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« Risposta #15 inserito:: Gennaio 27, 2009, 10:02:19 am » |
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Franco Debenedetti
«Mio fratello, la politica e la lunga sfida con il Cavaliere»
Parla Franco Debenedetti: «Ragioni politiche contrastano spesso con ragioni industriali»
ROMA — Franco Debenedetti confessa che quando ha appreso la notizia il passato gli è scorso davanti agli occhi come un rapidissimo flashback: «Una carrellata dei suoi successi e anche delle sue sconfitte, degli entusiasmi che ha suscitato, delle energie che ha catalizzato. Che vuole, abbiamo lavorato trentacinque anni insieme...». Fratelli con cognomi diversi. «Mio padre ha sempre scritto il suo cognome Debenedetti, tutto attaccato. Mio fratello Carlo ed io siamo registrati all'anagrafe così. Alcuni fratelli di mio padre scrivevano invece il cognome De Benedetti, staccato. Entrambe le versioni convivono all'interno della stessa famiglia». Quindi il vezzo non è suo. «Io mantengo la versione filologicamente corretta. Mio fratello è più pragmatico». Anche nel cognome? «Diciamo che ha grande intuito». Parla degli affari? «Non è da tutti partire da un'azienda di 80 persone e diventare uno dei moschettieri alla testa di uno dei grandi gruppi industriali ». Forse voleva dire «capitani»? «Allora si chiamavano moschettieri. L'era dei capitani, cosiddetti coraggiosi, è venuta dopo. Eugenio Scalfari e Carlo avevano già messo in piedi un'impresa editoriale con quello che è stato il più grande giornale italiano ». Però la strada del «moschettiere» e quella dei «capitani» si sono incrociate. Ricorda Colaninno? «Se allude alla vicenda Omnitel, Carlo ha iniziato quando Colaninno ancora faceva crescere l'azienda di filtri. L'introduzione della telefonia mobile è stato forse il più grande successo di mio fratello. Grazie anche alla mente di Elserino Piol». Cosa lo spinse verso i telefonini? «Olivetti fece una gara per la telefonia mobile in Germania. Fu persa, ma si fece esperienza e si costruì l'alleanza, il raggruppamento d'imprese con cui si vinse in Italia ». Aveva visto giusto? «Altroché. Come sulla Sme, il primo tentativo di fare una privatizzazione. Come sulla Mondadori...». Salvo poi andare a sbattere in entrambi i casi contro Berlusconi. «Per interposta persona: l'ostacolo vero era Bettino Craxi. Ma la vicenda Mondadori è più complessa, c'entrano vicende familiari... ». Poi De Benedetti e Berlusconi hanno rischiato di diventare soci. «È stato un episodio molto marginale. Management e Capitali è un fondo di private equity in cui mio fratello ha una quota non di controllo. Fa parte della storia recente, del Carlo finanziere, non industriale». Di chi fu l'idea? «Credo venisse da mio fratello, in un colloquio ». Rarissimo. E perché abortì? «Ragioni politiche contrastano spesso con ragioni industriali. È impossibile per il proprietario di Repubblica fare affari con Berlusconi». Lei che è stato parlamentare della sinistra, se ne fece un'opinione? «Sì, ma non gliela dico. Comunque, ci sono due zeta». Suo fratello passa per essere l'inventore delle scatole cinesi. «Quello era Enrico Cuccia» Ma lui ha imparato benissimo. «Quel sistema è stato, a ragione, ampiamente criticato soprattutto in seguito: ma quanto a rapporto di leva, mio fratello è stato ampiamente superato da chi è venuto dopo». La finanza, le auto, l'informatica, l'energia, i telefonini. Tutto questo non è stato dispersivo? «La critica ha fondamento. Probabilmente se l'operazione sulla Sgb in Belgio fosse andata in porto, poteva essere uno strumento potente per realizzare i suoi obiettivi di politica industriale. Il turnaround dell' Olivetti aveva limiti intrinseci, che si scontravano con i vincoli tipici dell'Italia. Ha presente l'articolo 18?». Allora tutti dovevano fare i conti con la politica. Anche suo fratello? «Parliamo degli anni Ottanta, anni decisivi per la storia di questo Paese. Bruno Visentini era presidente dell'Olivetti quando Craxi lo chiamò al governo, e lui si dimise. Carlo non ha mai nascosto le proprie idee,anche allora molto in sintonia con quelle che sosteneva Repubblica». Sarò più chiaro: ha avuto un rapporto organico con la sinistra? «Organico non certo. Ma era a favore dell'apertura al Pci. Si vedeva sovente con Tonino Tatò». Crede davvero che abbia lasciato per ragioni anagrafiche? «Non lo credo affatto. Mio fratello sta benissimo. È un uomo deciso nelle proprie opinioni. Non ci farà mancare i suoi commenti ». Allora c'è un nesso fra la sua decisione e i rigurgiti statalisti? «Mio fratello non solo ha fatto cose importanti, ma ha anche suscitato energie, coraggio di fare. Ora sarà più difficile, non tanto per i tempi, terribili in sé, ma per l'ondata di statalismo che renderà più arduo per tutti uscire dalla crisi. Serviranno anni per liberarsene. Mio fratello sta bene, ma a 74 anni non credo pensi a un'altra campagna del Belgio». Che cosa cambierà nell'editoria? «Carlo resterà nella Fieg. In conferenza stampa ha detto che il nuovo contratto dei giornalisti deve rappresentare una forte discontinuità. Mi dica: la sua decisione frena o accelera il cambiamento?».
Sergio Rizzo
27 gennaio 2009 da corriere.it
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« Risposta #16 inserito:: Febbraio 05, 2009, 11:36:24 pm » |
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Stretta su scommesse e giochi via web. E il Fisco potrebbe incassare quasi 30 milioni
Carcere per il poker sui siti irregolari
Ma nella proposta del governo ci sono sanzioni anche per i giocatori che frequentano le bische online non a norma
La roulette online proposta da un casinò online americano. I giocatori italiani potranno rivolgersi solo a quelli che si adegueranno alle norme che il governo sta per varare
Anche se di questi tempi non si butta via niente, con i 28 milioni che il governo conta di incassare quest'anno non ci risaneranno il bilancio dello Stato. Ma il punto non è questo: l'ultima mossa delle Finanze sui giochi via internet potrebbe aprire scenari diversi da quelli strettamente erariali.
Il 21 gennaio il ministero dell'Economia ha depositato un emendamento chilometrico e piuttosto contorto alla legge comunitaria del 2008 in discussione al Senato. In quel testo, accanto ad alcune disposizioni fiscali di adeguamento alle norme europee, sono stati infilati anche una ventina di commi che con le questioni di Bruxelles c'entrano come i cavoli a merenda. Ma sono pieni zeppi di notizie sconvolgenti per i maniaci di scommesse e giochi on line, come pure per chi li gestisce.
Un assaggio: i giocatori potranno accedere al sito, sempre che quello sia titolare di una regolare concessione, soltanto attraverso il portale dei Monopoli di Stato. Già questo potrebbe bastare. Per avere poi una delle 200 concessioni che le Finanze sono disposte a dare «in fase di prima applicazione» di questa specie di riforma, sarà necessario, per chi già non sia titolare di uno dei tradizionali permessi per le scommesse, i giochi a pronostico, il bingo, le lotterie e quant'altro, di una lunga serie di requisiti. Intanto avere hardware e software in un Paese dell' Unione. Quindi operare attraverso una società di capitali con fatturato biennale non inferiore a 1,5 milioni oppure in grado di fornire una garanzia bancaria per il medesimo importo, essere in regola con i requisiti di professionalità e affidabilità, garantire la sicurezza del browser e pagare un «contributo » al Fisco che può arrivare a 350 mila euro.
Per i gestori dei siti che vogliono fare i furbi c'è il deterrente del carcere: da sei mesi a tre anni. Ma rischiano fino a tre mesi d'arresto, oppure un'ammenda fino a 2 mila euro, anche i giocatori. Costoro dovranno sottoscrivere con il gestore del sito un contratto per l'apertura di un «conto di gioco» sulla base di un modello predisposto dai Monopoli. Su quel conto transiteranno le puntate del giocatore, le vincite e le perdite. Trascorsi tre anni senza giocate, tutto quanto è rimasto sul conto verrà incamerato dall'Erario.
Il governo motiva il giro di vite (comma 12 dell'emendamento) con l'esigenza di «contrastare in Italia la diffusione del gioco irregolare e illegale, nonché di perseguire la tutela dei consumatori e dell'ordine pubblico, la tutela dei minori e la lotta al gioco minorile e alle infiltrazioni della criminalità organizzata». Nella relazione tecnica si spiega poi che questo sporco giro d'affari via internet è di due miliardi di euro l'anno. E che questa operazione favorirà nel 2009 l'«emersione del gioco illegale» per 700 milioni di euro, facendo incassare allo Stato 21 milioni (più sette per le nuove concessioni). A regime, inoltre, gli incassi dovrebbero salire a 30 milioni. Stime che però il servizio bilancio del Senato mette palesemente in dubbio, sostenendo che «non è chiaro» come i calcoli siano stati fatti. Non entrano invece comprensibilmente nel merito, i tecnici di palazzo Madama, su dubbi di ben altro genere che inevitabilmente suscita la relazione tecnica del governo, quando afferma che alle stime di gettito dovuto all'emersione del gioco illecito «può aggiungersi anche una maggiore entrata derivante da una diversificazione in atto del portafoglio dei prodotti di giochi pubblici (giochi di carte, scommesse virtuali, scommesse a interazione diretta, ecc...)».
Sergio Rizzo 05 febbraio 2009
da corriere.it
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« Risposta #17 inserito:: Febbraio 14, 2009, 03:28:01 pm » |
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Incontri
Niente passeggiate ma solo vertici per il debutto internazionale del segretario Usa al Tesoro
La diplomazia di Geithner, un americano a Roma
787 milardi. Il valore del piano Usa varato ieri dal Congresso
Impegni Niente jogging e shopping: solo «bilaterali» con i ministri del G7 per l’autore del nuovo piano americano anticrisi ROMA - Chi sperava di incrociare Timothy Geithner mentre passeggiava per i Fori imperiali mano nella mano con sua moglie Carole Sonnenfeld, o magari di stringergli la mano a piazza Navona, si è dovuto rassegnare. La prima giornata da americano a Roma del segretario al Tesoro, primo rappresentante di un’amministrazione democratica a tornare sulle sponde del Tevere dopo gli otto interminabili anni dell’epoca di George W. Bush, non poteva essere come quella, pirotecnica, di Bill Clinton, nel giugno del 1994: anche allora, con Silvio Berlusconi a palazzo Chigi. Niente jogging in calzoncini e maglietta Radio city a Villa Borghese con l’ambasciatore, che del resto ancora non c’è. Niente scambi di battute con i passanti. Niente caramelle con il simbolo della Casa Bianca distribuite ai bambini.
