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Autore Discussione: SERGIO RIZZO  (Letto 134729 volte)
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« Risposta #240 inserito:: Novembre 26, 2015, 05:52:25 pm »

Il silenzio dei politici sul processo in Vaticano

Di Sergio Rizzo

Se c’è una cosa che i politici non negano mai a nessuno è una dichiarazione di solidarietà. Il che rende ancora più sconcertante il silenzio di governanti, capibastone e perfino peones di partito, al cospetto della vicenda che vede coinvolti Emanuele Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi. Due cittadini italiani inquisiti con modalità assolutamente pretestuose da una magistratura estera per aver rivelato nei loro libri fatti, peraltro mai smentiti, di assoluto interesse pubblico per tutti coloro che si professano cattolici: almeno un miliardo di persone. Anche senza voler rispolverare i fantasmi dell’Inquisizione, non c’è dubbio che il rinvio a giudizio disposto dai giudici vaticani per due giornalisti accusati solo di aver fatto il proprio lavoro emani uno sgradevole odore di Cancelleria e roghi di libri messi all’Indice. Tanto più perché i nostri concittadini sono privati di alcuni diritti fondamentali della difesa previsti in uno Stato democratico. Non possono essere rappresentati al processo da avvocati di fiducia, ma esclusivamente da quelli che seguono le cause davanti alla Sacra Rota. Né possono leggere le carte al di fuori degli uffici dei legali, meno che mai averne copia.

Dulcis in fundo, è già previsto che la sentenza venga emanata entro l’8 dicembre, data d’inizio del Giubileo. La condanna dunque appare già scritta. Su questa farsa non serve spendere altre parole. Dobbiamo invece farlo ancora sull’assordante silenzio dei nostri politici, così loquaci e striduli davanti alle telecamere dei talk show quando si litiga sul nulla. Un silenzio certo per qualcuno dettato da chissà quale calcolo, forse per altri dal momento particolare, e magari per altri ancora dalla sudditanza mai riposta nei confronti delle gerarchie clericali. Ma che ha il solo risultato di offendere sonoramente la nostra Costituzione. Dove, per chi non lo sapesse, c’è scritto: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero…».

26 novembre 2015 (modifica il 26 novembre 2015 | 07:51)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_novembre_26/silenzio-politici-processo-vaticano-5d5e1238-9406-11e5-be1f-3c6d4fd51d99.shtml
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« Risposta #241 inserito:: Dicembre 19, 2015, 05:28:51 pm »

IL CORSIVO DEL GIORNO

Un registro delle presenze al Consiglio dei Ministri
I verbali dei Consigli dei ministri sono coperti da segreto.
Così come l’elenco dei presenti alle riunioni, anch’esso oggi grottescamente secretato

Di Sergio Rizzo

Un suggerimento a Matteo Renzi: se non vuole pubblicare sul sito di Palazzo Chigi i verbali dei Consigli dei ministri, che con nostra grande sorpresa abbiamo scoperto essere coperti da segreto (!) ci metta almeno l’elenco dei presenti alle riunioni, anch’esso oggi grottescamente secretato (!!). Si eviterebbero così certi sospetti su decisioni che coinvolgono interessi personali dei membri del governo. Sarebbe per esempio del tutto legittimo sapere se alle riunioni in cui il Consiglio ha discusso dei provvedimenti bancari che riguardano anche Banca Etruria c’era il ministro Maria Elena Boschi, figlia del vicepresidente di quell’istituto, Pier Luigi Boschi. Lei nega, ma c’è chi non le crede. E il comunicato stampa, unico documento ufficiale di quella riunione, non scioglie un dilemma che invece si risolverebbe con un po’ di trasparenza. Concetto, però, al quale la nostra politica continua a essere fieramente allergica, soprattutto quando c’è in ballo il conflitto d’interessi.

Prova ne è l’assurdo numero di leggi (almeno sei) con cui è stato infarcito il nostro ordinamento: tutte tese a contrastare quel virus nella forma senza però colpirlo nella sostanza. La prima risale al 1947, seguita nel 1953 dalle norme sulle incompatibilità parlamentari, nel 1957 dal testo unico che regola i rapporti fra i politici e le concessioni, nel 2000 dalla legge sugli enti locali, nel 2004 dalla legge Frattini e nel 2012 dalla legge Severino con relativa valanga di decreti attuativi.

