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« Risposta #75 inserito:: Febbraio 14, 2011, 04:21:51 pm » |
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Il bilancio
Da gennaio l'unico iter completato riguarda la conversione del decreto sui rifiuti
Attività parlamentare al minimo
Solo una legge dall'inizio dell'anno
E nel 2010 approvate appena 10 norme proposte da deputati e senatori
Riunioni lampo
Sempre più brevi i Consigli dei ministri: l'ultimo è durato cinque minuti, la media supera di poco un'ora
ROMA - Una sola legge sfornata in quarantaquattro giorni. E non siamo nel bel mezzo della calura estiva o nel pieno della campagna elettorale. Per giunta, non si può certamente dire che sia stato un provvedimento particolarmente impegnativo per il Parlamento: la conversione in legge di un decreto approvato dal governo a novembre dello scorso anno sui rifiuti della Campania. Il bilancio dell'attività legislativa di Camera e Senato dal primo gennaio 2011 è tutto qua. Un vuoto senza precedenti, che difficilmente sarà colmato. Date un'occhiata ai calendari: dopo la sfacchinata dal Milleproroghe, altro provvedimento con targa governativa sul quale i deputati si sono accapigliati nel tentativo di infilarci dentro di tutto, comprese norme maleodoranti come il blocco delle demolizioni delle costruzioni abusive in Campania o l'ennesimo condono edilizio, la Camera ha in programma la discussione di alcune interrogazioni, qualche mozione sonnacchiosa e disegni di legge parlamentari senza alcuna speranza di passare. Basta dire che durante tutto lo scorso anno di proposte non governative ne sono state approvate soltanto dieci. Il minimo storico. Come al minimo storico sono le sedute. Nei 409 giorni trascorsi dal primo gennaio del 2010 l'Aula di Montecitorio si è riunita in 171 occasioni. Ancora più sporadicamente quella di Palazzo Madama. Dove i giorni di seduta sono stati 129. Conosciamo le obiezioni. «L'attività parlamentare non si può limitare alle sedute. Per esempio, ci sono le commissioni...». Vero. Ma a parte la singolarità di certi organismi (nel Parlamento del Paese con le leggi più complicate del mondo c'è da anni anche una commissione per la semplificazione normativa, ed esistono ben due diverse commissioni d'inchiesta sulla sanità pubblica), il loro lavoro dovrebbe sfociare quasi tutto nell'Aula. Per non parlare dei casi in cui le commissioni fanno da tappo, com'è avvenuto in occasione del pareggio sul voto al federalismo. Un imprevedibile effetto degli scossoni politici che hanno investito il centrodestra, certo. Ma pur sempre un bel contributo alla paralisi che stiamo vivendo.
La situazione non sarebbe tanto diversa se a votare le leggi fossero soltanto i capigruppo, come ha proposto un paio d'anni fa Silvio Berlusconi («era una provocazione, un paradosso», si corresse poi il premier). Per il semplice fatto che da votare c'è ben poco. Quanto sia ormai profondo il senso di inutilità e frustrazione dalle parti del Parlamento lo dice il clamoroso gesto di un senatore ritenuto rispettabile come Nicola Rossi. Che ha spiegato la sua decisione di gettare la spugna in questi termini: con questo sistema elettorale i parlamentari sono nominati dai partiti, e non avendo investitura popolare non possono avere indipendenza di giudizio, e senza di questa non si lavora. Stop. Preso atto che tale stato di cose non si può cambiare con un colpo di becchetta magica, non ha potuto fare altro che dimettersi. Non soltanto dal suo partito, con il quale si trovava comunque in dissenso per ragioni politiche, ma dal Senato. Consumando così fino in fondo il divorzio da un Parlamento la cui funzione principale è diventata quella di ratificare leggi preconfezionate a scatola chiusa dagli uffici governativi.
Cosa che invece non hanno fatto altri, i quali pure a parole avevano manifestato disagio. Il leghista Matteo Brigandì, per esempio: «Mi dimetto perché non ha più alcun senso fare il parlamentare. Le Camere sono state svuotate di ogni loro funzione. Non hanno più alcun potere di iniziativa legislativa e sono state messe nella condizione di fare solo il notaio del governo», ha dichiarato un giorno. Ma poi è rimasto onorevole fino a quando non è stato nominato dallo stesso parlamento nel Consiglio superiore della magistratura. Per non parlare del recordman assoluto degli assenteisti, Antonio Gaglione, che è sbottato: «Stare in Parlamento è un lavoro frustrante, una perdita di tempo e una violenza contro la persona». Dimettendosi subito dopo dal partito, il Pd. Ma in Parlamento ci è rimasto. Anche la coerenza ha un prezzo: ovviamente inferiore all'appannaggio da deputato che il Nostro continua a intascare.
Non che l'attività di governo sia particolarmente più frenetica. Con le energie tutte concentrate a parare i colpi della magistratura che indaga sui festini nelle residenze di Silvio Berlusconi, come dimostrano i recenti propositi di rimettere in cima all'agenda dell'esecutivo il processo breve o il decreto sulle intercettazioni, resta evidentemente poco carburante per altro. A giudicare dalla durata fulminea delle riunioni di Palazzo Chigi, le discussioni sulle questioni di merito dei singoli provvedimenti sono sempre più rapide. L'ultimo Consiglio dei ministri, quello sull'emergenza degli sbarchi a Lampedusa, è durato cinque minuti d'orologio: dalle 13.35 alle 13.40. Il 21 gennaio, per esaminare e approvare una decina di provvedimenti, fra cui quisquilie come il Piano sanitario nazionale e la disciplina degli sfratti, oltre a quindici nomine, ci hanno messo poco più di un'ora. La durata media delle 50 riunioni di governo dal primo gennaio 2010 a oggi è stata di 64 minuti, meno della metà di quella del precedente (e rissoso) esecutivo di centrosinistra. E questo di per sé potrebbe anche non essere un segnale negativo. Se non fosse però che mentre il dibattito interno si fa sempre più flebile, rimangono penosamente al palo progetti e riforme che rappresentavano l'ossatura del programma di governo. Rendendo forse ancora più inutile l'esistenza a Palazzo Chigi, già di per sé sorprendente, di ben due strutture incaricate di seguire il «Programma»: quella del ministro Gianfranco Rotondi e quella del sottosegretario alla Presidenza Daniela Garnero Santanchè. Qualche caso? Il rilancio dell'energia nucleare (in clamoroso ritardo) e il piano casa (un flop gigantesco). Mentre le iniziative per dare «una scossa all'economia», termine coniato dal governo Berlusconi sette anni orsono ma finora senza risultati, sono prigioniere della carenza di risorse economiche, quando non della necessità di recuperare consensi in pericolosa discesa o della mancanza di fantasia, come sta a dimostrare il riciclaggio di vecchie promesse mai decollate. Piani per il Sud, riforme fiscali... E siamo poi sicuri che i tempi di alcune proposte, per esempio la riforma della Costituzione nella parte che riguarda l'impresa, siano compatibili con il fiato corto di questa sedicesima legislatura?
Sergio Rizzo
14 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/politica
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« Risposta #76 inserito:: Febbraio 17, 2011, 12:18:11 pm » |
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I virtuosi in dissesto Gli enti locali
Tasse e Federalismo Tariffe più Care
Per recuperare gettito le bollette aumentano il doppio dell’inflazione
ROMA - In Italia capita anche questo. Succede che due Comuni praticamente falliti finiscano nell'elenco delle amministrazioni più virtuose, quelle premiate dallo Stato con la possibilità di spendere più soldi rispetto ai limiti ferocemente imposti dal Patto di Stabilità. Possibile che nella lista ci sia anche Catania? La città dove il neosindaco Raffaele Stancanelli, appena eletto a metà 2008, denunciò con le mani tra i capelli un miliardo di debiti nascosti nelle pieghe del bilancio? Dove il suo predecessore era inseguito da torme di creditori di tutte le specie, dai librai cittadini alle ballerine brasiliane? Dove le strade erano al buio perché non erano state pagate le bollette dell'Enel? E dove, per assurdo, il bilancio di quel 2008 appariva talmente in ordine da far guadagnare a Catania un premio da 983.411 euro? Premio, per inciso, negato a città mai censurate per cattiva amministrazione, come Sondrio, Belluno, Asti... Catania come Taranto. Comune dichiarato ufficialmente in dissesto finanziario e sommerso da un debito pazzesco di 616 milioni di euro, dove succedeva davvero di tutto. Perfino che 23 dipendenti, dopo essersi aumentati lo stipendio da soli rubando alle casse municipali 5 milioni, restassero miracolosamente al loro posto. Una città talmente sprofondata nel buco nero dei debiti, che i liquidatori ci hanno messo tre anni per ricostruire la contabilità e pagare i creditori. Con i denari dei contribuenti, naturalmente. Gli stessi quattrini che due anni dopo hanno permesso alla città di incassare un bel «premio» da 1.378.069 euro. Difficile spiegare tutto questo. Una sola cosa è certa: l'elezione diretta di sindaci e governatori e la riforma del Titolo V della Costituzione, voluta nel 2001 dal centrosinistra, hanno dato agli amministratori locali maggiori poteri, ma non maggiori doveri. Da allora ad oggi metà della spesa pubblica è passata dal centro alla periferia, ma il compito di tassare i contribuenti è rimasto allo Stato, perché Regioni, Comuni e Province sono responsabili solo del 18% delle entrate. La finanza locale, già caotica, è diventata ancora più disordinata. E indebitata, perché mentre montava il caos normativo e istituzionale, da Roma, inseguendo il risanamento dei conti pubblici, hanno cominciato a tagliare i trasferimenti di bilancio. Fatto sta che oggi gli italiani si trovano appesantiti, solo a livello locale, da 45 fra tasse, tributi, canoni, addizionali, compartecipazioni, con la pressione fiscale complessiva che è schizzata nel 2009 al 43,5%, al terzo posto fra i Paesi dell'Ocse. Nonostante le promesse di riduzione e semplificazione che ci sentiamo ripetere da almeno dieci anni. Per raggranellare denaro i sindaci hanno dato sfogo alla fantasia. Alcuni hanno anche rispolverato la «tassa sull'ombra» del 1972, che colpisce «la proiezione sul suolo pubblico di balconi, tende e pensiline». Con le casse sempre più vuote, ma nessuna voglia di incidere sulle spese improduttive, gli enti locali hanno di fatto scaricato sui cittadini i sacrifici imposti dal governo centrale. Aggirando ad esempio il blocco delle addizionali comunali sull'Irpef, in vigore dal 2008, pompando le tariffe. Anche i governi, poi, ci hanno messo del loro. Per esempio con l'abolizione dell'Ici sulla prima casa, l'unica tassa «federalista» vigente in Italia, sacrificata sull'altare dell'ultima campagna elettorale. E pazienza se, come rivelava uno studio dell'Ifel, l'istituto di ricerca dell'Anci, tra il 2004 e il 2009 le tariffe comunali sono cresciute a una media del 3,5% annuo. Il doppio dell'inflazione, con punte stratosferiche per i rifiuti (+29% tra il 2004 e il 2009, e continuano ad aumentare) e i servizi idrici, le cui tariffe crescono in media del 5% l'anno. Dopo l'immondizia e l'acqua, l'ondata dei rincari nel 2010 e in questo primo scorcio del 2011 si è abbattuta su asili nido, mense scolastiche, piscine e impianti sportivi, musei, servizi cimiteriali, trasporto locale. E nel Milleproroghe, appena approvato dal Senato, c'è una nuova sorpresa: tutti i Comuni, anche