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« Risposta #30 inserito:: Giugno 16, 2009, 04:11:08 pm » |
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I PENDOLARI E I TRENI IN RITARDO
Viaggiatori di serie B
«Mi fa male al cuore offrire un servizio non adeguato ai pendolari », ha confessato l’attuale presidente delle Ferrovie Innocenzo Cipolletta. Certamente non il primo a cospargersi il capo di cenere per i disagi inflitti a chi tutte le mattine prende il treno per andare al lavoro. «Sappiamo che abbiamo un debito con loro», aveva ammesso quattro anni fa il suo predecessore Elio Catania. Ma già nel 1997 Giancarlo Cimoli chiedeva pubblicamente «scusa ai passeggeri ». Promettendo almeno «l’aria condizionata in tutti i vagoni dei pendolari ». Anche se poi l’aria condizionata in «tutti» i vagoni non è mai arrivata.
E i politici? Perfino inutile elencare le promesse, tante sono state. Ma «viaggiare su treni confortevoli, senza sovraffollamento e con il rispetto degli orari», per usare le parole dell’ex ministro Alessandro Bianchi, è sempre stata un’illusione. Nel 1993 l’allora titolare del dicastero dei Trasporti, Raffaele Costa, almeno ci mise la faccia. Salì su un treno di pendolari a Santhià e ne scese a Novara con i capelli dritti: «Su questo problema dovremo intervenire». Ma non ne ebbe l’occasione. Dodici anni dopo ci provò anche il governatore della Lombardia, Roberto Formigoni. Appena messo il piede nel vagone alla stazione di Legnano fu accolto da una salva di commenti ironici: «Oggi c’è Formigoni e il treno ha soltanto cinque minuti di ritardo...».
Ma neanche le iniziative più temerarie hanno smosso le acque. I pendolari bloccavano i binari per protesta a metà degli anni Settanta e i loro figli oggi fanno lo stesso. Soltanto, più organizzati. Ora hanno un Coordinamento che con la Federconsumatori ha sfornato una specie di «Libro nero» sulle magagne ferroviarie. A cominciare dai ritardi. Ogni viaggiatore «abituale» ne accumulerebbe mediamente 100 ore l’anno. E se nel 1980 si andava da Torino a Milano in un’ora e mezzo, il Coordinamento dice che oggi ci vuole almeno un quarto d’ora in più.
Va detto che non si può caricare la croce tutta sulle spalle delle Fs e delle aziende di trasporto. L’Italia sconta ritardi storici della politica, accumulati per totale assenza di strategia. Intendiamoci: non che in questi ultimi due decenni i governi di turno abbiano lesinato i quattrini. Il fatto è che tutte le energie sono state assorbite dal progetto, anche mediaticamente molto redditizio, dell’alta velocità. Con il risultato che oggi l’Italia, finalmente, ha un treno in grado di fare concorrenza all’aereo fra Milano e Roma. Ma continua ad avere le Regioni del Nord intrappolate tutti i giorni nella morsa del traffico automobilistico anche perché i collegamenti ferroviari sono quello che sono. Inefficienti, disagevoli e anelastici: con carrozze a turno deserte o strapiene senza che si sia trovato il modo di far viaggiare treni più lunghi o più corti quando serve. E non parliamo di una zona depressa, ma dell’area più ricca e sviluppata d’Europa.
Viene quasi l’idea che i nostri politici non abbiano mai preso un treno. Oppure non siano mai stati in Francia o Germania. Ma è netta anche la sensazione che la cultura ferroviaria non abbia ancora accettato del tutto il principio che i binari servono per trasportare persone o merci. E non per far comunque circolare i treni.
Sergio Rizzo 16 giugno 2009
da corriere.it
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« Risposta #31 inserito:: Luglio 01, 2009, 11:03:05 am » |
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Niente alibi
Lo scaricabarile. Ecco ciò che dev’essere evitato a ogni costo, per rispetto alle vittime del tragico incidente di Viareggio. Le responsabilità vanno accertate rapidamente e se qualcuno ha sbagliato deve pagare senza sconti. E se esiste un problema di sicurezza, si affronti senza indugio.
È sempre stato detto che le ferrovie italiane sono fra le più sicure d’Europa e a sostegno di questa tesi si portano le statistiche ufficiali. Le stesse statistiche dicono che il trasporto delle merci su rotaia è decisamente più sicuro di quello su gomma: nel solo 2008 novemila persone in Europa hanno perso la vita in incidenti stradali con mezzi pesanti. Niente di paragonabile al pur gravissimo bilancio dell’incidente di Viareggio, il primo mortale per un treno merci dal lontano 2000.
Sarebbe tuttavia un grave errore cercare consolazione nelle statistiche. Una settimana fa c’era stato un incidente analogo sulla linea Bologna-Firenze che aveva coinvolto un’altra cisterna, piena questa volta di acido fluoridrico. Anche in quel caso era stata noleggiata (ma da una società diversa) e l’amministratore delegato delle Ferrovie Mauro Moretti aveva fatto l’ipotesi del «cedimento strutturale del carro».
Alla luce di questi fatti qualche riflessione è inevitabile.
Storicamente il settore merci delle Fs è in una situazione a dir poco difficile. I carri sono antiquati e spesso fermi per manutenzione. Il calo della quota di mercato è inesorabile. Ragion per cui non è nemmeno conveniente investire soldi in carri cisterna e si preferisce affittarli. Il conto economico assomiglia a quello della vecchia fallita Alitalia. Basta dire che Moretti ha definito un «fortissimo recupero» l’essere riusciti chiudere il 2008 con un buco di soli 100 milioni di euro. C’è da credergli: si partiva da una voragine da 600.
Colpa della carenza di risorse? O piuttosto della miopia strategica della politica italiana, che non produce un piano generale dei trasporti da dieci anni e ha ridotto il settore del trasporto pendolare nello stato disastroso documentato dalle inchieste del Corriere?
Fatto sta che mentre le Ferrovie annaspano, gli operatori privati, ai quali la liberalizzazione ha spalancato il mercato, guadagnano bene. E le Fs, nel tentativo paradossale di non soccombere alla concorrenza, spendono soldi per campagne acquisti all’estero. Prima hanno comprato una società tedesca, la Tx Logistik. Ora puntano a rilevare Veolia Cargo in Francia. Ha detto Moretti: «Vogliamo giocare da attori protagonisti in Europa, sia nel mercato passeggeri che in quello merci». Va bene. Ma l’Italia?
Sergio Rizzo
01 luglio 2009 da corriere.it
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« Risposta #32 inserito:: Luglio 20, 2009, 03:11:49 pm » |
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Al consiglio regionale posti ad hoc per gli amici dei politici
La Campania assume l’esercito dei «comandati»
La denuncia del vicepresidente Ronghi: «infornata» di distaccati da società a partecipazione pubblica
ROMA — Parolina magica: comandato. Per un dipendente pubblico essere comandato significa il trasferimento dall’amministrazione che lo ha assunto a un altro ufficio. Più comodo, più prestigioso, soprattutto meglio retribuito. Insomma, un destino super ambito. Anche perché dovrebbe essere riservato a pochi fortunati destinatari di incarichi che non si potrebbero ricoprire in altro modo. Tranne che al Consiglio regionale della Campania, dove i comandati da altre amministrazioni sono la bellezza di 223: per un costo di almeno una dozzina di milioni l’anno.
Sono arrivati da tutte le parti. Dalle Asl. Dall’Inps. Dai ministeri dell’Istruzione, delle Infrastrutture, dell’Economia, dei Beni Culturali, della Difesa, della Giustizia. Dai Comuni: perfino da quello di Siena. Dalle Province. Dalle Università. Ma c’è chi è stato comandato al Consiglio regionale della Campania anche dalle Poste e dall’Atm: proprio così, anche l’azienda di trasporti controllata dal Comune di Milano. Siccome i distaccati dalle altre amministrazioni pubbliche non bastavano, allora con una leggina regionale del 2002 si è estesa la possibilità di far distaccare nel brutto palazzone del centro direzionale di Napoli dove ha sede il Consiglio, pure i dipendenti delle imprese pubbliche. Ma nemmeno controllate completamente dallo Stato o dagli enti locali, visto che per farsi recapitare nel dorato mondo della politica campana era sufficiente risultare dipendente di una società nella quale la partecipazione pubblica non fosse «inferiore al 49 per cento».
Il giochino era semplice: bastava far assumere una persona da una società del Comune o della Regione, dove si può entrare per chiamata diretta, e farla poi distaccare presso la segreteria di un politico. Dove, guarda caso, si trova la maggior parte dei comandati. Scorrendo il loro elenco si scopre che i dipendenti di società, amministrazioni ed enti pubblici distaccati presso strutture politiche, come i gruppi dei partiti, sono circa 150. Alla segreteria di Alessandrina Lonardo, presidente del Consiglio regionale nonché consorte dell’ex ministro della Giustizia Clemente Mastella, ci sono 14 comandati. Quelli del gruppo Pd sono 22: fra loro, secondo la lista, ci sarebbe anche una persona proveniente da Enel distribuzione spa, società che fa parte di un gruppo nel quale la partecipazione pubblica è ben inferiore al 49% previsto dalla legge regionale. Ben otto sono nel gruppo del Nuovo Psi. Una dozzina in quello di Forza Italia. E ben sei sono alle dipendenze del questore al personale Fulvio Martusciello. Nel tentativo di mettere un freno a questo meccanismo infernale, qualche anno fa si decise di bloccare il flusso dei comandati dalle aziende pubbliche. Inutile dire che il promotore di questa iniziativa, il vicepresidente del consiglio regionale Salvatore Ronghi, ora esponente del Movimento per le autonomie, non si fece molti amici. Ma non aveva previsto l’inevitabile colpo di coda. Un giorno di gennaio del 2008, mentre si votava la legge finanziaria locale, passò senza colpo ferire un emendamento trasversale che prevede di fatto la stabilizzazione nei ruoli del consiglio regionale del personale in posizione di comando proveniente da altre amministrazioni: compresi, ovviamente, i circa 80 dipendenti delle imprese pubbliche e parapubbliche. Erano le tre del mattino. La norma in questione è l’articolo 44 della legge regionale numero 1 del 2008 e stabilisce che i comandati possono venire collocati in un’apposita graduatoria e accedere a «corsi concorsi» a loro riservati per passare a tutti gli effetti alle dipendenze del Consiglio.
