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Autore Discussione: SERGIO RIZZO  (Letto 127902 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Giugno 16, 2009, 04:11:08 pm »

I PENDOLARI E I TRENI IN RITARDO

Viaggiatori di serie B


«Mi fa male al cuore offrire un servi­zio non adeguato ai pendo­lari », ha confessato l’attua­le presidente delle Ferro­vie Innocenzo Cipolletta.
Certamente non il primo a cospargersi il capo di cene­re per i disagi inflitti a chi tutte le mattine prende il treno per andare al lavoro. «Sappiamo che abbiamo un debito con loro», aveva ammesso quattro anni fa il suo predecessore Elio Cata­nia. Ma già nel 1997 Gian­carlo Cimoli chiedeva pub­blicamente «scusa ai pas­seggeri ».
Promettendo al­meno «l’aria condizionata in tutti i vagoni dei pendo­lari ». Anche se poi l’aria condizionata in «tutti» i va­goni non è mai arrivata.

E i politici? Perfino inuti­le elencare le promesse, tante sono state. Ma «viag­giare su treni confortevoli, senza sovraffollamento e con il rispetto degli orari», per usare le parole dell’ex ministro Alessandro Bian­chi, è sempre stata un’illu­sione. Nel 1993 l’allora tito­lare del dicastero dei Tra­sporti, Raffaele Costa, al­meno ci mise la faccia. Salì su un treno di pendolari a Santhià e ne scese a Nova­ra con i capelli dritti: «Su questo problema dovremo intervenire». Ma non ne ebbe l’occasione. Dodici anni dopo ci provò anche il governatore della Lom­bardia, Roberto Formigo­ni. Appena messo il piede nel vagone alla stazione di Legnano fu accolto da una salva di commenti ironici: «Oggi c’è Formigoni e il treno ha soltanto cinque minuti di ritardo...».

Ma neanche le iniziative più temerarie hanno smos­so le acque. I pendolari bloccavano i binari per pro­testa a metà degli anni Set­tanta e i loro figli oggi fan­no lo stesso. Soltanto, più organizzati. Ora hanno un Coordinamento che con la Federconsumatori ha sfor­nato una specie di «Libro nero» sulle magagne ferro­viarie. A cominciare dai ri­tardi. Ogni viaggiatore «abituale» ne accumule­rebbe mediamente 100 ore l’anno. E se nel 1980 si an­dava da Torino a Milano in un’ora e mezzo, il Coordi­namento dice che oggi ci vuole almeno un quarto d’ora in più.

Va detto che non si può caricare la croce tutta sulle spalle delle Fs e delle azien­de di trasporto. L’Italia sconta ritardi storici della politica, accumulati per to­tale assenza di strategia. In­tendiamoci: non che in questi ultimi due decenni i governi di turno abbiano lesinato i quattrini. Il fatto è che tutte le energie sono state assorbite dal proget­to, anche mediaticamente molto redditizio, dell’alta velocità. Con il risultato che oggi l’Italia, finalmen­te, ha un treno in grado di fare concorrenza all’aereo fra Milano e Roma. Ma con­tinua ad avere le Regioni del Nord intrappolate tutti i giorni nella morsa del traffico automobilistico an­che perché i collegamenti ferroviari sono quello che sono. Inefficienti, disage­voli e anelastici: con carroz­ze a turno deserte o strapie­ne senza che si sia trovato il modo di far viaggiare tre­ni più lunghi o più corti quando serve. E non parlia­mo di una zona depressa, ma dell’area più ricca e svi­luppata d’Europa.

Viene quasi l’idea che i nostri politici non abbiano mai preso un treno. Oppu­re non siano mai stati in Francia o Germania. Ma è netta anche la sensazione che la cultura ferroviaria non abbia ancora accettato del tutto il principio che i binari servono per traspor­tare persone o merci. E non per far comunque cir­colare i treni.

Sergio Rizzo
16 giugno 2009

da corriere.it
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« Risposta #31 inserito:: Luglio 01, 2009, 11:03:05 am »

Niente alibi


Lo scaricabarile. Ec­co ciò che dev’es­sere evitato a ogni costo, per rispetto alle vittime del tragico inci­dente di Viareggio. Le re­sponsabilità vanno accerta­te rapidamente e se qual­cuno ha sbagliato deve pa­gare senza sconti. E se esi­ste un problema di sicurez­za, si affronti senza indu­gio.

È sempre stato detto che le ferrovie italiane so­no fra le più sicure d’Euro­pa e a sostegno di questa tesi si portano le statisti­che ufficiali. Le stesse stati­stiche dicono che il tra­sporto delle merci su rota­ia è decisamente più sicu­ro di quello su gomma: nel solo 2008 novemila persone in Europa hanno perso la vita in incidenti stradali con mezzi pesanti. Niente di paragonabile al pur gravissimo bilancio dell’incidente di Viareg­gio, il primo mortale per un treno merci dal lonta­no 2000.

Sarebbe tuttavia un gra­ve errore cercare consola­zione nelle statistiche. Una settimana fa c’era sta­to un incidente analogo sulla linea Bologna-Firen­ze che aveva coinvolto un’altra cisterna, piena questa volta di acido fluori­drico. Anche in quel caso era stata noleggiata (ma da una società diversa) e l’amministratore delegato delle Ferrovie Mauro Mo­retti aveva fatto l’ipotesi del «cedimento struttura­le del carro».

Alla luce di questi fatti qualche riflessione è inevi­tabile.

Storicamente il set­tore merci delle Fs è in una situazione a dir poco difficile. I carri sono anti­quati e spesso fermi per manutenzione. Il calo del­la quota di mercato è ine­sorabile. Ragion per cui non è nemmeno conve­niente investire soldi in carri cisterna e si preferi­sce affittarli. Il conto eco­nomico assomiglia a quel­lo della vecchia fallita Ali­talia. Basta dire che Moret­ti ha definito un «fortissi­mo recupero» l’essere riu­sciti chiudere il 2008 con un buco di soli 100 milioni di euro. C’è da credergli: si partiva da una voragine da 600.

Colpa della carenza di ri­sorse? O piuttosto della mi­opia strategica della politi­ca italiana, che non produ­ce un piano generale dei trasporti da dieci anni e ha ridotto il settore del tra­sporto pendolare nello sta­to disastroso documenta­to dalle inchieste del Cor­riere?

Fatto sta che mentre le Ferrovie annaspano, gli operatori privati, ai quali la liberalizzazione ha spa­lancato il mercato, guada­gnano bene. E le Fs, nel tentativo paradossale di non soccombere alla con­correnza, spendono soldi per campagne acquisti al­l’estero. Prima hanno com­prato una società tedesca, la Tx Logistik. Ora punta­no a rilevare Veolia Cargo in Francia. Ha detto Moret­ti: «Vogliamo giocare da attori protagonisti in Euro­pa, sia nel mercato passeg­geri che in quello merci». Va bene. Ma l’Italia?

Sergio Rizzo

01 luglio 2009
da corriere.it
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« Risposta #32 inserito:: Luglio 20, 2009, 03:11:49 pm »

Al consiglio regionale posti ad hoc per gli amici dei politici

La Campania assume l’esercito dei «comandati»

La denuncia del vicepresidente Ronghi: «infornata» di distaccati da società a partecipazione pubblica
 

ROMA — Parolina magica: comanda­to. Per un dipendente pubblico essere co­mandato significa il trasferimento dal­l’amministrazione che lo ha assunto a un altro ufficio. Più comodo, più prestigioso, soprattutto meglio retribuito. Insomma, un destino super ambito. Anche perché dovrebbe essere riservato a pochi fortuna­ti destinatari di incarichi che non si po­trebbero ricoprire in altro modo. Tranne che al Consiglio regionale della Campania, dove i comandati da altre am­ministrazioni sono la bellezza di 223: per un costo di almeno una dozzina di milioni l’anno.

Sono arrivati da tutte le parti. Dalle Asl. Dall’Inps. Dai mini­steri dell’Istruzione, delle Infrastrutture, dell’Economia, dei Beni Culturali, della Di­fesa, della Giustizia. Dai Comuni: perfino da quello di Siena. Dalle Province. Dalle Università. Ma c’è chi è stato comandato al Consiglio regionale della Campania an­che dalle Poste e dall’Atm: proprio così, anche l’azienda di trasporti controllata dal Comune di Milano. Siccome i distaccati dalle altre ammini­strazioni pubbliche non bastavano, allora con una leggina regionale del 2002 si è estesa la possibilità di far distaccare nel brutto palazzone del centro direzionale di Napoli dove ha sede il Consiglio, pure i di­pendenti delle imprese pubbliche. Ma nemmeno controllate completamente dal­lo Stato o dagli enti locali, visto che per farsi recapitare nel dorato mondo della politica campana era sufficiente risultare dipendente di una società nella quale la partecipazione pubblica non fosse «infe­riore al 49 per cento».

Il giochino era sem­plice: bastava far assumere una persona da una società del Comune o della Regio­ne, dove si può entrare per chiamata diret­ta, e farla poi distaccare presso la segrete­ria di un politico. Dove, guarda caso, si trova la maggior parte dei comandati. Scorrendo il loro elenco si scopre che i di­pendenti di società, amministrazioni ed enti pubblici distaccati presso strutture politiche, come i gruppi dei partiti, sono circa 150. Alla segreteria di Alessandrina Lonar­do, presidente del Consiglio regionale nonché consorte dell’ex ministro della Giustizia Clemente Mastella, ci sono 14 comandati. Quelli del gruppo Pd sono 22: fra loro, secondo la lista, ci sarebbe anche una persona proveniente da Enel distribuzione spa, società che fa parte di un gruppo nel quale la partecipazione pubblica è ben inferiore al 49% previsto dalla legge regionale. Ben otto sono nel gruppo del Nuovo Psi. Una dozzina in quello di Forza Italia. E ben sei sono alle dipendenze del questore al personale Ful­vio Martusciello. Nel tentativo di mettere un freno a que­sto meccanismo infernale, qualche anno fa si decise di bloccare il flusso dei coman­dati dalle aziende pubbliche. Inutile dire che il promotore di questa iniziativa, il vi­cepresidente del consiglio regionale Salva­tore Ronghi, ora esponente del Movimen­to per le autonomie, non si fece molti ami­ci. Ma non aveva previsto l’inevitabile col­po di coda. Un giorno di gennaio del 2008, mentre si votava la legge finanziaria locale, passò senza colpo ferire un emen­damento trasversale che prevede di fatto la stabilizzazione nei ruoli del consiglio re­gionale del personale in posizione di co­mando proveniente da altre amministra­zioni: compresi, ovviamente, i circa 80 di­pendenti delle imprese pubbliche e para­pubbliche. Erano le tre del mattino. La norma in questione è l’articolo 44 della legge regionale numero 1 del 2008 e stabi­lisce che i comandati possono venire col­locati in un’apposita graduatoria e accede­re a «corsi concorsi» a loro riservati per passare a tutti gli effetti alle dipendenze del Consiglio.