Sia chiaro: non perché il segretario al Tesoro di Barack Obama non sia uno sportivo. Tutt’altro. Gioca a tennis, pratica il surf, sa andare sullo snowboard ed è anche un discreto praticante di softball. Ma nemmeno perché Geithner non sia un tipo espansivo. Coetaneo del presidente, del quale è appena 14 giorni più giovane, ha vissuto in Africa, India, Cina e Tailandia. Se il giovane Obama visse per quattro anni a Giacarta con la madre e il suo secondo marito, Geithner ha finito le scuola superiori a Bangkok. Ha studiato cinese e giapponese, ha la fama di persona ottimista e aperta e non dimostra la sua età. Dettaglio che qualcuno considera un difetto. «A 47 anni Tim ne dimostra 32, invece di questi tempi devi avere i capelli grigi e l’aria grave. Non è che non sia qualificato. È come appare...», ha detto di lui al Washington post Ken Duberstein, ex capo dello staff di Ronald Reagan.
Il fatto è che Geithner, reclutato dalla Federal reserve di New York, di cui era presidente, non è un politico. È un banchiere centrale che aveva lavorato in precedenza al dipartimento del Tesoro con Robert Rubin e Lawrence Summers. Anche se nella sua storia da «civil servant» non manca un’ombra che negli Usa non è considerata proprio trascurabile: 35 mila dollari di dollari di contributi previdenziali non pagati quando era al Fondomonetario internazionale. Una scivolata a cui ha rimediato pagando e scusandosi, ma che è stata l’ennesima per il nuovo gabinetto, che ha perso il segretario designato alla Salute Tom Daschle, colpito dalle accuse di evasione fiscale, e Nancy Killefer, la garante governativa per i progetti economici che non aveva versato 900 dollari di contributi per la sua colf. Senza contare le dimissioni del senatore Bill Richardson, E poi lo stile obamiano ha oggettivamente poco a che vedere con quello clintoniano. Soprattutto oggi, a distanza di quasi 15 anni da quella prima volta da americano a Roma di Clinton. Allora non c’erano stati fallimenti bancari a ripetizione, l’economia mondiale non era in picchiata a causa dei disastri finanziari innescati proprio dagli Stati Uniti, e gli americani non dovevano difendersi dalle accuse di protezionismo che adesso piovono da tutte le parti.
Lo struscio nel centro di Roma, insomma, sarebbe stato decisamente fuori luogo. Anche a prescindere dagli impegni fittissimi della giornata, con un pomeriggio pieno zeppo di colloqui bilaterali fra il segretario del Tesoro americano e i suoi colleghi degli altri Paesi. Per evitare di passare proprio inosservato è stata sufficiente una stretta di mano con il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, che Geithner conosce bene per averlo frequentato a lungo da capo della Fed e componente del Financial stability Forum, immortalata dai fotografi fuori dall’Hotel Excelsior, e qualche sorriso ai curiosi che osservavano la scena. Prima di andare al ministero dell’Economia per incontrare Giulio Tremonti e pranzare con lui, nella foresteria di via XX settembre. Forse, tra tutti i ministri di questo G8, quello con il quale il nuovo e più giovane segretario al Tesoro ha almeno una cosa in comune: il giorno del compleanno. Tremonti e Geithner sono entrambi nati il 18 agosto.
Sergio Rizzo
14 febbraio 2009 da corriere.it
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« Risposta #18 inserito:: Febbraio 17, 2009, 05:55:34 pm » |
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Saglia (Lavoro): giusto riconoscimento.
E Tremonti elogiò l'ex nemico Prodi
Cazzola: ha dei meriti.
Ma Della Vedova: evitiamo di santificarlo ROMA — Stefano Saglia dice di non avere alcuna difficoltà ad ammetterlo: «Dopo essere stato premier due volte, e soprattutto presidente della Commissione europea, Romano Prodi dev'essere necessariamente considerato una riserva della Repubblica. Indipendentemente dalle appartenenze politiche». Ne consegue che il presidente della commissione Lavoro della Camera non proverebbe stupore, afferma, se il governo di centrodestra decidesse di candidare l'ex capo dell'Ulivo per qualche prestigioso incarico internazionale. «Bene ha fatto Giulio Tremonti a rendergli merito», sottolinea.
Del resto l'articolo sulla prima pagina del Messaggero di domenica 15 febbraio, nel quale Prodi ha elogiato i risultati del vertice G7 di Roma che avrebbe posto le basi per «preparare qualcosa di simile a una nuova Bretton Woods» con toni sembrati a molti un riconoscimento implicito all'azione del governo, non poteva passare inosservato. «Tra i G7», ha scritto l'ex presidente del governo di centrosinistra, «non è stato soltanto siglato un patto a combattere il protezionismo, ma anche a costruire nuove regole e standard più rigorosi per i mercati finanziari internazionali». Come del resto non poteva passare inosservata nemmeno la reazione del ministro dell'Economia Giulio Tremonti, che il giorno dopo ha dato atto all'ex premier, sullo stesso giornale, di aver scritto «un articolo che esprime la cifra della grande politica. Una cifra che somma due addendi essenziali. La visione e la cultura istituzionale». Commenta Luigi Casero: «Questa che stiamo vivendo è una crisi che nasce dalla mancanza di regole.
Nel merito l'analisi di Prodi non può che essere condivisa. La sua è una posizione intelligente. L'economia deve comunque essere regolata, da solo il mercato non è sufficiente a garantire che non si ripeta quello che è già successo. E il fatto che il G7 abbia focalizzato la propria attenzione su questo aspetto è certamente positivo». Ma il sottosegretario all'economia aggiunge anche una considerazione di metodo: «Le parole di Prodi fanno sperare che su questo tema si possa finalmente uscire dalle inutili contrapposizioni». L'economista Mario Baldassarri, presidente della commissione Finanze del Senato, ricorda di aver scritto «un libro nel quale si sosteneva che la crisi sarebbe arrivata e che non ne saremmo mai usciti senza accettare l'idea della necessità di riscrivere le regole, tre anni fa». Dichiarandosi d'accordo sull'idea di rifare una nuova Bretton Woods planetaria al punto da aver sollecitato «un ordine del giorno del Senato». Ex viceministro dell'Economia nel precedente governo Berlusconi, Baldassarri conosce benissimo Prodi e non è sempre stato dalla parte opposta della barricata. Si può rammentare a questo proposito il manifesto per il rigore finanziario e il liberismo economico che i due economisti lanciarono sul Corriere nel dicembre del 1994, sul finire del primo governo Berlusconi, insieme al premio Nobel Franco Modigliani, a Paolo Sylos Labini e Franco Debenedetti. Saglia tuttavia mette in guardia dalla ricette semplicistiche: «Temo che le regole da sole non bastino. Il problema è la credibilità delle autorità di vigilanza che devono farle rispettare. Ho seguito la legge sul risparmio. Come tutti ho salutato positivamente l'approvazione del Sarabanes Oxley Act negli Stati Uniti, dopo lo scandalo Enron. E ne ho tratto una lezione. I mercati devono sapere che i responsabili vengono individuati e puniti severamente. Altrimenti la fiducia non tornerà». Mentre il vicepresidente del gruppo Pdl al Senato, Gaetano Quagliariello, presidente della Fondazione Magna Carta, arriva a scorgere addirittura «una linea di continuità» fra Prodi e Tremonti «nella convinzione comune che il debito pubblico sia il vero grande problema dell'Italia e che sia assolutamente necessaria una politica di rigore finanziario».
Pur con enormi differenze: «Le situazioni sono state opposte. Tremonti ha il sostegno dell'intera coalizione. Il governo Prodi al contrario era frantumato e rissoso». L'idea di un impegno comune per arrivare a una nuova Bretton Woods sulla quale hanno convenuto tanto il ministro dell'Economia quanto l'ex presidente del Consiglio convince anche Benedetto Della Vedova, che tiene a precisare come «quegli accordi hanno dato all'economia mondiale un impianto liberista che ha retto per sessant'anni». Quanto alle «affettuosità» apparse sulle prime pagine del Messaggero, il parlamentare leader dei Riformatori liberali non risparmia qualche «affettuosa» frecciata: «Il professore non diventa un santo adesso soltanto perché non è più al governo. E poi credo che il confronto dovremmo averlo con il centrosinistra reale, non con il professor Prodi. Nel caso in cui però ci fosse l'opportunità di un incarico internazionale, credo che sarebbe molto fair da parte nostra indicare un autorevole componente dello schieramento opposto. Personalmente, tuttavia, preferirei Mario Monti. La sua esperienza alla Commissione europea è stata a dir poco impeccabile». Il bolognese Giuliano Cazzola, ex sindacalista della Cgil ora deputato del Popolo della libertà, è convinto che «sul professore il giudizio della storia sarà migliore di quello della cronaca. Prodi è l'uomo dell'euro e dell'allargamento dell'Unione, due passaggi storici fondamentali. Magari in politica non ci ha preso molto....» Anche se, ci ripensa, «il suo governo del 1996 fece la riforma delle pensioni e il pacchetto Treu, che ha sbloccato il mercato del lavoro prima ancora della riforma Biagi. Una sua rivalutazione, come anche una rivalutazione di Giuliano Amato, non potrebbe che trovarmi d'accordo. A proposito, sa che Prodi è stato in assoluto la prima persona a parlarmi bene di Silvio Berlusconi?»
Sergio Rizzo
17 febbraio 2009 da corriere.it
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« Risposta #19 inserito:: Febbraio 27, 2009, 11:50:12 pm » |
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Focus La vita nelle aree urbane
Le città hanno paura. Della crisi
Sondaggio sulla insicurezza in undici grandi centri
La precarietà economica (32%) batte la criminalità
Torino è la città dove è più alto il numero di persone che hanno cambiato abitudini per la criminalità
Alcuni dicono che la tempesta durerà tutto il 2009. Altri, invece, prevedono tempi molto più lunghi. Ma nessuno sa quanto servirà perché quel profondo senso di insicurezza che la crisi economica più grave dal dopoguerra ha generato abbandoni la società. Difficilmente, un anno fa, alla domanda «Che cosa le fa più paura?» la risposta più frequente sarebbe stata questa: «La precarietà economica e lavorativa». Il 32% degli abitanti delle grandi città italiane è spaventato più da questo che dalla criminalità (30%) e dal male tipico di ogni metropoli, la solitudine (12%). Se poi si somma anche il 18% che mette la «caduta del tenore di vita» in cima alla lista dei propri timori, ecco che oltre metà degli abitanti delle grandi città è preoccupato soprattutto per le proprie condizioni economiche.