Per gestire questa procedura è stata nominata il 2 luglio scorso una commissione di nove (nove!) persone presieduta da un dirigente dell’amministrazione, Girolamo Sibilio, ma con forti venature politiche. Ovviamente bipartisan. Per dirne una, ne fa parte anche Anna Ferrazzano, vice presidente della giunta provinciale di Salerno, già commissario di Forza Italia nella città campana. Secondo Ronghi ce n’è abbastanza per far scoppiare uno scandalo, mettendo anche in azione la magistratura: «E’ del tutto illegale assumere in questo modo i comandati provenienti dalle aziende a partecipazione pubblica. La legge stabilisce che non si possa venire assunti in una pubblica amministrazione se non tramite concorso pubblico, e sottolineo pubblico. I corsi concorsi previsti dall’articolo 44 servono soltanto per aggirarlo facendo diventare dipendenti del consiglio regionale gli amici dei politici assunti fittiziamente dalle società miste». Non sarà un caso che da quando è nata la Regione Campania, nel 1970, nel consiglio regionale non è mai entrato un dipendente per concorso pubblico. Il primo concorso (per 36 posti) è stato bandito nel 2005, ma non è stato ancora fatto. E la prospettiva della stabilizzazione di tutti i comandati non lascia molte speranze a chi punta su quello per avere un lavoro. Anche perché costoro sono circa metà di tutti i dipendenti del consiglio. Che grazie ai comandi e ai distacchi sono diventati negli anni più numerosi di quelli di Buckingham Palace, e oltre il doppio, in proporzione agli eletti, rispetto alla Camera. Per ognuno dei 60 consiglieri regionali campani ci sono circa otto dipendenti, a fronte dei tre per ogni deputato che si contano a Montecitorio.
Sergio Rizzo 20 luglio 2009
da corriere.it
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« Risposta #33 inserito:: Agosto 20, 2009, 05:23:36 pm » |
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Focus Occupazione e aziende
I 30 mila posti di lavoro che nessuno vuole
Si cercano falegnami, meccanici, parrucchieri, elettricisti Senza risposta un terzo delle ricerche delle piccole imprese
Va bene che molti giovani, dicono studi e sondaggi di ogni genere, sognano ancora il posto fisso. Meglio ancora se nella pubblica amministrazione. E va bene che quasi metà degli italiani, come afferma una recente ricerca dell’Eurobarometro, sono talmente restii all’idea del cambiamento da non riuscire nemmeno a scrollarsi di dosso l’idea che quel posto debba durare tutta la vita.
Ma con la produzione industriale che arranca, la disoccupazione che galoppa, la cassa integrazione che non dà tregua, tutto ci si potrebbe aspettare tranne che le piccole imprese, proprio quelle che dovrebbero rappresentare il cuore pulsante dell’economia italiana, fossero a corto di braccia. Eppure, a giudicare almeno dai risultati di una inchiesta della Confartigianato sul fabbisogno di manodopera condotta in base ai dati dei primi sei mesi dell’anno, è proprio quello che sta accadendo. L’organizzazione presieduta da Giorgio Guerrini stima che nel 2009, nonostante la crisi, il sistema delle piccole imprese e dell’artigianato potrà creare 94.670 posti di lavoro.
Quasi un terzo di questi, tuttavia, rischia di restare vacante: per quanto si cerchino persone in grado di occuparli, semplicemente non si trovano. Una emergenza al contrario, tanto più paradossale perché con l’imminenza dell’autunno si addensano nubi sempre più minacciose sul mondo del lavoro. Da Nord a Sud. In Piemonte ci sono 512 aziende in crisi, con 25 mila dipendenti in cassa integrazione. Anche in Emilia-Romagna i cassintegrati sono più di 20 mila nelle sole aziende metalmeccaniche. La Sicilia è in apprensione per lo stabilimento Fiat di Termini Imerese. Nel Lazio i posti a rischio sarebbero 70 mila.
E nelle Marche sono quasi 8 mila i lavoratori messi in mobilità nei primi sei mesi di quest’anno. Soprattutto, però, le conclusioni dell’indagine sembrano stridere apertamente con i timori di quanti sono convinti che gli immigrati tolgano il lavoro agli italiani. Un luogo comune che trova conforto prevalentemente negli ambienti politici di fede leghista, ma che i risultati di uno studio della Banca d’Italia reso noto martedì sembrano invece smentire categoricamente. All’appello, secondo la Confartigianato, mancano 30.750 persone. Per avere un’idea della dimensione di questo fenomeno basta considerare che si tratta di un numero addirittura superiore a quello dei lavoratori (circa 30 mila) che al giugno scorso in tutta la Lombardia, prendendo per buoni i dati della Cgil, avevano avuto accesso alla cassa integrazione in deroga. I dati elaborati dall’ufficio studi dell’organizzazione degli artigiani informano che la carenza maggiore è quella dei falegnami o comunque di persone esperte nella lavorazione del legno.
A fronte di un fabbisogno di 2.690 addetti, le piccole imprese ne cercano inutilmente 1.390, ovvero quasi il 52% del totale. Per non parlare poi dei parrucchieri e degli estetisti. In questo caso i posti di lavoro destinati con ogni probabilità a restare vuoti sono il 49% circa: ben 3.210. È in assoluto il buco numericamente maggiore fra tutti i comparti presi in esame dall’indagine. Ancora più grosso di quello che la Confartigianato denuncia per gli elettricisti. Rispetto alle esigenze dichiarate (9.850) ne mancherebbero infatti 2.840, pari al 28,8% del totale. Pesante risulterebbe anche la situazione delle officine per la riparazione delle auto, con un deficit di 1.640 meccanici. Problema di dimensioni più o meno simili a quello che viene accusato dalle piccole imprese informatiche (1.740) e dagli idraulici (ne mancano 1.560): mestiere, quest’ultimo, che ha fama di essere anche particolarmente redditizio una volta superata la fase dell’apprendistato. Soffre perfino l’edilizia, in assoluto il regno della flessibilità. Stando sempre ai dati della Confartigianato le piccole imprese sono riuscite a reclutare 3.160 carpentieri sui 4.500 che sarebbero necessari. Degli altri 1.340 ancora nessuna traccia.
Ma anche il numero dei disegnatori industriali disponibili è inferiore al fabbisogno di ben 1.110 unità. La medaglia della crisi economica ha tuttavia una doppia faccia. Se nelle piccole imprese un posto su tre rimane vuoto perché non si trova chi lo possa (o voglia) occupare, e nonostante sopravviva ancora il mito del posto fisso, nell’ultimo anno c’è pure chi ha reagito alle difficoltà economiche con una scelta opposta: mettendosi in proprio. Sintomo del fatto che, trovandosi di fronte all’alternativa fra andare a lavorare alle dipendenze in una piccola impresa, magari con un contratto da precario, e rischiare invece in prima persona, qualcuno sceglie questa seconda strada. Non moltissimi, per la verità: nell’annus horribilis per il Prodotto interno lordo la stessa Confartigianato ne ha censiti 8.134.
Ma con situazioni davvero curiose. Mentre infatti i parrucchieri cercavano inutilmente 3.210 dipendenti da avviare al lavoro, nei dodici mesi compresi fra la fine di giugno 2008 e la fine di giugno 2009 il numero dei barbieri e degli estetisti aumentava di 1.696 unità. Una crescita inferiore soltanto a quella del numero di quanti si sono buttati nella cosiddetta green economy (2.559) nonché del numero dei gelatai, dei panettieri e dei pasticcieri (2.082). Il bello è che alle gelaterie, alle pasticcerie e ai panifici artigianali mancano 1.140 dipendenti. C’è poi chi ha tentato l’avventura nell’informatica (462) o nei servizi di trasporto (800), oppure nelle piccole attività di restauro (104), o ancora nella tinteggiatura (681). I più creativi hanno scelto invece la strada della pubblicità e del design (119). E un pugno di temerari (39) ha messo la propria passione per gli animali al servizio del prossimo. Del resto, con questi chiari di luna tutto fa brodo.
Sergio Rizzo 20 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #34 inserito:: Agosto 24, 2009, 05:45:00 pm » |
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L’intervista
«Salari differenziati dai nuovi contratti o saltano gli sgravi alle retribuzioni»
Sacconi: non vogliamo le gabbie, anche la Lega è per il modello delle intese decentrate
Il ministro del Welfare: l’accordo tra imprese e sindacati va attuato.
Sul banco di prova i negoziati per metalmeccanici e chimici
ROMA — Per parlare con Maurizio Sacconi dell'autunno non si può prescindere da quanto ha detto al Corriere a Ferragosto il sociologo Giuseppe De Rita, convinto che quella stagione sarà «decisiva» per il breve e per il lungo periodo, ma pure che è illusorio credere nella virtù taumaturgica delle grandi riforme. «Ha ragione. Per la sopravvivenza oggi e la crescita domani servono atti e cambiamenti più concreti e profondi delle riforme legislative», sostiene il ministro del Welfare. Secondo De Rita il berlusconismo si sta sfarinando.
«In quel punto della sua bella intervista, che peraltro riconosce i meriti del governo nella crisi, sbaglia quando risolve il berlusconismo con il richiamo alla libertà e responsabilità individuali. Nel centrodestra è maturata la consapevolezza che occorrono risposte collettive ai bisogni ma, come dice De Rita, non necessariamente statuali. Per questo è in noi diffuso il riferimento alla sussidiarietà ovvero alla capacità di fare sviluppo mobilitando le tante espressioni della comunità, dalle famiglie alle parti sociali, al terzo settore. E ciò è tanto più vero nel momento in cui dovremo saper crescere con il doppio vincolo del debito pubblico e del declino demografico. Non a caso nell'agenda dell'autunno avrà grande rilievo il capitale umano, in tutte le sue forme». Tema che qui non va molto di moda, a giudicare almeno da come (non) funziona la formazione. «L'integrazione fra apprendimento e lavoro è fra i problemi da affrontare». La Confartigianato dice che nonostante la crisi ci sono imprese che non riescono a trovare manodopera. «Appunto, si è persa la cultura del lavoro come parte fondamentale del processo educativo. In passato un giovane universitario poteva impiegare parte dell'estate a lavorare. C'era una giusta fretta nel lavorare, oggi c'è una propensione opposta » .
Ci stiamo rammollendo? «No, per fortuna. C'è in alcuni segmenti giovanili, e non per loro colpa, minore disponibilità al lavoro manuale e alla fatica: vanno corretti i percorsi educativi. Con il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini realizzeremo una cabina di regia per integrare apprendimento scolastico e lavoro, rafforzando il progetto Excelsior Unioncamere per individuare il fabbisogno di specifiche professionalità. Ma vogliamo anche dare valore agli uffici di placement nelle scuole e nelle università». Uffici di collocamento direttamente a scuola? «Qualcosa di meglio: sono canali di comunicazione fra istituzioni educative e imprese. Si tratta di estenderli e rafforzarli. La legge Biagi, per esempio, ha introdotto un meccanismo, ancora realizzato in forma molto di nicchia, per conseguire titoli di studio con contratti di apprendistato in aziende convenzionate con le università».