Una bulimia normativa che non ci ha impedito di detenere ancora oggi il record di Paese occidentale con il sistema politico più imbevuto di conflitto d’interessi. L’esatto contrario di nazioni nelle quali quel cancro viene combattuto sul serio e dove, come nel Regno Unito, a nessuno è mai venuto in mente di fare una legge. Semplicemente perché non ce n’è bisogno. Come non c’è bisogno di secretare i verbali delle riunioni di governo.
18 dicembre 2015 (modifica il 18 dicembre 2015 | 07:38)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_dicembre_18/registro-presenze-consiglio-ministri-42606f20-a54b-11e5-a238-fd021b6faac8.shtml
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« Risposta #242 inserito:: Dicembre 19, 2015, 05:37:12 pm »

L’editoriale
Le banche e l’ipocrisia dei moduli
Il funzionario di Banca Etruria che disse al pensionato suicida: «Le pare che se fosse una truffa le farei tenere tutti questi soldi lì?»

Di Sergio Rizzo

C’è una frase, nei resoconti del tragico suicidio del pensionato di Civitavecchia, che dice tutto a proposito del dramma di chi ha perso i risparmi investendo nelle obbligazioni subordinate. È attribuita a quel funzionario di Banca Etruria a cui Luigi D’Angelo si era rivolto per sentirsi rassicurare dopo aver ricevuto la lettera con la quale gli comunicavano che il «profilo di rischio» del suo investimento era peggiorato assai. «Le pare che se fosse una truffa le farei tenere tutti questi soldi lì?», gli dice il funzionario. E vogliamo credere che fosse in buona fede, almeno se è vero che anche i suoi genitori, come si premura di precisare, avrebbero comprato gli stessi titoli.

Ma le sue parole rivelano quanto sia profonda l’ipocrisia occultata dietro certi formalismi. Chiunque oggi voglia investire i risparmi subisce in banca un lungo interrogatorio teso ad accertare la sua propensione al rischio, e deve poi sottoscrivere un questionario chilometrico spesso incomprensibile se non agli investitori professionisti. E siccome costoro non hanno alcun bisogno di compilare questionari, va da sé che la procedura riguarda esclusivamente i semplici risparmiatori, anche quelli che mettono da parte poche migliaia di euro.

La firma sotto quel documento serve ad ammettere la propria ignoranza in materia di investimenti finanziari e a liberare quindi la banca da ogni responsabilità. Se il questionario dice che puoi al massimo acquistare dei Bot avendo precisa consapevolezza di ciò che stai acquistando, e invece poi compri delle obbligazioni subordinate, sono fatti tuoi. Eri stato avvertito.

Ecco la risposta che il sistema ha dato agli scandali Cirio e Parmalat, nonché alle vergognose scorribande dei tanti titoli spazzatura che hanno massacrato per anni, a cominciare dai famosi bond argentini, i risparmiatori italiani. Peccato che tale risposta abbia il solo scopo di mettere le banche al riparo dalle conseguenze giudiziarie senza tutelare concretamente la generalità dei risparmiatori. Quanti di loro, dopo aver firmato l’ammissione di assoluta ignoranza, hanno poi fatto investimenti rischiosissimi, convinti allo sportello da argomentazioni come quelle usate, magari in buonafede, con Luigi D’Angelo? E quanti sono stati invece vittime di una strategia in piena regola, che non prevedeva nemmeno la buonafede? Il fatto è che i formalismi introdotti a salvaguardia delle banche non hanno onorato il compito che ci si doveva aspettare, ovvero garantire l’assoluta trasparenza su ciò che viene venduto ai risparmiatori, assolvendo perfino certe discutibili modalità con cui determinati prodotti vengono piazzati ai più fragili e incauti.


Il commissario europeo ai servizi finanziari Jonathan Hill ieri si è spinto a dire che le quattro banche hanno venduto «prodotti non adatti a persone che forse non sapevano cosa stessero comprando», proprio come ai tempi dei bond Cirio e Parmalat. E non è una coincidenza, sostengono gli osservatori più esperti, se il fenomeno è andato diffondendosi negli ultimi tempi più nei piccoli centri e negli istituti di provincia. Che il mancato salvataggio delle quattro banche avrebbe avuto conseguenze ancora più gravi, come afferma il governo, può forse essere vero. Ed è inaccettabile che l’Unione Europea, dopo che la Germania ha impiegato 270 miliardi di risorse pubbliche per evitare (e in certi casi a più riprese) il crac delle proprie banche, opponga ora questioni di lana caprina a questo intervento. Ma è altrettanto palese che non ci si può illudere di risolvere così il problema, facendo pagare il conto più grosso ai risparmiatori e ad azionisti nella grande maggioranza, riteniamo, alquanto ignari. Soprattutto perché sarebbe socialmente insopportabile il ripetersi di fatti simili, su scala simile. E qui è innanzitutto il sistema bancario a doversi far carico delle proprie responsabilità: le ipocrisie formali non servono a nulla se il rapporto con la clientela non è limpido. Quanto al governo e alla Banca d’Italia grava su di loro il compito di garantire ai risparmiatori che la trasparenza sia un dogma irrinunciabile per chiunque venda loro un qualsiasi prodotto finanziario. Con pene esemplari, e applicate veramente, in caso contrario. Soltanto così, dopo questo ennesimo scandalo, si potrà ristabilire davvero la piena fiducia nel mercato.