Per gestire questa procedu­ra è stata nominata il 2 luglio scorso una commissione di nove (nove!) persone pre­sieduta da un dirigente dell’amministra­zione, Girolamo Sibilio, ma con forti vena­ture politiche. Ovviamente bipartisan. Per dirne una, ne fa parte anche Anna Fer­razzano, vice presidente della giunta pro­vinciale di Salerno, già commissario di Forza Italia nella città campana. Secondo Ronghi ce n’è abbastanza per far scoppiare uno scandalo, mettendo an­che in azione la magistratura: «E’ del tut­to illegale assumere in questo modo i co­mandati provenienti dalle aziende a parte­cipazione pubblica. La legge stabilisce che non si possa venire assunti in una pubbli­ca amministrazione se non tramite con­corso pubblico, e sottolineo pubblico. I corsi concorsi previsti dall’articolo 44 ser­vono soltanto per aggirarlo facendo di­ventare dipendenti del consiglio regiona­le gli amici dei politici assunti fittiziamen­te dalle società miste». Non sarà un caso che da quando è nata la Regione Campania, nel 1970, nel consi­glio regionale non è mai entrato un dipen­dente per concorso pubblico. Il primo con­corso (per 36 posti) è stato bandito nel 2005, ma non è stato ancora fatto. E la pro­spettiva della stabilizzazione di tutti i co­mandati non lascia molte speranze a chi punta su quello per avere un lavoro. An­che perché costoro sono circa metà di tut­ti i dipendenti del consiglio. Che grazie ai comandi e ai distacchi sono diventati ne­gli anni più numerosi di quelli di Buckin­gham Palace, e oltre il doppio, in propor­zione agli eletti, rispetto alla Camera. Per ognuno dei 60 consiglieri regionali cam­pani ci sono circa otto dipendenti, a fron­te dei tre per ogni deputato che si conta­no a Montecitorio.

Sergio Rizzo
20 luglio 2009

  da corriere.it
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« Risposta #33 inserito:: Agosto 20, 2009, 05:23:36 pm »

Focus Occupazione e aziende

I 30 mila posti di lavoro che nessuno vuole

Si cercano falegnami, meccanici, parrucchieri, elettricisti Senza risposta un terzo delle ricerche delle piccole imprese


Va bene che molti giovani, dicono studi e sondaggi di ogni genere, sognano ancora il posto fisso. Meglio ancora se nella pubblica amministrazione. E va bene che quasi metà degli italiani, come afferma una recente ricerca dell’Eurobarometro, sono talmente restii all’idea del cambiamento da non riuscire nemmeno a scrollarsi di dosso l’idea che quel posto debba durare tutta la vita.

Ma con la produzione industriale che arranca, la disoccupazione che galoppa, la cassa integrazione che non dà tregua, tutto ci si potrebbe aspettare tranne che le piccole imprese, proprio quelle che dovrebbero rappresentare il cuore pulsante dell’economia italiana, fossero a corto di braccia. Eppure, a giudicare almeno dai risultati di una inchiesta della Confartigianato sul fabbisogno di manodopera condotta in base ai dati dei primi sei mesi dell’anno, è proprio quello che sta accadendo. L’organizzazione presieduta da Giorgio Guerrini stima che nel 2009, nonostante la crisi, il sistema delle piccole imprese e dell’artigianato potrà creare 94.670 posti di lavoro.

Quasi un terzo di questi, tuttavia, rischia di restare vacante: per quanto si cerchino persone in grado di occuparli, semplicemente non si trovano. Una emergenza al contrario, tanto più paradossale perché con l’imminenza dell’autunno si addensano nubi sempre più minacciose sul mondo del lavoro. Da Nord a Sud. In Piemonte ci sono 512 aziende in crisi, con 25 mila dipendenti in cassa integrazione. Anche in Emilia-Romagna i cassintegrati sono più di 20 mila nelle sole aziende metalmeccaniche. La Sicilia è in apprensione per lo stabilimento Fiat di Termini Imerese. Nel Lazio i posti a rischio sarebbero 70 mila.

E nelle Marche sono quasi 8 mila i lavoratori messi in mobilità nei primi sei mesi di quest’anno. Soprattutto, però, le conclusioni dell’indagine sembrano stridere apertamente con i timori di quanti sono convinti che gli immigrati tolgano il lavoro agli italiani. Un luogo comune che trova conforto prevalentemente negli ambienti politici di fede leghista, ma che i risultati di uno studio della Banca d’Italia reso noto martedì sembrano invece smentire categoricamente. All’appello, secondo la Confartigianato, mancano 30.750 persone. Per avere un’idea della dimensione di questo fenomeno basta considerare che si tratta di un numero addirittura superiore a quello dei lavoratori (circa 30 mila) che al giugno scorso in tutta la Lombardia, prendendo per buoni i dati della Cgil, avevano avuto accesso alla cassa integrazione in deroga. I dati elaborati dall’ufficio studi dell’organizzazione degli artigiani informano che la carenza maggiore è quella dei falegnami o comunque di persone esperte nella lavorazione del legno.

A fronte di un fabbisogno di 2.690 addetti, le piccole imprese ne cercano inutilmente 1.390, ovvero quasi il 52% del totale. Per non parlare poi dei parrucchieri e degli estetisti. In questo caso i posti di lavoro destinati con ogni probabilità a restare vuoti sono il 49% circa: ben 3.210. È in assoluto il buco numericamente maggiore fra tutti i comparti presi in esame dall’indagine. Ancora più grosso di quello che la Confartigianato denuncia per gli elettricisti. Rispetto alle esigenze dichiarate (9.850) ne mancherebbero infatti 2.840, pari al 28,8% del totale. Pesante risulterebbe anche la situazione delle officine per la riparazione delle auto, con un deficit di 1.640 meccanici. Problema di dimensioni più o meno simili a quello che viene accusato dalle piccole imprese informatiche (1.740) e dagli idraulici (ne mancano 1.560): mestiere, quest’ultimo, che ha fama di essere anche particolarmente redditizio una volta superata la fase dell’apprendistato. Soffre perfino l’edilizia, in assoluto il regno della flessibilità. Stando sempre ai dati della Confartigianato le piccole imprese sono riuscite a reclutare 3.160 carpentieri sui 4.500 che sarebbero necessari. Degli altri 1.340 ancora nessuna traccia.

Ma anche il numero dei disegnatori industriali disponibili è inferiore al fabbisogno di ben 1.110 unità. La medaglia della crisi economica ha tuttavia una doppia faccia. Se nelle piccole imprese un posto su tre rimane vuoto perché non si trova chi lo possa (o voglia) occupare, e nonostante sopravviva ancora il mito del posto fisso, nell’ultimo anno c’è pure chi ha reagito alle difficoltà economiche con una scelta opposta: mettendosi in proprio. Sintomo del fatto che, trovandosi di fronte all’alternativa fra andare a lavorare alle dipendenze in una piccola impresa, magari con un contratto da precario, e rischiare invece in prima persona, qualcuno sceglie questa seconda strada. Non moltissimi, per la verità: nell’annus horribilis per il Prodotto interno lordo la stessa Confartigianato ne ha censiti 8.134.

Ma con situazioni davvero curiose. Mentre infatti i parrucchieri cercavano inutilmente 3.210 dipendenti da avviare al lavoro, nei dodici mesi compresi fra la fine di giugno 2008 e la fine di giugno 2009 il numero dei barbieri e degli estetisti aumentava di 1.696 unità. Una crescita inferiore soltanto a quella del numero di quanti si sono buttati nella cosiddetta green economy (2.559) nonché del numero dei gelatai, dei panettieri e dei pasticcieri (2.082). Il bello è che alle gelaterie, alle pasticcerie e ai panifici artigianali mancano 1.140 dipendenti. C’è poi chi ha tentato l’avventura nell’informatica (462) o nei servizi di trasporto (800), oppure nelle piccole attività di restauro (104), o ancora nella tinteggiatura (681). I più creativi hanno scelto invece la strada della pubblicità e del design (119). E un pugno di temerari (39) ha messo la propria passione per gli animali al servizio del prossimo. Del resto, con questi chiari di luna tutto fa brodo.

Sergio Rizzo
20 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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« Risposta #34 inserito:: Agosto 24, 2009, 05:45:00 pm »

L’intervista

«Salari differenziati dai nuovi contratti o saltano gli sgravi alle retribuzioni»

Sacconi: non vogliamo le gabbie, anche la Lega è per il modello delle intese decentrate

Il ministro del Welfare: l’accordo tra imprese e sindacati va attuato.

Sul banco di prova i negoziati per metalmeccanici e chimici


ROMA — Per parlare con Maurizio Sacconi dell'autunno non si può prescindere da quanto ha detto al Corriere a Ferragosto il sociologo Giu­seppe De Rita, convinto che quella stagione sarà «decisiva» per il breve e per il lungo periodo, ma pure che è illusorio credere nella virtù taumatur­gica delle grandi riforme. «Ha ragione. Per la so­pravvivenza oggi e la crescita domani servono at­ti e cambiamenti più concreti e profondi delle ri­forme legislative», sostiene il ministro del Welfa­re. Secondo De Rita il berlusconismo si sta sfari­nando.

«In quel punto della sua bella intervista, che pe­raltro riconosce i meriti del governo nella crisi, sbaglia quando risolve il berlusconismo con il ri­chiamo alla libertà e responsabilità individuali. Nel centrodestra è maturata la consapevolezza che occorrono risposte collettive ai bisogni ma, come dice De Rita, non necessariamente statuali. Per questo è in noi diffuso il riferimento alla sus­sidiarietà ovvero alla capacità di fare sviluppo mobilitando le tante espressioni della comunità, dalle famiglie alle parti sociali, al terzo settore. E ciò è tanto più vero nel momento in cui dovremo saper crescere con il doppio vincolo del debito pubblico e del declino demografico. Non a caso nell'agenda dell'autunno avrà grande rilievo il ca­pitale umano, in tutte le sue forme». Tema che qui non va molto di moda, a giudi­care almeno da come (non) funziona la forma­zione. «L'integrazione fra apprendimento e lavoro è fra i problemi da affrontare». La Confartigianato dice che nonostante la cri­si ci sono imprese che non riescono a trovare manodopera. «Appunto, si è persa la cultura del lavoro come parte fondamentale del processo educativo. In passato un giovane universitario poteva impiega­re parte dell'estate a lavorare. C'era una giusta fretta nel lavorare, oggi c'è una propensione op­posta » .

Ci stiamo rammollendo? «No, per fortuna. C'è in alcuni segmenti giova­nili, e non per loro colpa, minore disponibilità al lavoro manuale e alla fatica: vanno corretti i per­corsi educativi. Con il ministro dell'Istruzione Ma­riastella Gelmini realizzeremo una cabina di regia per integrare apprendimento scolastico e lavoro, rafforzando il progetto Excelsior Unioncamere per individuare il fabbisogno di specifiche profes­sionalità. Ma vogliamo anche dare valore agli uffi­ci di placement nelle scuole e nelle università». Uffici di collocamento direttamente a scuo­la? «Qualcosa di meglio: sono canali di comunica­zione fra istituzioni educative e imprese. Si tratta di estenderli e rafforzarli. La legge Biagi, per esem­pio, ha introdotto un meccanismo, ancora realiz­zato in forma molto di nicchia, per conseguire ti­toli di studio con contratti di apprendistato in aziende convenzionate con le università».