Nella lista dei problemi da affrontare ci sono anche i salari più bassi d'Europa? «Una giusta distribuzione della ricchezza si fonda sul riconoscimento dei meriti e dei bisogni. I salari vanno differenziati perché non siamo uguali. Il banco di prova autunnale, con i primi contratti di metalmeccanici, alimentaristi, chimici e comunicazioni, sarà l'attuazione dell'accordo sottoscritto da tutti tranne che dalla Cgil. Meno il contratto nazionale sarà invasivo, più ci sarà spazio per il contratto aziendale, detassato al 10%». Ma la Lega chiede paghe diverse al Nord e al Sud, evocando le gabbie salariali di 50 anni fa. «La Lega è d'accordo con il nuovo modello. Nessuno ha parlato di gabbie salariali, meccanismo centralistico fissato per legge. Se il contratto si decentra, ineluttabilmente è più sensibile alle differenze di costo della vita e di produttività. Il punto vero è che sindacati e imprese, dopo aver firmato l'accordo, non possono cedere. Siamo rispettosi dell'autonomia delle parti, ma non indifferenti agli esiti». Vale a dire? «Abbiamo messo sul piatto la detassazione del salario variabile. Ma nella misura in cui le parti la usano: altrimenti dovremmo ripensarci. In autunno ci devono dimostrare che l'egualitarismo non rientra dalla finestra dopo essere uscito dalla porta. Ne va della produttività e soprattutto del riconoscimento del diritto dei lavoratori a una giusta retribuzione. In questo ci confermiamo una coalizione laburista » .
Centrodestra di sinistra? «Certamente attenta anche ai bisogni a partire dalla tutela di chi è costretto all'inattività con risorse per gli ammortizzatori sociali che confermo essere più che sufficienti. Faccio inoltre notare che questo governo ha introdotto la carta acquisti per la povertà assoluta. Ricordo — a chi con la puzza sotto il naso ha deriso gli 80 euro a bimestre — che stiamo per la prima volta individuando la platea del bisogno assoluto. E abbiamo creato un canale di comunicazione fra questa platea, le istituzioni e i donatori privati. Perché l'obiettivo del governo è anche stimolare la cultura del dono. Perché aiutando gli ultimi anche con la carità rafforziamo pure la comunità. Vede come la sussidiarietà torna continuamente?». Come si stimola il dono in un Paese dove i contributi alle organizzazioni benefiche sono fino a 51 volte meno favoriti fiscalmente rispetto ai fondi versati alla politica? «Certamente con interventi di defiscalizzazione. Ma anche con l'implementazione e la stabilizzazione dell'ottima idea tremontiana del 5 per mille. Peraltro abbiamo parlato di una nuova stagione costituente per il terzo settore. Il principio è sempre lo stesso: senza la sussidiarietà non si va da nessuna parte. Guardi i servizi per l'infanzia».
Meglio di no. In questo siamo quasi ultimi nel continente. «Ebbene, noi vogliamo portare quei servizi a livelli superiori al 30%, ma ciò non si realizza solo con le strutture tradizionali, come gli asili nido pubblici e privati. Con la collega Mara Carfagna pensiamo a un grande piano di diffusione delle cosiddette mamme di giorno, termine mutuato dall'esperienza delle tagesmutter altoatesine. L'idea è quella di remunerarli attraverso i vaucher, i buoni prepagati. Ma sottolineo anche che il tema della natalità, come più in generale quello dello sviluppo umano, non può essere disgiunto da tutto ciò che riguarda il valore della vita». Il valore della vita? «Certamente. Sulla bioetica tutto il governo ha avuto finora posizioni laicamente unitarie, a volere difendere e attuare la legge 194 e rigorosamente verificare la compatibilità della pillola Ru486 con la legge stessa. Proprio perché riteniamo che si debbano salvaguardare i criteri che hanno evitato la solitudine della donna di fronte al dramma dell'interruzione di gravidanza. E per la regolazione della fine di vita tutto il governo si è espresso a favore del diritto inalienabile all'alimentazione e all'idratazione per chi non è autosufficiente. A questo proposito, per attenuare la conflittualità parlamentare, potremmo ipotizzare l'immediata approvazione di queste norme rinviando a soluzioni più condivise quelle relative alle dichiarazioni anticipate di trattamento».
Ma cosa c'entra questo con il capitale umano? «C'entra, eccome. Il valore della vita è il presupposto necessario del vitalismo economico e sociale » . Paesi con regole assai diverse, come l'Olanda, non sono certo sottosviluppati. «Come il calvinismo è stato alla base dello spirito capitalistico di quel Paese, così i valori della nostra tradizione hanno sostenuto la diffusa impresa familiare » . Magari gli ospedali italiani funzionassero come lì. «Nel tema del capitale umano rientra anche lo stato di salute. A settembre riprende il tema delle Regioni commissariate e dei subcommissari, cioè i tecnici che saranno nominati per gestire in concreto i commissariamenti, e della verifica delle altre regioni. C'è un problema grosso di tutto il Centro Sud, che spesso non conosce la medicina del territorio e, in essa, il ruolo della famiglia e del volontariato. Anche per questo motivo si spende molto di più e si ha molto di meno. Qui emerge in tutta la sua drammaticità il problema del Sud, che spesso significa incapacità delle classi dirigenti di fare buona amministrazione ordinaria».
Del resto, finché i primari saranno nominati in base alle tessere di partito... «La competenza sulla sanità è regionale. Noi appoggiamo le proposte legislative tese a rafforzare la oggettiva valutazione dei curricula dei candidati a direttore generale e a primario. Ma il commissariamento non è uno scherzo: è l'anticamera del fallimento politico». Sempre che poi i politici commissariati non vengano addirittura promossi. «Sono d'accordo. Nel Sud non mancano le intelligenze, dobbiamo soltanto affermare con il federalismo fiscale nuove regole del gioco nel segno della responsabilità. E non c'è migliore deterrenza dell'esautoramento di chi ha sbagliato. Con il ritorno alle urne e l'ineleggibilità degli amministratori falliti » .
Sergio Rizzo 24 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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« Risposta #35 inserito:: Settembre 02, 2009, 04:04:15 pm » |
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Il caso -
L’attivismo del responsabile della Pubblica amministrazione
Brunetta, la rivolta dei dirigenti e l’insofferenza degli altri ministri
I dubbi tra i colleghi di governo sulla strategia degli annunci
ROMA — «Io, povero, non bello e non ricco, ho fatto il c... al mondo e sono la Lorella Cuccarini del governo Berlusconi». Esattamente un anno fa Renato Brunetta completava questi concetti espressi in una intervista a «Gente» definendosi «il più amato dagli italiani». Volava nei sondaggi, il ministro della Pubblica amministrazione, dopo aver dichiarato guerra ai fannulloni: secondo per popolarità soltanto a Silvio Berlusconi. Mentre gli assenteisti masticavano amaro e lo insultavano, la gente lo incitava per strada: «continui così». E qualche suo collega «rosicava».
Un anno dopo il ministro già più amato dagli italiani si appresta ad affrontare un autunno con qualche insidia in più, e non certamente a causa di sondaggi meno generosi. Che i suoi rapporti con il ministro dell'Economia Giulio Tremonti siano complessi non è affatto un mistero: lo sono da tempo, anche da prima che i due si ritrovassero insieme al governo. Più recenti, e collegate alla sua azione governativa, sono invece le insofferenze che altri ministeri (certamente non il suo), e altri ministri, manifestano nei suoi confronti. Malignando che la strategia brunettiana abbia prodotto finora soprattutto annunci sensazionali a mezzo stampa. Culminati nella pubblicazione del libro «Rivoluzione in corso », che qualche invidia pure l'ha suscitata.
Alle critiche lui ha sempre ribattuto con i dati che dimostrerebbero un calo a precipizio dell'assenteismo, ridottosi del 30% anche soltanto come effetto degli annunci. Il fatto è che decisioni sacrosante, come quella di non consentire la nomina a dirigente generale per coloro che distano dalla pensione meno di tre anni ha mandato letteralmente su tutte le furie le alte sfere della burocrazia, abituate a promuovere i fedelissimi pochi mesi prima del pensionamento per farli uscire dal ministero con la pensione dorata. Per modificare quella norma sarebbe intervenuta perfino la Ragioneria dello Stato. Né è stata del tutto digerita la disposizione per mandare in pensione chi ha raggiunto i quarant'anni di contributi.
Ma Brunetta deve fronteggiare anche la rivolta dei travet, che non accenna a placarsi dopo il taglio della parte variabile della retribuzione in caso di malattia. Tanto più che la mannaia sui dirigenti, spesso i veri responsabili della scarsa efficienza della pubblica amministrazione, non è ancora calata. Tutto questo mentre del regolamento che dovrebbe stabilire quali alti papaveri pubblici devono essere sottoposti al tetto degli stipendi fissato dal governo di Romano Prodi, e che doveva essere pronto entro il 31 ottobre 2008, ancora nessuna notizia. «Ora li staneremo», ha promesso alla fine di luglio, riferendosi ai dirigenti responsabili delle inefficienze, il ministro a Vittorio Zincone sul «Magazine» del Corriere.
Ricordando il prossimo varo di un organismo per la valutazione dei servizi. Un'idea nata in seguito alla proposta avanzata dal giuslavorista Pietro Ichino, ora senatore del Partito democratico, ma la cui attuale formulazione ha lasciato alquanto deluso anche chi, nel centrosinistra, aveva sostenuto senza riserve la crociata del ministro. Fatto sta che quella che doveva essere nelle intenzioni un'autorità indipendente vera e propria è diventato un organismo gestito in condominio da Brunetta e Tremonti. Circostanza che avrebbe snaturato il progetto. «L'apparato sta frenando la sua riforma», commentava già alla fine dello scorso aprile lo stesso Ichino, lasciando intendere che Brunetta avrebbe le mani legate.
Osservazione rigettata dal ministro, che deve tuttavia fare i conti non soltanto con i sindacati «conservatori », i burocrati colpiti nella pensione, i consulenti che si sono visti pubblicare i compensi online, e i dipendenti inferociti. C'è anche chi gli rema contro nel suo stesso schieramento. Un mese fa, per esempio, si è scoperto l’emendamento di un senatore del suo partito che avrebbe cancellato la norma della trasparenza totale, quella secondo cui i cittadini dovrebbero poter conoscere con un semplice clic sul mouse del computer vita, morte e miracoli dei dirigenti pubblici. Lui ci ha messo una pezza, ma è chiaro che quella norma non avrà vita facile. Insomma, ce n'è abbastanza perché qualcuno interpreti la singolare «aspirazione» a fare il sindaco di Venezia, che il ministro ha recentemente espresso, come un auspicio.
Sergio Rizzo 02 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #36 inserito:: Settembre 06, 2009, 12:13:33 pm » |
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INTERVISTA AL MINISTRO DEL WELFARE, SACCONI
«Boffo non è un cattocomunista Colpito da chi è ostile a lui e a noi»
«Lui vittima incolpevole del clima partito dall’aggressione a Berlusconi. Le polemiche sono nate in ambienti cattolici ostili a lui perché ancor più ostili a noi» ROMA — Nella bufera che si è abbattuta su Dino Boffo, il direttore dell’Avvenire dimissionario dopo gli attacchi del direttore del Giornale , Vittorio Feltri, il ministro del Welfare Maurizio Sacconi non accetta di essere definito il capo del dissenso. «Al contrario!», dice, «dato che le mie convinzioni sono le stesse della larghissima maggioranza del centrodestra».