Ma non è soltanto per questo che i risultati di un sondaggio condotto a metà gennaio in undici città italiane su un campione di 3.700 persone da Res publica Swg per una ricerca dell’Anci sulle «dimensioni della insicurezza urbana» appaiono sorprendenti. In nessuna città italiana, per esempio, l’immigrazione viene indicata dagli intervistati (ai quali è stato chiesto di esprimere tre giudizi) come il fattore che alimenta maggiormente il senso di insicurezza dei cittadini. Siamo al 24%, contro il 37% della «scarsa efficacia della giustizia» e il 36% della «mancanza o della precarietà del lavoro». La città dove le carenze della giustizia sono più avvertite come fattore di insicurezza è Roma (42%). Napoli è invece, com’è ovvio, quella dove invece il problema più grosso per l’incertezza sociale è il lavoro (49%). Nel capoluogo campano l’immigrazione è considerata un fattore di insicurezza quasi inesistente (9%). Ma anche nelle città dove raggiunge i valori più elevati (Torino e Venezia con il 32%), resta ben lontano dalla cima della classifica. Ancora: se si sommano le risposte che indicano la «mancanza e la precarietà del lavoro» (36%) con quelle che individuano fra le tre maggiori cause di insicurezza «l’aumento delle diseguaglianze e la crisi economica » (26%) si arriva al 62%. Eppure il sociologo Aldo Bonomi non si mostra affatto meravigliato: «Ho sempre sostenuto che il problema della sicurezza non è una questione di ordine pubblico. Semmai rimanda al concetto della società dell’incertezza». «Il fatto è — argomenta Bonomi — che siamo passati gradualmente da una società con mezzi scarsi ma fini certi, a una società con mezzi sovrabbondanti ma fini incerti. Nella società industriale tradizionale si andava a lavorare in un’azienda e tendenzialmente ci si rimaneva tutta la vita. Si sapeva cosa ci sarebbe toccato dalla nascita alla morte. Ora abbiamo mezzi sovrabbondati, internet, televisioni, possiamo girare il mondo con i voli low cost. Ma abbiamo una totale incertezza dei fini. Questo produce la vera grande paura, non il singolo fatto o la patologia criminale».
Non che il problema della criminalità non abbia il suo peso. Il 91% dei cittadini di Napoli avverte il proprio comune come «un luogo» insicuro. La stessa cosa pensano il 70% dei palermitani, il 62% dei baresi e il 55% dei romani. La città dove al contrario più predomina la sensazione di trovarsi in un «luogo» sicuro è Venezia (81%), seguita da Cagliari (77%) e Firenze (62%). Milano (considerata sicura dal 52%), Torino (51%) e Bologna (51%) sono al limite. Ma Milano, con Genova, ha anche un record negativo, fra tutte le 11 città prese in esame per la ricerca. Non c’è nessun milanese (come nessun genovese) che si senta di definire la propria città un luogo «molto sicuro». Anche se c’è da dire che se si eccettua Venezia (dove si sente «molto sicuro» l’11%), Firenze (7%) e forse Cagliari (5%), gli altri capoluoghi non sono in condizioni molto migliori. I giudizi «molto sicuro» sono il 3% a Bologna e Palermo, il 2% a Roma e Napoli, l’1% a Bari e a Torino.
Roma e Napoli, l’1% a Bari e a Torino. Il 71% dei napoletani, inoltre, ritiene che la città sia meno sicura di qualche anno fa. Giudizio identico a quello del 64% dei bolognesi, del 53% dei fiorentini, del 52% dei genovesi, del 51% dei torinesi e del 48% dei milanesi. la città dove la situazione della sicurezza risulta meno peggiorata è Cagliari. Bologna è la città dove le molestie e le violenze sessuali sono il fattore che incide maggiormente (secondo solo allo spaccio di droga) sulla percezione della sicurezza urbana: 43%. Soltanto Roma, con il 38%, si avvicina a questo valore. Milano è al 32%. Bonomi invita a ricordare un articolo sul Corriere «nel quale Claudio Magris si diceva stupito perché la gente ormai piscia per strada senza nessun problema. Il fatto è che la società ha perso le proprie capacità sanzionatorie. Una volta se un cittadino si comportava male, veniva colpito dall’ostracismo. Ora non più. E si delega ai soggetti di forza. Tutti dicono di volere più sicurezza, ma invece della luna si guarda il dito».
La percentuale maggiore di persone che a causa della scarsa sicurezza ha cambiato abitudini di vita è tuttavia a Torino: 62%, contro il 60% di Napoli e il 58% di Roma. Soltanto il 17% dei torinesi sarebbero tuttavia disponibili a partecipare alle ronde contro la criminalità. E nel capoluogo campano le ronde sono ancora meno popolari: 8%, contro il 10% di Roma, il 9% di Genova. E il 7% di Milano, il valore più basso insieme a Palermo, Venezia e Bologna.
Lo spunto dal quale è partita l’indagine di Cittalia, la fondazione per le ricerche dell’Anci, sono le circa 600 ordinanze emesse dai Comuni dopo il provvedimento sul «sindaco sceriffo». Per i due terzi (il 66%) al Nord. I sindaci del Sud hanno varato appena il 13% delle ordinanze, esattamente come i loro colleghi del Centro e più del doppio in rapporto ai primi cittadini delle Isole (6%). Principale obiettivo, la prostituzione. Più dietro, l’abuso di alcolici, gli atti vandalici e l’accattonaggio. Ma le ordinanze dei sindaci sceriffi non sono considerate risolutive dai cittadini. A Milano e Napoli il 44% delle persone è convinto che colgano un problema reale, ma sono poco efficaci. A Genova questo valore scende al 42%. A Torino è al 38%, a Venezia al 36%, come a Roma. Nel capoluogo lombardo i cittadini persuasi che l’ordinanza del sindaco si possa rivelare risolutiva sono però appena il 15%, percentuale superiore soltanto a quella registrata a Napoli (13%). In nessuna città italiana il numero di cittadini convinti dell’efficacia di queste ordinanze è superiore a quello di quanti si mostrano parzialmente o completamente scettici.
Sergio Rizzo
26 febbraio 2009 da corriere.it
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« Risposta #20 inserito:: Marzo 05, 2009, 09:18:37 am » |
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Retroscena
Banca del Sud: Tremonti vede D'Alema
L'incontro segreto e le telecamere della fiction
D'Alema e Giulio Tremonti avevano scelto per l'incontro un luogo riservato: una saletta dell'hotel Majestic, in via Veneto, nel centro di Roma. Non avrebbero mai pensato di trovarsi, alle 12.30 di ieri, sul set di Caterina e le sue figlie, una fiction di Canale 5 che in quel momento stavano girando nella hall dell'albergo. Commento fulminante di D'Alema, il primo a entrare, insieme al senatore del Pd Nicola Latorre: «Potevamo andare direttamente in teatro ».
Un minuto dopo è entrato anche il ministro dell'Economia, con il fido deputato Marco Milanese, seguendo lo stesso percorso, attraverso gli sguardi sorpresi di macchinisti e comparse e poi su per le scale, fino al primo piano. Per un lungo faccia a faccia. Abbastanza inedito, per i rapporti (praticamente inesistenti) che oggi intercorrono fra il governo e l'opposizione. Avrebbero parlato per un'ora, alla vigilia del credit and liquidity day, la giornata dedicata dal Tesoro alla verifica dello stato di salute finanziaria delle imprese, della crisi finanziaria. Un argomento che è stato spesso terreno di aspro confronto fra i due. Basta ricordare la puntata di Matrix dell'inizio di gennaio quando D'Alema dipinse Tremonti «come uno di quelli che amano andare contromano in autostrada». Oppure l'intervento a un convegno del Pd, nel giorno di San Valentino, quando aveva invitato a «distinguere fra socialismo e neopatrimonialismo di Tremonti, perché sono due modi diversi di concepire l'azione pubblica». Ma dietro le schermaglie verbali il dialogo fra i due non si è mai spezzato. Ieri D'Alema era reduce da un viaggio a Bruxelles dove martedì aveva visto il commissario agli Affari economici Joaquín Almunia, con il quale ha spezzato una lancia in favore degli eurobond: le emissioni di titoli continentali attraverso cui si dovrebbero finanziare le grandi infrastrutture europee. «Uno strumento ragionevole», li ha definiti l'ex ministro degli Esteri del governo di Romano Prodi.
Per inciso, l'idea degli eurobond, lanciata dall'ex presidente della Commissione Jacques Delors, è un cavallo di battaglia bipartisan degli italiani, sostenuto da Tremonti e Prodi, come dal vicepresidente del Parlamento europeo, il forzista Mauro Pepe, e dal capodelegazione democratico Gianni Pittella. Lo stesso Pittella autore, nel primo numero di quest'anno di Italianieuropei, bimestrale diretto da Giuliano Amato e D'Alema (che si apre fra l'altro proprio con un lungo articolo del ministro dell'Economia), di un preoccupato saggio nel «focus» sul Meridione. Il tema del Mezzogiorno sta particolarmente a cuore sia a Tremonti sia a D'Alema. Non senza qualche reciproca incomprensione. Per esempio, sul progetto di Banca del Sud, che durante l'incontro di ieri è stato comunque affrontato. Sabato 28 febbraio D'Alema non aveva risparmiato le critiche ai piani del Tesoro: «Il governo non può ritenere sufficiente la creazione della Banca del Sud per ripagare il Mezzogiorno degli otto miliardi di euro di fondi sottratti finora. Si tratterebbe solo di una mancia, buona a prendere il caffè. Qui non c'è bisogno del caffè. Ma di investimenti, sviluppo e lavoro». Ieri il chiarimento, con l'ex ministro degli Esteri che avrebbe chiesto impegni più consistenti per il Sud anche nell'ambito della strategia tremontiana. Se sono rose fioriranno.
Sergio Rizzo
05 marzo 2009 da corriere.it
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« Risposta #21 inserito:: Aprile 12, 2009, 10:59:18 am » |
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Dai comuni alle province
Come vengono aggirate le norme
Parlamentare e sindaco
Il popolo del doppio incarico da Pontida a Catania
Hanno altre mansioni 68 tra deputati e senatori
ROMA — Era la sera dell’11 novembre 2008. Il Senato era alle prese con il decreto che avrebbe potuto salvare il dissestato Comune di Catania: per il sindaco Raffaele Stancanelli era questione di vita o di morte. Poteva allora il senatore Raffaele Stancanelli far mancare il proprio voto favorevole a un finanziamento di 140 milioni per la città etnea? Non poteva. Votò a favore e si congratulò con se stesso esprimendo «soddisfazione» per com’era andata a finire. Perché il sindaco di Catania e il senatore del Popolo della libertà sono la medesima persona. Domanda legittima: come fa Stancanelli a conciliare l’incarico parlamentare con quello, ancora più gravoso, di amministrare quella città di 313.110 abitanti nello stato in cui si trova? Non è semplice, come dice chiaramente il suo curriculum parlamentare di un anno. Un solo intervento in assemblea, il compito di relatore a un disegno di legge sulle pensioni dei militari, e nove disegni di legge: ma li ha soltanto firmati.