Nella lista dei problemi da affrontare ci sono anche i salari più bassi d'Europa? «Una giusta distribuzione della ricchezza si fon­da sul riconoscimento dei meriti e dei bisogni. I salari vanno differenziati perché non siamo ugua­li. Il banco di prova autunnale, con i primi con­tratti di metalmeccanici, alimentaristi, chimici e comunicazioni, sarà l'attuazione dell'accordo sot­toscritto da tutti tranne che dalla Cgil. Meno il contratto nazionale sarà invasivo, più ci sarà spa­zio per il contratto aziendale, detassato al 10%». Ma la Lega chiede paghe diverse al Nord e al Sud, evocando le gabbie salariali di 50 anni fa. «La Lega è d'accordo con il nuovo modello. Nessuno ha parlato di gabbie salariali, meccani­smo centralistico fissato per legge. Se il contratto si decentra, ineluttabilmente è più sensibile alle differenze di costo della vita e di produttività. Il punto vero è che sindacati e imprese, dopo aver firmato l'accordo, non possono cedere. Siamo ri­spettosi dell'autonomia delle parti, ma non indif­ferenti agli esiti». Vale a dire? «Abbiamo messo sul piatto la detassazione del salario variabile. Ma nella misura in cui le parti la usano: altrimenti dovremmo ripensarci. In autun­no ci devono dimostrare che l'egualitarismo non rientra dalla finestra dopo essere uscito dalla por­ta. Ne va della produttività e soprattutto del rico­noscimento del diritto dei lavoratori a una giusta retribuzione. In questo ci confermiamo una coali­zione laburista » .

Centrodestra di sinistra? «Certamente attenta anche ai bisogni a partire dalla tutela di chi è costretto all'inattività con ri­sorse per gli ammortizzatori sociali che confermo essere più che sufficienti. Faccio inoltre notare che questo governo ha introdotto la carta acqui­sti per la povertà assoluta. Ricordo — a chi con la puzza sotto il naso ha deriso gli 80 euro a bime­stre — che stiamo per la prima volta individuan­do la platea del bisogno assoluto. E abbiamo crea­to un canale di comunicazione fra questa platea, le istituzioni e i donatori privati. Perché l'obietti­vo del governo è anche stimolare la cultura del dono. Perché aiutando gli ultimi anche con la cari­tà rafforziamo pure la comunità. Vede come la sussidiarietà torna continuamente?». Come si stimola il dono in un Paese dove i contributi alle organizzazioni benefiche sono fi­no a 51 volte meno favoriti fiscalmente rispetto ai fondi versati alla politica? «Certamente con in­terventi di defiscalizzazione. Ma anche con l'im­plementazione e la stabilizzazione dell'ottima idea tremontiana del 5 per mille. Peraltro abbia­mo parlato di una nuova stagione costituente per il terzo settore. Il principio è sempre lo stesso: senza la sussidiarietà non si va da nessuna parte. Guardi i servizi per l'infanzia».

Meglio di no. In questo siamo quasi ultimi nel continente. «Ebbene, noi vogliamo portare quei servizi a livelli superiori al 30%, ma ciò non si realizza solo con le strutture tradizionali, come gli asili nido pubblici e privati. Con la collega Mara Carfagna pensiamo a un grande piano di diffusione delle cosiddette mamme di giorno, termine mutuato dall'esperienza delle tagesmutter altoatesine. L'idea è quella di remunerarli attraverso i vau­cher, i buoni prepagati. Ma sottolineo anche che il tema della natalità, come più in generale quello dello sviluppo umano, non può essere disgiunto da tutto ciò che riguarda il valore della vita». Il valore della vita? «Certamente. Sulla bioetica tutto il governo ha avuto finora posizioni laicamente unitarie, a vole­re difendere e attuare la legge 194 e rigorosamen­te verificare la compatibilità della pillola Ru486 con la legge stessa. Proprio perché riteniamo che si debbano salvaguardare i criteri che hanno evi­tato la solitudine della donna di fronte al dramma dell'interruzione di gravidanza. E per la regolazio­ne della fine di vita tutto il governo si è espresso a favore del diritto inalienabile all'alimentazione e all'idratazione per chi non è autosufficiente. A questo proposito, per attenuare la conflittualità parlamentare, potremmo ipotizzare l'immediata approvazione di queste norme rinviando a solu­zioni più condivise quelle relative alle dichiarazio­ni anticipate di trattamento».

Ma cosa c'entra questo con il capitale uma­no? «C'entra, eccome. Il valore della vita è il presup­posto necessario del vitalismo economico e socia­le » . Paesi con regole assai diverse, come l'Olan­da, non sono certo sottosviluppati. «Come il calvinismo è stato alla base dello spi­rito capitalistico di quel Paese, così i valori della nostra tradizione hanno sostenuto la diffusa im­presa familiare » . Magari gli ospedali italiani funzionassero co­me lì. «Nel tema del capitale umano rientra anche lo stato di salute. A settembre riprende il tema delle Regioni commissariate e dei subcommissari, cioè i tecnici che saranno nominati per gestire in con­creto i commissariamenti, e della verifica delle al­tre regioni. C'è un problema grosso di tutto il Cen­tro Sud, che spesso non conosce la medicina del territorio e, in essa, il ruolo della famiglia e del volontariato. Anche per questo motivo si spende molto di più e si ha molto di meno. Qui emerge in tutta la sua drammaticità il problema del Sud, che spesso significa incapacità delle classi diri­genti di fare buona amministrazione ordinaria».

Del resto, finché i primari saranno nominati in base alle tessere di partito... «La competenza sulla sanità è regionale. Noi appoggiamo le proposte legislative tese a rafforza­re la oggettiva valutazione dei curricula dei candi­dati a direttore generale e a primario. Ma il com­missariamento non è uno scherzo: è l'anticamera del fallimento politico». Sempre che poi i politici commissariati non vengano addirittura promossi. «Sono d'accordo. Nel Sud non mancano le in­telligenze, dobbiamo soltanto affermare con il fe­deralismo fiscale nuove regole del gioco nel se­gno della responsabilità. E non c'è migliore deter­renza dell'esautoramento di chi ha sbagliato. Con il ritorno alle urne e l'ineleggibilità degli ammini­­stratori falliti » .

Sergio Rizzo
24 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA

da corriere.it
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« Risposta #35 inserito:: Settembre 02, 2009, 04:04:15 pm »

Il caso -

L’attivismo del responsabile della Pubblica amministrazione

Brunetta, la rivolta dei dirigenti e l’insofferenza degli altri ministri

I dubbi tra i colleghi di governo sulla strategia degli annunci


ROMA — «Io, povero, non bello e non ricco, ho fatto il c... al mondo e sono la Lo­rella Cuccarini del governo Berlusconi». Esattamente un anno fa Renato Brunetta completava questi concetti espressi in una intervista a «Gente» definendosi «il più amato dagli italiani». Volava nei sondaggi, il ministro della Pubblica amministrazio­ne, dopo aver dichiarato guerra ai fannul­loni: secondo per popolarità soltanto a Sil­vio Berlusconi. Mentre gli assenteisti ma­sticavano amaro e lo insultavano, la gente lo incitava per strada: «continui così». E qualche suo collega «rosicava».

Un anno dopo il ministro già più amato dagli italiani si appresta ad affrontare un autunno con qualche insidia in più, e non certamente a causa di sondaggi meno ge­nerosi. Che i suoi rapporti con il ministro dell'Economia Giulio Tremonti siano com­plessi non è affatto un mistero: lo sono da tempo, anche da prima che i due si ritro­vassero insieme al governo. Più recenti, e collegate alla sua azione governativa, sono invece le insofferenze che altri ministeri (certamente non il suo), e altri ministri, manifestano nei suoi confronti. Malignan­do che la strategia brunettiana abbia pro­dotto finora soprattutto annunci sensazio­nali a mezzo stampa. Culminati nella pub­blicazione del libro «Rivoluzione in cor­so », che qualche invidia pure l'ha suscita­ta.

Alle critiche lui ha sempre ribattuto con i dati che dimostrerebbero un calo a preci­pizio dell'assenteismo, ridottosi del 30% anche soltanto come effetto degli annun­ci. Il fatto è che decisioni sacrosante, come quella di non consentire la nomina a diri­gente generale per coloro che distano dal­la pensione meno di tre anni ha mandato letteralmente su tutte le furie le alte sfere della burocrazia, abituate a promuovere i fedelissimi pochi mesi prima del pensiona­mento per farli uscire dal ministero con la pensione dorata. Per modificare quella norma sarebbe intervenuta perfino la Ra­gioneria dello Stato. Né è stata del tutto di­gerita la disposizione per mandare in pen­sione chi ha raggiunto i quarant'anni di contributi.

Ma Brunetta deve fronteggiare anche la rivolta dei travet, che non accenna a pla­carsi dopo il taglio della parte variabile del­la retribuzione in caso di malattia. Tanto più che la mannaia sui dirigenti, spesso i veri responsabili della scarsa efficienza del­la pubblica amministrazione, non è anco­ra calata. Tutto questo mentre del regola­mento che dovrebbe stabilire quali alti pa­paveri pubblici devono essere sottoposti al tetto degli stipendi fissato dal governo di Romano Prodi, e che doveva essere pronto entro il 31 ottobre 2008, ancora nessuna notizia. «Ora li staneremo», ha promesso alla fi­ne di luglio, riferendosi ai dirigenti respon­sabili delle inefficienze, il ministro a Vitto­rio Zincone sul «Magazine» del Corriere.

Ricordando il prossimo varo di un organi­smo per la valutazione dei servizi. Un'idea nata in seguito alla proposta avanzata dal giuslavorista Pietro Ichino, ora senatore del Partito democratico, ma la cui attuale formulazione ha lasciato alquanto deluso anche chi, nel centrosinistra, aveva soste­nuto senza riserve la crociata del ministro. Fatto sta che quella che doveva essere nel­le intenzioni un'autorità indipendente ve­ra e propria è diventato un organismo ge­stito in condominio da Brunetta e Tremon­ti. Circostanza che avrebbe snaturato il progetto. «L'apparato sta frenando la sua riforma», commentava già alla fine dello scorso aprile lo stesso Ichino, lasciando in­tendere che Brunetta avrebbe le mani lega­te.

Osservazione riget­tata dal ministro, che deve tuttavia fare i conti non soltanto con i sindacati «con­servatori », i burocrati colpiti nella pensione, i consulenti che si so­no visti pubblicare i compensi online, e i dipendenti inferociti. C'è anche chi gli rema contro nel suo stes­so schieramento. Un mese fa, per esem­pio, si è scoperto l’emendamento di un se­natore del suo partito che avrebbe cancel­lato la norma della trasparenza totale, quel­la secondo cui i cittadini dovrebbero poter conoscere con un semplice clic sul mouse del computer vita, morte e miracoli dei di­rigenti pubblici. Lui ci ha messo una pez­za, ma è chiaro che quella norma non avrà vita facile. Insomma, ce n'è abbastanza perché qualcuno interpreti la singolare «aspirazione» a fare il sindaco di Venezia, che il ministro ha recentemente espresso, come un auspicio.

Sergio Rizzo
02 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #36 inserito:: Settembre 06, 2009, 12:13:33 pm »

INTERVISTA AL MINISTRO DEL WELFARE, SACCONI


«Boffo non è un cattocomunista Colpito da chi è ostile a lui e a noi»

«Lui vittima incolpevole del clima partito dall’aggressione a Berlusconi. Le polemiche sono nate in ambienti cattolici ostili a lui per­ché ancor più ostili a noi»
 
 
ROMA — Nella bufera che si è abbat­tuta su Dino Boffo, il direttore dell’Av­venire dimissionario dopo gli attacchi del direttore del Giornale , Vittorio Fel­tri, il ministro del Welfare Maurizio Sacconi non accetta di essere definito il capo del dissenso. «Al contrario!», di­ce, «dato che le mie convinzioni sono le stesse della larghissima maggioran­za del centrodestra».