Eppure lo scontro con la Chiesa ha generato nel suo schieramento toni al calor bianco. Come lo spiega? «Mi preme spiegare perché non soltanto il Pdl, ma l’intera coalizione di governo, tenendo conto anche delle recenti prese di posizione della Lega, siano naturalmente capaci di dialogare con la Chiesa rispetto ai grandi temi di suo prioritario interesse che si iscrivono nell’agenda di quella che possiamo chiamare biopolitica».
Biopolitica? Che cos’è? «Nei paesi moderni la politica è investita da problemi che impongono in relazione all’evoluzione della scienza e dei comportamenti sociali di regolare — in modi essenziali — i nodi della procreazione e del confine tra la vita e la morte. Su questi temi il Pdl, essendosi configurato come il più grande movimento popolare in Italia, in grado quindi di raccogliere il suo consenso nell’Italia profonda, si ancora inevitabilmente ai valori della tradizione dei quali è orgogliosamente conservatore».
E dove si trova questa Italia profonda? «Non è l’Italia metropolitana delle borghesie elitarie, ma quella fatta dalle piccole comunità e dalle periferie urbane, descritta anche recentemente da De Rita, ove vive la gran parte del nostro popolo fatto di gente semplice e vitale, perché solida nei valori di riferimento a partire da quelli della tradizione cristiana, a prescindere dal rapporto di ciascuno con la fede».
Si prescinda pure, ma com’è possibile conciliare tutto questo con i principi di laicità fondamentali per tutti i Paesi occidentali sviluppati? «Il Pdl è in sintonia con il senso comune del popolo, piuttosto che con il luogo comune di quelle che si definiscono elite . In questo senso esso è si ispira ad una laicità adulta che in ogni caso non si confonde con la liceità».
Sarebbe? «Laicità significa un approccio del decisore che quando regola pensa a credenti e non credenti, a persone che possono avere anche un diverso rapporto con la fede. Ma ciò non significa indifferenza a profili di carattere etico come quelli tipicamente cristiani codificati nella prima parte della costituzione».
Nella prima parte della carta costituzionale il riferimento alle radici cristiane però manca del tutto. «Che principi anche propri della cultura cristiana siano presenti nella prima parte è assolutamente evidente. Basti pensare a quei diritti inviolabili dell’uomo che costituiscono la premessa per ritenere non negoziabile il fondamentale diritto all’alimentazione e all’idratazione. La costituzione fu frutto di un grande compromesso fra i grandi partiti popolari. Lo stesso Partito comunista, in quanto innervato in una parte importante del popolo, e’ sempre stato attento a non offendere i fondamentali valori della tradizione cristiana».
Il Pdl come il Pci? Se la sente Berlusconi... «Certamente tutti e due movimenti di grande consenso popolare. Il Pdl, non tatticamente, è portatore di una laicità adulta che incorpora i fondamentali valori cristiani come la persona, la famiglia, la comunità. La stessa possibilità di costruire uno sviluppo sostenibile dopo la crisi non può prescindere dal riconoscimento del valore della vita. Non ci può essere vitalismo economico e sociale in una società scettica. Questo ci porta nella prossima agenda di governo a ritenere necessario difendere una regolazione della creazione della vita che rigetti ogni manipolazione genetica».
Veniamo al sodo. «I principi che ho appena enunciato ci portano ad avere una fortissima diffidenza verso la pillola Ru486, con la quale si banalizza un atto che secondo la legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza è un disvalore e potenzialmente potrebbe comportare la violazione del percorso previsto da quella legge».
In che cosa si traduce questa diffidenza? «Laicamente verificheremo se l’impiego della pillola abortiva sia coerente con quella legge e con il suo obiettivo primario di evitare la solitudine della donna di fronte ad una scelta tanto drammatica. L’Aifa è impegnata a produrre entro settembre un protocollo rigorosissimo di corretto impiego della pillola in strutture ospedaliere a cura di ginecologi nel pieno rispetto della stessa legge».
In una precedente intervista al «Corriere» lei ha lasciato intendere la possibilità di una possibile corsia preferenziale per la norma Englaro. Conferma? «Ho detto che se si fosse manifestata in Parlamento la difficoltà a un ampio consenso sulla legge che regola il fine di vita si potrebbe estrapolare dal testo del Senato per l’immediata approvazione quella parte — approvata all’unanimità dal Consiglio dei ministri — che colma il vuoto normativo creatosi a seguito del provvedimento creativo della magistratura sul caso Englaro, che ha introdotto per la prima volta un percorso eutanasico nel nostro Paese. Faccio una domanda: occorre la fede per voler evitare soluzioni eugenetiche o eutanasiche?».
È cosciente del fatto che il governo sarà accusato di mettere tutto questo sul piatto della bilancia per recuperare il rapporto con la Chiesa? «Ho descritto un’agenda nata in tempi non sospetti rispetto alle più recenti vicende. Con la Chiesa c’è una consonanza profonda sul valore della vita, sulla famiglia, sulla sussidiarietà, che va oltre il tatticismo».
Tatticismo od opportunismo? «Vedo molto più opportunismo quando alcuni segmenti della base ecclesiale sostengono nella candidatura a sindaco chi propugna le coppie omosessuali, o agisce in direzione opposta a quelli che sono temi fondamentali della Chiesa. In quel caso non posso non individuare uno scambio cinico, magari con piccoli favori amministrativi a strutture ecclesiali. Cosa diversa è il rapporto che nasce naturalmente perché quelli sono i nostri valori. Siamo un movimento politico laico e cristiano insieme».
Nel centrodestra molti sono convinti che senza i cattolici il governo non starebbe in piedi. La sua opinione? «Credo che se questa maggioranza parlamentare si allontanasse dalle radici del nostro popolo, ne perderebbe il consenso come è accaduto al Pd rispetto al Pci. Ma il problema non è la formale coerenza con la Chiesa».
Non vorrà negare che lo scontro con l’«Avvenire» abbia causato qualche problemino. Se non sbaglio lei stesso ha chiesto a Boffo di ritirare le dimissioni. «Boffo è stato vittima incolpevole di questo violento clima polemico partito dall’aggressione al presidente del Consiglio. A me dispiace perché ho un’amicizia personale con lui, mio conterraneo, ho sempre trovato in lui un cattolico liberale, non certo un cattocomunista».
Questo ha un significato nella sua presa di posizione, ministro? «Certamente. Ma non voglio entrare nella vicenda che lo riguarda, anche se è evidente che queste polemiche giornalistiche sono nate dall’interno del mondo cattolico».
Addirittura? Chi poteva nella Chiesa avere interesse a danneggiare il direttore del quotidiano della Conferenza episcopale? «Posso immaginare che tutto sia nato in ambienti cattolici ostili a lui perché ancor più ostili a noi».
Sergio Rizzo 06 settembre 2009 © RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #37 inserito:: Ottobre 04, 2009, 07:32:52 pm » |
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DOSSIER - I PRECEDENTI DELLO SCUDO FISCALE
I condoni «mai più» e gli incassi dimenticati
Cinque anni dopo non ancora riscossi 5,2 miliardi della misura del 2003. Ogni volta la promessa: sarà l’ultimo. Risultati quasi sempre al di sotto delle stime
Non chiamatelo condono. D’accordo, si potranno rimpatriare i denari sottratti al fisco pagando il 5%, meno di un quarto della più bassa aliquota Irpef. D’accordo, con quel misero 5% si potranno sanare reati penali e al riparo dell’anonimato. Ma non chiamatelo condono. Come potete chiamarlo, allora? Forse «un intervento che rientra nella strategia concordata a livello internazionale per combattere i paradisi fiscali», come l’ha definito Giulio Tremonti? O «sistemazione del passato», secondo lo strepitoso suggerimento del compianto deputato nazional alleato Pietro Armani? Ma potreste anche non chiamarlo affatto. «I condoni fatti da questo governo sono stati pochissimi e per casi limitatissimi. È la sinistra, con la sua propaganda, a parlare di condoni, in realtà mai avvenuti». Mai avvenuti. Lo disse il Guardasigilli Roberto Castelli il 31 marzo del 2006 a Radio Anch’io. Di lì a poco anche il nuovo governo di centrosinistra di Romano Prodi avrebbe fatto il suo bravo condono (l’indulto), ma sul fatto che durante i cinque anni precedenti non si fossero fatti condoni, beh… In un rapporto del novembre 2008 sulle sanatorie fiscali la Corte dei conti ne ha contati 13, soltanto fra il 2003 e il 2004. E lì i magistrati contabili non hanno avuto timore a chiamare «condono » anche il primo scudo fiscale, papà della nuova sanatoria per i capitali illegalmente esportati. Quella che l' Avvenire , il quotidiano dei vescovi, che ha definito «una beffa» perpetrata dal «furbetto del governino» dopo essere stato allargato in Parlamento anche ai reati penali. Una bella botta per Tremonti, che avendo all’inizio escluso tassativamente la non punibilità di nefandezze tipo il falso in bilancio, si è poi rassegnato: «Senza le modifiche del Parlamento lo scudo sarebbe stato un suicidio». Un suicidio? Già, «sarebbe stato un’autodenuncia penale».
Ci sarebbe da domandarsi che fine abbiano fatto le telecamere alle frontiere (con la Svizzera?) che aveva promesso di installare dopo il primo «scudo fiscale del 2002-2003» per pizzicare gli spalloni che avessero continuato a frodare il fisco. Ma comunque, evviva la sincerità del ministro dell’Economia. Ma quella del deputato del Pdl Michele Scandroglio non è forse sincerità? «Non c'è dubbio che la teoria dei condoni sia passibile di critiche. Però non dobbiamo nasconderci dietro un dito: gli italiani sono anche questo. Noi dobbiamo rappresentare al meglio la realtà che abbiamo, si fa quello che si può con quello che siamo».
Poco prima delle elezioni del 2008 Tremonti ha giurato davanti alle telecamere di Repubblica Tv: «Oggi non ci sono più le condizioni per fare i condoni, che non certo ho fatto volentieri ma perché costretto dalla dura necessità. I condoni sono una cosa del passato». Concetto ribadito addirittura dal futuro premier Silvio Berlusconi, questa volta durante una video chat con il Corriere. it: «Basta con la stagione dei condoni. La prossima sarà una stagione di forte contrasto all'elusione e all'evasione fiscale». (31 marzo 2008). Adolfo Urso, esponente di An ora viceministro, dichiarava un paio di mesi prima: «Vengo dalla cultura della legalità della destra e dico: mai più condoni di nessun tipo, nemmeno l’indulto».
Poi, quando l’Unione europea bocciò il condono Iva varato dal precedente esecutivo di centrodestra nel 2003 ritenendo che avesse «seriamente» danneggiato il mercato comune e favorito i contribuenti colpevoli di frode fiscale, Tremonti commentò: «Messaggio ricevuto, per il futuro è impegno del governo escludere provvedimenti del tipo oggetto della sentenza». (luglio 2008).
