecnica Luigi Pelaggi, consigliere dell'Acea). Ma sono soltanto due nomi, nel mare magno delle candidature. Pare che circoli una lista di 46 aspiranti. Proprio così: quarantasei. Se il buongiorno si vede dal mattino...

Sergio Rizzo

27 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #58 inserito:: Maggio 07, 2010, 12:03:57 am »

POCHE REGOLE, SCARSA TENSIONE MORALE

Alle radici della corruzione

POCHE REGOLE, SCARSA TENSIONE MORALE


Un tumore maligno annidato in un organismo senza anticorpi. Ecco come i vertici della Corte dei conti definivano la corruzione che infesta il nostro Paese non più tardi di qualche settimana fa, quando già infuriava lo scandalo per gli appalti del G8 della Maddalena. Si fa fatica a pensare che cosa potrebbero affermare ora, dopo le ultime clamorose scoperte. Va detto subito che sui fatti spetterà alla magistratura fare chiarezza. Ma lo scenario che lasciano intravedere gli squarci aperti in questi giorni, al di là delle responsabilità individuali, è agghiacciante: se si trattava di un sistema generalizzato, dove si potrà arrivare? Anzi, dove si è già arrivati? La stessa Corte dei conti ha stimato in 60 miliardi di euro la «tassa occulta» che gli italiani pagano ogni anno a causa della corruzione: una somma che basterebbe quasi a ripagare gli interessi del nostro enorme debito pubblico. Una stima magari esagerata, come qualcuno sostiene.

Resta il fatto che nel solo 2009 la Guardia di finanza ha accertato un aumento del 229% per i reati di corruzione e del 153% per quelli di concussione. E che nella classifica stilata da Transparency International sulla corruzione nel mondo l’Italia è scivolata in un solo anno dal cinquantacinquesimo al sessantatreesimo posto. A fianco dell’Arabia Saudita, e in fondo alle nazioni europee. Si dirà che queste classifiche lasciano il tempo che trovano, e forse è vero. Comunque, la dicono lunga sulla nostra reputazione internazionale in questa materia. Come non bastasse, le notizie che tristemente hanno affollato le cronache nell’ultimo anno ci informano che a diciott’anni dalla esplosione di Tangentopoli la corruzione italiana avrebbe raggiunto la maturità attraverso una inquietante «mutazione genetica ». Se una volta era soprattutto lo strumento per finanziare illecitamente i partiti, adesso serve esclusivamente all’arricchimento personale. Non che rubare per il partito anziché per il proprio portafoglio sia meno grave. Il reato è identico. Ma questa «mutazione genetica», soprattutto se saranno confermati i sospetti sulla dimensione dilagante del fenomeno, denuncia un crollo ulteriore della tensione morale e del profilo etico di parte della nostra classe politica. Che dovrebbe essere seriamente preoccupata, anche per le conseguenze a cascata che un simile andazzo può avere per un Paese già disorientato dalla crisi economica.

E invece reagisce facendo spallucce. Illuminante la dichiarazione di Denis Verdini, coordinatore del Pdl tirato in ballo per alcuni appalti in Sardegna, il quale a chi gli chiedeva se avesse intenzione di dimettersi imitando Claudio Scajola ha risposto: «Non ho questa mentalità». Come se l’etica pubblica foss e u n a q u e s t i o n e d i mentalità… Appena insediato, il governo ha abolito l’Autorità anticorruzione, che con le poche risorse e i magri poteri di cui disponeva non poteva fare molto. Ma il «Servizio anticorruzione e trasparenza » istituito al suo posto, alle dipendenza del ministro Brunetta, può finora rivendicare un bilancio migliore? Il primo marzo il consiglio dei ministri, sull’onda degli scandali del G8, ha approvato un disegno di legge per combattere la piaga. Poi gli scandali sono spariti dalle prime pagine e anche quella promessa sembrava finita nel dimenticatoio. Due mesi dopo sta finalmente per iniziare l’iter parlamentare: un’occasione imperdibile per mandare un segnale chiaro agli italiani. Invece si è rivelato subito un nuovo pretesto per litigare all’interno del Pdl. Se ne sentiva proprio il bisogno.

di SERGIO RIZZO
06 maggio 2010
http://www.corriere.it/editoriali/10_maggio_06/radici_corruzione_62563380-58cd-11df-ace4-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #59 inserito:: Maggio 30, 2010, 05:42:53 pm »

LA MANOVRA

Le «gabbie fiscali» nel redditometro

Calcoli diversi tra Nord e Sud

Studi di settore, verso lo stop per i professionisti.

Subito al fisco le fatture elettroniche oltre 3 mila euro

LA MANOVRA


ROMA — Prima il controllo della Ragioneria sulle spese di Palazzo Chigi: dove, tanto per dirne una, i voli blu hanno ripreso i ritmi allegri del passato. Poi l’abolizione delle Province più piccole (e ti pareva…). Quindi il taglio del finanziamento pubblico alla politica, trasformato in una spuntatina quasi indolore, tenuto conto delle risorse che i partiti ingoiano. E alla fine hanno salvato pure l’Istituto per il Commercio con l’estero, in predicato per essere inglobato nella Farnesina e nello Sviluppo economico. Sopravvivrà. In una manovra impostata per mettere finalmente a dieta la spesa pubblica e colpire qualche intollerabile rendita di posizione, che ha cominciato a perdere pezzi ancora prima di arrivare in Parlamento, il pacchetto fiscale però regge ancora.