Eppure lo scontro con la Chiesa ha generato nel suo schieramento toni al calor bianco. Come lo spiega?
«Mi preme spiegare perché non sol­tanto il Pdl, ma l’intera coalizione di go­verno, tenendo conto anche delle re­centi prese di posizione della Lega, sia­no naturalmente capaci di dialogare con la Chiesa rispetto ai grandi temi di suo prioritario interesse che si iscrivo­no nell’agenda di quella che possiamo chiamare biopolitica».

Biopolitica? Che cos’è?
«Nei paesi moderni la politica è inve­stita da problemi che impongono in re­lazione all’evoluzione della scienza e dei comportamenti sociali di regolare — in modi essenziali — i nodi della procreazione e del confine tra la vita e la morte. Su questi temi il Pdl, essendo­si configurato come il più grande movi­mento popolare in Italia, in grado quin­di di raccogliere il suo consenso nel­­l’Italia profonda, si ancora inevitabil­mente ai valori della tradizione dei qua­li è orgogliosamente conservatore».

E dove si trova questa Italia profon­da?
«Non è l’Italia metropolitana delle borghesie elitarie, ma quella fatta dalle piccole comunità e dalle periferie urba­ne, descritta anche recentemente da De Rita, ove vive la gran parte del no­stro popolo fatto di gente semplice e vi­tale, perché solida nei valori di riferi­mento a partire da quelli della tradizio­ne cristiana, a prescindere dal rappor­to di ciascuno con la fede».

Si prescinda pure, ma com’è possi­bile conciliare tutto questo con i prin­cipi di laicità fondamentali per tutti i Paesi occidentali sviluppati?
«Il Pdl è in sintonia con il senso co­mune del popolo, piuttosto che con il luogo comune di quelle che si defini­scono elite . In questo senso esso è si ispira ad una laicità adulta che in ogni caso non si confonde con la liceità».

Sarebbe?
«Laicità significa un approccio del decisore che quando regola pensa a cre­denti e non credenti, a persone che pos­sono avere anche un diverso rapporto con la fede. Ma ciò non significa indif­ferenza a profili di carattere etico come quelli tipicamente cristiani codificati nella prima parte della costituzione».

Nella prima parte della carta costi­tuzionale il riferimento alle radici cri­stiane però manca del tutto.
«Che principi anche propri della cul­tura cristiana siano presenti nella pri­ma parte è assolutamente evidente. Ba­sti pensare a quei diritti inviolabili del­l’uomo che costituiscono la premessa per ritenere non negoziabile il fonda­mentale diritto all’alimentazione e al­l’idratazione. La costituzione fu frutto di un grande compromesso fra i grandi partiti popolari. Lo stesso Partito comu­nista, in quanto innervato in una parte importante del popolo, e’ sempre stato attento a non offendere i fondamentali valori della tradizione cristiana».

Il Pdl come il Pci? Se la sente Berlu­sconi...
«Certamente tutti e due movimenti di grande consenso popolare. Il Pdl, non tatticamente, è portatore di una laicità adulta che incorpora i fonda­mentali valori cristiani come la perso­na, la famiglia, la comunità. La stessa possibilità di costruire uno sviluppo so­stenibile dopo la crisi non può prescin­dere dal riconoscimento del valore del­la vita. Non ci può essere vitalismo eco­nomico e sociale in una società scetti­ca. Questo ci porta nella prossima agen­da di governo a ritenere necessario di­fendere una regolazione della creazio­ne della vita che rigetti ogni manipola­zione genetica».

Veniamo al sodo.
«I principi che ho appena enunciato ci portano ad avere una fortissima diffi­denza verso la pillola Ru486, con la quale si banalizza un atto che secondo la legge 194 sull’interruzione volonta­ria della gravidanza è un disvalore e po­tenzialmente potrebbe comportare la violazione del percorso previsto da quella legge».

In che cosa si traduce questa diffi­denza?
«Laicamente verificheremo se l’im­piego della pillola abortiva sia coerente con quella legge e con il suo obiettivo primario di evitare la solitudine della donna di fronte ad una scelta tanto drammatica. L’Aifa è impegnata a pro­durre entro settembre un protocollo ri­gorosissimo di corretto impiego della pillola in strutture ospedaliere a cura di ginecologi nel pieno rispetto della stessa legge».

In una precedente intervista al «Corriere» lei ha lasciato intendere la possibilità di una possibile corsia preferenziale per la norma Englaro. Conferma?
«Ho detto che se si fosse manifesta­ta in Parlamento la difficoltà a un am­pio consenso sulla legge che regola il fine di vita si potrebbe estrapolare dal testo del Senato per l’immediata appro­vazione quella parte — approvata al­l’unanimità dal Consiglio dei ministri — che colma il vuoto normativo creato­si a seguito del provvedimento creati­vo della magistratura sul caso Englaro, che ha introdotto per la prima volta un percorso eutanasico nel nostro Paese. Faccio una domanda: occorre la fede per voler evitare soluzioni eugenetiche o eutanasiche?».

È cosciente del fatto che il governo sarà accusato di mettere tutto questo sul piatto della bilancia per recupera­re il rapporto con la Chiesa?
«Ho descritto un’agenda nata in tem­pi non sospetti rispetto alle più recenti vicende. Con la Chiesa c’è una conso­nanza profonda sul valore della vita, sulla famiglia, sulla sussidiarietà, che va oltre il tatticismo».

Tatticismo od opportunismo?
«Vedo molto più opportunismo quando alcuni segmenti della base ec­clesiale sostengono nella candidatura a sindaco chi propugna le coppie omo­sessuali, o agisce in direzione opposta a quelli che sono temi fondamentali della Chiesa. In quel caso non posso non individuare uno scambio cinico, magari con piccoli favori amministrati­vi a strutture ecclesiali. Cosa diversa è il rapporto che nasce naturalmente per­ché quelli sono i nostri valori. Siamo un movimento politico laico e cristia­no insieme».

Nel centrodestra molti sono con­vinti che senza i cattolici il governo non starebbe in piedi. La sua opinio­ne?
«Credo che se questa maggioranza parlamentare si allontanasse dalle radi­ci del nostro popolo, ne perderebbe il consenso come è accaduto al Pd rispet­to al Pci. Ma il problema non è la forma­le coerenza con la Chiesa».

Non vorrà negare che lo scontro con l’«Avvenire» abbia causato qual­che problemino. Se non sbaglio lei stesso ha chiesto a Boffo di ritirare le dimissioni.
«Boffo è stato vittima incolpevole di questo violento clima polemico partito dall’aggressione al presidente del Con­siglio. A me dispiace perché ho un’ami­cizia personale con lui, mio conterra­neo, ho sempre trovato in lui un cattoli­co liberale, non certo un cattocomuni­sta».

Questo ha un significato nella sua presa di posizione, ministro?
«Certamente. Ma non voglio entrare nella vicenda che lo riguarda, anche se è evidente che queste polemiche gior­nalistiche sono nate dall’interno del mondo cattolico».

Addirittura? Chi poteva nella Chie­sa avere interesse a danneggiare il di­rettore del quotidiano della Conferen­za episcopale?
«Posso immaginare che tutto sia na­to in ambienti cattolici ostili a lui per­ché ancor più ostili a noi».

Sergio Rizzo
06 settembre 2009
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« Risposta #37 inserito:: Ottobre 04, 2009, 07:32:52 pm »

DOSSIER - I PRECEDENTI DELLO SCUDO FISCALE

I condoni «mai più» e gli incassi dimenticati


Cinque anni dopo non ancora riscossi 5,2 miliardi della misura del 2003. Ogni volta la promessa: sarà l’ultimo. Risultati quasi sempre al di sotto delle stime

Non chiamatelo condono. D’accor­do, si potranno rimpatriare i denari sot­tratti al fisco pagando il 5%, meno di un quarto della più bassa aliquota Ir­pef. D’accordo, con quel misero 5% si potranno sanare reati penali e al riparo dell’anonimato. Ma non chiamatelo condono. Come potete chiamarlo, allo­ra? Forse «un intervento che rientra nella strategia concordata a livello in­ternazionale per combattere i paradisi fiscali», come l’ha definito Giulio Tre­monti? O «sistemazione del passato», secondo lo strepitoso suggerimento del compianto deputato nazional allea­to Pietro Armani? Ma potreste anche non chiamarlo affatto. «I condoni fatti da questo governo sono stati pochissi­mi e per casi limitatissimi. È la sinistra, con la sua propaganda, a parlare di con­doni, in realtà mai avvenuti». Mai avve­nuti. Lo disse il Guardasigilli Roberto Castelli il 31 marzo del 2006 a Radio An­ch’io. Di lì a poco anche il nuovo gover­no di centrosinistra di Romano Prodi avrebbe fatto il suo bravo condono (l’indulto), ma sul fatto che durante i cinque anni precedenti non si fossero fatti condoni, beh… In un rapporto del novembre 2008 sulle sanatorie fiscali la Corte dei conti ne ha contati 13, soltanto fra il 2003 e il 2004. E lì i magistrati contabili non hanno avuto timore a chiamare «con­dono » anche il primo scudo fiscale, pa­pà della nuova sanatoria per i capitali illegalmente esportati. Quella che l' Av­venire , il quotidiano dei vescovi, che ha definito «una beffa» perpetrata dal «furbetto del governino» dopo essere stato allargato in Parlamento anche ai reati penali. Una bella botta per Tre­monti, che avendo all’inizio escluso tas­sativamente la non punibilità di nefan­dezze tipo il falso in bilancio, si è poi rassegnato: «Senza le modifiche del Parlamento lo scudo sarebbe stato un suicidio». Un suicidio? Già, «sarebbe stato un’autodenuncia penale».

Ci sarebbe da domandarsi che fine abbiano fatto le telecamere alle frontie­re (con la Svizzera?) che aveva promes­so di installare dopo il primo «scudo fi­scale del 2002-2003» per pizzicare gli spalloni che avessero continuato a fro­dare il fisco. Ma comunque, evviva la sincerità del ministro dell’Economia. Ma quella del deputato del Pdl Michele Scandroglio non è forse sincerità? «Non c'è dubbio che la teoria dei con­doni sia passibile di critiche. Però non dobbiamo nasconderci dietro un dito: gli italiani sono anche questo. Noi dob­biamo rappresentare al meglio la realtà che abbiamo, si fa quello che si può con quello che siamo».

Poco prima delle elezioni del 2008 Tremonti ha giurato davanti alle teleca­mere di Repubblica Tv: «Oggi non ci so­no più le condizioni per fare i condoni, che non certo ho fatto volentieri ma perché costretto dalla dura necessità. I condoni sono una cosa del passato». Concetto ribadito addirittura dal futu­ro premier Silvio Berlusconi, questa volta durante una video chat con il Cor­riere. it: «Basta con la stagione dei con­doni. La prossima sarà una stagione di forte contrasto all'elusione e all'evasio­ne fiscale». (31 marzo 2008). Adolfo Ur­so, esponente di An ora viceministro, dichiarava un paio di mesi prima: «Ven­go dalla cultura della legalità della de­stra e dico: mai più condoni di nessun tipo, nemmeno l’indulto».

Poi, quando l’Unione europea boc­ciò il condono Iva varato dal preceden­te esecutivo di centrodestra nel 2003 ri­tenendo che avesse «seriamente» dan­neggiato il mercato comune e favorito i contribuenti colpevoli di frode fisca­le, Tremonti commentò: «Messaggio ri­cevuto, per il futuro è impegno del go­verno escludere provvedimenti del ti­po oggetto della sentenza». (luglio 2008).