Ma non si potrebbe dire che il ministro dell’Economia non avesse mai manifestato ostilità verso le sanatorie. Diciotto anni fa, mentre l'ultimo governo di Giulio Andreotti stava per approvare la terza sanatoria fiscale della storia repubblicana Tremonti scrisse in un editoriale del Corriere: «In Sudamerica il condono fiscale si fa dopo il golpe. In Italia lo si fa prima delle elezioni ma mutando i fattori il prodotto non cambia: il condono è comunque una forma di prelievo fuorilegge». Passato quel condono, l'allora segretario generale delle Finanze Giorgio Benvenuto, in seguito parlamentare del centrosinistra, promise: «Questo condono sarà l'ultimo ». Quattro anni più tardi arrivò il concordato fiscale. Ma il ministro Augusto Fantozzi sentenziò: «Credo che ormai l'epoca dei condoni sia tramontata ». Mai previsione fu meno azzeccata. Sei anni dopo, ecco lo scudo fiscale e la raffica di sanatorie tributarie. Le polemiche si erano appena smorzate quando, nell’estate del 2003, il sottosegretario Giuseppe Vegas oggi viceministro all’Economia, azzardò: «In futuro non ci saranno altri condoni». Mentre il capogruppo di Forza Italia Renato Schifani ammoniva: «Siamo di fronte all’ultimo giro di boa di una riforma fiscale. Il cittadino sa benissimo che una volta varata non ci sarà più spazio per la clemenza ». Pochi mesi dopo, la finanziaria 2004 reiterò il condono fiscale tombale. E toccò al successore di Tremonti, Domenico Siniscalco, ripetere ancora nel 2004: «La stagione dei condoni è finita » .
Arriviamo quindi ai giorni nostri. Non che nel frattempo i vari condoni non siano stati rivendicati. Durante la campagna elettorale del 2006 Berlusconi arrivò ad affermare che «i condoni non sono poi così negativi, visto che l’Unità, l’Unipol e il signor Prodi, in una società in cui è presente un suo familiare, ne hanno usufruito». Per concludere: «I condoni hanno portato molti soldi all'erario e vi ha ricorso chi aveva evaso le tasse durante il governo Prodi » .
Sul fatto che i condoni abbiano fatto ricco il Fisco, tuttavia, si potrebbe discutere. Secondo la Cgia di Mestre tutti i condoni, compresi quelli edilizi e previdenziali, varati dal 1973 a oggi avrebbero garantito un incasso, attualizzato in valuta 2005, di 104,5 miliardi di euro. Se fosse così, in trent’anni l'Erario avrebbe recuperato con le sanatorie l'evasione fiscale di un solo anno, che è appunto stimata in circa 100 miliardi di euro. Ma se fosse così. Una fonte al di sopra di ogni sospetto, e cioè la rivista on-line dell’Agenzia delle Entrate Fiscooggi. it ha calcolato invece che dal 1973 al 2003 lo Stato ha incassato con i principali condoni tributari, previdenziali, assicurativi, valutari ed edilizi 26 miliardi di euro. Fatevi i conti sul numero degli abitanti: 15 euro a testa l’anno. L’equivalente di una pizza e una birra, per fare strame di quel minimo di correttezza civica che esisteva in Italia. Soltanto in due casi, vale a dire con i condoni fiscali del 1982 e del 1992, si è superata la previsione di gettito. In altri casi, si è andati ridicolmente sotto le stime. Come se non bastasse, c’è stato pure chi ha aderito al condono ma poi non ha nemmeno pagato o pagato tutto. La Corte dei conti nel novembre 2008 ha rivelato che a quella data restavano da incassare ancora 5,2 miliardi di euro dei 26 miliardi attesi per il condono 2003-2004, in base alle dichiarazioni pervenute alle Finanze. Cinque miliardi su 26: il venti per cento.
In quel rapporto si racconta anche un altro particolare. E cioè che 34 mila persone fecero il condono tombale in forma anonima, avvalendosi di una facoltà prevista da quella sanatoria: presentare al Fisco una «dichiarazione riservata », come per lo scudo fiscale. Con il risultato di restare nell’ombra pure in quel caso. Ma il numero di 34 mila è soltanto una stima. Quando il magistrato della Corte dei conti ha chiesto di avere i dati relativi a quelle dichiarazioni «riservate» si è sentito rispondere dall'Agenzia delle entrate che, «trattandosi di dati sensibili», erano «in possesso unicamente del ministro ». Ma potevano avere sulla coscienza 34 mila suicidi?
Sergio Rizzo
04 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #38 inserito:: Ottobre 07, 2009, 04:17:49 pm » |
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La storia
La strada da 62 milioni al km contestata per salvare i rospi
Asti e la super tangenziale costosissima.
E Rifondazione accusa: minaccia l'habitat dell'anfibio
ROMA — Trecentosettantacinquemilioniottocento-ventitremiladuecentocinquanta euro. Una cifra che basterebbe per comprare trecento carrozze deluxe per i treni dei pendolari. O rimettere in sesto tutte le strutture universitarie scassate dell'Aquila, pagare per un anno le rette degli studenti e poi, con quel che avanza, acquistare tremila casette di legno per gli sfollati del terremoto. Tutti questi soldi saranno invece spesi per una strada, una piccola tangenziale a sud ovest di Asti. Un nastro d'asfalto lungo appena 5.329 metri che costa, considerando i 2.848 metri di bretelle e svincoli per collegarlo alla viabilità ordinaria, più di 60 milioni al euro al chilometro. Esattamente, 62,2 milioni. La breve tangenziale corre su un lungo viadotto e poi sotto terra: immaginate i denari che servono.
La strada contestata La strada contestata Ma se non è la strada più cara del mondo, poco ci manca. Per capire: la Variante di Valico, che si sviluppa quasi tutta in galleria, vale 52 milioni al chilometro. Ed è probabilmente il più costoso tratto di strada mai realizzato in Italia, dove per costruire un chilometro di autostrada si spendono mediamente 32 milioni, contro i 14,6 milioni della Spagna. Senza considerare che la tangenziale sud ovest di Asti non è nemmeno un'autostrada in senso stretto, visto che per un terzo avrà una sola corsia per senso di marcia. Ma in un Paese che nonostante le promesse continua a costruire infrastrutture con il contagocce, sarebbe perfino una spesa benedetta (sempre giustificandone il livello astronomico). Se invece, come qualcuno sostiene, fosse una strada completamente inutile? Così almeno la pensa un comitato locale che da anni la contesta. E così la pensano anche alcuni consiglieri del Piemonte (per esempio Angela Motta del Pd, stesso partito del governatore Mercedes Bresso) pronti a dare battaglia in previsione del parere che a giorni emetterà la Regione. Per nulla scoraggiati dallo scontato «sì» regionale, epitaffio per le loro residue speranze, gli oppositori sono decisi a far valere tutte le loro ragioni. Il 22 settembre due consiglieri rifondaroli, Paola Barassi e Alberto Deambrogio, hanno presentato una mozione contro il progetto preliminare depositato dall'Anas ad agosto. Nell'elenco delle rimostranze, anche l'allarme per il rischio che correrebbe una «particolare e rara specie di rospo presente solo in due aree del territorio piemontese»: il pelobates fuscus insubricus, sopravvissuto all'alluvione del 1994, il cui habitat naturale verrebbe seriamente compromesso dalla nuova arteria.
C'è da dire che l'anfibio avrebbe corso lo stesso rischio anche cinquant'anni fa, quando si cominciò a pensare a quella tangenziale e non esisteva nessun partito dei rospi. Le prime lettere di esproprio ai proprietari dei terreni partirono dal Comune di Asti nel 1960. Poi tutto si fermò. Finché nel 1974 la tangenziale spuntò nel piano regolatore della città. All'inizio attraversava gli orti a ridosso del centro abitato. Via via che il cemento invadeva il territorio, però, il tracciato veniva spostato sempre più in periferia. Mentre i costi del progetto si gonfiavano come un sufflè: l'ultima botta arrivò con l'alluvione del 1994 che ispirò un megaviadotto da oltre un chilometro. Tutto sulla carta, naturalmente, perché nessuno credeva davvero che la tangenziale si sarebbe mai fatta. Troppi soldi, troppo tempo, troppi problemi. Il partito del rospo, che intanto era sorto, si fregava le mani, ma non aveva fatto i conti con il progetto dell'autostrada Asti-Cuneo. Né, soprattutto, con il presidente della Provincia Roberto Marmo, forzista, che persuase l'Anas a fare la tangenziale con l'intento di collegare al casello di Asti Ovest l'Asti-Cuneo con la Torino-Piacenza. Entrambe gestite da società che fanno capo al potente concessionario privato Marcellino Gavio. Si fece quindi un progetto faraonico per un'autostrada a sei corsie.
Ma nel 2002 il nuovo sindaco di centrosinistra Vittorio Voglino, uscito da una campagna elettorale nella quale quattro candidati su cinque, tutti tranne quello di Forza Italia, avevano promesso che se eletti non avrebbero fatto la tangenziale, lo bloccò. La motivazione? Per collegare le due autostrade si poteva bene utilizzare un'altra strada, già esistente, arrivando così al casello di Asti est. Soluzione considerata più facile e più logica. L'Anas avrebbe però dovuto ampliare quella strada. E come compensare Comune e Provincia? Semplice: realizzando la tangenziale della discordia ma con un progetto diverso, sul quale Marmo e Voglino stavolta si erano messi d'accordo. Un progetto forse più modesto, ma a quanto pare non meno costoso. E i soldi? Nessun problema: c'è la Legge obiettivo. Inutili le proteste degli oppositori, secondo cui non è stato mai fatto uno studio di viabilità, e quindi nessuno sarebbe in grado di dire quante macchine passeranno su quella strada. Inutili anche le osservazioni avanzate dal comitato su alcuni aspetti dell'operazione. Per esempio, la circostanza che la società Autostrada Asti-Cuneo del gruppo Gavio, concessionaria della tangenziale, sia partecipata al 35% dall'Anas, cioè dal concedente. Per esempio, che il progetto sia stato affidato a un'altra società del medesimo gruppo Gavio, la Sina spa, di cui è amministratore delegato Agostino Spoglianti, contemporaneamente pure presidente della Asti-Cuneo...
Sergio Rizzo 07 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #39 inserito:: Ottobre 09, 2009, 06:58:54 pm » |
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Fisco - L’estensione ai soggetti riconducibili al dominus dell’impresa
Lo scudo fiscale vale anche per le società
La circolare: le dichiarazioni personali non potranno essere utilizzate per gli accertamenti
ROMA - La copertura dello scudo fiscale si estende anche alle società. Si tratta di un ampliamento «di fatto», previsto dalla tanto attesa circolare applicativa del decreto che ha spianato la strada alla terza regolarizzazione delle somme illecitamente esportate nel giro di appena sette anni, a cui i tecnici delle Finanze hanno lavorato per giorni e che potrebbe essere diffusa oggi.