quelli che non si trovano in emergenza rifiuti, potranno aumentare le tariffe fino a coprire l'intero costo del servizio. Incrociamo le dita. Il caso dell'Ama, che oltre ad essere l'azienda municipalizzata per l'ambiente del Comune di Roma è anche uno straordinario collettore di voti, forse vale per tutti come cattivo esempio di amministrazione. Il bilancio del 2008 si è chiuso con una perdita monstre di 257 milioni di euro. E il 2009 sarebbe stato archiviato con un altro buco di 70 milioni, senza il contributo di 30 milioni erogato dal Comune e l'aumento delle tariffe per ben 40,8 milioni di euro. E tutto questo mentre i crediti verso gli utenti morosi aumentavano, in dodici mesi, di 108 milioni, raggiungendo la cifra astronomica di 623 milioni di euro. La circostanza non ha comunque impedito all'azienda di assumere nuove legioni di dipendenti: 91 nel 2008, 489 nel 2009, 766 nel 2010. Impiegati, netturbini, perfino 164 spalatori di foglie ingaggiati in un colpo solo. Poi, naturalmente, anche parenti e amici dei politici. Per rendersi conto del disordine che regna negli enti locali del nostro Paese, del resto, è sufficiente dare uno sguardo a una tabella elaborata dal senatore del Pd, Marco Stradiotto, componente della Bicamerale sul federalismo, sui dati del ministero dell'Interno. Si scopre, per esempio, che su ogni cittadino di Cosenza grava un costo del personale comunale di 506 euro l'anno: quasi il doppio rispetto a una città poco più grande come Cesena (271 euro), e addirittura il 117% in più nei confronti di Catanzaro (233). Per non parlare delle differenze macroscopiche che ci sono fra Regione e Regione. La Sicilia, con metà dei residenti della Lombardia, sopporta una spesa per il personale regionale nove volte superiore (un miliardo 782 milioni contro 202 milioni). E investe nelle infrastrutture ferroviarie 13,9 milioni l'anno, 57 volte meno della Lombardia (786 milioni). Differenze eclatanti, che danno anche la dimensione dell'assistenzialismo in salsa locale. Il bello è che cominciano a saltare fuori solo adesso. Dopo che i tecnici della Commissione mista tra governo ed enti locali per l'attuazione del federalismo, guidata da Luca Antonini, sono quasi impazziti per riportare su base omogenea i bilanci dei Comuni, dove molte spese sono nascoste dall'esternalizzazione dei servizi, e delle Regioni, scritti in quindici modi diversi. In attesa di quello fiscale, in Italia regna da sempre il federalismo contabile, nel senso che ognuno si fa il bilancio a modo suo. E a nulla sono valsi, finora, i tentativi di mettere un po' d'ordine. Vi siete mai chiesti perché da qualche tempo in qua se un'amministrazione di destra sostituisce una di sinistra, o viceversa, la prima cosa che fa è mettere i libri contabili in mano a un ispettore del Tesoro? Certamente per scaricarsi delle responsabilità dei predecessori. Ma anche perché i bilanci sono così complicati e poco trasparenti che dentro ci si può nascondere di tutto. Dalla due diligence eseguita dalla Ragioneria generale dello Stato sui conti della Campania, richiesta dall'attuale governatore Stefano Caldoro, sono saltati fuori «bilanci di previsione fortemente sovradimensionati rispetto al reale andamento degli impegni, e pagamenti ancora più incoerenti». Per dire poi come sia possibile piegare i bilanci a ogni esigenza, la Regione, allora guidata da Antonio Bassolino, ha pagato spese che non potevano essere coperte facendosi prestare i soldi dalle banche. Come la manutenzione dei boschi (210 milioni), oppure il servizio di «monitoraggio» (21 milioni) del patrimonio forestale alla Sma Campania, società partecipata dalla Regione che aveva assunto 568 lavoratori socialmente utili. Le cose non vanno meglio con i bilanci dei Comuni. Nell'estate del 2010 la Corte dei conti ha trovato in quello di Foggia cose turche. Non esisteva un inventario dei beni comunali, ma in compenso c'era un contenzioso civile devastante, con decreti ingiuntivi per 30 milioni. Nel bilancio erano contabilizzate come residui «attivi» somme impossibili da incassare. Insomma, una baraonda totale. I decreti attuativi sul federalismo fiscale ora promettono di metterci una pezza, imponendo l'omogeneità dei bilanci. Ma non a tutti, perché per le Regioni a statuto speciale le regole sono dettate dagli Statuti, che hanno rilevanza costituzionale. Dietro l'angolo si profilano altre insidie, ma non si può che partire da qua. Facendo ordine nel caos dei numeri, mettendo al bando con la trasparenza i giochi di prestigio degli amministratori furbacchioni. Poi toccherà ai cosiddetti «fabbisogni standard», che dovrebbero far superare il principio della «spesa storica», grazie al quale vengono premiate le amministrazioni più spendaccione. Di che cosa si tratta? Si stabilisce sulla base di parametri economici e territoriali qual è il costo efficiente di un servizio: la polizia locale, l'asilo nido, l'impianto sportivo... Chi vuole spendere di più si arrangi. Dallo Stato non arriverà un euro in più: o si risparmia altrove, o bisognerà aumentare le tasse, e poi rendere conto, ai propri elettori. Ma questo, come vedremo nelle prossime puntate, non è affatto «federalismo». Anche Luca Antonini parla di «razionalizzazione della spesa pubblica». La devolution è un'altra cosa. Anche se ci ostiniamo a chiamarla così.
Mario Sensini e Sergio Rizzo
17 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it/economia
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« Risposta #77 inserito:: Febbraio 19, 2011, 04:45:58 pm » |
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I virtuosi in dissesto Gli enti locali
Tasse e Federalismo Tariffe più Care
Per recuperare gettito le bollette aumentano il doppio dell’inflazione
ROMA - In Italia capita anche questo. Succede che due Comuni praticamente falliti finiscano nell'elenco delle amministrazioni più virtuose, quelle premiate dallo Stato con la possibilità di spendere più soldi rispetto ai limiti ferocemente imposti dal Patto di Stabilità. Possibile che nella lista ci sia anche Catania? La città dove il neosindaco Raffaele Stancanelli, appena eletto a metà 2008, denunciò con le mani tra i capelli un miliardo di debiti nascosti nelle pieghe del bilancio? Dove il suo predecessore era inseguito da torme di creditori di tutte le specie, dai librai cittadini alle ballerine brasiliane? Dove le strade erano al buio perché non erano state pagate le bollette dell'Enel? E dove, per assurdo, il bilancio di quel 2008 appariva talmente in ordine da far guadagnare a Catania un premio da 983.411 euro? Premio, per inciso, negato a città mai censurate per cattiva amministrazione, come Sondrio, Belluno, Asti... Catania come Taranto. Comune dichiarato ufficialmente in dissesto finanziario e sommerso da un debito pazzesco di 616 milioni di euro, dove succedeva davvero di tutto. Perfino che 23 dipendenti, dopo essersi aumentati lo stipendio da soli rubando alle casse municipali 5 milioni, restassero miracolosamente al loro posto. Una città talmente sprofondata nel buco nero dei debiti, che i liquidatori ci hanno messo tre anni per ricostruire la contabilità e pagare i creditori. Con i denari dei contribuenti, naturalmente. Gli stessi quattrini che due anni dopo hanno permesso alla città di incassare un bel «premio» da 1.378.069 euro. Difficile spiegare tutto questo. Una sola cosa è certa: l'elezione diretta di sindaci e governatori e la riforma del Titolo V della Costituzione, voluta nel 2001 dal centrosinistra, hanno dato agli amministratori locali maggiori poteri, ma non maggiori doveri. Da allora ad oggi metà della spesa pubblica è passata dal centro alla periferia, ma il compito di tassare i contribuenti è rimasto allo Stato, perché Regioni, Comuni e Province sono responsabili solo del 18% delle entrate. La finanza locale, già caotica, è diventata ancora più disordinata. E indebitata, perché mentre montava il caos normativo e istituzionale, da Roma, inseguendo il risanamento dei conti pubblici, hanno cominciato a tagliare i trasferimenti di bilancio. Fatto sta che oggi gli italiani si trovano appesantiti, solo a livello locale, da 45 fra tasse, tributi, canoni, addizionali, compartecipazioni, con la pressione fiscale complessiva che è schizzata nel 2009 al 43,5%, al terzo posto fra i Paesi dell'Ocse. Nonostante le promesse di riduzione e semplificazione che ci sentiamo ripetere da almeno dieci anni. Per raggranellare denaro i sindaci hanno dato sfogo alla fantasia. Alcuni hanno anche rispolverato la «tassa sull'ombra» del 1972, che colpisce «la proiezione sul suolo pubblico di balconi, tende e pensiline». Con le casse sempre più vuote, ma nessuna voglia di incidere sulle spese improduttive, gli enti locali hanno di fatto scaricato sui cittadini i sacrifici imposti dal governo centrale. Aggirando ad esempio il blocco delle addizionali comunali sull'Irpef, in vigore dal 2008, pompando le tariffe. Anche i governi, poi, ci hanno messo del loro. Per esempio con l'abolizione dell'Ici sulla prima casa, l'unica tassa «federalista» vigente in Italia, sacrificata sull'altare dell'ultima campagna elettorale. E pazienza se, come rivelava uno studio dell'Ifel, l'istituto di ricerca dell'Anci, tra il 2004 e il 2009 le tariffe comunali sono cresciute a una media del 3,5% annuo. Il doppio dell'inflazione, con punte stratosferiche per i rifiuti (+29% tra il 2004 e il 2009, e continuano ad aumentare) e i servizi idrici, le cui tariffe crescono in media del 5% l'anno. Dopo l'immondizia e l'acqua, l'ondata dei rincari nel 2010 e in questo primo scorcio del 2011 si è abbattuta su asili nido, mense scolastiche, piscine e impianti sportivi, musei, servizi cimiteriali, trasporto locale. E nel Milleproroghe, appena approvato dal Senato, c'è una nuova sorpresa: tutti i Comuni, anche quelli che non si trovano in emergenza rifiuti, potranno aumentare le tariffe fino a coprire l'intero costo del servizio. Incrociamo le dita. Il caso dell'Ama, che oltre ad essere l'azienda municipalizzata per l'ambiente del Comune di Roma è anche uno straordinario collettore di voti, forse vale per tutti come cattivo esempio di amministrazione. Il bilancio del 2008 si è chiuso con una perdita monstre di 257 milioni di euro. E il 2009 sarebbe stato archiviato con un altro buco di 70 milioni, senza il contributo di 30 milioni erogato dal Comune e l'aumento delle tariffe per ben 40,8 milioni di euro. E tutto questo mentre i crediti verso gli utenti morosi aumentavano, in dodici mesi, di 108 milioni, raggiungendo la cifra astronomica di 623 milioni di euro. La circostanza non ha comunque impedito all'azienda di assumere nuove legioni di dipendenti: 91 nel 2008, 489 nel 2009, 766 nel 2010. Impiegati, netturbini, perfino 164 spalatori di foglie ingaggiati in un colpo solo. Poi, naturalmente, anche parenti e amici dei politici. Per rendersi conto del disordine che regna negli enti locali del nostro Paese, del resto, è sufficiente dare uno sguardo a una tabella elaborata dal senatore del Pd, Marco Stradiotto, componente della Bicamerale sul federalismo, sui dati del ministero dell'Interno. Si scopre, per esempio, che su ogni cittadino di Cosenza grava un costo del personale comunale di 506 euro l'anno: quasi il doppio rispetto a una città poco più grande come Cesena (271 euro), e addirittura il 117% in più nei confronti di Catanzaro (233). Per non parlare delle differenze macroscopiche che ci sono fra Regione e Regione. La