Il nuovo fisco
Qualcuno potrebbe considerarlo un mezzo miracolo, in un Paese dove il 27% del Prodotto interno lordo sfugge regolarmente al Fisco e l’evasione veleggia paciosamente (e sfrontatamente) verso quota 100 miliardi l’anno. O forse più. E tale sarà, se uscirà indenne dalla battaglia parlamentare che già si prepara. Perché le misure della manovra fiscale, va detto, sono oggettivamente senza precedenti per una maggioranza che nel passato aveva sostenuto la politica scriteriata dei condoni e delle sanatorie. Certo, si è dovuto rispolverare il principio, anche se in forma più morbida (il tetto massimo per l’uso “legittimo” dei soldi liquidi è fissato a 5 mila euro), della tracciabilità dei pagamenti su cui aveva puntato il centrosinistra. E che il centrodestra aveva spazzato via bollandolo come una forma insensata di controllo poliziesco sul denaro, sottolineando come in caso contrario il limite per l’utilizzo del contante sarebbe sceso progressivamente fino a 100 euro. Ma la tanto contestata tracciabilità, unita ad altri due meccanismi come il nuovo redditometro e la fattura telematica potrebbe davvero rappresentare, se non altro sulla carta, un deterrente micidiale per l’evasione. Il redditometro, innanzitutto. I tecnici di Attilio Befera, il capo dell’Agenzia delle Entrate, ci stanno lavorando da settimane. Per arrivare a una soluzione completamente diversa dall’ormai desueto meccanismomesso a punto negli anni Ottanta. La grossa novità è che sarà impostato su un criterio territoriale. Diverso quindi da regione a regione, ma anche da provincia e provincia, come da città e periferia. Il redditometro dei milanesi sarà differente da quello dei romani o dei palermitani. Secondo l’idea che un avvocato o un dentista di Milano ha di sicuro maggiori possibilità economiche rispetto a quelle di un suo collega di Napoli o Reggio Calabria. Una specie di “gabbia salariale” fiscale per i ricchi e i benestanti che funzionerà sulla base di numerosi parametri. Non più soltanto la barca, la Porsche o il cavallo nel maneggio, ma pure le crociere di superlusso, le scuole private con rette astronomiche, i circoli sportivi da vip, le palestre alla moda…

Studi di settori e acquisti di lusso
La prospettiva che lascia intravedere il Fisco con l’applicazione di questo redditometro è clamorosa: l’abolizione degli studi di settore, almeno per le categorie dei professionisti. Anche perché, se il sistema funzionerà come deve, non dovrebbero sfuggire agli uomini di Befera nemmeno le spese personali particolarmente elevate e gli acquisti di beni di lusso. Ciò a causa, o meglio per merito, della fattura elettronica, obbligatoria sopra i 3 mila euro. Il grossista sarà costretto a fatturare al dettagliante il quale, a sua volta, dovrà emettere fattura al cliente finale, anche se privato cittadino. E tutto, qui sta il segreto, non resterà negli archivi dei commercianti, ma finirà all’Agenzia delle Entrate, la quale potrà tenere sotto controllo l’intera filiera. In concreto: chiunque comprasse un Rolex d’oro, un anello di diamanti, una pelliccia o un costoso abito firmato, il Fisco verrebbe a saperlo. Sempre in teoria, naturalmente.

La stretta sulle società
In questo mondo “fiscalmente perfetto” non verranno risparmiate nemmeno le società che chiudono regolarmente in perdita. Sono metà di tutte quelle iscritte alle Camere di commercio: una percentuale da una quantità esagerata di tempo al centro del sospetto che i bilanci in perdita siano frutto di elusione fiscale piuttosto che di cattive performance economiche. Tanto più perché gran parte di esse hanno soltanto la funzione di custodire qualche proprietà immobiliare o lo yacht di famiglia. Senza parlare delle società che aprono e chiudono i battenti nel giro di un anno. O anche meno. Tantissime. Decisamente troppe per non far sorgere, anche qui, il dubbio che la loro vita effimera abbia spesso motivazioni truffaldine: per esempio la fabbricazione di fatture false. Ecco perché, assicura l’Agenzia delle Entrate, saranno oggetto di controlli a tappeto. La Guardia di finanza sarebbe già al lavoro.

Banche sostituti d’imposta
Altro capitolo, quello delle ristrutturazioni edilizie che ottengono il beneficio fiscale di uno sgravio del 36% a patto che i pagamenti avvengano tramite bonifico bancario. Il fatto è che i bonifici materialmente si fanno, e anche le fatture si emettono. Ma poi alcune di loro spariscono nelle nebbie. Che fare per arginare il fenomeno senza abolire l’agevolazione per chi rimette a posto casa? Con la manovra le banche diventeranno sostituto d’imposta: tratterranno il 20% dell’importo del bonifico, che verrà automaticamente girato al Fisco. Soltanto questo piccolo accorgimento vale, secondo l’Agenzia delle Entrate, qualcosa come un miliardo di euro. Ce n’è anche per i cittadini che si vedono recapitare a casa una cartella esattoriale. D’ora in poi si dovranno scordare di prendere un po’ di tempo facendo ricorso, perché con l’iscrizione a ruolo scatterà anche l’accertamento. E si dovrà pagare subito. Inutile dire che sarebbero tutti più contenti se contemporaneamente all’introduzione di questa norma draconiana si risolvesse anche il problema delle vessazioni, ben documentate da una inchiesta di «Report», la trasmissione di Milena Gabanelli su Raitre, alle quali talvolta vengono sottoposti i comuni mortali che hanno a che fare con multe o tasse già pagate, e di cui si pretende ingiustamente il pagamento. Sarà anche, come dicono al Fisco, un problema limitato a Napoli e Roma, e la cui responsabilità andrebbe attribuita soprattutto ai Comuni. Resta sempre il fatto che di questo, nella manovra, non c’è ahimè una sola riga.

Sergio Rizzo

30 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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