Il documento dell’Agenzia delle entrate chiarisce che le operazioni di rimpatrio o di regolarizzazione effettuate da una persona fisica non potranno essere utilizzate per far partire un accertamento fiscale o anche semplicemente nell’ambito di un controllo avviato magari per motivi diversi nei confronti di una società di capitali di cui quel contribuente è il dominus. Proprio così: il dominus . Termine latino che sta a indicare colui il quale esercita il controllo sull’azienda, come azionista di maggioranza o riferimento, oppure come amministratore.
Va detto che nella circolare è ben spiegato come questa estensione di fatto ai soggetti «indirettamente riconducibili» al contribuente «dominus », cioè le società, sia valido esclusivamente ai «fini tributari ». Precisazione d’obbligo, tesa evidentemente a sgombrare il campo da ogni possibile equivoco. Soprattutto dopo le polemiche, violentissime, che hanno accompagnato la decisione della maggioranza di centrodestra di allargare lo scudo fiscale anche a gravi reati penali, come il falso in bilancio, l’occultamento e la distruzione di documenti contabili, fatture false e altro ancora.
Per quale motivo gli uffici del Fisco hanno risolto di interpretare in senso ulteriormente estensivo lo scudo, è presto detto. L’assenza di una copertura per le società, sia pure indiretta, avrebbe potuto scoraggiare moltissimi piccoli imprenditori dall’utilizzare una sanatoria che li avrebbe messi personalmente al riparo dalle grane fiscali e giudiziarie, rischiando però di rivelarsi controproducente per la loro azienda, potendo rappresentare una vera e propria «notizia di reato» in grado di innescare pericolosi accertamenti tributari.
L’Agenzia delle entrate tiene a precisare che questa disposizione si giustifica con la necessità di impedire che lo scudo possa essere impiegato dal Fisco in senso sfavorevole a chi ne ha usufruito, per esempio al fine di accertare violazioni fiscali che non sarebbero coperte da quella sanatoria. E questo in ossequio al principio, contenuto nel decreto approvato dal Parlamento, che le operazioni di emersione non possono in alcun caso essere utilizzate, con l’unica eccezione dei procedimenti in corso, con la finalità di colpire il contribuente.
Più prosaicamente, l’obiettivo è quello di evitare una perdita di gettito rispetto alle stime. Si parla di possibili rientri di capitali per 100 miliardi di euro: somma che garantirebbe un introito di 5 miliardi per l’Erario. Lo scudo metterà poi al riparo dagli accertamenti, sottolinea il documento, anche i cosiddetti soggetti «interposti», cioè coloro attraverso i quali la persona fisica ha custodito all’estero i soldi o i beni.
Il tutto partendo da un concetto fondamentale, ribadito con estrema chiarezza nella stessa circolare. E cioè che chi farà lo scudo potrà evitare di incorrere nella misura introdotta con un decreto legge di qualche mese fa: la cosiddetta inversione dell’onere della prova. Misura, che il Tesoro ritiene decisiva nella lotta ai paradisi fiscali, in base alla quale non sarà più lo Stato a dover dimostrare che i denari detenuti all’estero sono somme evase al Fisco, bensì il contribuente a dover fornire la prova che non sono frutto di evasione. Questo salvacondotto garantito ai contribuenti scudati riguarda anche i soldi depositati negli anni passati.
Ieri il direttore dell’Agenzia delle entrate, Attilio Befera, ha specificato che l’importo del 5% (è il prezzo per aderire alla sanatoria) delle somme da rimpatriare o del valore dei beni da regolarizzare si dovrà pagare entro il prossimo 15 dicembre. «È evidente che terremo conto del fatto che il denaro non viene preso da sotto il materasso, ma ci sono delle tematiche tecniche. Il momento fondamentale è il momento del versamento. Tutti gli altri atti amministrativi necessari possono essere compiuti anche successivamente, in un ragionevole lasso di tempo», ha aggiunto.
Sergio Rizzo
09 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #40 inserito:: Ottobre 12, 2009, 05:39:09 pm » |
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I vertici del sindacato regionale valutano chi ha diritto allo «sconto»
L’università che «regala» un anno agli iscritti della Uil
Sessanta crediti per il triennio in legge alla Parthenope
ROMA — «Non c’è proprio niente di strano». Questo il commento del professor Federico Alvino quando, due anni fa, saltò fuori che nell’università con il record di docenti imparentati, la Parthenope di Napoli, anche lui, preside di giurisprudenza, poteva vantare una parentela coi fiocchi. Sua moglie Marilù Ferrara è infatti la figlia di Gennaro Ferrara, ininterrottamente da oltre un ventennio rettore dell’ateneo. Una parentela, inoltre, dalle spiccate venature politiche. Alvino è consigliere comunale di Napoli, capogruppo dell’Udc. Invece il suocero è vicepresidente della giunta provinciale. Deleghe: politiche scolastiche e diritto allo studio.
Proprio niente di strano, per come funziona l’università italiana. Che dire allora dell’ultima perla di cui si può fregiare il trentasettenne Alvino, uno dei presidi più giovani d’Italia? Qualche settimana fa la Parthenope ha firmato con la Uil della Campania una convenzione che consentirà a chi ha in tasca la tessera del sindacato guidato da Luigi Angeletti di vedersi riconoscere fino a 60 crediti per il corso di laurea triennale in giurisprudenza. Uno sconto, secco, di un anno su tre. Come ottenerlo? Sentite che cosa dice la convenzione: «In considerazione delle conoscenze e delle abilità che i lavoratori iscritti alla Uil potranno certificare in ragione delle funzioni e delle mansioni a loro attribuite verranno riconosciuti 60 crediti al personale impegnato in attività di tipo tecnico, gestionale o direttivo...50 crediti al personale impiegato in attività caratterizzato da conoscenze mono specialistiche...» . Ma sapete chi stabilisce i requisiti per avere diritto allo sconto? Ecco l’articolo 2 della convenzione: «La Uil segreteria regionale della Campania si impegna a collaborare con l’Università nell'individuazione dei requisiti nella fase istruttoria delle richieste degli iscritti». Cioè la decisione viene presa insieme al sindacato. E se un iscritto alla Uil ha magari già fatto qualche esame in quella università e vuole vederselo riconosciuto? Stropicciatevi gli occhi: «Il riconoscimento degli esami stessi — ha scritto Luciano Nazzaro della Uil Campania ai suoi colleghi — sarà curato dalla stessa Uil».
Ma per quanto possa sembrare inverosimile, convenzioni come quella appena stipulata dall’ateneo delle «dieci famiglie », come la definì nel giugno 2007 un articolo di Repubblica , nelle università italiane non sono affatto rare. Quando alla fine degli anni Novanta con la riforma voluta dal centrosinistra vennero istituite le lauree triennali, si decise di riconoscere crediti formativi accumulati con l’esperienza lavorativa. C’era una disposizione europea. Ma in Italia l’opportunità diventò ben presto occasione per i furbi. Da lì al malcostume vero e proprio il passo fu breve. E il malcostume dilagò. Si arrivò a regalare i pezzi di carta: c’erano convenzioni che consentivano di vedersi abbuonare anche tutti i crediti formativi del corso di laurea. Bastava discutere la tesi. E in qualche caso neanche quello.
Naturalmente dietro pagamento di rette profumate. A che cosa servivano le lauree prese in questo modo? Prevalentemente a passare di grado nella pubblica amministrazione. Da impiegato a funzionario, da sottufficiale a ufficiale, da pizzardone a graduato. Con relativo incremento di stipendio. Quando Fabio Mussi, tre anni fa, arrivò al ministero dell’Università, trovò questo sfacelo e stabilì il limite tassativo di 60 crediti (che sono pur sempre un anno di studio), cercando pure di introdurre criteri rigorosi per concederli. Ma evitare che lo sconto tocchi anche a somari con il solo merito di avere un tesserino nel portafoglio si è in seguito rivelato pressoché impossibile. Il giro di vite ha appena intaccato l’andazzo. Chi si stupisce che due anni dopo la direttiva Mussi una università statale come la Parthenope di Napoli forse non sa che a metà 2007 l’Università statale di Messina ha fatto una convenzione simile con la Cisl: anche in quel caso 60 crediti. Bastava avere un diploma di scuola media superiore e un posto di lavoro alla regione, o in una Asl, oppure in un altro ente pubblico. Ma soprattutto essere iscritti al sindacato di Raffaele Bonanni, dettaglio essenziale per accedere direttamente al secondo anno di Scienze politiche, giurisprudenza, statistica, economia. Ma è niente in confronto alle convenzioni che hanno firmato alcune università private «telematiche». Convenzioni con la Uil Poteri locali, la Ugl enti pubblici, la Rsu della Provincia di Agrigento, l’associazione romana vigili urbani, l’associazione dipendenti del ministero dell’Interno, il centro formazione professionale Enti padri Trinitari... Davvero niente di strano?