11 dicembre 2015 (modifica il 11 dicembre 2015 | 08:04)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_11/banche-l-ipocrisia-moduli-f501297e-9fd0-11e5-9e42-3aa7b5e47d96.shtml
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« Risposta #243 inserito:: Dicembre 26, 2015, 11:19:28 pm »

Le norme
Casinò, calciatori, festival, cori e bande: stabilità, le mance di una legge da 35 miliardi
Risorge la vecchia finanziaria delle lobby sotto le ceneri della «Stabilità».
Nove milioni andranno a Campione d’Italia dove la casa da gioco ha perso 105 milioni


Di Sergio Rizzo

Il buon Natale agli elettori siciliani l’ha regalato il deputato democratico loro conterraneo Angelo Capodicasa. Con un emendamento ha fatto prorogare per un anno i contratti di settemila precari nei Comuni falliti o sull’orlo del dissesto. «E senza neppure dover attendere il milleproroghe!» ha esultato l’onorevole che fu per una breve stagione, alla fine degli anni Novanta, addirittura presidente della Regione siciliana. Ma sul fatto che assomigli tanto alla solita grande operazione clientelar-assistenziale c’è poco da esultare. Esattamente come per i 20 milioni elargiti dalla medesima legge di Stabilità ai forestali calabresi. Ancora una volta, come sempre, da tempo immemore. A dimostrazione del fatto che non basta cambiare il nome a una legge perché la legge cambi davvero.

Correva l’anno 2009 e Giulio Tremonti descriveva l’assalto alla diligenza che stava accompagnando la legge di bilancio in parlamento per l’ennesima volta come «un film dell’orrore che non vogliamo più proiettare». Mesi più tardi la finanziaria diventava così «legge di Stabilità». Un provvedimento «totalmente tabellare», ispirato quindi alle sobrie leggi di bilancio britanniche inemendabili, precisava l’ex ministro dell’Economia che vedeva materializzarsi un sogno inseguito dal 2002. Ma che invece continua a rivelarsi, anno dopo anno, un autentico incubo.

La prima finanziaria risale al 1978: sessanta articoli e quattro tabelle. Da allora è stato un crescendo inarrestabile fino ai 1.364 indecifrabili commi della legge di bilancio 2007, la prima del secondo governo Prodi. A nulla sono serviti gli appelli del Colle, da quel messaggio alle Camere trasudante indignazione di Carlo Azeglio Ciampi nel 2004, alle reprimende del suo successore Giorgio Napolitano. E la parolina magica, «stabilità», si è rivelata una illusione assoluta.

Alla faccia della stessa norma grazie alla quale la vecchia finanziaria è diventata cinque anni fa «legge di Stabilità», e secondo cui il provvedimento di bilancio non può contenere disposizioni localistiche o microsettoriali, oggi la seconda «legge di Stabilità» targata Renzi si avvia a salire sul podio delle finanziarie più obese della storia. È entrata infatti in aula alla Camera con 993 commi. Appena dietro i 1.364 della legge di bilancio 2007 e i 1.193 di quella dell’anno seguente. Una creatura mostruosa uscita da quello che ha definito «un suk indecente in commissione bilancio» il capogruppo di Forza Italia Renato Brunetta. Che però deve aver scordato l’indecenza del medesimo suk quando era il suo partito a menare la danza.

La prova che si sapeva fin dall’inizio come sarebbe andata a finire, del resto, sta tutta in quello che si chiama «fondo per gli interventi strutturali di politica economica»: 150 milioni a disposizione della Camera e altrettanti del Senato per soddisfare le richieste degli onorevoli. Con la presenza di quell’aggettivo, «strutturali», che conferisce amara comicità a questo serbatoio delle marchette parlamentari.