Ma non si potrebbe dire che il mini­stro dell’Economia non avesse mai ma­­nifestato ostilità verso le sanatorie. Di­ciotto anni fa, mentre l'ultimo governo di Giulio Andreotti stava per approva­re la terza sanatoria fiscale della storia repubblicana Tremonti scrisse in un editoriale del Corriere: «In Sudamerica il condono fiscale si fa dopo il golpe. In Italia lo si fa prima delle elezioni ma mutando i fattori il prodotto non cam­bia: il condono è comunque una forma di prelievo fuorilegge». Passato quel condono, l'allora segretario generale delle Finanze Giorgio Benvenuto, in se­guito parlamentare del centrosinistra, promise: «Questo condono sarà l'ulti­mo ». Quattro anni più tardi arrivò il concordato fiscale. Ma il ministro Au­gusto Fantozzi sentenziò: «Credo che ormai l'epoca dei condoni sia tramonta­ta ». Mai previsione fu meno azzeccata. Sei anni dopo, ecco lo scudo fiscale e la raffica di sanatorie tributarie. Le pole­miche si erano appena smorzate quan­do, nell’estate del 2003, il sottosegreta­rio Giuseppe Vegas oggi viceministro all’Economia, azzardò: «In futuro non ci saranno altri condoni». Mentre il ca­pogruppo di Forza Italia Renato Schifa­ni ammoniva: «Siamo di fronte all’ulti­mo giro di boa di una riforma fiscale. Il cittadino sa benissimo che una volta varata non ci sarà più spazio per la cle­menza ». Pochi mesi dopo, la finanzia­ria 2004 reiterò il condono fiscale tom­bale. E toccò al successore di Tremonti, Domenico Siniscalco, ripetere ancora nel 2004: «La stagione dei condoni è fi­nita » .

Arriviamo quindi ai giorni nostri. Non che nel frattempo i vari condoni non siano stati rivendicati. Durante la campagna elettorale del 2006 Berlusco­ni arrivò ad affermare che «i condoni non sono poi così negativi, visto che l’Unità, l’Unipol e il signor Prodi, in una società in cui è presente un suo fa­miliare, ne hanno usufruito». Per con­cludere: «I condoni hanno portato mol­ti soldi all'erario e vi ha ricorso chi ave­va evaso le tasse durante il governo Prodi » .

Sul fatto che i condoni abbiano fatto ricco il Fisco, tuttavia, si potrebbe di­scutere. Secondo la Cgia di Mestre tutti i condoni, compresi quelli edilizi e pre­videnziali, varati dal 1973 a oggi avreb­bero garantito un incasso, attualizzato in valuta 2005, di 104,5 miliardi di eu­ro. Se fosse così, in trent’anni l'Erario avrebbe recuperato con le sanatorie l'evasione fiscale di un solo anno, che è appunto stimata in circa 100 miliardi di euro. Ma se fosse così. Una fonte al di sopra di ogni sospetto, e cioè la rivi­sta on-line dell’Agenzia delle Entrate Fi­scooggi. it ha calcolato invece che dal 1973 al 2003 lo Stato ha incassato con i principali condoni tributari, previden­ziali, assicurativi, valutari ed edilizi 26 miliardi di euro. Fatevi i conti sul nu­mero degli abitanti: 15 euro a testa l’an­no. L’equivalente di una pizza e una bir­ra, per fare strame di quel minimo di correttezza civica che esisteva in Italia. Soltanto in due casi, vale a dire con i condoni fiscali del 1982 e del 1992, si è superata la previsione di gettito. In al­tri casi, si è andati ri­dicolmente sotto le stime. Come se non bastasse, c’è stato pure chi ha aderito al condono ma poi non ha nemmeno pagato o pagato tut­to. La Corte dei con­ti nel novembre 2008 ha rivelato che a quella data resta­vano da incassare ancora 5,2 miliardi di euro dei 26 mi­liardi attesi per il condono 2003-2004, in base alle dichiarazioni pervenute alle Fi­nanze. Cinque mi­liardi su 26: il venti per cento.

In quel rapporto si racconta anche un altro particolare. E cioè che 34 mila persone fecero il condono tombale in forma anonima, avvalendosi di una fa­coltà prevista da quella sanatoria: pre­sentare al Fisco una «dichiarazione ri­servata », come per lo scudo fiscale. Con il risultato di restare nell’ombra pure in quel caso. Ma il numero di 34 mila è soltanto una stima. Quando il magistrato della Corte dei conti ha chie­sto di avere i dati relativi a quelle di­chiarazioni «riservate» si è sentito ri­spondere dall'Agenzia delle entrate che, «trattandosi di dati sensibili», era­no «in possesso unicamente del mini­stro ». Ma potevano avere sulla coscien­za 34 mila suicidi?

Sergio Rizzo

04 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #38 inserito:: Ottobre 07, 2009, 04:17:49 pm »

La storia

La strada da 62 milioni al km contestata per salvare i rospi

Asti e la super tangenziale costosissima.

E Rifondazione accusa: minaccia l'habitat dell'anfibio


ROMA — Trecentosettantacinquemilioniottocento-ventitremiladuecentocinquanta euro. Una cifra che basterebbe per comprare trecento carrozze deluxe per i treni dei pendolari. O rimettere in sesto tutte le strutture universitarie scassate dell'Aquila, pagare per un anno le rette degli studenti e poi, con quel che avanza, acquistare tremila casette di legno per gli sfollati del terremoto. Tutti questi soldi saranno invece spesi per una strada, una piccola tangenziale a sud ovest di Asti. Un nastro d'asfalto lungo appena 5.329 metri che costa, considerando i 2.848 metri di bretelle e svincoli per collegarlo alla viabilità ordinaria, più di 60 milioni al euro al chilometro. Esattamente, 62,2 milioni. La breve tangenziale corre su un lungo viadotto e poi sotto terra: immaginate i denari che servono.

La strada contestata
La strada contestata
Ma se non è la strada più cara del mondo, poco ci manca. Per capire: la Variante di Valico, che si sviluppa quasi tutta in galleria, vale 52 milioni al chilometro. Ed è probabilmente il più costoso tratto di strada mai realizzato in Italia, dove per costruire un chilometro di autostrada si spendono mediamente 32 milioni, contro i 14,6 milioni della Spagna. Senza considerare che la tangenziale sud ovest di Asti non è nemmeno un'autostrada in senso stretto, visto che per un terzo avrà una sola corsia per senso di marcia. Ma in un Paese che nonostante le promesse continua a costruire infrastrutture con il contagocce, sarebbe perfino una spesa benedetta (sempre giustificandone il livello astronomico). Se invece, come qualcuno sostiene, fosse una strada completamente inutile? Così almeno la pensa un comitato locale che da anni la contesta. E così la pensano anche alcuni consiglieri del Piemonte (per esempio Angela Motta del Pd, stesso partito del governatore Mercedes Bresso) pronti a dare battaglia in previsione del parere che a giorni emetterà la Regione. Per nulla scoraggiati dallo scontato «sì» regionale, epitaffio per le loro residue speranze, gli oppositori sono decisi a far valere tutte le loro ragioni. Il 22 settembre due consiglieri rifondaroli, Paola Barassi e Alberto Deambrogio, hanno presentato una mozione contro il progetto preliminare depositato dall'Anas ad agosto. Nell'elenco delle rimostranze, anche l'allarme per il rischio che correrebbe una «particolare e rara specie di rospo presente solo in due aree del territorio piemontese»: il pelobates fuscus insubricus, sopravvissuto all'alluvione del 1994, il cui habitat naturale verrebbe seriamente compromesso dalla nuova arteria.

C'è da dire che l'anfibio avrebbe corso lo stesso rischio anche cinquant'anni fa, quando si cominciò a pensare a quella tangenziale e non esisteva nessun partito dei rospi.
Le prime lettere di esproprio ai proprietari dei terreni partirono dal Comune di Asti nel 1960. Poi tutto si fermò. Finché nel 1974 la tangenziale spuntò nel piano regolatore della città. All'inizio attraversava gli orti a ridosso del centro abitato. Via via che il cemento invadeva il territorio, però, il tracciato veniva spostato sempre più in periferia. Mentre i costi del progetto si gonfiavano come un sufflè: l'ultima botta arrivò con l'alluvione del 1994 che ispirò un megaviadotto da oltre un chilometro. Tutto sulla carta, naturalmente, perché nessuno credeva davvero che la tangenziale si sarebbe mai fatta. Troppi soldi, troppo tempo, troppi problemi. Il partito del rospo, che intanto era sorto, si fregava le mani, ma non aveva fatto i conti con il progetto dell'autostrada Asti-Cuneo. Né, soprattutto, con il presidente della Provincia Roberto Marmo, forzista, che persuase l'Anas a fare la tangenziale con l'intento di collegare al casello di Asti Ovest l'Asti-Cuneo con la Torino-Piacenza. Entrambe gestite da società che fanno capo al potente concessionario privato Marcellino Gavio. Si fece quindi un progetto faraonico per un'autostrada a sei corsie.

Ma nel 2002 il nuovo sindaco di centrosinistra Vittorio Voglino, uscito da una campagna elettorale nella quale quattro candidati su cinque, tutti tranne quello di Forza Italia, avevano promesso che se eletti non avrebbero fatto la tangenziale, lo bloccò. La motivazione? Per collegare le due autostrade si poteva bene utilizzare un'altra strada, già esistente, arrivando così al casello di Asti est. Soluzione considerata più facile e più logica. L'Anas avrebbe però dovuto ampliare quella strada. E come compensare Comune e Provincia? Semplice: realizzando la tangenziale della discordia ma con un progetto diverso, sul quale Marmo e Voglino stavolta si erano messi d'accordo.
Un progetto forse più modesto, ma a quanto pare non meno costoso. E i soldi? Nessun problema: c'è la Legge obiettivo. Inutili le proteste degli oppositori, secondo cui non è stato mai fatto uno studio di viabilità, e quindi nessuno sarebbe in grado di dire quante macchine passeranno su quella strada. Inutili anche le osservazioni avanzate dal comitato su alcuni aspetti dell'operazione. Per esempio, la circostanza che la società Autostrada Asti-Cuneo del gruppo Gavio, concessionaria della tangenziale, sia partecipata al 35% dall'Anas, cioè dal concedente. Per esempio, che il progetto sia stato affidato a un'altra società del medesimo gruppo Gavio, la Sina spa, di cui è amministratore delegato Agostino Spoglianti, contemporaneamente pure presidente della Asti-Cuneo...

Sergio Rizzo
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« Risposta #39 inserito:: Ottobre 09, 2009, 06:58:54 pm »

Fisco - L’estensione ai soggetti riconducibili al dominus dell’impresa

Lo scudo fiscale vale anche per le società

La circolare: le dichiarazioni personali non potranno essere utilizzate per gli accertamenti


ROMA - La copertura del­lo scudo fiscale si estende an­che alle società. Si tratta di un ampliamento «di fatto», pre­visto dalla tanto attesa circola­re applicativa del decreto che ha spianato la strada alla ter­za regolarizzazione delle som­me illecitamente esportate nel giro di appena sette anni, a cui i tecnici delle Finanze hanno lavorato per giorni e che potrebbe essere diffusa oggi.

Il documento dell’Agenzia delle entrate chiarisce che le operazioni di rimpatrio o di regolarizzazione effettuate da una persona fisica non po­tranno essere utilizzate per far partire un accertamento fi­scale o anche semplicemente nell’ambito di un controllo avviato magari per motivi di­versi nei confronti di una so­cietà di capitali di cui quel contribuente è il dominus. Proprio così: il dominus . Ter­mine latino che sta a indicare colui il quale esercita il con­trollo sull’azienda, come azio­nista di maggioranza o riferi­mento, oppure come ammini­stratore.