Sicilia, con metà dei residenti della Lombardia, sopporta una spesa per il personale regionale nove volte superiore (un miliardo 782 milioni contro 202 milioni). E investe nelle infrastrutture ferroviarie 13,9 milioni l'anno, 57 volte meno della Lombardia (786 milioni). Differenze eclatanti, che danno anche la dimensione dell'assistenzialismo in salsa locale. Il bello è che cominciano a saltare fuori solo adesso. Dopo che i tecnici della Commissione mista tra governo ed enti locali per l'attuazione del federalismo, guidata da Luca Antonini, sono quasi impazziti per riportare su base omogenea i bilanci dei Comuni, dove molte spese sono nascoste dall'esternalizzazione dei servizi, e delle Regioni, scritti in quindici modi diversi. In attesa di quello fiscale, in Italia regna da sempre il federalismo contabile, nel senso che ognuno si fa il bilancio a modo suo. E a nulla sono valsi, finora, i tentativi di mettere un po' d'ordine. Vi siete mai chiesti perché da qualche tempo in qua se un'amministrazione di destra sostituisce una di sinistra, o viceversa, la prima cosa che fa è mettere i libri contabili in mano a un ispettore del Tesoro? Certamente per scaricarsi delle responsabilità dei predecessori. Ma anche perché i bilanci sono così complicati e poco trasparenti che dentro ci si può nascondere di tutto. Dalla due diligence eseguita dalla Ragioneria generale dello Stato sui conti della Campania, richiesta dall'attuale governatore Stefano Caldoro, sono saltati fuori «bilanci di previsione fortemente sovradimensionati rispetto al reale andamento degli impegni, e pagamenti ancora più incoerenti». Per dire poi come sia possibile piegare i bilanci a ogni esigenza, la Regione, allora guidata da Antonio Bassolino, ha pagato spese che non potevano essere coperte facendosi prestare i soldi dalle banche. Come la manutenzione dei boschi (210 milioni), oppure il servizio di «monitoraggio» (21 milioni) del patrimonio forestale alla Sma Campania, società partecipata dalla Regione che aveva assunto 568 lavoratori socialmente utili. Le cose non vanno meglio con i bilanci dei Comuni. Nell'estate del 2010 la Corte dei conti ha trovato in quello di Foggia cose turche. Non esisteva un inventario dei beni comunali, ma in compenso c'era un contenzioso civile devastante, con decreti ingiuntivi per 30 milioni. Nel bilancio erano contabilizzate come residui «attivi» somme impossibili da incassare. Insomma, una baraonda totale. I decreti attuativi sul federalismo fiscale ora promettono di metterci una pezza, imponendo l'omogeneità dei bilanci. Ma non a tutti, perché per le Regioni a statuto speciale le regole sono dettate dagli Statuti, che hanno rilevanza costituzionale. Dietro l'angolo si profilano altre insidie, ma non si può che partire da qua. Facendo ordine nel caos dei numeri, mettendo al bando con la trasparenza i giochi di prestigio degli amministratori furbacchioni. Poi toccherà ai cosiddetti «fabbisogni standard», che dovrebbero far superare il principio della «spesa storica», grazie al quale vengono premiate le amministrazioni più spendaccione. Di che cosa si tratta? Si stabilisce sulla base di parametri economici e territoriali qual è il costo efficiente di un servizio: la polizia locale, l'asilo nido, l'impianto sportivo... Chi vuole spendere di più si arrangi. Dallo Stato non arriverà un euro in più: o si risparmia altrove, o bisognerà aumentare le tasse, e poi rendere conto, ai propri elettori. Ma questo, come vedremo nelle prossime puntate, non è affatto «federalismo». Anche Luca Antonini parla di «razionalizzazione della spesa pubblica». La devolution è un'altra cosa. Anche se ci ostiniamo a chiamarla così.
Mario Sensini e Sergio Rizzo
17 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it/economia
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« Risposta #78 inserito:: Marzo 03, 2011, 03:13:26 pm » |
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Il dossier
Pale eoliche e pannelli solari sui tetti, la corsa (costosa) all'energia rinnovabile
Richieste per 130 mila megawatt, più di tutte le centrali costruite in cento anni
ROMA - Il conto alla rovescia è cominciato già da qualche settimana, quando è stato chiaro che da un giorno all'altro, improvvisamente, poteva finire la pacchia. Quel giorno si stava pericolosamente avvicinando. Tremavano in migliaia. Tremavano le imprese che avevano costruito autentiche fortune. Tremavano le 20 mila persone che ruotano intorno a quel business. Tremavano perfino le banche, che avevano trovato nei finanziamenti alle fonti rinnovabili una lucrosa alternativa al credito tradizionale, azzannato dalla crisi.
È successo che lo scorso anno si è deciso di mettere un limite agli incentivi concessi per realizzare impianti fotovoltaici. Incentivi che, per dirla con l'Authority, sono fra i «più profittevoli al mondo». Un assaggio: mentre il costo medio dell'energia in Italia si aggira sui 60-70 euro al megawattora, chi produce elettricità con il fotovoltaico intasca ancora oggi fino a 402 euro. Vi chiederete: chi paga? Ovviamente gli utenti. Gli incentivi finiscono per gravare sulla bolletta. E sono così grandi da aver generato una ubriacatura generale, di cui fa le spese l'intero sistema. Basti pensare che negli ultimi quattro anni sono state presentate domande di impianti alternativi per 130 mila Megawatt, a fronte di una potenza elettrica installata, nel corso dell'ultimo secolo, di 105 mila Megawatt. Una quantità assurda, che la nostra rete non potrebbe mai sopportare. Ma nel frattempo gli investitori prenotano le connessioni, anche se poi non produrranno un chilowattora. Tanto non costa nulla. Per scoraggiare i buontemponi l'Autorità per l'energia aveva decretato l'obbligo di fideiussioni bancarie che sarebbero state escusse nel caso di mancata realizzazione degli impianti. Ma il Tar ha sospeso tutto: e ti pareva?
La corsa al pannello è stata così frenetica che quest'anno gli utenti dovranno pagare, fra maggiore costo della bolletta e quant'altro, una sovrattassa di 5,7 miliardi di euro per le energie alternative. Di cui soltanto 3 miliardi per il solo fotovoltaico. Nel solo 2009 se l'elettricità prodotta con fonti rinnovabili è salita del 13% e l'eolico è cresciuto del 35%, gli impianti solari hanno registrato un balzo clamoroso: +418%.
Ecco perché nel 2010 si è stabilito un tetto. Una volta raggiunta la soglia di 8 mila Megawatt di potenza installata, stop. Gli incentivi sarebbero finiti. Il fatto è che per raggiungere quel limite ci sarebbe stato tempo fino al 2020, ma l'accelerazione che si è registrata negli ultimi tempi, legata anche al fatto che gli incentivi decrescono man mano che passa il tempo, ha fatto bruciare le tappe. E sarebbe stata solo questione di mesi. Secondo l'autorità per l'energia sarebbero stati già installati, al 31 dicembre 2010, 6.500 Megawatt. Ma stime di Alessandro Clerici, presidente del gruppo di studio del World Energy Council su «Risorse energetiche e tecnologiche» dicono che dovremmo essere già a 7.400 Megawatt.
Per giunta avrebbe regnato l'incertezza più totale. Nei prossimi giorni dovrebbe essere pronto un nuovo decreto del governo per razionalizzare l'intera materia. E proprio lì c'è la soluzione al problema. Naturalmente al netto delle divergenze di opinioni che già si sono manifestate all'interno dell'esecutivo, perché un punto fermo sarebbe stato già acquisito: quel tetto di 8.000 megawatt non esiste più. Abbiamo scherzato. Per quel che ne sappiamo, inoltre, il provvedimento dovrebbe abolire il meccanismo dei certificati verdi, sistema con il quale sono incentivati anche gli impianti eolici. Di che cosa si tratta? Sono veri e propri titoli che si vendono e si comprano alla borsa elettrica. Mediamente valgono 80 euro a Megawattora, cui si aggiungono i soldi che il produttore incassa per l'energia messa in rete. Il decreto dovrebbe poi prevedere una barriera dimensionale degli impianti fotovoltaici (5 Megawatt), al di sopra della quale per accedere agli incentivi sarebbe necessaria una gara. Più o meno come in Francia. Piccolo particolare, sul livello dei futuri incentivi è buio totale. Quelli dovranno essere stabiliti con successivi decreti dai singoli ministeri: certo ne vedremo delle belle.
Normale, per un Paese dove si passa facilmente da un estremo all'altro. E può davvero accadere di tutto. Il cosiddetto provvedimento Cip 6 del 1992, per esempio. Dopo la vittoria dei Sì al referendum antinucleare del 1987 venne stabilito di incentivare la produzione di energie rinnovabili. Ma al dunque una manina probabilmente indirizzata dai petrolieri aggiunse due paroline «e assimilate» che stravolsero il principio, aprendo la porta dei ricchi incentivi perfino agli scarti inquinantissimi delle raffinerie. Risultato, soltanto dal 2001 al 2010 il Cip 6 è costato agli utenti 22,8 miliardi di euro, per almeno metà finiti a chi produceva con combustibili fossili. Si sperava che la pacchia finisse subito dopo che l'Unione Europea aveva fissato l'obiettivo secondo il quale entro il 2020 il 17% di tutti i consumi energetici dovrebbe essere soddisfatto con fonti rinnovabili. Ma c'erano i vecchi contratti in essere. E a questi si sono aggiunti i nuovi superincentivi necessari, si diceva, per centrare l'obiettivo continentale. Peccato che siano superiori in media anche dell'80% a quelli concessi dagli altri Paesi europei, come ha dimostrato sul Corriere Massimo Mucchetti.
Come risultato, l'Italia si è riempita in pochi anni di impianti fotovoltaici. E non soltanto sui tetti delle case, dove c'è circa metà della potenza installata. I pannelli hanno invaso pure il territorio. Del 295 Megawatt operativi in Puglia, 239 sono prodotti da 497 impianti collocati su 358 ettari di terreni agricoli. Per non parlare delle pale eoliche, diventate l'ossessione degli ambientalisti. Grazie a un sistema assurdo di incentivazione hanno finito per metterle anche dove tira una leggera brezza. Con la scusa poi delle carenze nella trasmissione, è stato previsto una specie di indennizzo di «mancata produzione» dovuta alla impossibilità di immettere l'elettricità nella rete.
Nel 2009 sono stati pagati ai produttori 12,5 milioni. La verità è che le reti sono frequentemente sature non solo per ragioni strutturali, ma anche a causa dell'offerta elevatissima. La dimostrazione sta nella somma enorme che il Gestore dei servizi energetici (la società pubblica a cui fa capo la Borsa elettrica) paga per acquistare i «certificati verdi» invenduti: 940 milioni nel 2010, forse 1,4 miliardi quest'anno.
Va da sé che con tutti questi soldi in ballo l'affare delle energie alternative ha attirato speculatori, faccendieri, e truffatori. Romani ha raccontato in una lettera al Corriere che a dicembre in Puglia un impianto aveva comunicato l'entrata in funzione di 8 Megawatt, ma quando i tecnici del ministero sono andati a fare una verifica, non hanno trovato che pannelli per 40 Kilowatt: 200 volte meno della potenza dichiarata. Per non parlare dell'offensiva delle organizzazioni criminali, dalla Sardegna alla Sicilia alla Puglia, partita dall'eolico e ora approdata all'energia solare. Durante una trasmissione di Radio 24 il magistrato della Procura antimafia Maurizio De Lucia ha azzardato il paragone con il sacco di Palermo. Un caso? Nella sola provincia di Siracusa la Finanza ha sequestrato impianti fotovoltaici mai entrati in funzione e ammessi a incentivi per 10 milioni di euro.