Ecco allora spuntare, accanto a cose che molto hanno fatto discutere come i 500 euro ai diciottenni e i 100 milioni del 2 per mille alle associazioni culturali, anche 9 milioni per il comune di Campione d’Italia: dove la locale casa da gioco in dieci anni ha perso 105 milioni. Perdite, quelle sì, «strutturali». È l’emblema della morale a doppio senso di uno Stato che mentre dice di voler colpire il gioco d’azzardo ripiana le perdite del casinò di proprietà di una società pubblica. Per giunta avendo stabilito che gli enti locali devono cedere le partecipate non coerenti con l’attività istituzionale. E c’è forse qualcosa di meno coerente di un casinò?

Impossibile che in cima all’elenco delle mance impietosamente compilato dal Movimento 5 Stelle non finisse quel finanziamento. Insieme ai 20 milioni per i collegamenti aerei con la Sicilia, ai 15 del Fondo per la montagna, ai 10 del Comitato per le Olimpiadi di Roma 2014, ai 10 per Radio Radicale, ai 5 per la bonifica della Valle del Sacco, allo sconto fiscale sulla compravendita dei calciatori... Per non parlare di briciole ancora più minute contenute in quella lista. Come i soldi per finanziare festival, cori e bande: 3 milioni in tutto. O il milioncino al Club alpino e al Centro ricerca Ebri, i 500 mila euro alla Fondazione Maxxi e all’Istituto Suor Orsola di Benincasa, i 300 mila per la sopravvivenza della società Dante Alighieri, fino ai 70 mila al museo della civiltà istriano-fiumano-dalmata. Interventi, ne siamo sicuri, in qualche caso anche doverosi al di là delle scontate critiche grilline. Ma che con la «legge di Stabilità» c’entrano come i cavoli a merenda.

20 dicembre 2015 (modifica il 21 dicembre 2015 | 11:06)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_dicembre_20/casino-calciatori-festival-cori-bande-stabilita-mance-una-legge-35-miliardi-58f7574c-a6ec-11e5-9876-dad24a906df5.shtml
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« Risposta #244 inserito:: Gennaio 25, 2016, 11:30:41 pm »

L’INCHIESTA

Un euro di imposte per ogni litro
In Italia la benzina più cara d’Europa
Rispetto al 2008 il costo del barile è sceso del 19%, ma le accise sono aumentate del 46%.
Date le quotazioni attuali del greggio, alla pompa non dovrebbe superare i 44 centesimi, ma poco meno del 70% va dritto al fisco


Di Sergio Rizzo

Si mettano l’anima in pace, gli automobilisti. Perché se anche il prezzo del petrolio dovesse sfondare il suo minimo storico, che fu toccato il 10 dicembre 1998 quando le quotazioni del brent calarono a 9 dollari e 55 centesimi, mai e poi mai la benzina costerà meno di un euro al litro. Sospettano i maligni che sia tutto un gioco delle compagnie petrolifere, lestissime a rincarare se il greggio sale e invece lentissime a tagliare se il greggio scende. Nel conto c’è da mettere pure questo, ad essere sinceri.

Ma la vera colpa ce l’hanno le tasse. Negli ultimi anni, con un processo carsico, sfuggito quindi all’attenzione di quasi tutti gli italiani, il gravame fiscale sui carburanti è salito in modo vertiginoso, inarrestabile e furbesco. Al punto che oggi le imposte rappresentano ben oltre i due terzi del costo alla pompa di un litro di gasolio. La pervicacia con cui il fisco si è accanito sui derivati del petrolio viene fuori con tutta la sua arrogante evidenza da un confronto che ha fatto l’ufficio studi della Confartigianato diretto da Enrico Quintavalle fra i prezzi attuali e quelli di sette anni fa. Quando il costo del petrolio sui mercati internazionali era pressoché agli stessi livelli. Allora, nel dicembre 2008, tenendo conto che la moneta europea era decisamente più forte di oggi sul dollaro, le quotazioni del brent si attestavano intorno ai 29 euro e il prezzo medio alla pompa del gasolio per autotrazione era di un euro e 111. Oggi, con un costo medio del petrolio a circa 30 euro, il prezzo medio della nafta è invece di un euro e 251: il 12,6% in più. E questo, si badi bene, nonostante il prezzo al netto delle imposte sia del 18,8 per cento inferiore. Il che significa un rincaro del 31,4% esclusivamente attribuibile alle tasse: niente affatto sorprendente, se si pensa che in 7 anni le accise sono cresciute del 46% e il carico dell’Iva è aumentato a sua volta del 21,8 per cento. Grazie anche a un marchingegno tutto da spiegare.