Va detto che nella circolare è ben spiegato come questa estensione di fatto ai soggetti «indirettamente riconducibi­li» al contribuente «domi­nus », cioè le società, sia vali­do esclusivamente ai «fini tri­butari ». Precisazione d’obbli­go, tesa evidentemente a sgombrare il campo da ogni possibile equivoco. Soprattut­to dopo le polemiche, violen­tissime, che hanno accompa­gnato la decisione della mag­gioranza di centrodestra di al­largare lo scudo fiscale anche a gravi reati penali, come il falso in bilancio, l’occulta­mento e la distruzione di do­cumenti contabili, fatture fal­se e altro ancora.

Per quale motivo gli uffici del Fisco hanno risolto di in­terpretare in senso ulterior­mente estensivo lo scudo, è presto detto. L’assenza di una copertura per le società, sia pure indiretta, avrebbe potu­to scoraggiare moltissimi pic­coli imprenditori dall’utilizza­re una sanatoria che li avreb­be messi personalmente al ri­paro dalle grane fiscali e giu­diziarie, rischiando però di ri­velarsi controproducente per la loro azienda, potendo rap­presentare una vera e propria «notizia di reato» in grado di innescare pericolosi accerta­menti tributari.

L’Agenzia delle entrate tie­ne a precisare che questa di­sposizione si giustifica con la necessità di impedire che lo scudo possa essere impiegato dal Fisco in senso sfavorevo­le a chi ne ha usufruito, per esempio al fine di accertare violazioni fiscali che non sa­rebbero coperte da quella sa­natoria. E questo in ossequio al principio, contenuto nel de­creto approvato dal Parlamen­to, che le operazioni di emer­sione non possono in alcun caso essere utilizzate, con l’unica eccezione dei procedi­menti in corso, con la finalità di colpire il contribuente.

Più prosaicamente, l’obiet­tivo è quello di evitare una perdita di gettito rispetto alle stime. Si parla di possibili rientri di capitali per 100 mi­liardi di euro: somma che ga­rantirebbe un introito di 5 mi­liardi per l’Erario. Lo scudo metterà poi al riparo dagli ac­certamenti, sottolinea il docu­mento, anche i cosiddetti sog­getti «interposti», cioè coloro attraverso i quali la persona fi­sica ha custodito all’estero i soldi o i beni.

Il tutto partendo da un con­cetto fondamentale, ribadito con estrema chiarezza nella stessa circolare. E cioè che chi farà lo scudo potrà evita­re di incorrere nella misura introdotta con un decreto leg­ge di qualche mese fa: la co­siddetta inversione dell’one­re della prova. Misura, che il Tesoro ritiene decisiva nella lotta ai paradisi fiscali, in ba­se alla quale non sarà più lo Stato a dover dimostrare che i denari detenuti all’estero so­no somme evase al Fisco, ben­sì il contribuente a dover for­nire la prova che non sono frutto di evasione. Questo sal­vacondotto garantito ai con­tribuenti scudati riguarda an­che i soldi depositati negli an­ni passati.

Ieri il direttore dell’Agen­zia delle entrate, Attilio Befe­ra, ha specificato che l’impor­to del 5% (è il prezzo per ade­rire alla sanatoria) delle som­me da rimpatriare o del valo­re dei beni da regolarizzare si dovrà pagare entro il prossi­mo 15 dicembre. «È evidente che terremo conto del fatto che il denaro non viene preso da sotto il materasso, ma ci sono delle tematiche tecni­che. Il momento fondamenta­le è il momento del versamen­to. Tutti gli altri atti ammini­­strativi necessari possono es­sere compiuti anche successi­vamente, in un ragionevole lasso di tempo», ha aggiunto.

Sergio Rizzo

09 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #40 inserito:: Ottobre 12, 2009, 05:39:09 pm »

I vertici del sindacato regionale valutano chi ha diritto allo «sconto»

L’università che «regala» un anno agli iscritti della Uil

Sessanta crediti per il triennio in legge alla Parthenope


ROMA — «Non c’è proprio niente di strano». Questo il commento del professor Fede­rico Alvino quando, due anni fa, saltò fuori che nell’univer­sità con il record di docenti imparentati, la Parthenope di Napoli, anche lui, preside di giurisprudenza, poteva vanta­re una parentela coi fiocchi. Sua moglie Marilù Ferrara è infatti la figlia di Gennaro Fer­rara, ininterrottamente da ol­tre un ventennio rettore del­l’ateneo. Una parentela, inol­tre, dalle spiccate venature po­litiche. Alvino è consigliere comunale di Napoli, capo­gruppo dell’Udc. Invece il suo­cero è vicepresidente della giunta provinciale. Deleghe: politiche scolastiche e diritto allo studio.

Proprio niente di strano, per come funziona l’universi­tà italiana. Che dire allora del­l’ultima perla di cui si può fre­giare il trentasettenne Alvino, uno dei presidi più giovani d’Italia? Qualche settimana fa la Parthenope ha firmato con la Uil della Campania una con­venzione che consentirà a chi ha in tasca la tessera del sinda­cato guidato da Luigi Angelet­ti di vedersi riconoscere fino a 60 crediti per il corso di lau­rea triennale in giurispruden­za. Uno sconto, secco, di un anno su tre.
Come ottenerlo? Sentite che cosa dice la convenzione: «In considerazione delle cono­scenze e delle abilità che i la­voratori iscritti alla Uil potran­no certificare in ragione delle funzioni e delle mansioni a lo­ro attribuite verranno ricono­sciuti 60 crediti al personale impegnato in attività di tipo tecnico, gestionale o diretti­vo...50 crediti al personale im­piegato in attività caratterizza­to da conoscenze mono spe­cialistiche...» . Ma sapete chi stabilisce i re­quisiti per avere diritto allo sconto? Ecco l’articolo 2 della convenzione: «La Uil segrete­ria regionale della Campania si impegna a collaborare con l’Università nell'individuazio­ne dei requisiti nella fase istruttoria delle richieste de­gli iscritti». Cioè la decisione viene presa insieme al sinda­cato. E se un iscritto alla Uil ha magari già fatto qualche esame in quella università e vuole vederselo riconosciuto? Stropicciatevi gli occhi: «Il ri­conoscimento degli esami stessi — ha scritto Luciano Nazzaro della Uil Campania ai suoi colleghi — sarà curato dalla stessa Uil».

Ma per quanto possa sem­brare inverosimile, convenzio­ni come quella appena stipula­ta dall’ateneo delle «dieci fa­miglie », come la definì nel giugno 2007 un articolo di Re­pubblica , nelle università ita­liane non sono affatto rare. Quando alla fine degli anni Novanta con la riforma voluta dal centrosinistra vennero istituite le lauree triennali, si decise di riconoscere crediti formativi accumulati con l’esperienza lavorativa. C’era una disposizione europea. Ma in Italia l’opportunità diventò ben presto occasione per i fur­bi. Da lì al malcostume vero e proprio il passo fu breve. E il malcostume dilagò. Si arrivò a regalare i pezzi di carta: c’erano convenzioni che con­sentivano di vedersi abbuona­re anche tutti i crediti formati­vi del corso di laurea. Bastava discutere la tesi. E in qualche caso neanche quello.

Naturalmente dietro paga­mento di rette profumate. A che cosa servivano le lauree prese in questo modo? Preva­lentemente a passare di grado nella pubblica amministrazio­ne. Da impiegato a funziona­rio, da sottufficiale a ufficiale, da pizzardone a graduato.
Con relativo incremento di stipendio. Quando Fabio Mus­si, tre anni fa, arrivò al mini­stero dell’Università, trovò questo sfacelo e stabilì il limi­te tassativo di 60 crediti (che sono pur sempre un anno di studio), cercando pure di in­trodurre criteri rigorosi per concederli. Ma evitare che lo sconto tocchi anche a somari con il solo merito di avere un tesserino nel portafoglio si è in seguito rivelato pressoché impossibile. Il giro di vite ha appena intaccato l’andazzo. Chi si stupisce che due anni dopo la direttiva Mussi una università statale come la Par­thenope di Napoli forse non sa che a metà 2007 l’Universi­tà statale di Messina ha fatto una convenzione simile con la Cisl: anche in quel caso 60 crediti. Bastava avere un di­ploma di scuola media supe­riore e un posto di lavoro alla regione, o in una Asl, oppure in un altro ente pubblico. Ma soprattutto essere iscrit­ti al sindacato di Raffaele Bo­nanni, dettaglio essenziale per accedere direttamente al secondo anno di Scienze poli­tiche, giurisprudenza, statisti­ca, economia. Ma è niente in confronto alle convenzioni che hanno firmato alcune uni­versità private «telematiche». Convenzioni con la Uil Poteri locali, la Ugl enti pubblici, la Rsu della Provincia di Agri­gento, l’associazione romana vigili urbani, l’associazione di­pendenti del ministero dell’In­terno, il centro formazione professionale Enti padri Trini­tari... Davvero niente di stra­no?

Sergio Rizzo

12 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #41 inserito:: Ottobre 14, 2009, 10:30:30 pm »

Il numero è quasi raddoppiato dall’Unità d’Italia.

Adesso sono arrivate a 109

E i Camuni gridarono: una provincia anche a noi

Gli enti che dovevano essere aboliti e le promesse infrante


E i Camuni? Niente ai Camuni?
Deciso a vendicare l’ingrata storia, il deputato leghista Davide Caparini ha deciso di tirare dritto: vuole a tutti i costi la nuova Provincia della Valcamonica. Capoluogo: Breno, metropoli di 5.014 anime. Direte: ancora un’altra provincia? Ma non avevano promesso quasi tutti di abolirle? Certo: prima delle elezioni, però.

Promessa elettorale, vale quel che vale. Tanto è vero che il disegno di legge per sopprimerle, presentato alla Camera dalla strana coppia Casini & Di Pietro, è già morto. Se dovesse passare l’iniziativa camunica del parlamentare del Carroccio, quella con capita­le Breno (inno ufficiale: «E su e giù e per la Val­camonica / la si sente la si sente...») sarebbe la provincia numero 110. Quando nacquero nel 1861, al momento dell’Unità d’Italia, erano qua­si la metà: 59. Distribuite sul territorio con un criterio semplice: dovevi attraversare ciascuna in una giornata di cavallo. Nel 1947 erano già 91. E col passaggio dagli equini alle autoblu, hanno continuato ad aumentare, aumentare, aumentare a dispetto del proposito dei padri costituenti, che avevano previsto la loro aboli­zione con l’arrivo delle Regioni, fino a diventa­re 95 e poi 102 e su su fino a 109 grazie a new entry e soprattutto al raddoppio (da 4 ad Fico di quelle della Sardegna. La quale con l’Ogliastra (57.960 abitanti, due terzi di Sesto San Giovan­ni) mise a segno il capolavoro, la provincia a due teste: Tortolì (10.661 anime) e Lanusei, che di anime ne ha ancora meno: 5.699. Un re­cord mondiale. Che con l’arrivo di Breno ver­rebbe stracciato in attesa di nuove province e nuove capitali tipo Quinto Stampi, Pedesina, Zungri, Maccastorna, Carcoforo... Direte: ma dai, Carcoforo! Perché no, scusate? Se la pro­vincia è indispensabile per essere vicina ai cit­tadini, cosa han fatto di male i carcoforesi per non avere anche loro una provincia?