Sergio Rizzo
03 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/economia
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« Risposta #79 inserito:: Marzo 14, 2011, 12:19:58 pm » |
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Il Nucleare e Noi
Sarebbe sbagliato sottovalutare quello che sta accadendo alle centrali atomiche in Giappone, Paese che 65 anni fa ha già visto in faccia lo spettro dell'olocausto nucleare. Quello di Fukushima è uno dei più gravi incidenti che si ricordino. E non ne attenua la gravità il fatto che non sia stato causato dall'imprudenza umana, come a Chernobyl, né da un'avaria, come a Three Mile Island, ma da un terremoto devastante. Una prova ancora più tremenda di quante questa orgogliosa nazione ha dovuto affrontare nella sua storia, rialzandosi sempre.
C'è stato chi, magari confortato dai 10 mila chilometri di distanza, ha detto che alle nostre future sicurissime centrali non potrà succedere. L'impianto di Fukushima è vecchio. E poi in Italia ci sono siti sicuri al riparo dai terremoti. Tutto vero. Resta il fatto che l'opinione pubblica ha il diritto di sapere che cosa si sta davvero rischiando. Senza reticenze.
Al tempo stesso siamo convinti che non possa essere la comprensibile emotività suscitata da quella tragedia a determinare scelte fondamentali di politica energetica. L'abbiamo già fatto e ne siamo rimasti scottati. Il referendum antinucleare del 1987 passò con una maggioranza schiacciante per l'impressione suscitata da Chernobyl. Nessun partito, eccetto il repubblicano, osò sfidare l'impopolarità.
Promisero che mettendo al bando l'atomo avremmo imboccato la via dell'energia pulita: siamo invece diventati il Paese europeo più inquinante, più dipendente dagli sceicchi e con le bollette più care. Finché, dopo aver riempito le tasche dei petrolieri, ci si è accorti che la Germania produceva 70 volte più energia solare dell'Italia, rimasta penosamente al palo nel campo delle rinnovabili. E per recuperare terreno abbiamo concesso incentivi fin troppo generosi a chi le produceva. Salvo poi chiudere i rubinetti dalla sera alla mattina.
Così la stessa maggioranza che per cinque anni al governo si era ben guardata dall'avviare la pratica (ricordate il ministro Marzano? «Da noi non ci sono le condizioni per riaprire il discorso del nucleare», disse nel maggio 2001) l'ha scoperta priorità nel 2008. Giusto in tempo per le elezioni. Eppure oggi l'Agenzia per la sicurezza non ha ancora una sede e i suoi componenti, ha confessato il presidente Umberto Veronesi, s'incontrano al bar.
Come stupirsi se da vent'anni aspettiamo inutilmente un piano energetico nazionale che dica come alimenteremo fabbriche, treni e frigoriferi nel futuro? Siamo il Paese dei controsensi, del tutto e del niente. Dove ogni decisione importante non viene presa in base a disegni strategici. Bensì sull'onda di un'emozione, di polemiche o interessi particolari. Anche se si tratta di scelte destinate a cambiare la vita dei nostri figli e nipoti.
Sergio Rizzo
14 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali
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« Risposta #80 inserito:: Marzo 26, 2011, 11:56:58 am » |
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Il caso -
Dopo meno di un anno torna l'indennità per chi è eletto nelle circoscrizioni.
Saltano (di nascosto) i tagli alla politica
Nel decreto sul Fus scompare la riduzione dei consiglieri di Roma e Milano. L'«attenzione» del Colle
Il precedente
Il Quirinale si era già espresso contro l'alleggerimento delle assemblee delle grandi città e la norma era stata tolta
ROMA - Trasudavano indignazione, le parole di Marco Marsilio: «Pretendere che lavorino gratis o rimettendoci di tasca loro significa allontanare i cittadini onesti e normali dalla politica e dalle istituzioni». Il deputato del Pdl ce l'aveva con la manovra economica di Giulio Tremonti che aveva abolito le indennità dei consiglieri circoscrizionali. Un segnale inequivocabile che tutti, in un momento di difficoltà economica, avrebbero dovuto stringere di un buco la cinghia. Ma scarsamente digeribile. «Ricordo che a Roma ognuno dei 19 municipi è esteso come Milano e abitato da una città come Bologna», insisteva Marsilio. Ma il suo grido di dolore non intenerì Tremonti.
È durata poco: sei mesi dopo è arrivato il primo gesto riparatore. Nel silenzio più totale, con una norma infilata in uno degli ultimi provvedimenti, l'indennità è stata ripristinata, per il sollievo dei consiglieri circoscrizionali delle quindici città metropolitane. Poi, mercoledì 23 marzo, un secondo regaluccio. Ma questa volta soltanto per il Comune di Roma. Nello stesso decreto legge che con l'aumento della benzina ha restituito un po' di soldi al Fondo unico per lo spettacolo è spuntata una norma piccola piccola che triplica il numero di ore di permesso retribuito ai consiglieri circoscrizionali di Roma, portandole da un quarto di quelle spettanti ai consiglieri comunali a tre quarti. Cosa significa? Che se prima un consigliere circoscrizionale poteva assentarsi dal posto di lavoro per un'ora al giorno, oggi può ritornare dopo tre ore. E il costo relativo viene addebitato dal suo datore di lavoro al Comune. Come si motiva un privilegio che costringerà il Campidoglio a spendere il triplo? Con il fatto che Roma è «capitale»: ragion per cui i consiglieri circoscrizionali sarebbero più impegnati dei loro colleghi di Milano, Palermo o Genova. Difficile, per non dire impossibile, non intravedere in questa misura a dir poco singolare l'impronta digitale del sindaco di Roma Gianni Alemanno. Al quale non sarà certamente dispiaciuta una seconda sorpresa contenuta nel decreto di mercoledì.
Si tratta dell'articolo con il quale viene stabilito che il taglio del 20% del numero dei consiglieri comunali deciso l'anno scorso ed entrato in vigore dal primo gennaio 2011 non si applica alle città con una popolazione superiore al milione di abitanti. Cioè Roma e Milano, entrambe amministrate dal centrodestra. Per un soffio (circa 30 mila abitanti) il Comune di Napoli, guidato dal centrosinistra, potrebbe invece essere fuori. Roma e Milano non saranno quindi costrette a ridurre da 60 a 48 componenti i loro consigli comunali e potranno avere fino a 15 assessori. Più il sindaco, naturalmente. Dice il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni: «Siamo alle solite. Anche stavolta non hanno mantenuto la parola. Ogni volta che c'e da tagliare sui costi della politica si rimangiano la parola. Il risultato è che aumentano pure le tasse per i cittadini. Una vergogna».
Va detto che il tentativo di salvare una trentina di poltrone nelle due città più grandi del Paese non è una novità assoluta. La norma era stata già infilata di soppiatto nel famoso decreto milleproroghe approvato un mese fa. Poi però era improvvisamente saltata: il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aveva imposto che venisse rimossa dal testo definitivo. La motivazione ufficiale? Lo stop alla cura dimagrante dei consigli comunali di Roma e Milano (e magari Napoli?) c'entrava come i cavoli a merenda con la materia di quel provvedimento, destinato a reiterare delle scadenze risultate impossibili da rispettare. Una motivazione che però doveva nascondere qualche perplessità ben più profonda, se il Quirinale ha messo un'altra volta sotto stretta osservazione il salvataggio di quelle poltrone: la cui urgenza, evidentemente tale secondo il governo da richiedere addirittura l'inserimento in un decreto legge nel quale si parla di tutt'altro, è davvero arduo giustificare. Senza considerare, poi, una questione di rispetto istituzionale. Il Quirinale chiede di togliere una norma da un decreto legge e nemmeno quattro settimane più tardi Napolitano se la ritrova sotto il naso in un altro decreto legge? Non sarebbe sorprendente se anche questo aspetto della vicenda venisse considerato inaccettabile.
Sergio Rizzo
© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/politica/11_marzo_25/ 25 marzo 2011
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« Risposta #81 inserito:: Maggio 10, 2011, 10:37:19 pm » |
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Si pensa a redazioni e programmi Rassegna stampa
L'idea di «Parlamento channel»
Camera e Senato, i nuovi sprechi
Trattative con la Rai per due televisioni con tecnologia digitale
ROMA - Che di questi tempi l'immagine del Parlamento italiano sia un poco appannata non è una novità. Del resto lo fanno capire senza reticenze i suoi stessi inquilini. Qualche mese fa il presidente della Camera Gianfranco Fini si è lamentato che ormai l'attività è ridotta all'osso con i deputati che arrivano a Roma il martedì e ripartono il giovedì, mentre il premier Silvio Berlusconi è arrivato a proporre per evitare sterili lungaggini di far votare i soli capogruppo. «Le assemblee pletoriche - ha chiosato - sono assolutamente inutili e addirittura controproducenti. Pensate che ci sono 630 parlamentari quando ne basterebbero 100».
Cosa c'è allora di meglio, per risollevare la reputazione della nostra politica nella quale apparire è quasi tutto, di un bel canale televisivo? Anzi, due canali. Uno per la Camera e uno per il Senato. Direte: è uno scherzo. Niente affatto. Quel progetto esiste da tempo e ora, grazie al digitale terrestre, sta entrando nella fase concreta. Da qualche giorno a Montecitorio, dove gli esperti di comunicazione non mancano davvero, si è sentito il bisogno di ingaggiare per la bisogna anche un consulente esterno. Si chiama Pino Caiola: in passato ha lavorato a Telepiù, è stato il responsabile della comunicazione del gruppo parlamentare di Forza Italia e più recentemente portavoce del ministro per i Rapporti con il Parlamento Elio Vito. Collaborerà con la commissione interna incaricata di seguire le questioni della comunicazione, affidata al vicepresidente Maurizio Lupi, che si occupa anche delle faccende relative all'etere.
Palazzo Madama ha invece una struttura dedicata specificamente all'argomento. È il «Comitato per lo sviluppo della comunicazione radiotelevisiva del Senato» costituito già nel luglio del 2009 dal consiglio di presidenza, del quale fanno parte il questore Benedetto Adragna, la vicepresidente Emma Bonino, e poi i senatori Alessio Butti, Silvana Amati, Paolo Franco e Lucio Malan.
Le trattative con la Rai, che dovrebbe fornire la piattaforma tecnologica, procedono sulla base di varie opzioni, non esclusa quella di un canale comune per le due Camere. Forse la meno insensata (pure ammettendo che tutto ciò possa avere un senso) ma certo la meno praticabile. Il capo ufficio stampa della Camera Giuseppe Leone si dice sicuro che il tema sarà oggetto di consultazioni fra Montecitorio e Palazzo Madama. Resta il fatto che l'ipotesi di un unico «Parlamento channel», con Camera e Senato gelosissimi delle rispettive prerogative, che hanno impiegato anni soltanto per aprire una porta fra le loro due biblioteche, sembra piuttosto remota. A chi toccherebbe il direttore? E i dirigenti, in che modo verrebbero scelti? Senza entrare nel merito del palinsesto: chi ne avrebbe la responsabilità, e come potrebbe conciliare le rispettive esigenze?