Sergio Rizzo
12 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #41 inserito:: Ottobre 14, 2009, 10:30:30 pm » |
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Il numero è quasi raddoppiato dall’Unità d’Italia. Adesso sono arrivate a 109 E i Camuni gridarono: una provincia anche a noi Gli enti che dovevano essere aboliti e le promesse infrante E i Camuni? Niente ai Camuni? Deciso a vendicare l’ingrata storia, il deputato leghista Davide Caparini ha deciso di tirare dritto: vuole a tutti i costi la nuova Provincia della Valcamonica. Capoluogo: Breno, metropoli di 5.014 anime. Direte: ancora un’altra provincia? Ma non avevano promesso quasi tutti di abolirle? Certo: prima delle elezioni, però. Promessa elettorale, vale quel che vale. Tanto è vero che il disegno di legge per sopprimerle, presentato alla Camera dalla strana coppia Casini & Di Pietro, è già morto. Se dovesse passare l’iniziativa camunica del parlamentare del Carroccio, quella con capitale Breno (inno ufficiale: «E su e giù e per la Valcamonica / la si sente la si sente...») sarebbe la provincia numero 110. Quando nacquero nel 1861, al momento dell’Unità d’Italia, erano quasi la metà: 59. Distribuite sul territorio con un criterio semplice: dovevi attraversare ciascuna in una giornata di cavallo. Nel 1947 erano già 91. E col passaggio dagli equini alle autoblu, hanno continuato ad aumentare, aumentare, aumentare a dispetto del proposito dei padri costituenti, che avevano previsto la loro abolizione con l’arrivo delle Regioni, fino a diventare 95 e poi 102 e su su fino a 109 grazie a new entry e soprattutto al raddoppio (da 4 ad di quelle della Sardegna. La quale con l’Ogliastra (57.960 abitanti, due terzi di Sesto San Giovanni) mise a segno il capolavoro, la provincia a due teste: Tortolì (10.661 anime) e Lanusei, che di anime ne ha ancora meno: 5.699. Un record mondiale. Che con l’arrivo di Breno verrebbe stracciato in attesa di nuove province e nuove capitali tipo Quinto Stampi, Pedesina, Zungri, Maccastorna, Carcoforo... Direte: ma dai, Carcoforo! Perché no, scusate? Se la provincia è indispensabile per essere vicina ai cittadini, cosa han fatto di male i carcoforesi per non avere anche loro una provincia? Quanto costino lo ha calcolato l’anno scorso il Sole 24 Ore : 17 miliardi di euro. Con un aumento del 70% rispetto al 2000. Da dove arrivano i denari? Un po’ dai trasferimenti. Parte dal prelievo del 12,5% sull’assicurazione delle auto e delle moto: 2 miliardi nel 2007, il 54% in più rispetto al 2000. Più aumenta l’assicurazione, più intasca la Provincia. Altri quattrini arrivano dall’imposta provinciale di trascrizione: le annotazioni al Pubblico registro automobilistico che doveva essere abolito. Ci sono poi un’addizionale sulla bolletta elettrica e il tributo provinciale per l’ambiente. Come mai i cittadini non si arrabbiano? Occhio non vede, cuore non duole: sono tutte tasse dentro altre tasse. Non si notano. Va da sé che a quel punto, ignaro delle spese, il cittadino vede titillato il suo campanilismo. Come nel caso della provincia di Fermo nata dalla divisione di quella di Ascoli Piceno. Una specie di scissione dell’atomo: da una piccola provincia ne sono nate due minuscole. In compenso, al posto di un solo consiglio da 30 membri, ne sono nati due da 24: totale 48 poltrone. Per non dire della provincia a tre piazze di Barletta-Andria-Trani, chiamata così per non far torto ai permalosi cittadini dell’una o l’altra capitale. Quanti sono i comuni di quella nuova Provincia? Dieci in tutto, sono. Il che, diciamolo, aumenta la pena per i sette tagliati fuori dal nome: Bisceglie, Trinitapoli, Minervino Murge. E la targa automobilistica? «BT». Rivolta: «E Andria? Non si può fare “Bat”?». «No, quella è di Batman». C’è da sorridere? Mica tanto. Sull’abolizione delle province, infatti, fu giocato un pezzo dell’ultima campagna elettorale. «Aboliremo le Province, è nel nostro programma», disse Berlusconi a Porta a porta il 10 aprile 2008. «Ma la Lega sarà d’accordo?», eccepì Bruno Vespa. E lui: «La Lega è composta da persone leali». «Presidente, che cosa ha previsto per abbassare i costi folli della politica?», gli chiese la signora Ines nella chat-line al Corriere . E lui: «La prima cosa da fare è dimezzare il numero dei parlamentari, dei consiglieri regionali, dei consiglieri comunali». E le Province? «Non parlo delle Province, perché bisogna eliminarle». Mostrava di crederci al punto, il Cavaliere, che cercava sponde: «Se Veltroni ci darà una mano... ». La linea veltroniana, del resto, era già stata dettata: «Cominceremo da subito abolendo le Province nei grandi comuni metropolitani ». Posizione confermata a Matrix : «All’abolizione delle province penso ci si possa arrivare. Ma non sono un demagogo. È facile dirlo in campagna elettorale...». Il socio fondatore del Pdl Gianfranco Fini era d’accordo: «I carrozzoni non sono intoccabili e si possono abolire per esempio le Province». Una tesi già benedetta da altri. Come l’ex ministro degli Interni azzurro Giuseppe Pisanu: «Le Province ormai non hanno più senso». Qualche settimana dopo le elezioni il capo del Governo sventolava il primo trionfo, riassunto dai tg amici con titoli così: «Abolite nove Province». In realtà nove province cambiavano soltanto nome. D’ora in avanti si sarebbero chiamate aree metropolitane. Un ritocco semantico. Ma naufragato lo stesso. Poi cominciarono i distinguo. «C’è un solo punto nel programma in cui ho difficoltà serie con gli alleati, l’abolizione delle Province. La Lega ha una posizione molto ferma», confessò Berlusconi nel dicembre 2008. «Sono enti inutili, ma non riusciremo a cancellarli in questa legislatura», confermava Renato Brunetta. Di più: nel disegno di legge sulle autonomie locali definito dal ministro Roberto Calderoli non solo sopravvivevano. Venivano addirittura rafforzate, con la possibilità di riscuotere tasse proprie. Vero è che Bossi aveva eretto un muro insormontabile: «Le Province non si toccano». Ma che la marcia indietro collettiva sia stata dovuta solo all’altolà del Carroccio non si può dire. Basti rileggere quanto affermò il deputato del Pd Gianclaudio Bressa nell’ottobre scorso: «Non siamo d’accordo con l’abolizione delle Province, né abbiamo mai detto di esserlo in passato. È ora di finirla con questa mistificazione ». E quello che diceva Veltroni? Coro democratico: Veltroni chi? Ma è niente in confronto alle contraddizioni della maggioranza. Dove Sandro Bondi, da coordinatore forzista, era a pié fermo al fianco del Capo: «Aboliamo le Province. Sono un diaframma inutile fra i Comuni e le Regioni». Era il 14 luglio 2007: qualche mese dopo, con marmorea coerenza, si candidava alla presidenza della Provincia di Massa Carrara. E meno male anche per lui (oggi ministro) che non ce l’ha fatta. Sennò sarebbe andato a ingrossare la folta schiera dei fedeli di sant’Alfonso Maria de’ Liguori al quale Dio concesse il dono della bilocazione. Cioè quei politici che sono insieme assisi su due poltrone: quella di parlamentare e quella di presidente provinciale. La legge dice che il presidente di una Provincia o il sindaco di una città con oltre 20 mila abitanti non può essere eletto parlamentare? Sì, ma non dice il contrario. Così i casi di doppio o triplo incarico si sono moltiplicati. Adesso sono nove, di cui sei pidiellini: c’è il presidente foggiano Antonio Pepe, quella astigiana Maria Teresa Armosino, quello avellinese Cosimo Sibilia, quello salernitano Edmondo Cirielli, quello napoletano Luigi Cesaro, quello ciociaro Antonio Iannarilli... Poi ci sono gli «ubiqui » della Lega: il presidente biellese Roberto Simonetti, quello bergamasco Ettore Pirovano e quello bresciano Daniele Molgora, che è anche sottosegretario all’Economia: un esempio di trilocazione mai tentato neppure dal santo fachiro Sai Baba capace al massimo di apparire insieme nell’Andra Pradesh e a Toronto. Chiederete: ma come fa uno a stare in tre posti diversi? La risposta la può forse suggerire lo stesso Pirovano. Il quale il 27 luglio scorso, mentre teneva la giunta a Bergamo, votava alla Camera a Roma materializzandosi grazie al tesserino usato al posto suo dal collega Nunziante Consiglio. Il quale, pizzicato da Fini, disse: «Era un gesto innocente, pensavo stesse per arrivare... ». Ma se di lunedì ha la giunta! «Oh signur, credevo fosse martedì...». Sergio Rizzo Gian Antonio Stella 14 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #42 inserito:: Ottobre 19, 2009, 03:49:34 pm » |
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La denuncia a «Report» di due imprenditrici
Il distretto del divano di Forlì e l’assalto cinese: «Siamo un’altra Prato»
La magistratura apre un’inchiesta per «turbativa del commercio e dell’industria»
ROMA — Mancano soltanto i drappi rossi come quelli che i cinesi di Prato appendono fuori dal capannone appena conquistato, perché tutti sappiano che i lavoratori italiani sono andati via e adesso ci sono loro. Ma per i piccoli imprenditori e gli artigiani di quel distretto romagnolo del divano, un tempo ricco e fiorente, il fantasma della città toscana si è materializzato già da tempo. «Se va avanti così ci ritroviamo come a Prato», è sbottata davanti alle telecamere di Report Elena Ciocca, piccola imprenditrice che quello spettro l’ha visto da molto vicino.
Ed è diventata, insieme a un’altra donna imprenditrice come lei, Manuela Amadori, protagonista e simbolo di una battaglia contro un sistema di illegalità e connivenze che sta mettendo in ginocchio una intera provincia. La stampa locale l’ha già battezzata Divanopoli, oppure Divani puliti. E non a caso. Intorno a Forlì c’è il distretto del divano, uno dei più importanti d’Italia, andato in crisi ancora prima che la tempesta finanziaria partita dagli Usa investisse l’Italia. Ma non una crisi di mercato o di commesse: il mercato delle poltrone e dei divani tiene e le commesse non hanno subito particolari flessioni. Da qualche anno però, ha raccontato l’inchiesta di Report andata in onda su Rai tre ieri sera, le piccole imprese italiane che lavorano per le grandi marche nazionali o francesi, come Poltronesofà o Roche Bobois chiudono a ripetizione, lasciando a casa i lavoratori.
Perché al loro posto, anche qui, sono arrivati i cinesi. Poche regole o nessuna regola, lavoratori formalmente part-time che in realtà si trovano in situazioni ai confini dello schiavismo. Una infiltrazione rapida e profonda, che ha ben presto messo fuori mercato le piccole imprese locali impossibilitate a seguire la picchiata dei prezzi. Al punto che qualche «terzista » italiano, per non restare tagliato fuori, prende le commesse e le passa alle ditte controllate dal Dragone.
Risultato: già nel 2006 nel distretto del «mobile imbottito» di Forlì avevano chiuso i battenti 50 imprese italiane, mentre il numero delle ditte cinesi aumentava del 135%. Senza che questo fenomeno, come del resto è accaduto a Prato, avesse destato particolare attenzione. Nell’anno in questione c’erano stati 12 controlli del locale ispettorato del lavoro. Ma anche se i 12 controlli avevano fatto scoprire ben 314 illeciti, 110 lavoratori irregolari e 23 clandestini, questo non aveva destato alcun allarme. Tanto che nel 2007 i controlli dell’ispettorato del lavoro, ha rivelato l’inchiesta di Report condotta da Sabrina Giannini, si erano ridotti a cinque.
Tutto questo mentre Elena Ciocca e Manuela Amadori tempestavano sindacati, ispettorato del lavoro e le associazioni imprenditoriali. Denunce cadute a quanto pare nel vuoto, finché un esposto non è arrivato al questore Calogero Germanà e le due imprenditrici sono state chiamate a rendere la loro testimonianza. A quel punto è scoppiato il caso. Il sostituto procuratore della Repubblica di Forlì, Fabio Di Vizio, ha avviato un’indagine che ipotizza ben 78 violazione del codice penale: dal mancato rispetto delle norme di sicurezza alla turbativa di mercato. Secondo Report , l’indagine ha coinvolto almeno tre imprese italiane (Polaris, Cosmosalotto e Tre Erre) che lavorano direttamente o indirettamente per le multinazionali della poltrona. E si è conclusa nei giorni scorsi con un esito clamoroso. «Turbativa del commercio e dell’industria» è l’ipotesi di reato confermata al termine dell’inchiesta giudiziaria. Una ipotesi suffragata anche dall’esistenza, affermano i magistrati, di una «società di fatto» fra alcuni imprenditori italiani che avrebbero fornito alle ditte cinesi capannoni e macchinari, e le ditte cinesi che avrebbero fornito agli imprenditori italiani prodotti a prezzi stracciati. Ma in attesa che la giustizia faccia il suo corso, nel distretto del divano forlivese è cambiato poco o nulla. Le ditte cinesi coinvolte nell’inchiesta, ha documentato la trasmissione di Milena Gabanelli, hanno cambiato ragione sociale: e così continuano a lavorare per gli stessi committenti italiani.