Nel dicembre 2008 le accise pesavano su un litro di gasolio per 42,3 centesimi. C’erano poi da sommare 18,53 centesimi di Iva: non il 20 per cento (livello dell’aliquota dell’imposta sul valore aggiunto allora vigente) rispetto ai 50,34 centesimi che all’epoca costituivano il prezzo della nafta al netto del carico fiscale, bensì quasi il doppio. Esattamente, il 36,8 per cento. La ragione? L’Iva non si applica soltanto sul prodotto industriale, ma anche sulle accise: con il risultato surreale che qui si tassano anche le tasse, per la maggior gloria del fisco.
A conti fatti, le imposte, più naturalmente le imposte sulle imposte, toccavano 60,82 centesimi, il 57,4%del totale. Mentre ora si è arrivati a 84,31, e siamo al 67,4%del totale. Una differenza di quasi 23,5 centesimi per litro, che proiettata sulle 22 milioni di tonnellate di gasolio consumate annualmente in Italia significa per il fisco un maggiore introito di quasi 5,2 miliardi di euro ogni 12 mesi. E non è cosa da poco, soprattutto considerando il subdolo meccanismo che abbiamo raccontato. Il solo effetto delle tasse sulle tasse è di quasi 14 centesimi al litro, pari a circa 3 miliardi di euro sui consumi totali di gasolio.

Poi c’è la benzina, e le cose non vanno assolutamente meglio. Perché qui le accise gravano su un litro per 72,8 centesimi, e se si aggiunge anche l’Iva, considerando anche in questo caso l’impatto delle tasse sulle tasse, il peso del prelievo fiscale sfiora un euro su un costo medio alla pompa di un euro e 421. Dato che senza imposte e con le quotazioni attuali del greggio un litro di benzina non dovrebbe costare più di 44 centesimi, se ne deduce che poco meno del 70%del prezzo finale va al fisco.

La conclusione a cui arriva l’ufficio studi della Confartigianato è che i consumatori italiani pagano il gasolio più caro di tutta Europa, con le uniche eccezioni di Svezia e Regno Unito, nonostante un costo nudo e crudo del carburante che è appena al ventesimo posto nel continente. E pagano anche la benzina più cara di tutta l’Unione, escludendo i soli Paesi Bassi. Negli Stati Uniti un litro costa 47 centesimi di euro, in Arabia Saudita 23 centesimi.

Né manca una beffa finale: perché la differenza fra il nostro prezzo della «verde» e la media europea, pari a un euro e 273, è dovuta interamente a quel meccanismo perverso dell’Iva calcolata anche sulle accise di cui abbiamo parlato. Un fatto francamente inaccettabile, da far inorridire anche la costituzione.

23 gennaio 2016 (modifica il 23 gennaio 2016 | 08:14)
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Da - http://www.corriere.it/cronache/16_gennaio_23/euro-imposte-ogni-litro-italia-benzina-piu-cara-d-europa-abacbd4e-c19d-11e5-b5ee-f9f31615caf8.shtml
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« Risposta #245 inserito:: Gennaio 30, 2016, 12:37:27 pm »

CONTRIBUITI ALL’EDITORIA

Dieci milioni al giornale che «fabbricava» pubblicisti In 6 anni i soldi pubblici sono arrivati al «Corriere laziale», piccolo giornale sportivo romano che ha sfornato 560 tesserini: esposto dell’ordine dei giornalisti

Di SERGIO RIZZO

Dieci milioni 254.825 euro di soldi pubblici. Tanti ne ha incassati in sei anni, dal 2006 al 2011, un piccolo giornale sportivo romano che fa capo a una cooperativa, la Edilazio ‘92. Si chiama Corriere laziale, e in quanto vestito da coop è stato ammesso a godere delle laute provvidenze a carico dei contribuenti previste dalle leggi per l’editoria. Piccolo, ma dotato di una impressionante produttività di tessere professionali, considerando che ha sfornato da solo qualcosa come 560 (cinquecentosessanta!) pubblicisti.