Quanto costino lo ha calcolato l’anno scorso il Sole 24 Ore : 17 miliardi di euro. Con un au­mento del 70% rispetto al 2000. Da dove arriva­no i denari? Un po’ dai trasfe­rimenti. Parte dal prelievo del 12,5% sull’assicurazione delle auto e delle moto: 2 mi­liardi nel 2007, il 54% in più rispetto al 2000. Più aumenta l’assicurazione, più intasca la Provincia. Altri quattrini arri­vano dall’imposta provincia­le di trascrizione: le annota­zioni al Pubblico registro au­tomobilistico che doveva es­sere abolito. Ci sono poi un’addizionale sulla bolletta elettrica e il tributo provincia­le per l’ambiente.

Come mai i cittadini non si arrabbiano? Occhio non ve­de, cuore non duole: sono tut­te tasse dentro altre tasse. Non si notano. Va da sé che a quel punto, ignaro delle spe­se, il cittadino vede titillato il suo campanilismo. Come nel caso della provincia di Fer­mo nata dalla divisione di quella di Ascoli Piceno. Una specie di scissione dell’ato­mo: da una piccola provincia ne sono nate due minuscole. In compenso, al posto di un solo consiglio da 30 membri, ne sono nati due da 24: totale 48 poltrone. Per non dire del­la provincia a tre piazze di Barletta-Andria-Trani, chia­mata così per non far torto ai permalosi cittadini dell’una o l’altra capitale. Quanti sono i comuni di quel­la nuova Provincia? Dieci in tutto, sono. Il che, diciamolo, aumenta la pena per i sette tagliati fuori dal nome: Bisceglie, Trinitapoli, Minervi­no Murge. E la targa automobilistica? «BT». Ri­volta: «E Andria? Non si può fare “Bat”?». «No, quella è di Batman».

C’è da sorridere? Mica tanto. Sull’abolizione delle province, infatti, fu giocato un pezzo del­l’ultima campagna elettorale. «Aboliremo le Province, è nel nostro programma», disse Ber­lusconi a Porta a porta il 10 aprile 2008. «Ma la Lega sarà d’accordo?», eccepì Bruno Vespa. E lui: «La Lega è composta da persone leali». «Presidente, che cosa ha previsto per abbassa­re i costi folli della politica?», gli chiese la si­gnora Ines nella chat-line al Corriere . E lui: «La prima cosa da fare è dimezzare il numero dei parlamentari, dei consiglieri regionali, dei con­siglieri comunali». E le Province? «Non parlo delle Province, perché bisogna eliminarle». Mostrava di crederci al punto, il Cavaliere, che cercava sponde: «Se Veltroni ci darà una ma­no... ». La linea veltroniana, del resto, era già stata dettata: «Cominceremo da subito abolen­do le Province nei grandi comuni metropolita­ni ». Posizione confermata a Matrix : «All’aboli­zione delle province penso ci si possa arrivare. Ma non sono un demagogo. È facile dirlo in campagna elettorale...». Il socio fondatore del Pdl Gianfranco Fini era d’accordo: «I carrozzo­ni non sono intoccabili e si possono abolire per esempio le Province». Una tesi già benedet­ta da altri. Come l’ex ministro degli Interni az­zurro Giuseppe Pisanu: «Le Province ormai non hanno più senso».

Qualche settimana dopo le elezioni il capo del Governo sventolava il primo trionfo, rias­sunto dai tg amici con titoli così: «Abolite no­ve Province». In realtà nove province cambia­vano soltanto nome. D’ora in avanti si sarebbe­ro chiamate aree metropolitane. Un ritocco se­mantico. Ma naufragato lo stesso. Poi comin­ciarono i distinguo. «C’è un solo punto nel pro­gramma in cui ho difficoltà serie con gli allea­ti, l’abolizione delle Province. La Lega ha una posizione molto ferma», confessò Berlusconi nel dicembre 2008. «Sono enti inutili, ma non riusciremo a cancellarli in questa legislatura», confermava Renato Brunetta. Di più: nel dise­gno di legge sulle autonomie locali definito dal ministro Roberto Calderoli non solo so­pravvivevano. Venivano addirittura rafforzate, con la possibilità di riscuotere tasse proprie.

Vero è che Bossi aveva eretto un muro insor­montabile: «Le Province non si toccano». Ma che la marcia indietro collettiva sia stata dovu­ta solo all’altolà del Carroccio non si può dire. Basti rileggere quanto affermò il deputato del Pd Gianclaudio Bressa nell’ottobre scorso: «Non siamo d’accordo con l’abolizione delle Province, né abbiamo mai detto di esserlo in passato. È ora di finirla con questa mistificazio­ne ». E quello che diceva Veltroni? Coro demo­cratico: Veltroni chi? Ma è niente in confronto alle contraddizioni della maggioranza. Dove Sandro Bondi, da coordinatore forzista, era a pié fermo al fianco del Capo: «Aboliamo le Pro­vince. Sono un diaframma inutile fra i Comuni e le Regioni». Era il 14 luglio 2007: qualche me­se dopo, con marmorea coerenza, si candidava alla presidenza della Provincia di Massa Carra­ra.

E meno male anche per lui (oggi ministro) che non ce l’ha fatta. Sennò sarebbe andato a ingrossare la folta schiera dei fedeli di sant’Al­fonso Maria de’ Liguori al quale Dio concesse il dono della bilocazione. Cioè quei politici che sono insieme assisi su due poltrone: quella di parlamentare e quella di presidente provincia­le. La legge dice che il presidente di una Provin­cia o il sindaco di una città con oltre 20 mila abitanti non può essere eletto parlamentare? Sì, ma non dice il contrario. Così i casi di dop­pio o triplo incarico si sono moltiplicati. Ades­so sono nove, di cui sei pidiellini: c’è il presi­dente foggiano Antonio Pepe, quella astigiana Maria Teresa Armosino, quello avellinese Cosi­mo Sibilia, quello salernitano Edmondo Ciriel­li, quello napoletano Luigi Cesaro, quello cio­ciaro Antonio Iannarilli... Poi ci sono gli «ubi­qui » della Lega: il presidente biellese Roberto Simonetti, quello bergamasco Ettore Pirovano e quello bresciano Daniele Molgora, che è an­che sottosegretario all’Economia: un esempio di trilocazione mai tentato neppure dal santo fachiro Sai Baba capace al massimo di apparire insieme nell’Andra Pradesh e a Toronto. Chie­derete: ma come fa uno a stare in tre posti di­versi? La risposta la può forse suggerire lo stes­so Pirovano. Il quale il 27 luglio scorso, mentre teneva la giunta a Bergamo, votava alla Came­ra a Roma materializzandosi grazie al tesserino usato al posto suo dal collega Nunziante Consi­glio. Il quale, pizzicato da Fini, disse: «Era un gesto innocente, pensavo stesse per arriva­re... ». Ma se di lunedì ha la giunta! «Oh signur, credevo fosse martedì...».

Sergio Rizzo
Gian Antonio Stella

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« Risposta #42 inserito:: Ottobre 19, 2009, 03:49:34 pm »

La denuncia a «Report» di due imprenditrici

Il distretto del divano di Forlì e l’assalto cinese: «Siamo un’altra Prato»

La magistratura apre un’inchiesta per «turbativa del commercio e dell’industria»


ROMA — Mancano soltan­to i drappi rossi come quelli che i cinesi di Prato appendo­no fuori dal capannone appe­na conquistato, perché tutti sappiano che i lavoratori ita­liani sono andati via e ades­so ci sono loro. Ma per i pic­coli imprenditori e gli arti­giani di quel distretto roma­gnolo del divano, un tempo ricco e fiorente, il fantasma della città toscana si è mate­rializzato già da tempo. «Se va avanti così ci ritroviamo come a Prato», è sbottata da­vanti alle telecamere di Re­port Elena Ciocca, piccola imprenditrice che quello spettro l’ha visto da molto vi­cino.

Ed è diventata, insieme a un’altra donna imprenditri­ce come lei, Manuela Amado­ri, protagonista e simbolo di una battaglia contro un siste­ma di illegalità e connivenze che sta mettendo in ginoc­chio una intera provincia. La stampa locale l’ha già battez­zata Divanopoli, oppure Di­vani puliti. E non a caso. In­torno a Forlì c’è il distretto del divano, uno dei più im­portanti d’Italia, andato in crisi ancora prima che la tempesta finanziaria partita dagli Usa investisse l’Italia. Ma non una crisi di mercato o di commesse: il mercato delle poltrone e dei divani tiene e le commesse non hanno subito particolari fles­sioni. Da qualche anno però, ha raccontato l’inchiesta di Report andata in onda su Rai tre ieri sera, le piccole im­prese italiane che lavorano per le grandi marche nazio­nali o francesi, come Poltro­nesofà o Roche Bobois chiu­dono a ripetizione, lascian­do a casa i lavoratori.

Perché al loro posto, an­che qui, sono arrivati i cine­si. Poche regole o nessuna re­gola, lavoratori formalmen­te part-time che in realtà si trovano in situazioni ai confi­ni dello schiavismo. Una in­filtrazione rapida e profon­da, che ha ben presto messo fuori mercato le piccole im­prese locali impossibilitate a seguire la picchiata dei prez­zi. Al punto che qualche «ter­zista » italiano, per non resta­re tagliato fuori, prende le commesse e le passa alle dit­te controllate dal Dragone.

Risultato: già nel 2006 nel distretto del «mobile imbot­tito» di Forlì avevano chiuso i battenti 50 imprese italia­ne, mentre il numero delle ditte cinesi aumentava del 135%. Senza che questo feno­meno, come del resto è acca­duto a Prato, avesse destato particolare attenzione. Nel­l’anno in questione c’erano stati 12 controlli del locale ispettorato del lavoro. Ma an­che se i 12 controlli avevano fatto scoprire ben 314 illeci­ti, 110 lavoratori irregolari e 23 clandestini, questo non aveva destato alcun allarme. Tanto che nel 2007 i control­li dell’ispettorato del lavoro, ha rivelato l’inchiesta di Report condotta da Sa­brina Giannini, si era­no ridotti a cinque.

Tutto questo men­tre Elena Ciocca e Manuela Amadori tempestavano sin­dacati, ispettorato del lavoro e le as­sociazioni impren­ditoriali. Denunce cadute a quanto pare nel vuoto, finché un espo­sto non è arrivato al questore Calogero Ger­manà e le due imprenditrici sono state chiamate a rende­re la loro testimonianza. A quel punto è scoppiato il ca­so. Il sostituto procuratore della Repubblica di Forlì, Fa­bio Di Vizio, ha avviato un’in­dagine che ipotizza ben 78 violazione del codice penale: dal mancato rispetto delle norme di sicurezza alla tur­bativa di mercato. Secondo Report , l’indagine ha coin­volto almeno tre imprese ita­liane (Polaris, Cosmosalotto e Tre Erre) che lavorano di­rettamente o indirettamente per le multinazionali della poltrona. E si è conclusa nei giorni scorsi con un esito cla­moroso. «Turbativa del com­mercio e dell’industria» è l’ipotesi di reato confermata al termine dell’inchiesta giu­diziaria. Una ipotesi suffraga­ta anche dall’esistenza, affer­mano i magistrati, di una «società di fatto» fra alcuni imprenditori italiani che avrebbero fornito alle ditte cinesi capannoni e macchi­nari, e le ditte cinesi che avrebbero fornito agli im­prenditori italiani prodotti a prezzi stracciati. Ma in atte­sa che la giustizia faccia il suo corso, nel distretto del divano forlivese è cambiato poco o nulla. Le ditte cinesi coinvolte nell’inchiesta, ha documentato la trasmissio­ne di Milena Gabanelli, han­no cambiato ragione sociale: e così continuano a lavorare per gli stessi committenti ita­liani.