Sergio Rizzo
19 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #43 inserito:: Ottobre 29, 2009, 10:29:02 am » |
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Il nuovo saggio di Brunetta. Che apre alle «differenze di salario»
«Per il Sud nuova spedizione dei Mille»
Il titolare della Pubblica amministrazione: lì non applicabili le regole del Nord sul mercato del lavoro
ROMA — «Ogni libro sull’arretratezza del nostro Sud dovrebbe essere l’ultimo. Questo, invece, è il mio secondo, e ciò segnala un evidente fallimento della politica». Il saggio che l’editore Donzelli manda in libreria da domani, 30 ottobre con il titolo Sud, un sogno possibile (207 pagine, 16 euro) si apre con questo singolare mea culpa . Perché, pur essendo un economista, e personalmente di certo non responsabile del disastro del Mezzogiorno, l’autore del libro, cioè Renato Brunetta, ha responsabilità politiche in un partito che da quando lui è stato eletto al Parlamento europeo, nel 1999, ha governato l’Italia per oltre il 60% del tempo.
Non per questo risparmia qualcuno. Per il ministro della Funzione pubblica il fatto che a distanza di sessant’anni dalla Cassa del Mezzogiorno, il prodotto interno lordo pro capite del Sud sia ancora del 40% inferiore a quello del resto d’Italia, gli studenti meno preparati, le infrastrutture scarse e malandate, il lavoro manchi e la criminalità la faccia da padrone, è la certificazione che «a fallire è stata la classe dirigente italiana, che non è stata in grado di adattare le politiche e le misure previste per il Nord e per l’Europa alla particolare realtà meridionale ». Sostiene Brunetta che fin dall’unità d’Italia non si tiene mai conto del Sud «quando si prendono le grandi decisioni nazionali: dalla scelta europea all’abolizione delle gabbie salariali, dallo Statuto dei lavoratori all’ingresso nello Sme...» E non cita a caso le gabbie salariali, che sono state il cavallo di battaglia estivo della Lega di Umberto Bossi.
Brunetta ricorda che nel 1968 venne introdotta la fiscalizzazione degli oneri sociali per le fabbriche del Sud. «C’è da dire però», aggiunge, «che tale provvedimento aveva in gran parte natura compensativa della contemporanea abolizione, fortemente voluta dal sindacato, delle differenze provinciali di salario che avevano, fino ad allora, tenuto più basso e sensibilmente differenziato il costo del lavoro al Sud». Scrive più avanti il ministro: «Di nuovo, dopo cent’anni, si pensava illuministicamente che nuove regole comuni, e magari molto avanzate, come quelle nel mercato del lavoro, nella contrattazione e nei diritti dei lavoratori, avrebbero positivamente forzato l’economia del Sud. Si finì con l’ottenere, ancora una volta, esattamente l’effetto opposto, Le regole, inapplicabili, del Nord sul mercato del lavoro e sulle relazioni industriali produssero un sempre più profondo allontanamento del mondo del lavoro meridionale da quello del resto del Paese, attraverso il dilagare strutturale di attività sommerse, irregolari, marginali e precarie. Più le regole del Nord non erano applicabili, più cresceva il dualismo e la domanda sia di incentivi che di trasferimenti ». Non esiste purtroppo la controprova circa il fatto che con il permanere di condizioni diverse rispetto al Nord la situazione del Sud oggi sarebbe migliore. Ma non serve la controprova per «riconoscere», come fa Brunetta, «che il Sud ha, essenzialmente e prioritariamente, bisogno di una nuova classe dirigente».
Come attuare il rinnovamento? «La qualità di un territorio la fa la sua gente », dice. Auspicando un «programma poliennale di investimenti anche e soprattutto in capitale umano che abbia come obiettivo il superamento del gap di legalità e fiducia nelle aree più a rischio del Mezzogiorno». Tenetevi forte: «Detto in altri termini», provoca il ministro, «serve una nuova spedizione dei Mille». Una invasione che dovrà puntare, come fece Garibaldi, sugli insorti locali. Stavolta nella pubblica amministrazione. «Mentre si cercheranno al Nord funzionari e dirigenti pubblici esperti e capaci da inviare al Sud», dovrà scattare quella che Brunetta chiama l’«Operazione Rosolino Pilo», dal nome del patriota siciliano che nel 1860, a prezzo della vita, spianò la strada alla conquista di Palermo, per «la creazione al Sud di una rete che finora non è esistita, fatta di dirigenti e funzionari preparati e onesti».
Immaginiamo le reazioni. Perché Brunetta non si limita alle ricette per la sua pubblica amministrazione, ma interviene anche sulla Banca del Sud, sui problemi ambientali, sulle carenze delle infrastrutture. E si dà il caso che questo libro esca proprio mentre il fronte meridionale ha diviso in due il governo: da una parte Giulio Tremonti, dall’altra Claudio Scajola, Stefania Prestigiacomo, Raffaele Fitto e Gianfranco Micciché. Le ferite sono ancora aperte.
Sergio Rizzo
29 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #44 inserito:: Novembre 09, 2009, 03:05:01 pm » |
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Con le liberalizzazioni conquistò Confindustria e si fece nemici a destra e a sinistra
Bersani, ecco il tavolo dei suoi poteri forti
Da Epifani a Montezemolo, da Catricalà a Colaninno a Vittadini: i supporter e le possibili sponde a sorpresa
S'interrogavano sbigottiti, Dario Franceschini e i suoi, a proposito dell’incredibile dispiegamento di mezzi a favore di Pier Luigi Bersani nella campagna elettorale per la segreteria del Partito democratico, con l’Italia tappezzata di manifesti. Arrivando alla conclusione che l’«apparato » del vecchio Pci lavorava a pieno ritmo. Una macchina organizzativa micidiale, che non avrebbe dato scampo agli avversari del «Migliore », come ironizzò dopo il successo alle primarie l’eurodeputato pidiellino Mario Mauro, rivolgendo un perfido augurio di «buon lavoro al novello Togliatti ». Forse la prima volta che qualcuno nel centrodestra ha accostato Bersani a un capo comunista.
LIBERALIZZAZIONI - Pensare che Silvio Berlusconi in persona un giorno del 2007 gli fece pubblicamente i complimenti: «È uno dei più bravi». E un’altra volta lo indicò come l’unico ministro di centrosinistra che avrebbe accolto nella propria squadra di governo. Inutile dire che Bersani cortesemente declinerebbe l’invito. Ma in un governo delle liberalizzazioni il nuovo segretario del Pd non sfigurerebbe certamente. Convinto che «liberalizzare è di sinistra», Bersani è stato spesso boicottato nella sua stessa maggioranza: da sinistra come da destra. Al punto che dopo due anni molto delle sue «lenzuolate » è rimasto sulla carta. Eppure era quello il frutto di un’alleanza strategica con il presidente dell’Antitrust Antonio Catricalà, uno dei suoi migliori sostenitori. Eppure, al fianco aveva lo stato maggiore della Confindustria. «Siamo pronti a dare il massimo supporto a Bersani», disse Luca Cordero di Montezemolo quando arrivò la prima lenzuolata. Nel marzo 2008, quando il governo di centrosinistra stava esalando gli ultimi respiri, i due rievocarono così i due anni trascorsi dai lati opposti della barricata. Bersani: «Ringrazio Montezemolo del confronto, spesso animato, ma sempre civile. Abbiamo cercato di fare ciascuno qualcosa di buono». Montezemolo: «Posso contare sulle dita le volte in cui non mi sono trovato d’accordo con Bersani». Va detto che l’ex presidente degli industriali non è l’unico imprenditore con cui il segretario del Pd ha un rapporto speciale. C’è anche il suo partner in varie iniziative, Diego Della Valle. E l’attuale presidente dell’Alitalia Roberto Colaninno, padre del deputato Pd Matteo Colaninno (bersaniano), dieci anni fa protagonista della scalata a Telecom Italia. «Gli vanno riconosciuti dei meriti. Spero resti sulla scena », dichiarò Bersani quando nel 2001 Telecom Italia passò di mano. Una relazione inossidabile, come quella con la Lega delle cooperative di Giuliano Poletti. Mai ufficialmente schierata con Bersani, ma non per questo indifferente alla battaglia per la segreteria del Pd.
DIVERSI FRONTI - Ma le lenzuolate bersaniane ebbero anche la sponda del governatore della Banca d’Italia. Che fu ricambiato con un pubblico apprezzamento: «Mi pare che Mario Draghi appoggi la nostra linea di riforme sul massimo scoperto e la trasferibilità dei mutui». Affettuosità ripetute a proposito del «no» del governatore alle gabbie salariali in salsa leghista. È successo all’ultimo meeting di Cl, dove il segretario del Pd è ospite fisso fin da quando era presidente della Regione Emilia-Romagna. Ha titolato l’Ansa : «Il popolo di Cl incorona Bersani segretario Pd. A Rimini una platea amica che potrà pesare sulle primarie». Se per la vittoria abbia dovuto ringraziare anche il suo amico Giorgio Vittadini, fra i capi storici di Cl e fondatore del meeting di Rimini, nonché presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, è difficile dire. Certamente un ringraziamento speciale è dovuto al segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani. Nella campagna a favore di Bersani il suo sindacato si è impegnato a fondo. Tranne il segretario della funzione pubblica Carlo Podda, erano tutti per lui. Dei dieci componenti della segreteria confederale ben sette, escludendo Epifani, Paola Agnello Modica e Morena Piccinini, si sono addirittura candidati nelle liste a sostegno di Bersani. Il paradosso è che i parlamentari provenienti dalla Cgil, a cominciare da Sergio Cofferati per arrivare a Paolo Nerozzi e Achille Passoni, appoggiavano invece Franceschini. Paradosso che potrà avere effetti sorprendenti. Per esempio che nella squadra di Bersani ci sia un posto per il deputato franceschiniano Pier Paolo Baretta, ex numero due della Cisl, e nessuno invece per i parlamentari ex Cgil. Non è neanche escluso, poi, che al fianco del nuovo segretario possa essere chiamato un altro parlamentare più legato alla precedente segreteria, il veltroniano Marco Causi, già assessore al bilancio del Comune di Roma. Accanto, ovviamente, ai fedelissimi di Bersani: Francesco Boccia, che nel 2005 contese a Nichi Vendola la candidatura alla presidenza della Regione Puglia, e Stefano Fassina, ex consigliere economico di Vincenzo Visco, in precedenza capo della segreteria di Laura Pennacchi al Tesoro e coordinatore del Gramsci Ventunesimo, associazione che riunì 200 giovani pidiessini a sostegno della linea di riforma del Welfare propugnata da Massimo D’Alema. Ovvero, il più grande elettore di Bersani.
Sergio Rizzo
09 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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