Eppure i due incarichi sarebbero incompatibili. Le norme attualmente in vigore stabiliscono che chi occupa un seggio in Parlamento non possa fare il sindaco di una città con più di 20 mila abitanti, né il presidente di una giunta provinciale, né l’assessore, né il consigliere regionale. Ma si tratta di norme che si prestano a varie interpretazioni, così è facilmente possibile aggirarle. Di fatto, l’unica incompatibilità rispettata più o meno alla lettera è quella con gli incarichi nei consigli e nelle giunte regionali, grazie anche, al Senato, al limite tassativo di tre giorni per optare fra Parlamento e Regione che venne fissato dal presidente di palazzo Madama Renato Schifani e dal presidente della giunta delle elezioni Marco Follini. Per il resto, tutti o quasi hanno fatto spallucce. Anche di fronte al semplice buonsenso. Con il risultato che ora si contano 68 parlamentari che hanno altri incarichi istituzionali. Una quarantina fra sindaci e vicesindaci, e poi assessori, consiglieri comunali, consiglieri provinciali e perfino due presidenti di giunte provinciali: i deputati del Pdl Maria Teresa Armosino e Antonio Pepe, presidenti delle Province di Asti e Foggia.
Di fronte a questa situazione surreale, perché mai Stancanelli avrebbe dovuto dimettersi? Tanto più se non l’hanno fatto nemmeno i suoi colleghi di Senato e di partito, Vincenzo Nespoli a Antonio Azzollini, rispettivamente sindaci di Afragola e Molfetta, entrambe città con oltre 62 mila abitanti. Considerando pure che Azzollini non è un senatore qualsiasi, ma addirittura il presidente di una commissione permanente di palazzo Madama, la commissione Bilancio. In quella veste, a febbraio, ha sollecitato per iscritto il ministro dell’Agricoltura, Luca Zaia, a mettere mano al portafoglio per dare sostegni al settore ittico. Per la gioia dei pescatori molfettesi.
Non che alla Camera non ci siano casi simili. Eletto contemporaneamente sindaco di Brescia (187.567 abitanti) e deputato, il 18 aprile del 2008 Adriano Paroli ha dichiarato: «Se sarà utile alla città, resterò sindaco e parlamentare». Così è stato. C’è da dire che anche come deputato del Pdl s’è dato piuttosto da fare. Ha presentato otto sue proposte di legge, fra cui una per istituire un casinò stagionale nei comuni di San Pellegrino Terme (Bergamo) e Gardone Riviera (Brescia). Il suo collega deputato Giulio Marini, invece, si è concentrato (legislativamente parlando) sul personale delle Camere di commercio dopo aver conquistato insieme un seggio a Montecitorio e la poltrona di sindaco di Viterbo (59.308 abitanti), sconfiggendo un altro parlamentare: il tesoriere diessino Ugo Sposetti.
I parlamentari che sono contemporaneamente sindaci di Comuni con oltre 20 mila abitanti sono cinque. Ma guidano un plotone di primi cittadini ben più numeroso, considerando i centri più piccoli. Fra Camera e Senato se ne contano 36. Di ogni schieramento, ma moltissimi della Lega Nord. Come per esempio il sindaco di Pontida, il deputato Pierguido Vanalli, e il primo cittadino di Varallo, Gianluca Buonanno, che si è reso protagonista nell’estate del 2007 di una stravagante iniziativa: l’istituzione dell’assessorato alla dieta, con premi in denaro pubblico fino a 500 euro per i cittadini che avessero perso cinque (le donne) o sei chili (gli uomini). Senza trascurare il centrosinistra. Il senatore Claudio Molinari, eletto nel 2005 sindaco di Riva del Garda (15.693 abitanti), è approdato nel 2006 e nel 2008 in Senato, conservando sempre lo scranno da primo cittadino con l’affermazione, risoluta, che non lascerà in anticipo rispetto alla scadenza naturale del 2010. C’è addirittura un senatore che somma all’incarico di parlamentare e primo cittadino anche quello di governo: il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli, sindaco di Orbetello, città di 14.607 abitanti. Ci sono poi quattro vicesindaci: quelli di Roma (il senatore del Pdl Mauro Cutrufo), Milano (il deputato dello stesso partito Riccardo De Corato), Lecce (la senatrice Adriana Poli Bortone) e Caravaggio (il leghista Ettore Pirovano). A questi si sarebbe dovuta aggiungere, fino a qualche settimana fa, la senatrice Angela Maraventano, vicesindaco di Lampedusa alla quale a gennaio 2009 il sindaco Bernardino De Rubeis ha revocato le deleghe.
Non mancano gli assessori comunali. Ce ne sono tre. Uno di loro è Vittoria D’Incecco, deputata del Partito democratico, che amministra la sanità nella città di Pescara (116.286 abitanti). Restando nei Comuni, si contano altri 17 consiglieri comunali, alcuni dei quali in grandi città. Gian Luca Galletti (Udc) a Bologna, Alessandro Naccarato (Pd) a Padova, Gaetano Porcino (Idv) a Torino, Gabriele Toccafondi (Pdl) a Firenze) e Matteo Salvini, capogruppo leghista a palazzo Marino, Milano. Caso singolare, quello del consiglio comunale di Borgomanero, in Provincia di Novara, che ospita ben due parlamentari donne: la deputata leghista Maria Piera Pastore, presidente del consiglio, e la senatrice democratica Franca Biondelli. Non meno singolare la situazione in cui si trova il deputato Armando Valli, detto Mandell, senatore della Lega Nord e componente di ben quattro commissioni parlamentari, consigliere comunale del suo paese d’origine, Lezzeno, e anche consigliere della Provincia di Como.
Si dirà che sono cariche non incompatibili e che comunque la presenza degli amministratori locali in Parlamento assicura il necessario legame con il territorio. Ma la questione è sempre la stessa: anche ammettendo che amministrare un comune di 19.999 abitanti e uno di 20.001 siano due mestieri diversi, dove trovano il tempo?
Sergio Rizzo 12 aprile 2009
da corriere.it
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« Risposta #22 inserito:: Aprile 14, 2009, 10:50:34 pm » |
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Strategie
La svolta «operaista» di Di Pietro
Tour elettorale dell’ex pm nelle fabbriche di Brescia. La regia dell’ex Fiom Zipponi
ROMA — L’offensiva parte dalla «solitudine dell’operaio», per usare una definizione cara a Maurizio Zipponi. Ex segretario della Fiom di Brescia, eletto in Parlamento nel 2006 con Rifondazione comunista, ora candidato alle Europee con l’Italia dei valori, è lui la punta di diamante della nuova strategia dipietrista nelle fabbriche. Un inedito assoluto, per il partito dell’ex pm di Mani pulite, che finora non aveva mai mostrato vocazione per il mondo delle catene di montaggio. «Oggi l’operaio si sente solo. Tremendamente solo. Ed è lì che la rendita di posizione del Partito democratico si sta pian piano sgretolando», dice Zipponi. Lasciando intendere che quel bacino di voti al quale ha già attinto a piene mani Umberto Bossi comincia a fare gola (e molta) anche ad Antonio Di Pietro. L’operazione scatterà il 20 aprile proprio dalla città di Zipponi.
Mattinata nelle fabbriche, pomeriggio davanti ai cancelli dell’Iveco, il più grande stabilimento bresciano, serata con l’ex sindaco di Brescia Paolo Corsini e Di Pietro a parlare del libro scritto dall’ex ministro con Gianni Barbacetto: Il guastafeste. Non per caso. Perché in quel libro c’è un messaggio (la netta presa di posizione per l’«antifascismo » e «la costituzione repubblicana») indirizzato da Antonio Di Pietro a chi continua a rimproverargli di essere privo dei cromosomi della sinistra. «Il punto di snodo», spiega Zipponi, «è stato l’adesione dell’Italia dei Valori allo sciopero generale proclamato dalla Cgil il 12 dicembre dello scorso anno». Da allora i dipietristi hanno cominciato a mettere insieme i pezzi del nuovo puzzle, fino ad arrivare a condividere anche lo sciopero della Fiom e della Funzione pubblica Cgil del 13 febbraio e a mettere in campo una serie di proposte per le elezioni europee. Un pacchetto che comprende l’idea di un contratto unico europeo di lavoro per l’industria, ma anche la semplificazione dei contratti di categoria (dagli attuali 450 a quattro soli) e l’abolizione degli accordi di Basilea 2 che, sostiene Zipponi, «strozzano le piccole imprese, impedendogli l’accesso al credito».
Che c’entra Basilea con gli operai? «Oggi l’operaio è il giovane che sta alla catena di montaggio, ma anche il lavoratore del call center, come pure il titolare di partita Iva...» dice l’ex sindacalista della Fiom, convinto che sia in atto una profonda mutazione genetica. «Le fabbriche sono piene di giovani. L’età media all’Ilva è di 35 anni. All’Alfa di Pomigliano, addirittura 32. Giovani che non hanno padri ideologici. Operai dentro, cittadini fuori. Stanno con il sindacato ma esprimono un voto non coerente con le scelte politiche dei dirigenti sindacali. Si pensava che il voto di costoro per la Lega Nord fosse un segno di protesta, invece no. Il voto del leghista di fabbrica si è strutturato». Perché allora non provare a giocarsi questa partita sul terreno un tempo egemonizzato dalla sinistra che «ora però parla soltanto di conservazione, senza mai incrociare la parola cambiamento »? E magari con parole d’ordine in grado di mettere seriamente in crisi pure le decisioni dei vertici del sindacato? Per esempio, la democrazia diretta in fabbrica sempre e comunque, con gli accordi sindacali sottoposti regolarmente al giudizio di tutti i lavoratori.
E sorprese sempre più frequenti, come insegna la vicenda della Piaggio di Pontedera, dove la Fiom ha perso il referendum e ha dovuto firmare l’accordo sottoscritto da Cisl, Uil e Ugl. Per esempio, l’attacco frontale ad alcune prerogative delle organizzazioni, come la verifica periodica delle deleghe firmate dai pensionati che si ritrovano iscritti a vita al sindacato. Si attendono ora le contromosse del Partito democratico, che dopo la Lega Nord rischia ora di trovarsi nelle fabbriche un altro pericoloso concorrente. Pier Paolo Baretta, parlamentare del Pd e già segretario generale aggiunto della Cisl non nega che il problema esista. «Ma credo che la competizione sia più con la sinistra radicale che con noi», afferma. «E sarebbe un errore tragico», avverte Baretta, «mettersi a inseguire Di Pietro tentando di occupare lo spazio della contestazione. L’opposizione non si fa soltanto in quel modo. Il Partito democratico non può essere un semplice contenitore di dissenso, come invece è l’Italia dei valori. La nostra risposta è avere una fisionomia netta e proposte precise».
Sergio Rizzo 14 aprile 2009 Corriere della Sera
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« Risposta #23 inserito:: Aprile 15, 2009, 12:45:12 pm » |
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Il caso
L’eredità del barone Quintieri destinata ai non vedenti e finita alla Campania
Un patrimonio immenso che doveva finire in beneficenza «bruciato» dalle malefatte della burocrazia
Ecco, di seguito, un brano di «Rapaci» di Sergio Rizzo.