Sergio Rizzo

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« Risposta #43 inserito:: Ottobre 29, 2009, 10:29:02 am »

 Il nuovo saggio di Brunetta. Che apre alle «differenze di salario»

«Per il Sud nuova spedizione dei Mille»

Il titolare della Pubblica amministrazione: lì non applicabili le regole del Nord sul mercato del lavoro


ROMA — «Ogni libro sull’arretra­tezza del nostro Sud dovrebbe essere l’ultimo. Questo, invece, è il mio se­condo, e ciò segnala un evidente falli­mento della politica». Il saggio che l’editore Donzelli manda in libreria da domani, 30 ottobre con il titolo Sud, un sogno possibile (207 pagine, 16 eu­ro) si apre con questo singolare mea culpa . Perché, pur essendo un econo­mista, e personalmente di certo non responsabile del disastro del Mezzo­giorno, l’autore del libro, cioè Renato Brunetta, ha responsabilità politiche in un partito che da quando lui è stato eletto al Parlamento europeo, nel 1999, ha governato l’Italia per oltre il 60% del tempo.

Non per questo risparmia qualcu­no. Per il ministro della Funzione pub­blica il fatto che a distanza di ses­sant’anni dalla Cassa del Mezzogior­no, il prodotto interno lordo pro capi­te del Sud sia ancora del 40% inferiore a quello del resto d’Italia, gli studenti meno preparati, le infrastrutture scar­se e malandate, il lavoro manchi e la criminalità la faccia da padrone, è la certificazione che «a fallire è stata la classe dirigente italiana, che non è sta­ta in grado di adattare le politiche e le misure previste per il Nord e per l’Eu­ropa alla particolare realtà meridiona­le ». Sostiene Brunetta che fin dall’uni­tà d’Italia non si tiene mai conto del Sud «quando si prendono le grandi decisioni nazionali: dalla scelta euro­pea all’abolizione delle gabbie salaria­li, dallo Statuto dei lavoratori all’in­gresso nello Sme...» E non cita a caso le gabbie salariali, che sono state il ca­vallo di battaglia estivo della Lega di Umberto Bossi.

Brunetta ricorda che nel 1968 venne introdotta la fiscalizza­zione degli oneri sociali per le fabbri­che del Sud. «C’è da dire però», ag­giunge, «che tale provvedimento ave­va in gran parte natura compensativa della contemporanea abolizione, for­temente voluta dal sindacato, delle differenze provinciali di salario che avevano, fino ad allora, tenuto più basso e sensibilmente differenziato il costo del lavoro al Sud». Scrive più avanti il ministro: «Di nuovo, dopo cent’anni, si pensava illuministica­mente che nuove regole comuni, e magari molto avanzate, come quelle nel mercato del lavoro, nella contrat­tazione e nei diritti dei lavoratori, avrebbero positivamente forzato l’eco­nomia del Sud. Si finì con l’ottenere, ancora una volta, esattamente l’effet­to opposto, Le regole, inapplicabili, del Nord sul mercato del lavoro e sul­le relazioni industriali produssero un sempre più profondo allontanamento del mondo del lavoro meridionale da quello del resto del Paese, attraverso il dilagare strutturale di attività som­merse, irregolari, marginali e preca­rie. Più le regole del Nord non erano applicabili, più cresceva il dualismo e la domanda sia di incentivi che di tra­sferimenti ». Non esiste purtroppo la controprova circa il fatto che con il permanere di condizioni diverse ri­spetto al Nord la situazione del Sud oggi sarebbe migliore. Ma non serve la controprova per «riconoscere», co­me fa Brunetta, «che il Sud ha, essen­zialmente e prioritariamente, bisogno di una nuova classe dirigente».

Come attuare il rinnovamento? «La qualità di un territorio la fa la sua gen­te », dice. Auspicando un «program­ma poliennale di investimenti anche e soprattutto in capitale umano che abbia come obiettivo il superamento del gap di legalità e fiducia nelle aree più a rischio del Mezzogiorno». Tene­tevi forte: «Detto in altri termini», pro­voca il ministro, «serve una nuova spedizione dei Mille». Una invasione che dovrà puntare, come fece Garibal­di, sugli insorti locali. Stavolta nella pubblica amministrazione. «Mentre si cercheranno al Nord funzionari e di­rigenti pubblici esperti e capaci da in­viare al Sud», dovrà scattare quella che Brunetta chiama l’«Operazione Rosolino Pilo», dal nome del patriota siciliano che nel 1860, a prezzo della vita, spianò la strada alla conquista di Palermo, per «la creazione al Sud di una rete che finora non è esistita, fat­ta di dirigenti e funzionari preparati e onesti».

Immaginiamo le reazioni. Perché Brunetta non si limita alle ricette per la sua pubblica amministrazione, ma interviene anche sulla Banca del Sud, sui problemi ambientali, sulle caren­ze delle infrastrutture. E si dà il caso che questo libro esca proprio mentre il fronte meridionale ha diviso in due il governo: da una parte Giulio Tre­monti, dall’altra Claudio Scajola, Stefa­nia Prestigiacomo, Raffaele Fitto e Gianfranco Micciché. Le ferite sono ancora aperte.

Sergio Rizzo

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« Risposta #44 inserito:: Novembre 09, 2009, 03:05:01 pm »

Con le liberalizzazioni conquistò Confindustria e si fece nemici a destra e a sinistra

Bersani, ecco il tavolo dei suoi poteri forti

Da Epifani a Montezemolo, da Catricalà a Colaninno a Vittadini: i supporter e le possibili sponde a sorpresa


S'interrogavano sbigotti­ti, Dario Franceschini e i suoi, a proposito del­l’incredibile dispiega­mento di mezzi a favore di Pier Luigi Bersani nella campagna elettorale per la segreteria del Partito democratico, con l’Italia tappezzata di manifesti. Arrivan­do alla conclusione che l’«appa­rato » del vecchio Pci lavorava a pieno ritmo. Una macchina organizzativa micidiale, che non avrebbe da­to scampo agli avversari del «Mi­gliore », come ironizzò dopo il successo alle primarie l’eurode­putato pidiellino Mario Mauro, rivolgendo un perfido augurio di «buon lavoro al novello To­gliatti ». Forse la prima volta che qualcuno nel centrodestra ha accostato Bersani a un capo co­munista.

LIBERALIZZAZIONI - Pensare che Silvio Berlusconi in persona un giorno del 2007 gli fece pubblicamente i compli­menti: «È uno dei più bravi». E un’altra volta lo indicò come l’unico ministro di centrosini­stra che avrebbe accolto nella propria squadra di governo. Inutile dire che Bersani corte­semente declinerebbe l’invito. Ma in un governo delle liberaliz­zazioni il nuovo segretario del Pd non sfigurerebbe certamen­te. Convinto che «liberalizzare è di sinistra», Bersani è stato spes­so boicottato nella sua stessa maggioranza: da sinistra come da destra. Al punto che dopo due anni molto delle sue «len­zuolate » è rimasto sulla carta. Ep­pure era quello il frutto di un’al­leanza strategica con il presiden­te dell’Antitrust Antonio Catrica­là, uno dei suoi migliori sosteni­tori. Eppure, al fianco aveva lo sta­to maggiore della Confindustria. «Siamo pronti a dare il massimo supporto a Bersani», disse Luca Cordero di Montezemolo quan­do arrivò la prima lenzuolata. Nel marzo 2008, quando il gover­no di centrosinistra stava esalan­do gli ultimi respiri, i due rievo­carono così i due anni trascorsi dai lati opposti della barricata. Bersani: «Ringrazio Montezemo­lo del confronto, spesso anima­to, ma sempre civile. Abbiamo cercato di fare ciascuno qualco­sa di buono». Montezemolo: «Posso contare sulle dita le volte in cui non mi sono trovato d’ac­cordo con Bersani». Va detto che l’ex presidente degli industriali non è l’unico im­prenditore con cui il segretario del Pd ha un rapporto speciale. C’è anche il suo partner in varie iniziative, Diego Della Valle. E l’attuale presidente dell’Alitalia Roberto Colaninno, padre del de­putato Pd Matteo Colaninno (bersaniano), dieci anni fa prota­gonista della scalata a Telecom Italia. «Gli vanno riconosciuti dei meriti. Spero resti sulla sce­na », dichiarò Bersani quando nel 2001 Telecom Italia passò di mano. Una relazione inossidabi­le, come quella con la Lega delle cooperative di Giuliano Poletti. Mai ufficialmente schierata con Bersani, ma non per questo indif­ferente alla battaglia per la segre­teria del Pd.

DIVERSI FRONTI - Ma le lenzuolate bersaniane ebbero anche la sponda del go­vernatore della Banca d’Italia. Che fu ricambiato con un pub­blico apprezzamento: «Mi pare che Mario Draghi appoggi la no­stra linea di riforme sul massi­mo scoperto e la trasferibilità dei mutui». Affettuosità ripetute a proposito del «no» del gover­natore alle gabbie salariali in salsa leghista. È successo all’ulti­mo meeting di Cl, dove il segre­tario del Pd è ospite fisso fin da quando era presidente della Re­gione Emilia-Romagna. Ha tito­lato l’Ansa : «Il popolo di Cl inco­rona Bersani segretario Pd. A Ri­mini una platea amica che po­trà pesare sulle primarie». Se per la vittoria abbia dovu­to ringraziare anche il suo ami­co Giorgio Vittadini, fra i capi storici di Cl e fondatore del mee­ting di Rimini, nonché presiden­te della Fondazione per la Sussi­diarietà, è difficile dire. Certa­mente un ringraziamento spe­ciale è dovuto al segretario gene­rale della Cgil Guglielmo Epifa­ni. Nella campagna a favore di Bersani il suo sindacato si è im­pegnato a fondo. Tranne il se­gretario della funzione pubbli­ca Carlo Podda, erano tutti per lui. Dei dieci componenti della segreteria confederale ben sette, escludendo Epi­fani, Paola Agnello Modica e Morena Piccinini, si sono ad­dirittura candidati nelle liste a soste­gno di Bersani. Il paradosso è che i parlamentari provenienti dalla Cgil, a cominciare da Ser­gio Cofferati per arrivare a Pao­lo Nerozzi e Achille Passoni, ap­poggiavano invece Franceschi­ni. Paradosso che potrà avere ef­fetti sorprendenti. Per esempio che nella squadra di Bersani ci sia un posto per il deputato fran­ceschiniano Pier Paolo Baretta, ex numero due della Cisl, e nes­suno invece per i parlamentari ex Cgil. Non è neanche escluso, poi, che al fianco del nuovo segreta­rio possa essere chiamato un al­tro parlamentare più legato alla precedente segreteria, il veltro­niano Marco Causi, già assesso­re al bilancio del Comune di Ro­ma. Accanto, ovviamente, ai fe­delissimi di Bersani: Francesco Boccia, che nel 2005 contese a Nichi Vendola la candidatura al­la presidenza della Regione Pu­glia, e Stefano Fassina, ex consi­gliere economico di Vincenzo Visco, in precedenza capo della segreteria di Laura Pennacchi al Tesoro e coordinatore del Gramsci Ventunesimo, associa­zione che riunì 200 giovani pi­diessini a sostegno della linea di riforma del Welfare propu­gnata da Massimo D’Alema. Ov­vero, il più grande elettore di Bersani.

Sergio Rizzo

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