Domande certamente cruciali. Anche se ancora prima di queste ce ne sarebbe una fondamentale: il nostro Parlamento non ha niente di più utile da fare che pensare a una rete televisiva? A che cosa servirebbe, o meglio «servirebbero», visto che potrebbero essere addirittura due? E poi, a parte le ovvie considerazioni sull'audience, la Camera e il Senato forse non hanno già le proprie tivù? Da anni trasmettono su Internet e sul satellite la diretta delle sedute, con una spesa non proprio trascurabile. L'affitto dalla Rai della sola frequenza satellitare costa 395 mila euro l'anno alla Camera e 384.000 al Senato. Poi ci sono 30 mila euro circa per la web tivù, le spese per i dipendenti, l'elettricità, le attrezzature...
Somme destinate a moltiplicarsi per svariate volte nel caso in cui andassero in porto i progetti dei nuovi canali digitali terrestri. Stime non ne esistono ancora. Ma che non si sborserebbero bruscolini è intuibile. Si tratterebbe di due reti tv in piena regola, con strutture organizzative, redazioni, programmi... E i costi non sarebbero che uno dei problemi. Si possono solo immaginare le difficoltà di realizzazione nel Paese del manuale Cencelli. Per non parlare del personale necessario.
C'è da dire che già adesso gli apparati di comunicazione non sono propriamente esili. Gli uffici stampa di Camera e Senato hanno strutture imponenti. A Montecitorio ci sono un direttore e cinque capiredattori: e poi documentaristi, segretarie e commessi. Per un totale di 35 persone. A Palazzo Madama lo staff della comunicazione, che comprende un capo ufficio e tre vicedirettori, arriva invece a una trentina di unità. Due piccoli eserciti. Numeri che oggi si giustificherebbero, questa è almeno la vulgata, con la singolare situazione della rassegna stampa. Appaltata all'esterno ma di fatto confezionata all'interno. Camera e Senato hanno in essere uno storico contratto «necessitato» (così si definiscono quelli che hanno un fornitore obbligato) con una società specializzata, l'Eco della Stampa, che fornisce ogni giorno per via telematica centinaia di articoli. Un semilavorato poi scremato dagli uffici che provvedono ad assemblare la rassegna vera e propria. Tutto questo con un costo pari a 204 mila euro l'anno per il Senato e 427.000 per la Camera. Per un totale di oltre 630 mila euro.
Sergio Rizzo
10 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/politica/11_maggio_10/
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« Risposta #82 inserito:: Giugno 27, 2011, 09:58:14 am » |
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Infrastrutture
La società va avanti: via all'esame del progetto definitivo
Quei 250 milioni spesi per il ponte di Messina (che non si farà più)
La crisi, il no della Lega. E l'opera non parte
ROMA - «Costruiremo il ponte di Messina, così se uno ha un grande amore dall'altra parte dello Stretto, potrà andarci anche alle quattro di notte, senza aspettare i traghetti...» Da quando Silvio Berlusconi ha pronunciato queste parole, era l'8 maggio 2005, sono trascorsi sei anni, e gli amanti siciliani e calabresi sono ancora costretti a fare la fila al traghetto fra Scilla e Cariddi. Sul ponte passeranno forse i loro pronipoti. Se saranno, o meno, fortunati (questo però dipende dai punti di vista).
La storia infinita di questa «meraviglia del mondo», meraviglia finora soltanto a parole, è nota, ma vale la pena di riassumerla. Del fantomatico ponte sullo Stretto di Messina si parla da secoli. Per limitarci al dopoguerra, la prima mossa concreta è un concorso per idee del 1969. Due anni dopo il parlamento approva una legge per l'attraversamento stabile dello Stretto. Quindi, dieci anni più tardi, viene costituita una società, la Stretto di Messina, controllata dall'Iri e affidata al visionario Gianfranco Gilardini. Che ce la mette tutta. Coinvolge i migliori progettisti, e per convincere gli oppositori arriva a far dimostrare che il ponte potrebbe resistere anche alla bomba atomica. Passerà a miglior vita senza veder nascere la sua creatura. La quale, nel frattempo, è diventata un formidabile strumento di propaganda. Ma anche un oggetto di scontro politico: mai un ponte, che per definizione dovrebbe unire, ha diviso così tanto. Da una parte chi sostiene che sarebbe un formidabile volano per la ripresa del Mezzogiorno, se non addirittura una sensazionale attrazione turistica, dall'altra chi lo giudica una nuova cattedrale nel deserto che deturperà irrimediabilmente uno dei luoghi più belli del pianeta. Fra gli strali degli ambientalisti, Bettino Craxi ci fa la campagna elettorale del 1992. E i figli del leader socialista, Bobo e Stefania, proporranno in seguito di intestarlo a lui. Mentre l'ex presidente della Regione Calabria Giuseppe Nisticò avrebbe voluto chiamarlo Ponte «Carlo Magno» attribuendo il progetto di unire Scilla e Cariddi al fondatore del Sacro Romano Impero. Nientemeno.
Finché, per farla breve, arriva nel 2001 il governo Berlusconi con la sua legge obiettivo. Ma nemmeno quella serve a far decollare il ponte. Dopo cinque anni si arriva faticosamente a un passo dall'apertura dei cantieri, con l'affidamento dell'opera (fra polemiche e ricorsi) a un general contractor, l'Eurolink, di cui è azionista di riferimento Impregilo. Quando però cambia la maggioranza. Siamo nell'estate del 2006 e il ponte finisce su un binario morto. Il governo di centrosinistra vorrebbe addirittura liquidare la società Stretto di Messina, concessionaria dell'opera, ma il ministro delle Infrastrutture, Antonio Di Pietro, sventa la mossa in extremis. Nessuno lo ringrazierà: ma se l'operazione non si blocca il «merito» è suo. Nel 2008 torna dunque Berlusconi e il progetto, a quarant'anni dal suo debutto, riprende vita.
Certo, nella maggioranza c'è qualcuno che continua a storcere il naso. Il ponte sullo Stretto di Messina, la Lega Nord di Umberto Bossi proprio non riesce a digerirlo. Ma tant'è. Nonostante le opposizioni interne ed esterne, la cosa va avanti sia pure lentamente. E si arriva finalmente, qualche mese fa, al progetto definitivo. Nel frattempo, sono stati già spesi almeno 250 milioni di euro.
Sarebbe niente, per un'opera tanto colossale, se però gli intoppi fossero finiti. Sulla carta, per aprire i cantieri, ora non mancherebbero che poche formalità, come la Conferenza dei servizi con gli enti locali e il bollino del Cipe, il Comitato interministeriale che deve sbloccare tutti i grandi investimenti pubblici. Sempre sulla carta, non sarebbe nemmeno più possibile tornare indietro e dire a Eurolink, come avrebbero voluto fare gli ambientalisti al tempo del precedente governo: «Scusate, abbiamo scherzato». Il contratto infatti è blindato. Revocarlo significherebbe essere costretti a pagare penali stratosferiche. Parliamo di svariate centinaia di milioni. Ma nonostante questo il percorso si è fatto ancora una volta più che mai impervio. Non per colpa dei soliti ambientalisti. Nemmeno a causa della crisi economica, il che potrebbe essere perfino comprensibile. Piuttosto, per questioni politiche. Sia pure mascherate da difficoltà finanziarie.
Per dirne una, il «decreto sviluppo» ha materializzato un ostacolo imprevisto e insormontabile. Si è stabilito infatti che le cosiddette «opere compensative», quelle che i Comuni e gli enti locali pretendono per non mettere i bastoni fra le ruote al ponte, non potranno superare il 2% del costo complessivo dell'opera. E considerando che parliamo di 6 e mezzo, forse 7 miliardi di euro, non si potrebbe andare oltre i 130-140 milioni. Una cifra che, rispetto agli 800-900 milioni necessari per le opere già concordate con le amministrazioni locali, fa semplicemente ridere. Bretelle, stazioni ferroviarie, sistemazioni viarie.... Dovranno aspettare: non c'è trippa per gatti. Basta dire che il solo Comune di Messina aveva concordato con la società Stretto lavori per 231 milioni. Fra questi, una strada (la via del Mare) del costo di 65 milioni. Ma soprattutto il depuratore e la rete fognaria a servizio della parte nord della città, che ne è completamente priva: 80,7 milioni di investimento. Adesso, naturalmente, a rischio. Insieme a tutto il resto. Anche perché le opere compensative sono l'unica arma che resta in mano agli enti locali. Portarle a casa, per loro, è questione di vita o di morte.
A remare contro c'è poi il clima politico. Dopo la batosta elettorale alle amministrative la Lega Nord, che già di quest'opera faraonica non ne voleva sentire parlare, ha alzato la posta e questa è una difficoltà in più. Fa fede l'avvertimento lanciato dal leghista Giancarlo Gentilini, vicesindaco di Treviso: «La gente non vuole voli pindarici, non è interessata a opere come il ponte sullo Stretto di Messina perché è una cosa che non sta né in cielo né in terra. Quindi anche tu, Bossi, quando appoggi questi programmi da fantascienza, ricordati piuttosto di restare con i piedi per terra, perché gli alpini mettono un piede dopo l'altro».
Con l'aria che tira nella maggioranza basterebbe forse questa specie di «de profundis» che viene dalla pancia del Carroccio per far finire nuovamente il ponte su un binario morto. Senza poi contare quello che è successo in Sicilia. Dove ora c'è un governo regionale aperto al centrosinistra, schieramento politico che al ponte fra Scilla e Cariddi è sempre stato fermamente contrario. Una circostanza che rende estremamente complicato al governatore Raffaele Lombardo spingere sull'acceleratore. E questo nonostante i posti di lavoro che, secondo gli esperti, quell'opera potrebbe garantire. Sono in tutto 4.457: un numero enorme, per un'area nella quale la disoccupazione raggiunge livelli record.
Ma il fatto ancora più preoccupante, per i sostenitori dell'infrastruttura, è il disinteresse che sembra ormai circondarlo anche negli ambienti governativi. Evidentemente concentrati su ben altre faccende. La società Stretto di Messina ha diramato ieri un comunicato ufficiale per dare notizia che «il consiglio di amministrazione ha avviato l'esame del progetto definitivo del ponte». Un segnale che la cosa è ancora viva, magari nella speranza che Berlusconi si decida a rilanciare il ponte, annunciando l'ennesimo piano per il Sud? Forse. Vedremo quando e come l'esame si concluderà, e che cosa accadrà in seguito. Sempre che il governo vada avanti, sempre che si trovino i soldi per accontentare gli enti locali... Intanto nella sede messinese di Eurolink, dove lavoravano decine di persone, sembrano già cominciate le vacanze. Come avessero fiutato l'aria.