Il barone Giovanni Paolo Quintieri non poteva prevedere un finale più acido. Non poteva, perché quando ha fatto testamento la Regione Campania non esisteva ancora. Mai avrebbe dunque immaginato che un giorno tutto il suo sterminato patrimonio sarebbe finito nelle mani dei politici. Anche se la politica, il barone Quintieri, l’aveva avuta in famiglia. Suo padre Angelo (...) fu deputato del parlamento del Regno d’Italia per sei legislature (...). Mentre lui si dava alla politica, sua moglie Evelina Casalis profondeva energie e soldi per i ciechi dell’istituto Paolo Colosimo di Napoli. Il figlio seguì con tale convinzione le benefiche orme della madre al punto che alla sua morte, avvenuta il 18 agosto del 1970, lasciò in eredità ogni cosa a loro. L’immenso patrimonio della famiglia Quintieri venne perciò inizialmente assorbito dal Patronato Regina Margherita pro ciechi Istituto Paolo Colosimo. Poi nel 1979 passò tutto alla Regione Campania. E qui comincia un’altra storia. Per «tutto» si intende quanto segue.
Un enorme castello medievale, fra i più grandi e meglio conservati dell’Italia centrale, già appartenuto alle famiglie Colonna, Orsini e Rospigliosi, con intorno una tenuta agricola, a una trentina di chilometri da Roma, località Passerano: 900 ettari (...) con oliveti, coltivazioni a mais, orzo, grano e fieno, e quasi cinquecento capi di bestiame. Una seconda tenuta agricola di 160 ettari, sempre con relativo castello, nelle Marche, a Montecoriolano, nei pressi di Porto Potenza Picena (...).
Una serie di possedimenti in Calabria. Un palazzo di 52 appartamenti costruito durante il fascismo a Roma, in via Panama, nel cuore del prestigioso quartiere dei Parioli. Oltre, naturalmente, agli arredi e alle suppellettili presenti nelle dimore. Nel 1996, quando alla presidenza della Regione c’è Antonio Rastrelli, si fa un inventario con 765 voci. Vasi cinesi. Lampadari di Murano. Tappeti persiani. Candelabri d'argento. Salotti d’epoca (...) E quadri. Tanti da riempire una pinacoteca. Quadri di Domenico Bartolomeo Ubaldini, detto Il Puligo, pittore del primo Cinquecento. Quadri di alcuni fra i più importanti pittori del Seicento e del Settecento. Andrea Vaccaro. Giacinto Diano. Francesco De Mura. Gaetano Gandolfi. Peter Roos, alias Rosa da Tivoli. Pacecco De Rosa. Giovanni Francesco Barbieri, detto Il Guercino. Jusepe de Ribera, detto Lo Spagnoletto. E Rembrandt. Già, anche un «Ritratto di gentiluomo a mezzo busto» dipinto nel 1635 dal celebre pittore olandese Rembrandt Harmeszoon Van Rijn.
Il testamento del barone Quintieri stabilisce che il lascito serve a mantenere il Colosimo e i suoi ospiti non vedenti. Ma non dice come debba essere amministrato. Il condominio di Roma, i castelli, le ville, le tenute e quant’altro vengono quindi affidati alla Sauie, Società anonima urbana industria edilizia srl, una vecchia scatola creata dal barone proprio per gestire l’immobile di via Panama, che passa anch’essa sotto il controllo della Regione Campania e diventa la stanza dei bottoni per amministrare un patrimonio di centinaia di milioni di euro (...) Quale però sia il rendimento di questo incredibile tesoro, è un capitolo a parte(...) All’inizio degli anni Duemila inizi una battaglia a suon di interrogazioni condotta da un consigliere regionale di An, in seguito passato all’Udc, Salvatore Ronghi. Denuncia che l’Istituto per i ciechi ha ricevuto per vent’anni soltanto le briciole: 600 milioni di lire l’anno, per giunta soldi versati dagli enti locali e non proventi dell’eredità Quintieri. Che le pigioni sono ridicole, e porta l’esempio di un appartamento di cinque stanze al piano nobile di via Partenope affittato per anni a 85.535 lire al mese (...)Che «a seguito di tale, a dir poco, disinvolta amministrazione », gli eredi della famiglia Quintieri hanno fatto causa per rientrare in possesso dei beni «così malamente utilizzati».
Ma Ronghi non si ferma a questo. Chiede di conoscere come sono gestite le aziende agricole, e perché 38 ettari di terreno in quella laziale sono stati affittati alla società Aviocaipoli, per realizzare una pista di volo per aerei ultraleggeri, a un canone provvisorio di 5 mila euro l'anno. Chiede di sapere il motivo per cui si spendono centinaia di migliaia di euro di consulenze. Chiede chiarimenti sulla lievitazione dei costi di alcuni appalti per sistemare locali. E cita come esempio di gestione «fallimentare » un fatto incredibile: la vendita di 30 mila bottiglie di vino Doc prodotto dall’azienda agricola marchigiana al prezzo di un euro l’una, «a fronte di un valore che va da 5,50 a 12 euro, con una perdita secca di 200 mila euro». Un quadro, quello dipinto da Ronghi (...) stupefacente. Condito da una quantità incredibile di particolari sconcertanti, come quello di un presunto furto di 37 vacche dalle stalle di Passerano, dove secondo un’altra sua interrogazione presentata a febbraio del 2009 sarebbero morti «oltre cento capi di bestiame». Magari i suoi sospetti sulla evaporazione di alcuni beni erano esagerati (...)
Ma è difficile da credere che un privato avrebbe gestito peggio di così tutto questo ben di Dio. E l’Istituto Colosimo, con i suoi ospiti non vedenti, sarebbe letteralmente coperto d’oro. Sapete quanti sono oggi i ciechi per i quali viene giustificata l’esistenza in vita della società immobiliare della Regione, con i suoi amministratori, il collegio sindacale, i dirigenti, i dipendenti, i contabili, le aziende agricole, i castelli, i 52 appartamenti dei Parioli, le pratiche burocratiche, gli appalti e gli scontri furiosi in consiglio regionale?
Sono quarantasette, dei quali appena trentuno a convitto. Quarantasette!
Sergio Rizzo
15/04/2009 da corriere.it
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« Risposta #24 inserito:: Aprile 22, 2009, 12:53:05 pm » |
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Ad essere in ritardo nei pagamenti sono soprattutto le Asl: Lo Stato paga dopo 138 giorni
È il tempo per saldare le fatture.
Confindustria: 60 miliardi alle imprese. Il Tesoro: sono 30 «La presidenza del Consiglio dei ministri è estranea a ogni rapporto scaturente dalla presente ordinanza». Firmato: la presidenza del Consiglio dei ministri. Questo passaggio del provvedimento governativo con cui è stato nominato il nuovo commissario per l'emergenza rifiuti in Calabria basta da solo a spiegare che cosa sta succedendo alla Tec, una società che brucia nell'inceneritore di Gioia Tauro la spazzatura calabrese per conto del commissariato.
Un paio d'anni fa il gruppo francese Veolia ha comprato dall'ex amministratore delegato della Cogefar Impresit Enso Papi, uno dei primi a finire nel ciclone di Mani Pulite, il 75% della Termomeccanica, ritrovandosi così proprietario anche dell'azienda calabrese. Florida sulla carta, inguaiata nella sostanza, visto che nessuno paga. Non paga lo Stato, ma neppure la Regione. I crediti della Tec superano ormai 90 milioni di euro. Una parte di essi, quella dei contributi regionali sulle tariffe, aspetta di essere saldata addirittura dal 2004. Con un paradosso: che gli interessi di mora adesso si sono mangiati anche la piccola fetta che era stata pagata. E il debito è tornato praticamente al livello iniziale.
I responsabili dell'azienda hanno chiesto spiegazioni a Palazzo Chigi. Sentendosi rispondere dal sottosegretario Guido Bertolaso che non devono battere cassa da Silvio Berlusconi ma dal presidente della Regione Calabria Agazio Loiero. Da allora è cominciato un imbarazzante ping pong. Il governo avrebbe chiesto anche un parere al Consiglio di Stato su certe pendenze, con i francesi sempre più allibiti, al punto da non escludere, in assenza di risposte certe, di lasciare la Calabria.
Gli si può dar torto? In Francia l'amministrazione di Nicolas Sarkozy ha appena fatto una legge che impone alle imprese (tutte, pubbliche e private), di pagare tassativamente entro 30 giorni. La Gran Bretagna ha addirittura ridotto il termine massimo per i pagamenti della pubblica amministrazione ai suoi fornitori da 30 a 8 (otto) giorni. E da noi, dove non hanno certamente tutti le spalle larghe come quelle di Veolia?
Secondo un'indagine della Confartigianato che risale a due anni fa le pubbliche amministrazioni italiane pagano mediamente in 138 giorni, contro una media europea di 68 giorni. Peggio, soltanto il Portogallo. Vero è che in Italia nessuno paga sull'unghia. Anche le grandi imprese come la Fiat sono abituate a prendersela piuttosto comoda con i loro fornitori. Tanto più con la crisi. Ma c'è un limite a tutto. Sapete in quanto tempo mediamente (e si deve sottolineare il «mediamente») le aziende sanitarie locali molisane, secondo l'Assobiomedica, onoravano i propri impegni nel gennaio 2008? In 921 giorni.
Proprio così: due anni, sei mesi e undici giorni. A febbraio 2009 si era scesi a 633 giorni. In linea con Calabria e Campania, le ultime della classe. Ma il bello è che non ci sono progressi reali. A febbraio del 2009 il ritardo medio dei pagamenti delle Asl risultava, sempre secondo l’Assobiomedica, di 288 giorni. Esattamente come nel dicembre del 1990. Perché? «Per due motivi. In primo luogo le pubbliche amministrazioni italiane non credono nel sistema, sono sempre state convinte che meno soldi danno più risparmiano. In secondo luogo la loro affidabilità viene valutata dalle agenzie di rating sulla cassa: meno spendono, più sono considerate affidabili, indipendentemente dal debito», dice il presidente dell’Assobiomedica Angelo Fracassi.
Ma forse nel 1990 i volumi erano diversi. Nessuno è in grado di dire quanti debiti abbiano accumulato le pubbliche amministrazioni con le imprese, prevalentemente nei settori della sanità e dei servizi. E già questo è un fatto decisamente curioso. Ma lo è ancora di più che si litighi su dati che nessuno ha. Confindustria stima che l’esposizione totale sia pari a metà di quei 120 miliardi di euro che ogni anno Stato ed enti locali spendono per acquistare beni e servizi. Stima che il Tesoro contesta, preferendo parlare di una trentina di miliardi, forse meno. In ogni caso la cifra vale da un minimo di due fino a quattro punti di Prodotto interno lordo.