Sergio Rizzo
24 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/cronache/11_giugno_24/il-ponte-di-Messina-250-milioni-e-non-si-fara-sergio-rizzo_1f39efc2-9e24-11e0-b150-aadf3d02a302.shtml
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« Risposta #83 inserito:: Giugno 30, 2011, 05:12:17 pm » |
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PIU' RIGORE PER DIFENDERE IL PAESE La direzione del coraggio Non si è ancora visto in Italia un ministro tanto disponibile a proporre tagli al proprio ministero quanto solerte a indicare i presunti sprechi dei suoi colleghi. Giulio Tremonti lo ha sottolineato pubblicamente appena qualche giorno prima di sentirsi dare del matto da un collega di governo, sottosegretario alla Difesa (uno dei dicasteri più colpiti dall'austerità negli ultimi anni) nonché esponente del suo stesso partito. Circostanza che avrebbe avuto una sola conseguenza immediata, ovvero le dimissioni del sottosegretario, in qualunque altro Paese del mondo. Ma non in Italia. E questo la dice lunga sulla situazione paradossale in cui si sta dipanando la matassa della manovra. Non serve certo la palla di vetro per farsi un'idea di che cosa sia passato nella mente dei nostri ministri investiti dai tanto deprecati «tagli lineari» nelle 48 ore intercorse fra la presentazione della manovra e la sua discussione a Palazzo Chigi. In questi giorni sembra di rivedere le scene di un vecchio film proiettato esattamente sette anni fa sullo stesso schermo. Erano i primi giorni di luglio del 2004, Tremonti si trovava sotto assedio e con la scusa di quella parolina magica, «collegialità», fu costretto alle dimissioni. Certo, qualche differenza c'è. Allora chi pretese il suo scalpo era Gianfranco Fini. Oggi, nella maggioranza, sono molti di più. Il che rende l'aria intorno al ministro dell'Economia irrespirabile, come testimonia il trattamento che gli riservano i giornali vicini al centrodestra. I nostalgici di quel luglio 2004 dovrebbero però ricordare anche ciò che avvenne quattro giorni dopo le dimissioni di Tremonti: Standard & Poor's declassò il debito pubblico italiano. Quella decisione dell'agenzia di rating venne allora rabbiosamente liquidata dal governo con un'alzata di spalle. Reazione adesso improponibile. Perché si dà il caso che ora l'Italia, a differenza di sette anni fa, stia attraversando un momento che richiama un'altra sconcertante analogia estiva. L'anno era il 1992 e il nostro Paese si trovava sull'orlo della crisi finanziaria con la speculazione internazionale scatenata contro la liretta. Un dettaglio che potrebbe trasformare quel copione del 2004, recitato oggi, nella tempesta perfetta. Nella manovra ci sarebbero probabilmente molti ritocchi da fare. Anche se nella direzione del coraggio, dunque opposta a quella auspicata da molti ministri. Innanzitutto non ha torto chi nota come il peso più gravoso sia concentrato sul biennio 2013-2014. Perciò, scaricato su chi verrà dopo le prossime elezioni politiche. Tagli consistenti alla spesa pubblica corrente, poi, ancora non se ne vedono. Ma non è nemmeno lontanamente immaginabile ciò che potrebbe accadere sui mercati nel caso in cui Tremonti, l'uomo che in questo governo ha la maggiore credibilità internazionale, venisse messo alla porta e la sua Finanziaria fatta a pezzi per banali questioni di orticello. Peggio ancora, per salvare qualche misero privilegio. Altrettanto chiaramente va detto che la manovra non può nemmeno diventare terreno di regolamenti di conti politici (e personali) senza nessun legame con l'interesse collettivo. Chi tiene sotto controllo con apprensione i mercati in questi giorni sa che 100 punti di divario nel cosiddetto spread fra i rendimenti dei bund tedeschi e dei nostri titoli di Stato ci costano 16 miliardi l'anno. E che gli speculatori sono in agguato. Allora sì, che saranno dolori: per noi ma anche per l'euro. Perché l'Italia, con tutto il rispetto, non è la Grecia. Sergio Rizzo 30 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_giugno_30/rizzo-direzione-coraggio_13a75712-a2d9-11e0-9bbf-ebc35d9cc61e.shtml
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« Risposta #84 inserito:: Luglio 17, 2011, 06:59:16 pm » |
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Finanza pubblica Il doppio conto della manovra Interventi per 48 miliardi di euro, con effetti in quattro anni calcolabili in circa 80 miliardi ROMA - Se un segnale doveva arrivare agli italiani da una manovra che punta al pareggio di bilancio nel 2014 non era certamente questo. Mentre inasprivano i saldi, appesantivano i tagli, massacravano le detrazioni, soltanto una voce, magicamente, diventava più leggera: i sacrifici chiesti a Lor Signori. E chiesti, si badi bene, non da subito come a tutti i comuni mortali, ma dal prossimo giro, dalla prossima legislatura, dalle prossime nomine. Pur di far arrivare in porto la riforma che avrebbe adeguato i compensi di politici e burocrati, e i loro privilegi, alla media europea (una riforma per l'Italia certamente epocale, va riconosciuto, mai tentata prima), Giulio Tremonti aveva usato anche tale impopolare precauzione. Non è bastato. Gliel'hanno fatta sotto gli occhi: la norma è stata prima annacquata limitando la media europea a quella, testualmente, «dei sei principali stati dell'area euro». Poi ulteriormente diluita introducendo il concetto di media «ponderata rispetto al Pil». Un giochetto aritmetico che farebbe risparmiare a ciascuno dei nostri onorevoli, dice una indignata nota interna della Cisl, almeno altri 12 mila euro l'anno. Tanto da far commentare al segretario di quel sindacato, Raffaele Bonanni: «Serviva un segnale di responsabilità e di giustizia sociale da parte del ceto politico. Invece non è cambiato nulla. Maggioranza e opposizione hanno fatto ancora una volta quadrato per difendere privilegi che non hanno eguali in Europa. Chiediamo al presidente della Repubblica e ai presidenti di Camera e Senato di fare sentire la loro voce autorevole, innescando un cammino diverso. Bisogna tagliare i costi delle politica e i livelli amministrativi prima di chiedere sacrifici a lavoratori e pensionati». Secondo alcuni calcoli, il risparmio a regime della spesa per gli stipendi dei parlamentari si ridurrebbe della metà. Per non parlare di tutte le altre cariche beneficiate dai provvidenziali emendamenti del centrodestra. Il fatto è che nemmeno questa volta il governo è riuscito a tenere il punto su una questione definita pubblicamente essenziale dallo stesso ministro Tremonti per far digerire al Paese una manovra pesante ma inevitabile. Inevitabile, per mettere i conti pubblici al riparo dalla speculazione internazionale. Pesante, per raggiungere l'agognato pareggio di bilancio. Anzi, pesantissima: sia pur caricata, secondo una discutibilissima opportunità politica, sulle amministrazioni che verranno, anche qui, dopo le «prossime» elezioni politiche. Numeri sull'entità della correzione ne sono girati parecchi. Pure troppi. Restiamo dunque a quelli ufficiali. Nel 2014 la mazzata sarà da 47,9 miliardi: oltre due punti e mezzo del prodotto interno lordo di quell'anno. Con un crescendo rossiniano: 2,1 miliardi quest'anno, poi 5,6 nel 2012, fino a 24,4 nel 2013 e poco meno di 48, appunto, nel 2014, quando sarà a regime. Una dimensione doppia rispetto a quando l'intervento sui conti pubblici era stato ventilato (24 miliardi). Considerando che la correzione prevista per ciascun anno incorpora anche le misure, strutturali, dell'annualità precedente, la manovra economica approvata venerdì dovrebbe produrre nell'arco dei quattro anni effetti sui conti pubblici per una cifra complessiva di 80 miliardi. Un intervento senza precedenti, con l'obiettivo di mettere in sicurezza le nostre finanze. Ma basato prevalentemente su maggiori entrate (strutturali) piuttosto che sui tagli (strutturali) a una spesa pubblica galleggiante pericolosamente da anni intorno alla metà del prodotto interno lordo. Senza contare le timidezze sul versante delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni. Circostanze che non fanno certamente piazza pulita delle possibili incognite future, rese ancora più incerte dalla situazione internazionale. Chi può giurare che da qui al 2014 non saranno necessarie altre manovre? E che agli italiani nessuno chiederà ancora sacrifici a stretto giro di posta? Allora sì, che davvero con i numeri non ci si raccapezzerà più. Sergio Rizzo 17 luglio 2011 09:49© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/11_luglio_17/rizzo_doppio-conto-manovra_921d31d8-b045-11e0-b0ea-f35f7bc4068c.shtml
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« Risposta #85 inserito:: Agosto 04, 2011, 09:57:35 am » |
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Le attese deluse Dunque la casa continua a bruciare senza che nessuno metta mano all'estintore. Dal discorso in Parlamento del presidente del Consiglio era lecito aspettarsi molto di più. La decisione di parlare solo dopo la chiusura dei mercati poteva far supporre perfino qualche clamorosa sorpresa. Invece niente. Neppure una timida ammissione, verso un Paese che arranca nel pantano della crisi bombardato da quelli che chiamano «speculatori», di aver sbagliato qualcosa. Semmai il contrario: i guai sono del mondo intero, a cominciare dai più bravi (gli Usa), l'Italia è solida, le sue banche sono solide, i conti pubblici stanno meglio di quelli altrui, il nostro sistema pensionistico è invidiato da tutti... Dulcis in fundo , il governo resterà al suo posto fino al 2013. Ma se il messaggio di stabilità che il premier intendeva lanciare ai mercati era tutto condensato in quell'« hic manebimus optime », stiamo freschi. Perché qui ha perfettamente ragione il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: per venire fuori da questa situazione serve uno sforzo straordinario di coesione nazionale. Alle sue parole ha fatto riferimento anche il Cavaliere, precisando che «oggi più che mai» è necessario «agire insieme» e che «tutti hanno il dovere di rimboccarsi le maniche». Peccato che il segretario del suo partito, Angelino Alfano, abbia speso quasi tutto il tempo della propria replica per lanciare bordate all'opposizione. E peccato che il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, per tutta risposta, si sia detto disponibile «a fare un passo avanti» soltanto dopo «un passo indietro» della maggioranza. Ossia le dimissioni di Silvio Berlusconi. Dall'appello di Napolitano siamo quindi lontani anni luce. Il Parlamento è spaccato e il governo senza idee. La strategia per fermare la tempesta perfetta va dai decreti sull'uso delle auto blu a improbabili tavoli con le parti sociali, peraltro immediatamente affondati da Bersani. Quando già un pezzo della manovra approvata un mese fa è evaporata con l'aumento vertiginoso degli interessi sui nostri titoli di Stato e lo stesso Berlusconi ha lasciato intendere che si dovranno fare interventi sul fabbisogno «nell'ultima parte dell'anno». Insomma, il peggiore segnale per gli «speculatori». Ma anche per un Paese, oggi migliore di chi lo dirige, che in questa situazione meriterebbe dalla classe politica una risposta ben diversa. Come un gesto immediato. Non domani: adesso, prima che il mercato (quello stesso mercato che Berlusconi, come si è premurato di ricordare egli stesso ieri alla Camera, conosce bene avendo «tre aziende quotate») ci spinga nel baratro. Per esempio, un decreto che anticipi gli effetti consistenti della manovra a prima del 2013-2014. Un provvedimento del quale qualcuno parla già, anche se incontrerebbe molti ostacoli nel governo, che tuttavia responsabilmente Pier Ferdinando Casini ieri si è detto disposto a «votare immediatamente». Non risolverebbe certo i nostri problemi alla radice. Ma almeno mitigherebbe la probabile delusione dei mercati. E con l'aria che tira, è già qualcosa. Sergio Rizzo 04 agosto 2011 08:06© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_04/rizzo-attese-deluse_ea57966a-be58-11e0-aa43-16a8e9a1d0c7.shtml
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« Risposta #86 inserito:: Agosto 16, 2011, 04:03:16 pm » |
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Nel 2001 il contratto con gli italiani annunciava «l'abbattimento della pressione fiscale». Il contrappasso del Cavaliere Deve aumentare le odiate tasse Dal '94 il sogno, mai realizzato, di ridurre le imposte. Lo slogan: «Non metterò le mani nelle tasche degli italiani» ROMA - Non più tardi del 3 agosto, davanti ai deputati, il Cavaliere prometteva «un regime di tassazione più favorevole alle famiglie, al lavoro e all'impresa». Promessa sempre più pallida e sbiadita, ora mandata in frantumi dalla lettera della Banca centrale europea. Che ha consegnato Silvio Berlusconi alla legge del contrappasso: quella per cui l'uomo che ha vinto tre elezioni dichiarando guerra alle tasse garantendo che non avrebbe mai messo «le mani nelle tasche degli italiani», ora in quelle tasche dovrà rovistarci a fondo. I maligni diranno adesso che almeno poteva risparmiarselo. Ieri lo attaccava perfino Libero , quotidiano berlusconiano a quattro ruote motrici. La parola «Tradimento» campeggiava sul titolo in prima pagina. E dentro, la pugnalata: un manifesto del Cavaliere sorridente (era la campagna elettorale del 2001) a fianco della scritta «Meno tasse per tutti». Già, il mitico 2001. Ricordate il contratto con gli italiani firmato a Porta a Porta? «Abbattimento della pressione fiscale», c'era scritto testualmente, «con l'esenzione totale dei redditi fino a 22 milioni di lire annui; con la riduzione al 23% per i redditi fino a 200 milioni di lire annui; con la riduzione al 33% per i redditi sopra i 200 milioni di lire annui». Sette anni prima aveva sbaragliato la «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto garantendo la rivoluzione dell'aliquota unica al 33% sognata da Antonio Martino. Ma il suo governo era durato troppo poco. Senza perdersi d'animo, dall'opposizione aveva continuato a martellare. Fino a giustificare gli evasori «per necessità». «Ieri sono stato dal mio dentista e ho visto che paga il 63% di imposte e allora non volete che chi è sottoposto a un furto così non si ingegni? È legittima difesa», raccontò a Repubblica il 15 ottobre del 2000. Giusto qualche mese prima di tornare al governo, contratto con gli italiani in tasca. Da allora è stata una sfilza incredibile di propositi e annunci fantastici. Ma solo quelli. Come la volta, era il 5 luglio del 2002, che dichiarò: «Il Consiglio dei ministri che approverà oggi il Dpef darà anche il via libera alla riduzione delle tasse più grande della storia della Repubblica». O quando rivelò a Porta a Porta: «La pressione fiscale globale sulle famiglie si è già ridotta del 7,5%». Da dove arrivasse quella stima, non si è mai capito. Ma poco importava. Due mesi più tardi, a un convegno della Confindustria, si lanciò in una metafora calcistica: «Ora che l'economia verrà rilanciata con un deciso taglio delle imposte, l'Italia tornerà a vincere come il Milan, che vince e diverte». Intanto sventolava spavaldo il contratto firmato da Bruno Vespa: «Ho la speranza di arrivare al 23% e al 33% entro la fine della legislatura. Se non ci riuscirò non mi ricandido». Non ci riuscì, e a giugno del 2004, puntando l'indice contro gli alleati, ringhiava: «Se avessi avuto il 51% avrei già ridotto le tasse». Ma si ricandidò, dopo aver ottenuto dal Tesoro di Domenico Siniscalco una spuntatina all'Irpef, con l'aliquota massima ridotta al 43%: dieci punti sopra il fatidico 33% promesso. Taglio peraltro compensato da rincari di bolli e balzelli vari. La campagna elettorale incombeva e a Porta a Porta sparò: «Abbiamo ridotto la pressione fiscale dal 45% al 40,6%». La sparata non fu sufficiente. Romano Prodi vinse e rimodulò le aliquote abbattendo i benefici concessi ai più abbienti: venne crocifisso dalla destra e dai giornali vicini a Berlusconi. Su uno di questi comparve perfino un orologino che ogni giorno segnava la progressione del debito pubblico. E meno male che nessun giornale ha fatto lo stesso da quando, nel 2008, il Cavaliere è tornato a Palazzo Chigi. Promettendo, per la terza volta, di tagliare le tasse. Sappiamo com'è andata. La crisi americana, la recessione, la speculazione... «Nessuno più di me vuole ridurre le tasse», andava ripetendo ancora qualche mese fa. Mentre insieme a Umberto Bossi cercava di convincere Tremonti a usare il bisturi, dopo la batosta presa alle amministrative. Ma contro l'evidenza dei numeri. L'Istat dice che nel nostro Paese la pressione fiscale aveva raggiunto nel 2009 un livello del 43,2%, quasi quattro punti sopra la media europea. Per una ragione precisa: secondo la Banca d'Italia negli ultimi dieci anni la spesa corrente al netto degli interessi sul debito pubblico è salita di oltre sei punti sul Prodotto interno lordo, passando dal 37,6% al 43,8% fra il 2001 e il 2010. Con gli interessi, aveva raggiunto nel 2009 il suo massimo storico: 48,2%. Dal 2000 al 2008 il volume della spesa corrente è salito del 37,8%, quasi 16 punti più dell'inflazione (21,9%). Insomma, un macigno insormontabile, accumulato proprio durante gli anni del governo Berlusconi. Il quale, in un momento di realismo, il 13 gennaio del 2010, ha confessato forse per la prima volta: «La crisi non permette nessuna possibilità di riduzione delle imposte». Ma aumentarle, però... E tassare le rendite finanziarie come voleva fare Prodi, poi... Sergio Rizzo 13 agosto 2011 13:41© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/11_agosto_13/rizzo_contrappasso_cavaliere_09f630c2-c579-11e0-88c8-3552ba0345da.shtml
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« Risposta #87 inserito:: Agosto 29, 2011, 10:52:33 am » |
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Le municipalizzate, La gestione degli enti locali, Gli investimenti e gli sprechi Acqua, rifiuti, autobus in città Alti costi e scarsi servizi Immondizia, a Napoli spesa record. A Trento e Aosta il grande boom del nuovo capitalismo municipale ROMA - A Napoli si paga una tariffa sui rifiuti superiore del 48,4 per cento alla media nazionale. E quasi due volte e mezzo più cara rispetto a Firenze. Lì, per un appartamento di 80 metri quadrati, 135 euro l'anno. Nel capoluogo campano, 331. Difficile da credere che la città italiana dove la tassa sulla spazzatura è la più alta in assoluto sia proprio quella che ha più problemi con l'immondizia. Ma nel Paese dove il «capitalismo» municipale ha pian piano soppiantato il capitalismo di Stato, il sistema funziona così. Palermo, per esempio. Secondo le elaborazioni dell'ufficio studi della Confartigianato, effettuate sulla base dei dati del ministero dello Sviluppo economico e dell'Unioncamere, è la città dove il trasporto pubblico, pur non rappresentando sicuramente il massimo nazionale dell'efficienza, è invece mediamente più costoso: 515 euro per dieci abbonamenti mensili e 48 biglietti orari. Non c'è confronto con Genova (398), al secondo posto, ma nemmeno con Napoli (396), al terzo. Senza parlare di Milano: 338 euro, il 52,3% in meno. La scarsa concorrenza - Del resto, prendendo in esame un pacchetto di servizi pubblici locali (oltre al trasporto anche i rifiuti, l'acqua e l'energia) proprio Palermo è la città più cara d'Italia con l'unica eccezione di Cagliari (3.108 euro l'anno pro capite), che deve però fare i conti con l'estrema onerosità della distribuzione del gas. Nel capoluogo siciliano ogni cittadino sostiene mediamente, dicono i dati del 2009, un costo di 2.633 euro l'anno, contro 2.559 di Genova e 2.537 di Napoli. A Milano si spende il 42,6% meno che a Cagliari e il 20,8% meno che a Palermo. Ancora più impressionante, tuttavia, è il peso della spesa pro capite sul Pil «individuale». Il costo dei servizi pubblici locali si «mangia» a Napoli il 16,1% del Prodotto interno lordo pro capite, contro il 6% a Milano, l'8,3% di Firenze, il 7,1% a Bologna, il 7,6% a Roma, che certo non è fra le città meno care (2.461 euro). Come si spiega tutto ciò? Che ci sia un rapporto fra questa situazione e le mancate liberalizzazioni, come sostengono da tempo autorevoli istituzioni, è assodato. L'Ocse sottolinea, per esempio, come il costo dei servizi pubblici cresca nettamente più del costo della vita. A giugno si è registrato per questi un rincaro del 4,8%, oltre due punti sopra l'inflazione. Fra il 2000 e il 2010 le tariffe dei servizi pubblici locali, escludendo quelli energetici, sono salite del 54,2% a fronte di una crescita dei prezzi pari al 23,9%. Ed è stato un aumento astronomico anche rispetto alla media di Eurolandia, dove l'incremento delle tariffe si è attestato invece al 30,3%. La Banca d'Italia dice che nel nostro Paese i principali servizi hanno un cosiddetto «mark up», cioè la differenza fra il prezzo della prestazione erogata e il suo costo, superiore del 19,2% alla media dell'area euro. È ancora via Nazionale ad affermare in un proprio studio che riportando quel dato al livello europeo si potrebbe ottenere nei primi tre anni una crescita del Prodotto interno lordo pari al 5,4%. Stima che porta la Confartigianato a calcolare un Pil aggiuntivo di 36,7 miliardi per il solo primo anno seguente a quello nel quale fosse applicata una vera liberalizzazione di questo mercato. Il caro bolletta - I dati della Banca d'Italia sul «mark up» sono eloquenti. Le aziende che erogano servizi pubblici hanno sulla carta profitti ben più elevati della media europea, sebbene parametri di efficienza e conto economico non siano certo migliori. Con tutta evidenza la causa va ricercata in un costo della politica indiretto che fa leva proprio sulla mancanza di concorrenza. La prova? Fra il 2003 e l'anno che ha preceduto la nuova Grande Depressione, le aziende pubbliche locali hanno letteralmente allagato l'Italia. Nel 2007 l'Unioncamere ne ha censite 5.152, numero superiore dell'11,9% a quello di quattro anni prima. In dieci anni, dal 1999 al 2009, le imprese controllate dagli enti locali, ricorda la Confartigianato, hanno raddoppiato il loro peso sull'economia, dal 2,3% al 4,6% del Prodotto interno lordo. Tutto questo mentre la spesa delle amministrazioni scendeva dal 5,8% al 5,6% del Pil. La crescita si è rivelata particolarmente impetuosa al Nord e nelle Regioni autonome. Nella provincia di Trento le aziende pubbliche locali rappresentano ormai il 13,3% al Prodotto interno lordo, avendo aumentato in un decennio il proprio peso di ben 8,6 punti. In Valle D'Aosta il loro contributo all'economia ha raggiunto l'11,3% (+8,3 punti), in Liguria l'8,2%, nel Friuli-Venezia Giulia l'8,2%, nella Provincia di Bolzano il 7,2%, in Emilia-Romagna il 6,9% e in Lombardia il 6,1%. Un monitoraggio compiuto dall'Unioncamere su 4.018 di queste aziende, escludendo quelle finanziarie e in liquidazione, ha dimostrato che nel Centro Nord ognuna di esse ha chiuso il bilancio con un utile medio di 368.746 euro, contro un buco medio di 251.424 euro al Sud. E se nel Centro Nord gli utili per addetto sono cresciuti, nel quadriennio preso in esame, di ben tre volte, passando da 2.147 a 6.500 euro, nelle Regioni meridionali il deficit pro capite si è ampliato del 14,7%, da 2.822 a 3.239 euro. Il fatto è che mentre le aziende pubbliche locali del Sud aumentavano del 14,6% il