Ma come si è potuti arrivare a questo punto? La colpa non è soltanto di una burocrazia ottusa che partorisce norme apparentemente strampalate come quella dell’ordinanza per i rifiuti della Calabria, che richiama alla mente il «Comma 22» del famoso film di Mike Nichols. Ricordate com’era formulato? «Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo». Anche in Italia, pur senza voler considerare la direttiva europea che avrebbe fissato per tutti i Paesi il limite di un mese, esisterebbero un termine più o meno certo per i pagamenti della clientela pubblica: 90 giorni. Ma il condizionale è d’obbligo. I trasferimenti dello Stato arrivano sempre in ritardo. Poi le Regioni ci mettono del loro. Qualcuna si impegna soldi che non ha. E poi c’è sempre quel meccanismo bizantino del bilancio pubblico fatto sia sulla base della «cassa» che della «competenza » (la differenza fra i soldi che materialmente si devono tirare fuori e quelli che invece si devono solo impegnare sulla carta)a complicare le cose. Risultato: i mesi passano senza che nessuno faccia nulla.
Nemmeno le imprese, che ormai (quelle che possono perché non devono pagare troppi stipendi) si sono abituate all’andazzo. Dopo 90 giorni, dice la legge, le aziende dovrebbero far scattare automaticamente gli interessi. Salatissimi. Ma non scattano quasi mai, perché le ditte hanno paura di essere penalizzate nei contratti futuri. Si è arrivati al paradosso che la Campania ha recentemente approvato una legge regionale (impugnata dal governo) con cui si stabilisce che ospedali e Asl non possono subire pignoramenti.
Ogni tanto qualcuno solleva in Parlamento, con emendamenti e disegni di legge, il problema di uno Stato velocissimo a pretendere ma lentissimo a riconoscere i propri debiti. Uno per tutti: Nicola Rossi. Ma le sue proposte, manco a dirlo, non sono state nemmeno esaminate. Le hanno lasciate semplicemente ammuffire nel cassetto. Più comodo andare avanti così, nascondendo sotto il tappeto qualche miliardi di euro di debito pubblico. Pazienza se le imprese aspettano anche anni per incassare il dovuto.
Sentite Fracassi, che è anche presidente della D-group, una impresa che opera nel settore dei sistemi per le analisi di laboratorio clinico: «Il Policlinico Umberto primo di Roma è fallito qualche anno fa. Hanno fatto un’azienda nuova e i fornitori della vecchia sono ancora in attesa. Io sto aspettando da dieci anni. Ma questo è ancora niente: sei mesi fa ho incassato crediti per 300 milioni delle vecchie lire dalla Regione Puglia che risalivano a prima del 1994. E ho dovuto rinunciare agli interessi».
Per non parlare di quello che succede nel settore dei rifiuti. Nel Lazio gli enti locali hanno debiti per circa 200 milioni di euro: a dicembre del 2008 l’Ama, l’azienda municipalizzata di Roma, doveva a Manlio Cerroni, il titolare della discarica di Malagrotta, 135 milioni. A 900 milioni ammontano invece i debiti «pubblici» nei confronti delle aziende che smaltiscono i rifiuti in Sicilia. Regione dove c’è una situazione assurda: il 90% dei Comuni ha trasferito la competenza sui rifiuti alle autorità di bacino, insieme alla riscossione delle imposte. Ma ci si è dimenticati, piccolo particolare, che la Tarsu non copre che il 60% (quando va bene) del costo dello smaltimento. Perciò i soldi per pagare le imprese materialmente non ci sono. Si arrangino.
Insomma, è un pandemonio. Aggravato da norme come quella rinverdita dal governo di Romano Prodi, che vieta alle amministrazioni pubbliche di pagare le imprese che abbiano una sia pur piccola pendenza con lo Stato. Per esempio, un contenzioso fiscale. Tutto questo, naturalmente, ha un costo che è stato calcolato in circa un miliardo di euro l’anno di maggiori oneri finanziari: 150 milioni per le sole imprese della Lombardia.
Come uscirne da una faccenda tanto grave e complicata che l’Authority per i lavori e le forniture pubbliche presieduta da Luigi Giampaolino ha deciso di avviare un’indagine conoscitiva? Nel decreto anticrisi diventato legge alla fine di gennaio il governo ha inserito un paio di norme per agevolare la riscossione di quei crediti. E ora il Tesoro ha quasi completato la stesura dei regolamenti attuativi. La prima norma è la possibilità di far intervenire la Sace, compagnia assicurativa del Tesoro, per dare garanzia alle banche che concedano anticipazioni alle imprese creditrici o per riassicurare polizze stipulate dai creditori garantendosi dal rischio che il «pubblico» non paghi. Iniziativa singolare, considerando che così, anche se indirettamente, lo Stato garantisce il privato contro il rischio che lo Stato si riveli inadempiente.
La seconda norma stabilisce invece che le Regioni e gli enti locali rilascino al creditore una «certificazione» per non avere difficoltà a scontare il credito in banca. Un modulo, come quello che già c’è per lo Stato, nel quale semplicemente si ammette l’esistenza del debito. Un’ovvietà. Se non fosse che quella «certificazione » trasformerebbe automaticamente il debito commerciale in debito pubblico. Motivo per il quale il Ragioniere generale dello Stato è molto preoccupato. Molto. Perché almeno due punti in più, di colpo, su un debito pubblico come il nostro non sono mai uno scherzo. Figuriamoci adesso.
Sergio Rizzo
22 aprile 2009 da corriere.it
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« Risposta #25 inserito:: Maggio 12, 2009, 10:48:33 pm » |
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Sotto l’Etna il 23,9% degli inquilini non avrebbe i titoli per ottenere un alloggio
Le case popolari dei conti in rosso
Catania riscuote solo un affitto su dieci
Buco record di quasi 8 milioni di euro. Ma scatta la corsa a cento poltrone
ROMA — La notizia è dentro una ricerca fatta dal Censis e Federcasa con Dexia Crediop: alle case popolari di Catania chi paga l’affitto è una mosca bianca. La morosità aveva raggiunto nel 2006 il 92,5%. Su 8 milioni 617.680 euro di canoni lo Iacp del capoluogo etneo ne aveva incassati in un anno intero 644.376. Una miseria. Soprattutto considerando il costo medio dell’affitto: 67 euro al mese. Una situazione oltre i limiti dell’incredibile, che non si spiega soltanto con l’abusivismo dilagante, ai livelli più alti d’Italia. Su 10.003 alloggi popolari, a Catania ce ne sono 2.386 occupati abusivamente. È il 23,9% del totale. Un record nazionale battuto soltanto da Palermo, dove le case popolari occupate da inquilini senza titolo per starci sono circa 3.000, ossia il 27,3% del totale.
Di fronte a questo stato di cose sarebbe logico aspettarsi che qualcuno si rimboccasse le maniche. E non che invece, come sta accadendo in Sicilia, si discutesse di poltrone. Cento, per l’esattezza. Il caso è stato sollevato alla Regione da due «deputati» regionali del Popolo della libertà, Marco Falcone e Pippo Correnti. Sono stati loro a denunciare l’imminenza di una ondata di nomine agli Istituti autonomi delle case popolari siciliani. Gli enti sono dieci (uno per provincia più quello di Acireale), ognuno dei quali con dieci posti in consiglio di amministrazione: tre nominati dalla Provincia, tre dai sindacati, due dagli assessorati al Lavoro e ai Lavori pubblici, uno dalle associazioni degli inquilini e l’ultimo dagli ordini professionali. Una lottizzazione con il bilancino, dove al solito sono i politici a fare la voce grossa. Un caso per tutti: alla presidenza dello Iacp di Catania c’era fino a poco tempo fa Vincenzo Gibiino, parlamentare in carica eletto con il partito di Silvio Berlusconi.
Il fatto è che la Sicilia è praticamente l’unica regione a trovarsi in questa situazione. Nell’isola la riforma del 1998 che ha spazzato via gli Iacp in quasi tutta Italia, passando la competenza alle Regioni e trasformandoli in aziende con un consiglio di amministrazione al massimo di cinque componenti, non è mai stata attuata. I vecchi istituti per le case popolari sono sopravvissuti a ogni timido tentativo di cambiamento. Nei mesi scorsi il presidente della Regione Raffaele Lombardo ha sostituito i presidenti con commissari ad acta. E ora sono partite le grandi manovre per rinnovare completamente i consigli di amministrazione.
Uno scandalo, anche secondo il sindacato guidato da Guglielmo Epifani. Hanno denunciato Michele Palazzotto e Antonio Crispi della Cgil: «Gli Iacp rappresentano terreno di conquista per politici di ritorno e clientele politico affaristiche. In Sicilia ogni istituto ha ben dieci consiglieri, fra cui un presidente e un vicepresidente, tutti con status giuridico, indennità, diritto all’aspettativa e spese di missione». Di che cifre si sta parlando, lo spiega Falcone: «Con una legge regionale del 2008 gli emolumenti dei vertici degli Iacp siciliani sono stati parametrati a quelli dei vertici delle Province. La retribuzione del presidente di ognuno dei dieci istituti è pari al 75% di quella del presidente della Provincia». Facendo i conti, non meno di 7.500 euro al mese. «Lo Iacp di Catania, per esempio, potrà arrivare a costare 50 mila euro al mese per i compensi degli amministratori», sostiene il deputato regionale del Pdl. «L’esperienza dice che dove i vecchi Iacp sono diventati aziende e i consigli sono stati ridotti a tre, al massimo cinque componenti, si riesce a gestire il servizio senza contributi pubblici e magari ottenendo qualche piccolo utile. La Sardegna, per esempio, ha chiuso i vecchi Iacp e li ha riuniti in una sola azienda. In Liguria hanno fatto la scelta dell’amministratore unico. Come nelle Marche», dice Luciano Cecchi, il presidente di Federcasa, l’associazione che riunisce gli istituti riformati.
Non che i problemi manchino neppure dove la legge del 1998 è stata attuata. Nel Comune di Roma, per esempio, le case popolari occupate abusivamente sono 5.863, l’11,1% del totale. A Milano, invece, 3.409, il 5,2%. E se a Palermo la morosità, pur notevolmente inferiore a quella di Catania, raggiunge comunque la vetta del 34,7%, a Roma si arriva al 41,2%, con 21 milioni di euro non incassati ogni anno, e a Cagliari si tocca il 44%. Ben più che a Torino (32,5%), e addirittura a Napoli, città nella quale non si riscuote circa il 24% degli affitti delle case popolari. Mentre a Milano la morosità è al 10,2%, ma fra il 2001 e il 2006 è raddoppiata.