costo del personale anche a causa di tre assunzioni in media per impresa, le loro consorelle centrosettentrionali lo diminuivano del 5,8%, grazie pure all'esodo medio di 9 addetti. Il clientelismo c'entra forse qualcosa? Giudicate voi - E l'efficienza? Lo studio della Confartigianato segnala il caso del trasporto pubblico locale, dove il costo medio per un chilometro di percorso urbano raggiunge in Campania 7,14 euro, 2 euro e 39 centesimi più della Lombardia, 3 euro e 8 centesimi più del Veneto e quasi il quadruplo rispetto all'Umbria. Numeri con un chiaro riscontro nel chilometraggio medio di ogni autista: 19.086 in Campania, 25.032 in Lombardia, 27.278 in Veneto, 43.255 in Umbria. Caso particolare, il Lazio, dove il costo per chilometro è appena inferiore a quello campano (6 euro e 68 centesimi) pur con un chilometraggio pro capite (26.513) superiore alla media nazionale. Cifre riferite al 2009, che evidentemente fotografano lo stato della gestione dell'Atac: al 31 dicembre di quell'anno l'azienda romana aveva accumulato un buco di circa 700 milioni di euro. Dal 2004 al 2009 alla crescita dei fatturati dei servizi pubblici locali non ha poi fatto riscontro un incremento degli investimenti. Diminuiti, anzi, dal 20,3% al 18,1% del giro d'affari. Un quarto circa degli stanziamenti viene assorbito proprio dal settore dei trasporti, che è al secondo posto. La maggior parte dei fondi, poco meno del 33%, è infatti destinato al servizio di distribuzione dell'acqua, bandiera dell'ultimo referendum sui servizi pubblici locali che ha registrato una schiacciante maggioranza di no alla privatizzazione. Lo spreco di risorse idriche - Ma per quanto siano percentualmente rilevanti, come stanno a dimostrare i dati pubblicati dalla Confartigianato, gli investimenti non riescono a modificare sostanzialmente una situazione davvero disastrosa: combinato disposto di una rete colabrodo e un'evasione tariffaria in alcuni casi allucinante. Almeno se è vero che nel 2008 a fronte di oltre 8,1 miliardi di metri cubi immessi nella rete di distribuzione, quelli fatturati sono stati poco più di 5 miliardi e mezzo. Il 32% dell'acqua potabile, quantità che il rapporto dell'organizzazione degli artigiani paragona alla portata annuale del fiume Brenta, si volatilizza letteralmente. L'elaborazione contenuta in quello studio, fatta sulla base dei dati Istat, mostra come ancora tre anni fa in Puglia per ogni 100 litri di acqua «erogata», se ne immettessero nella rete ben 87 di più. Non molto meglio andava in Sardegna, con 85 litri, in Molise (78), Abruzzo (77) e Friuli-Venezia Giulia. Nel 2009 questo andazzo è costato alle aziende locali che gestiscono il servizio idrico 2 miliardi e 947 milioni. Più dei soldi cui i Comuni hanno dovuto rinunciare a causa dell'abolizione dell'Ici sulla prima casa decisa dal governo di Silvio Berlusconi subito dopo le elezioni del 2008, più del giro di vite di 2 miliardi e mezzo imposto ai municipi dalla manovra dello scorso anno, più dei tagli lineari ai ministeri.... I «black out» senza preavviso - Che l'efficienza dei servizi pubblici locali non sia al top lo affermano poi gli stessi utenti. La percentuale di famiglie «molto o abbastanza soddisfatte» della loro qualità, sulla base delle statistiche ufficiali dell'Istat, è scesa fra il 2001 e il 2010 di 5,1 punti per l'energia elettrica, del 3,5% per il gas. Letteralmente precipitato l'indice che segnala la soddisfazione per la «comprensibilità» della bolletta, calato del 12,9% relativamente al gas e del 10,3% alla luce. Non bastasse, le rilevazioni dell'Autorità per l'energia informano che per 18 aziende su 32, ovvero il 56,3% del totale, l'indice di «qualità totale» rilevato presso i call center nel 2010 ha registrato un peggioramento. Per non citare la vicenda mai risolta delle interruzioni «senza preavviso» di energia elettrica, il cui livello medio ha raggiunto, sempre nel 2010, ben 89 minuti l'anno, dei quali 44 per responsabilità delle imprese distributrici. E va detto che al Sud i 44 minuti diventano ben 63, contro i 29 del Nord. Per le piccole imprese fino a 20 dipendenti è un inconveniente costato lo scorso anno, secondo la Confartigianato, un miliardo e 56 milioni di euro. Sergio Rizzo 29 agosto 2011 08:00© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/11_agosto_29/gestione-municipalizzate-rizzo_58178894-d200-11e0-a205-8c1e98b416f7.shtml
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« Risposta #88 inserito:: Settembre 03, 2011, 11:37:38 am » |
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TREMONTI PROMETTE: MAI PIÙ Un tombino sul condono Giulio Tremonti ha precisato che nella manovra non ci saranno condoni «poiché si tratterebbe di un intervento una tantum che genera introiti di cassa, ma che non modifica l'assetto della finanza pubblica». Evviva. Niente di più condivisibile per chi, come noi, ha sempre criticato duramente la disastrosa politica delle sanatorie. Ma qui, inutile nasconderlo, il problema della credibilità che sempre accompagna simili impegnative dichiarazioni è ancora più grande. Da settimane si rincorrono le voci di un nuovo condono che potrebbe spuntare accanto al tremendissimo (forse) giro di vite sull'evasione fiscale con tintinnio di schiavettoni. Non servono soldi, tanti e subito? E poi, non fu così che andò anche all'inizio degli anni Ottanta, quando alla sanatoria tombale fu accoppiata la legge (pressoché inutile) sulle «manette agli evasori»? La dichiarazione di Tremonti, semmai, desta anche una legittima preoccupazione: che il partito del condono, agguerritissimo in Parlamento, sia già al lavoro. Convinto, magari, di non incontrare troppa resistenza. I precedenti la dicono lunga. Ricordiamo che cosa è successo otto anni fa, quando il governo Berlusconi, contrario a parole, si arrese immediatamente all'offensiva parlamentare sfociata non in una, ma in un diluvio di sanatorie. E non possiamo non rammentare come lo stesso ministro dell'Economia, che in quella occasione aveva confessato di essersi dovuto piegare suo malgrado alla ferrea legge dei numeri e dei denari necessari a tenere a galla i conti pubblici, tornando nel 2008 al governo avesse garantito che l'epoca dei condoni era definitivamente sepolta. Salvo poi varare un nuovo scudo fiscale consentendo a evasori che avevano illecitamente esportato capitali di regolarizzarli pagando un ventesimo di quanto versano i cittadini onesti. Tante volte si è detto di come i condoni abbiano profondamente compromesso la tenuta morale di un Paese dove già le tasse non sono mai state troppo popolari. L'hanno corrotta al punto che c'è chi li utilizza perfino per gabbarli, dimostrando che non sono credibili nemmeno le sanatorie. Quanti hanno chiesto di aderire al condono fiscale per poi dichiararsi falliti e non pagare? E quanti dopo aver pagato la prima rata, poi smettono di pagare, confidando magari in un'altra sanatoria, e poi in un'altra, e un'altra ancora? Non è un caso che al gettito previsto per il benevolo perdono del 2002 manchino almeno 4 miliardi di euro. Oggi, poi, c'è un dettaglio in più che chiama in causa la credibilità. Ed è il modo con cui sta procedendo la manovra d'agosto, presentata in pompa magna in una conferenza stampa ufficiale a Palazzo Chigi, e smontata nel giro di due settimane (il contributo di solidarietà per i redditi più elevati? Abbiamo scherzato... Il taglio delle Province? Abbiamo scherzato... L'accorpamento dei Comuni più piccoli? Abbiamo scherzato...). Quindi rismontata nuovamente il giorno dopo un vertice politico «decisivo» dal quale il governo, che aveva promesso di non toccare le pensioni, ne era uscito con l'idea bislacca di colpire i riscatti previdenziali per la laurea e il servizio militare. Perché mai dovremmo credere proprio questa volta che non ci metteranno sotto il naso l'ennesimo maleodorante condono? Sergio Rizzo 03 settembre 2011 08:46© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_03/un-tombino-sul-condono-sergio-rizzo_a2fb7f14-d5ed-11e0-a2ab-ce11126458a9.shtml
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« Risposta #89 inserito:: Settembre 22, 2011, 05:05:09 pm » |
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LA FINTA ABOLIZIONE DOPO LE PROMESSE LE PROVINCE INTOCCABILI Dalla manovra che ci imporrà sacrifici micidiali sono miracolosamente evaporati i tagli «epocali», come li aveva definiti in prima pagina la Padania il 14 agosto, ai costi della politica. Compreso quello a parole più gettonato: l'eliminazione delle Province. «Sono tutte inutili e fonte di costi per i cittadini, pacifico che debbano essere abolite», prometteva Silvio Berlusconi il 5 marzo 2008, giurando che oltre all'Ici e al bollo auto avrebbe spazzato via anche quelle. Nella frenesia della campagna elettorale nessuno ricordò la confessione pubblica resa dal Cavaliere a Rovigo appena cinque mesi prima: «Eliminare le Province in Italia non lo potrà mai fare nessuno». A parte un dettaglio evidentemente trascurabile per i nostri politici, cioè la coerenza, mai profezia è stata più azzeccata. Le Province sono sopravvissute alla «riforma» federale. Quindi al «codice delle autonomie» che ammuffisce in Senato. Infine alla manovra economica più drammatica dal tempo in cui il governo di Giuliano Amato evitò la crisi finanziaria entrando nella carne viva dei contribuenti. Ma che nessuno avesse mai preso in esame l'idea di fare sul serio era evidente. La prova? Non più tardi del 27 maggio il decreto sul federalismo fiscale ha dato alle Province il potere di portare fino al 16% l'imposta del 12,5% sulla Rc auto che finisce nelle loro casse. E, senza farsi troppo pregare, ventinove di esse ne avevano già approfittato il primo agosto. Mentre dunque nel Palazzo qualcuno stava meditando di annunciarne l'abolizione, loro ingrassavano aumentandoci le tasse. Con la certezza che le nubi nere all'orizzonte si sarebbero presto dissolte. E i fatti gli hanno dato ragione. Il 13 agosto il ministro Roberto Calderoli si presentava in sala stampa a Palazzo Chigi comunicando al Paese che sarebbero sparite «tra 29 e 35 Province». L'8 settembre benediceva trionfalmente la retromarcia, decretandola «evoluzione federalista dell'ordinamento». Che genere di evoluzione, è presto detto. Stralciato dalla manovra che costringe tutti i cittadini a tirare la cinghia già da oggi, il capitolo delle Province è stato rinviato a un disegno di legge costituzionale, nel quale però quegli enti non saranno affatto eliminati. Passando dalla competenza dello Stato a quella delle Regioni, «evolveranno» semplicemente cambiando nome. Le chiameranno «Province regionali», «Aree vaste», o in qualche modo ancora più stravagante? Poco importa: potete stare certi che resteranno in vita. Una presa in giro, questa sì, davvero «epocale». Nel segno del Gattopardo. «Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi», dice il nobile siciliano Tancredi Falconeri nel celebre romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Ed è una regola, paradossale per questa maggioranza a trazione nordista, che funziona a puntino. Un altro esempio? Nelle stesse ore in cui la Camera approvava la manovra che liberalizza alcune professioni, il Senato discuteva una proposta di legge del centrodestra per istituire cinque nuovi ordini e venti albi: dietisti, podologi, igienisti dentali... Il prezzo di tutto questo? La credibilità. Meglio: le briciole che ne restano. Sergio Rizzo 16 settembre 2011 07:45© RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_16/rizzo_province_intoccabili_ab000d90-e026-11e0-aaa7-146d82aec0f3.shtml
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