Sergio Rizzo 12 maggio 2009
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« Risposta #26 inserito:: Maggio 17, 2009, 02:56:20 pm » |
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Bozza di intervento sulle autonomie locali: nessun limite di mandato per i primi cittadini
Il piano-tagli: via 1.612 enti «dannosi»
Nei Comuni meno poltrone e sindaci a vita
Il progetto di Calderoli: addio alle comunità montane e ai difensori civici
Dopo cinquantratrè anni di frustrante conflitto (la guerra è cominciata nel 1956) con gli enti inutili, ecco schiudersi un nuovo fronte. Quello contro gli enti «dannosi». Avete letto bene: «dannosi». Proprio così li definisce una bozza (anzi, una «bozzaccia » come la chiama il leghista Roberto Calderoli) di disegno di legge al quale il ministro della Semplificazione sta lavorando insieme ai suoi colleghi dell'Interno, Roberto Maroni, e degli Affari regionali, Raffaele Fitto. Enti non soltanto inutili, ma anche «dannosi»: quindi da chiudere e poi gettare via la chiave. «Norme di soppressione degli enti dannosi», recita testualmente il capo terzo della “bozzaccia”.
Quali sono?
I difensori civici, innanzitutto, che dovrebbero scomparire nel momento stesso in cui questa legge venisse approvata. Poi i commissariati per la liquidazione degli usi civici, la cui funzione deriva da una norma del 1927. E i tribunali delle acque pubbliche, istituiti come conseguenza di un provvedimento del 1933. Tuttavia questo non è che l'antipasto di una riforma destinata a rivoluzionare Comuni, Province e tutto quello che c'è intorno, ben più rapidamente della legge delega sul federalismo. Ma anche a scuotere la politica suscitando reazioni controverse. Un esempio? La «bozzaccia» del disegno di legge di riforma delle autonomie locali prevede l'abolizione del limite dei due mandati consecutivi per l'incarico di sindaco e di presidente della Provincia. Se la proposta passerà, si potrà fare il sindaco a vita, rimettendo indietro di anni l'orologio della nostra storia. Una modifica che è fortemente sostenuta dalla Lega Nord, ma che non piace invece al Pdl. E non sarà nemmeno facile far passare i tagli, sacrosanti, stabiliti per i consigli e le giunte comunali e provinciali. I consiglieri dei Comuni con oltre 500 mila abitanti non potranno superare il numero di 40. E così a scalare.
Per i Comuni minori, fino a 3 mila abitanti, il limite massimo è di 6. I consiglieri provinciali non potranno in ogni caso essere più di 30. Fra sindaco e assessori le giunte comunali non dovranno avere più di 12 poltrone. Quelle provinciali, non più di 8. I Comuni fino a mille abitanti non avrebbero nemmeno la giunta, ma soltanto il sindaco. Non sono le uniche novità. La riforma stabilisce pure che Province e Comuni abbiano un segretario con l'incarico di controllare gli atti: nominato non dall'amministrazione ma da un organismo terzo, una speciale «Agenzia autonoma per l'efficienza degli enti locali».
Facile immaginare le reazioni che provocheranno pure le altre sforbiciate previste dalla «bozzaccia». Forse ancora più dolorose di quelle appena descritte. Sforbiciate, in numero di ben 1.612 (tanti sono gli enti che verrebbero eliminati) recepite da una proposta di legge del deputato del Pdl Mario Valducci, ora convogliata pressoché integralmente in questa riforma, di cui rappresenta una delle parti più sostanziose.
La tagliola calerà sulle 185 comunità montane. Identica sorte avrebbero i 63 «Bacini imbriferi montani», i 138 enti parco regionali, le 91 Ato, i 600 enti strumentali regionali. E i 191 consorzi di bonifica, pianeta tutto da scoprire. Un caso per tutti: il consorzio di bonifica delle colline livornesi ha 16 dipendenti ma 33 fra consiglieri delegati, deputazione amministratrice e collegio sindacale. Con regolare gettone di presenza.
Calerà, la tagliola, anche sulla pletora dei consigli circoscrizionali. La «bozzaccia» prevede che sopravvivano soltanto nelle città con più di 250 mila abitanti: una riforma già tentata dal centrosinistra ma affossata nelle paludi della politica. E si capisce perché. Il testo unico del 2000 sugli enti locali stabilisce che ci siano le circoscrizioni soltanto nelle città con più di 100 mila abitanti, lasciando però spiragli anche per chi ha anche appena 30 mila residenti. Il risultato è che una città come Asti, con 70.598 abitanti, ha 110 consiglieri circoscrizionali. A Como, 8 mila anime più di Asti, sono 144. Come ad Ascoli Piceno, che è forse un caso limite. Perché nel capoluogo marchigiano, 50.135 abitanti, c'è un eletto ogni 348 cittadini, contro un rapporto di uno a 5.178 per Roma.
E le Province? Dopo le vane promesse elettorali di abolirle («tutte», tenne a precisare Silvio Berlusconi) sono state salvate dalla legge sul federalismo. E pure da questa riforma. Anche se qualcuna potrebbe rischiare. Entro due anni il governo dovrà fare un decreto per razionalizzare le province, prevedendo fra l'altro la soppressione di quegli enti con un rapporto non ottimale fra popolazione ed estensione territoriale. Ne vedremo delle belle, sempre che la «bozzaccia» arrivi al Consiglio dei ministri, si prevede il mese prossimo, con tutto quello che c'è dentro adesso. Manca solo un argomento, forse il più spinoso: l'incompatibilità degli incarichi. Ma questo, in un Parlamento nel quale ci sono 70 deputati e senatori che fanno anche i sindaci, gli assessori, i consiglieri e perfino i presidenti di Provincia, è davvero un'altra storia.
Sergio Rizzo 17 maggio 2009
da corriere.it
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« Risposta #27 inserito:: Maggio 25, 2009, 11:01:04 am » |
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GRANDI OPERE/IL CASO
Dal Ponte sullo Stretto al Mose
Bloccate le nomine dei 16 commissari
Fermata sul filo di lana la lista dei nomi Il decreto anticrisi approvato da sei mesi
Il Mose - Manifestanti protestano contro la costruzione delle dighe mobili (Ansa) ROMA — La lista dei sedici nomi era pronta. Qualche alto papavero ministeriale, qualche superburocrate, qualche tecnico. Pronti per avere il bollo del governo: commissari alle grandi opere pubbliche. Uno per ognuna delle infrastrutture strategiche per il Paese. Impacchettata per il via libera del Consiglio dei ministri della scorsa settimana, all’ultimo momento è stata rimessa nel cassetto. Tutto rimandato. A quando? Appena possibile. Ma a questo punto, settimana più, settimana meno… Da quando il governo ha varato il decreto anticrisi con le misure urgenti (urgenti!) per far ripartire l’economia, fra cui figura proprio (articolo 20) l’istituzione dei commissari per mettere il turbo alle opere infrastrutturali che procedono a passo di lumaca, sono passati sei mesi. Quattro, invece, da quando il Parlamento ha convertito definitivamente in legge il provvedimento. Ma dei famosi commissari nemmeno l’ombra. Si dirà che per i tempi italiani, dove le decisioni si prendono al ritmo delle ere geologiche, quattro o sei mesi non sono niente. Peccato soltanto che gli effetti della crisi non aspettino i comodi della nostra burocrazia.
Negli ambienti della maggioranza, dove i commissari vengono ovviamente difesi a spada tratta, si rigetta la tesi che tutto si sia bloccato a causa di contrasti politici o scontri fra poteri. I continui rinvii avrebbero a che fare piuttosto con altre questioni. Prima è sorto il problema di definire con esattezza le risorse a disposizione per il nuovo piano di infrastrutture: a un certo punto era stata ventilata l’eventualità di dirottare lì una parte dei soldi non utilizzati per gli ammortizzatori sociali. Poi c’è stato il terremoto dell’Abruzzo, che ha oggettivamente complicato tutto. Con la conseguenza di rendere più difficile la decisione sulle opere da accelerare. Quali affidare ai commissari? Il Ponte sullo Stretto di Messina? La Salerno-Reggio Calabria? Oppure il Mose? O magari la fantomatica autostrada Livorno-Civitavecchia, che sta tanto a cuore al ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli, sindaco di Orbetello? Inutile dire che anche qui c’è stato un bel tira e molla.
Non che non ci siano anche altri problemini. Vero è che i nuovi commissari si sono visti accrescere i poteri rispetto ai loro precedessori. Per esempio, potranno agire in deroga ad alcune norme vigenti, in caso di necessità. Ma anche intervenire quando ci si trovi di fronte a ritardi ingiustificati. E perfino proporre la revoca dei finanziamenti. Senza però avere in mano i cordoni della borsa, che restano saldamente in pugno alle cosiddette «stazioni appaltanti »: le Ferrovie, l’Anas… Un meccanismo che rischia di mettere oggettivamente i commissari in contrasto con i vertici di quelle «stazioni appaltanti ». Ecco perché Angelo Cicolani, ex direttore generale dell’Astaldi, parlamentare del Pdl considerato fra i massimi esperti di questo settore, aveva suggerito di nominare commissari proprio loro. Soluzione ora sempre possibile, ma non esplicitamente prevista.
Esiste poi una pattuglia di burocrati frenatori che, in centro e in periferia, ha sempre considerato i commissari un’inutile iattura, buona soltanto a pestare i piedi ai provveditori alle opere pubbliche. Insomma, non manca nemmeno chi, sotto sotto, non ha mai smesso di remare contro. C’è da dire che i precedenti non sono esaltanti. I commissari alle grandi opere sono un’invenzione del primo governo di Romano Prodi, ministro l’ex sindaco di Venezia Paolo Costa. Senza grandi risultati. Non migliore fu l’esperienza dei commissari nominati nel 2003 dal secondo governo di Silvio Berlusconi, che con la legge obiettivo contava di rinverdire (parole dell’ex ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi) i fasti del Colosseo e delle Piramidi. «Avevano poteri limitati. E sono serviti concretamente in poche occasioni», ricorda oggi uno di loro: Aurelio Misiti, ex presidente del consiglio superiore dei Lavori pubblici, assessore della Regione Calabria, attualmente parlamentare dell’Italia dei Valori. Allora i commissari si dividevano cinque macroaree. A Misiti toccò il Sud e la Sicilia. Ma dopo qualche tempo si dimise in polemica con il governo avendo preso atto che, nonostante quanto era scritto nel piano delle grandi opere, non c’era alcuna intenzione di realizzare l’alta velocità ferroviaria fra Salerno e Palermo. Il secondo governo di Romano Prodi, estremamente diffidente nei confronti del piano infrastrutturale berlusconiano e diviso al proprio interno, dove i Verdi esercitavano un notevole potere di condizionamento, ereditò con il massimo scetticismo quei commissari. E alla scadenza degli incarichi non li rinnovò: da allora sono passati più di due anni.
Sergio Rizzo 25 maggio 2009
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« Risposta #28 inserito:: Giugno 02, 2009, 11:41:33 am » |
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IL CASO DEI VOLI DI STATO
Aerei blu, corsi e ricorsi dei privilegi
I casi che hanno fatto discutere da Mastella ad Apicella Mastella arrivato a Linate con l'aereo di Stato per andare al Gp di Formula 1, a settembre 2007 (Sestini)
«Tempo di rumba, tempo di te / Ballo e non ballo: ma perché?», si chiede Mariano Apicella in una canzone. Pare ora per quelle foto che lo mostrano mentre scende da un volo-blu, dei giudici potrebbero farlo «ballare» sul serio. Tanto più che in un’intervista a Claudio Sabelli Fioretti il menestrello del Cavaliere confidava già tutto: «Quando lui ha bisogno mi telefona Marinella, la segretaria: “Mariano, se non hai problemi il dottore ti vorrebbe stasera”. Io vado a Roma, poso la macchina a Ciampino e parto con lui sull’aereo presidenziale. Quasi sempre per la Sardegna, qualche volta per Milano». A spese dei cittadini.
Si dirà: che c’entra? L’aereo pubblico partirebbe lo stesso e un passeggero in più non incide di un centesimo! È esattamente ciò che disse Clemente Mastella, nel settembre 2007, dopo essere stato denunciato dall’Espresso mentre saliva col figlio sul volo di Stato che portava Francesco Rutelli a Monza per il Gran premio di F1: «Mio figlio non lo vedo mai, che male c’è se l’ho portato al Gran premio? Tanto, se in aereo eravamo 10 o 15 non cambiava niente».
Eh, no, è una questione di principio, titolò la Padania: «L’inGiustizia vola al Gran Premio ». Il Giornale berlusconiano rincarò: «Non dicevano di voler tagliare i costi della politica? Forse usare l'aereo di Stato più faraonico che ci sia per assistere al Gp di Monza non è il miglior modo di risparmiare. O no? Per dire: il Gran premio lo trasmettevano pure su RaiUno, il cui segnale, ci risulta, dovrebbe arrivare fino a Ceppaloni». E Alessandra Mussolini, furente: «Ho messo sul sito gli indirizzi e-mail di Rutelli e Mastella per consentire a tutti i cittadini di coprirli di “Vergogna!”» Dice oggi Palazzo Chigi che i «passaggi» offerti al cantautore personale del Cavaliere («Mi disse: “Vorrei avere qualcuno che mi fa un po’ rilassare nei fine settimana”») sono assolutamente legittimi: «La disciplina dell'impiego degli aerei di Stato è stabilità dalla Direttiva 25 luglio 2008, regolarmente registrata alla Corte dei Conti, che ne detta le regole per tutte le Autorità ammesse ad usufruirne». E cosa dice questa legge, che spazzò via quella più restrittiva fatta dal governo Prodi per arginare un andazzo che nel 2005 aveva visto impiegare i voli di Stato per 37 ore al giorno con una spesa di 65 milioni di euro pari al costo di 2.241 (duemiladuecentoquarantuno) biglietti andata e ritorno al giorno (al giorno!) da Milano a Londra con la Ryanair?
Dice quella legge (bollata allora da Libero con il titolo «Onorevoli e vip: Silvio allarga gli aerei blu» sotto l’occhiello: «Voli di Stato: la Casta mette le ali») che quelli che Luigi Einaudi chiamava «i padreterni» possono imbarcare persone estranee «purché accreditate al seguito della stessa, su indicazione dell'Autorità, anche in relazione alla natura del viaggio e al rango rivestito dalle personalità trasportate ». Di più: «L'imbarco di persone estranee alla delegazione non comporta quindi alcun aggravio degli oneri comunque a carico dell'erario ». Appunto: la tesi di Mastella.
Obiezioni? Ma per carità: la legge è legge. E non ci permettiamo di dubitare che sia stata rispettata fino in fondo. Un conto è il rispetto delle regole formali, però (tanto più se queste sono state cambiate apposta) e un altro è l'opportunità. È probabile che lo stesso Berlusconi avesse tutti i diritti mesi fa di prendere l’elicottero della protezione civile per andare a farsi un massaggio alla beauty farm di Mességué in Umbria, come documentò un filmato del TG3. L’opportunità, però è un’altra cosa. E dispiace che anche questi episodi, gravi o secondari che li si consideri, confermino una certa «rilassatezza» sui costi e i privilegi della politica. Come se la rovinosa sconfitta della sinistra alle elezioni dell'aprile 2008 avesse già saldato il conto tra la politica e i cittadini indignati.
Che la sinistra, incapace di capire l'insofferenza montante, meritasse la batosta, lo hanno ormai ammesso in tanti. Compreso Fausto Bertinotti, finito nel mirino proprio per i voli blu: «I nostri gruppi dirigenti? Sganciati e lontani dalla realtà dei lavoratori, autoreferenziali, così si è venuta formando anche a sinistra una vera e propria casta, un ceto politico interessato solo alla propria sopravvivenza». Sarebbe davvero un peccato se la destra, che in gran parte cavalcò quei sentimenti di indignazione e oggi, secondo il Pd, triplica (da 150 a oltre 400 ore medie al mese) quei voli blu che ieri bollava con parole di fuoco, pensasse che la grande ondata di insofferenza si sia allontanata per sempre. Peggio ancora se pensasse che non c'è più bisogno di una robusta moralizzazione del sistema. Certo, alcune misure sono state prese. La Camera e il Quirinale, quest'anno, dovrebbero costare meno dell'anno scorso. Ma già al Senato, ad esempio, non sarà così. E molti episodi rivelano una sconfortante indifferenza nei confronti dei tagli e soprattutto delle riforme ancora necessari.
Basti pensare alla recentissima denuncia dei «portaborse» secondo i quali i presidenti delle Camere, dopo avere «annunciato solennemente un giro di vite radicale contro lo scandalo dei collaboratori parlamentari assunti in nero», hanno riciclato «parola per parola, i contenuti di una missiva analoga spedita il 28 marzo 2007» e da loro stessi giudicati «inadeguati». O all’assenteismo dei nostri euro- parlamentari, 10 dei quali sono tra gli ultimi 20 nella classifica. O alla decisione di varare l'area metropolitana di Reggio Calabria nonostante sia per abitanti al 44º posto tra gli agglomerati urbani perfino dietro Aversa, Varese, Chiari, Vigevano… O ancora alla timidezza nel prendere di petto temi politicamente spinosi come la gestione di carrozzoni quali la Tirrenia o l’Amia, la società che dovrebbe occuparsi dei rifiuti da cui è sommersa a Palermo e i cui capi (tra i quali il presidente, promosso a senatore) andavano negli Emirati Arabi a «vendere» la raccolta differenziata «alla palermitana» spendendo anche 500 euro a pasto.
Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella 02 giugno 2009
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« Risposta #29 inserito:: Giugno 11, 2009, 05:38:39 pm » |
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Il libro
La rivelazione del tesoriere Pd «In 5 anni ai partiti 941 milioni»
Mauro Agostini svela i meccanismi dei «rimborsi» e la difficile convivenza con i colleghi di Ds e Margherita
ROMA - «Il tesoriere ha in mano i cordoni della borsa di un partito. Figura tradizionalmente oscura, un po’ sinistra, al punto da passare per colui che manovra non solo i denari ma anche i segreti più turpi della politica ». Tanto basterebbe a spiegare perché nessun tesoriere di partito abbia mai scritto un libro. Nessuno prima di Mauro Agostini, l’uomo che un anno e mezzo fa ha avuto (e ha tuttora) in mano i cordoni della borsa del Partito democratico: non si sa se per coraggio o incoscienza. Il suo libro, da cui sono tratte queste frasi, esce oggi in libreria, l’ha pubblicato Aliberti in una collana diretta da Pier Luigi Celli e si chiama semplicemente Il tesoriere. Da un titolo così è lecito attendersi anche qualche considerazione numerica. Che infatti non manca. A cominciare dal calcolo minuzioso di quanti soldi pubblici, attraverso il meccanismo ipocrita dei cosiddetti rimborsi elettorali, sono entrati nelle tasche dei partiti italiani soltanto negli ultimi cinque anni, dal 2004 al 2008. Reggetevi forte: 941 milioni 446.091 euro e 14 centesimi. Cifre senza eguali in Europa, se si eccettua, sostiene Agostini, la Germania. La ciccia, tuttavia, non è nei numeri. Il tesoriere sostiene che è necessario un sistema di finanziamento dei partiti «prevalentemente pubblico » senza più ipocrisie, ma con «forme di controllo incisive e penetranti » di natura «squisitamente pubblica» e il «vincolo esplicito» di una gestione sobria ed economica prevedendo anche «sanzioni reputazionali ». Ma al tempo stesso non può non ripercorrere la storia dei ruvidi rapporti con i suoi colleghi dei Ds, Ugo Sposetti, e della Margherita, Luigi Lusi, i due partiti che hanno dato vita al Pd. «Il nuovo partito nasceva senza un euro. L’obiettivo, mai esplicitato, ma evidente in comportamenti (...) dei tesorieri Ds e Margherita era quello di dare vita a una sorta di triumvirato nella gestione delle risorse, di cui però i veri sovrani avrebbero dovuto essere Ugo Sposetti e Luigi Lusi, in quanto titolari dei rimborsi elettorali.
Con le conseguenze facilmente immaginabili: quando le cose sarebbero andate secondo i desiderata dei due vecchi azionisti, i soldi sarebbero affluiti regolarmente, in caso contrario no. È evidente che la questione rivestiva un valore (...) squisitamente politico e di autonomia del nuovo partito». Una ricostruzione che indica senza mezzi termini fra le cause delle difficoltà interne del Pd la sopravvivenza dei vecchi apparati di partito, con le rispettive munizioni finanziarie. Agostini ricorda che i Ds avevano provveduto a blindare in fondazioni «con un percorso opaco» migliaia di immobili. E che il tesoriere della Margherita, Lusi, aveva dato sì la disponibilità a contribuire al Pd con i rimborsi elettorali, «a condizione che anche i Ds avessero fatto la loro parte, in ragione di quaranta a sessanta per cento». Ma «l’impossibilità dei Ds» a mettere mano al portafoglio motivata da quel partito con il forte indebitamento «assolveva tutti dall’obbligo politico di sostenere il Pd». Questa vicenda è chiaro sintomo di quella che Agostini definisce «un’ambiguità di fondo mai esplicitata ma che percorrerà il progetto sotto pelle in tutto il suo primo anno di vita e che rischia di essere anche la causa profonda della crisi che sfocia nelle dimissioni di Walter Veltroni ». Ancora: «L’ispirazione sembra più quella di dare vita a una specie di consorzio o di holding i cui diritti principali restano in mano ai soci fondatori, piuttosto che fondare una nuova formazione politica». La notizia con la quale comincia Il tesoriere, e cioè che il Pd ha fatto certificare il bilancio 2008 dalla Price Waterhouse Coopers («la prima volta», rivendica con orgoglio Agostini, che un partito italiano sottopone i suoi conti a una verifica del genere), valga a questo punto come una consolazione. Perché se la diagnosi politica è giusta, la strada è ancora tutta in salita. Dettaglio non trascurabile: il libro viene presentato oggi dal segretario del Pd, Dario Franceschini.
Sergio Rizzo 11 giugno 2009
da corriere.it
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