Come sia stato possibile, è scritto in un esposto che la presidente dell’ordine dei giornalisti di Roma, Paola Spadari, ha presentato alla Procura della Repubblica. Con tanto di testimonianze e verbali. Nella denuncia si ricorda come l’ex direttore responsabile Eraclito Corbi, amministratore unico della cooperativa editrice del giornale nonché marito dell’attuale direttore Marcella Coccia, e per giunta già consigliere nazionale dell’ordine, sia stato sospeso per un anno dall’albo in seguito a un provvedimento disciplinare avviato dal predecessore di Paola Spadari, Bruno Tucci, decano del Corriere della Sera. Decisione confermata la scorsa primavera in secondo grado. Con una sanzione che sarebbe stata ancora più pesante, si dice nelle carte, se non esistesse quella regola piuttosto singolare per cui le sentenze dei ricorsi contro i provvedimenti disciplinari dell’ordine dei giornalisti non possono risultare peggiorative.

Quale l’accusa? Quella di aver messo in piedi una specie di fabbrica di pubblicisti, con una catena di montaggio funzionante a pieno ritmo. Ma a spese degli operai. La tesi fatta propria dal consiglio di disciplina dell’ordine è che il giornale reclutava giovani aspiranti giornalisti da impiegare per realizzare le cronache degli avvenimenti sportivi locali nel Lazio. Il loro compenso? Spiegano gli atti che consisteva solo nella documentazione necessaria per avere la sospirata iscrizione all’albo, che per i pubblicisti consiste in un certo numero di articoli pubblicati, a patto che siano regolarmente retribuiti. E questo è l’aspetto più delicato della faccenda, perché fra le testimonianze raccolte durante l’istruttoria sfociata nella sanzione inflitta a Corbi, c’è anche quella di chi ha dichiarato di aver dovuto firmare attestazioni di pagamenti mai avvenuti. Per il consiglio di disciplina il meccanismo sarebbe stato gestito da un’impresa familiare in piena regola, con l’ex direttore coadiuvato dai tre figli. Il tutto, con il corollario di quei generosi contributi pubblici incassati in sei anni.

La nuova presidente dell’Ordine di Roma ha ora ritenuto che ci fossero gli estremi per far uscire la vicenda dal recinto professionale, investendone i pm. In un clima di guerra totale con il Corriere laziale. Perché quel giornale specializzato nel seguire le serie calcistiche minori si sta impegnando a fondo da settimane in uno sport completamente diverso e del tutto inedito: il tiro all’Ordine. Ultimo capitolo, il titolone a tutta pagina del numero nel quale si riprende un articolo pubblicato una decina di giorni fa dal Fatto Quotidiano che dava conto di rilievi sollevati da uno dei sindaci revisori su certe voci di spesa: «Odg sotto accusa. Quanti sprechi!». La battaglia infuria, senza esclusione di colpi. Non passa giorno senza bordate all’indirizzo tanto di Paola Spadari, quanto del precedessore Tucci. Bordate in certi casi talmente eleganti da aver indotto la presidente a querelare il giornale. Mentre Corbi, abruzzese di Avezzano, l’avverte a mezzo stampa che da «lupo marsicano» si è trasformato «in cinghiale» pronto a caricare. E «credetemi», aggiunge, «le furie di un cinghiale sono spaventose» ...

21 marzo 2014 | 10:02
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Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/14_marzo_21/dieci-milioni-giornale-che-fabbricava-pubblicisti-9055b7b6-b0d4-11e3-b958-9d24e5cd588c.shtml
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« Risposta #246 inserito:: Maggio 09, 2016, 06:12:11 pm »

MIGRANTI
«Così l’immigrazione può diventare un’opportunità per l’Italia»
L’inchiesta di Report: basta cooperative, lo Stato gestisca i rifugiati utilizzando le caserme vuote Per accogliere 200 mila persone l’anno servirebbero 400 immobili

Di Sergio Rizzo

Quattrocentosettanta chilometri di filo spinato. Una lunghezza pari a quasi quattro volte quella del primo muro tirato su in Europa, 19 secoli fa: il Vallo di Adriano. Due millenni più tardi le barriere di reti e acciaio spuntano in tutto il Continente. Cento chilometri fra Bulgaria e Turchia, 175 fra Ungheria e Serbia, una trentina fra Austria e Slovenia, 166 fra Slovenia e Croazia. E dove non ci sono muri fisici ecco le frontiere, e alle frontiere le divise, i fucili spianati, i controlli. «Schengen è morto», sentenzia il deputato del partito del popolo danese Kenneth Kristensen Berth con l’inviata di Report Claudia Di Pasquale. Quel partito rappresenta la destra antieuropea, vero. Ma la realtà dei fatti è che la libera circolazione delle persone nel nostro continente non esiste più. L’emergenza immigrazione ha risvegliato pulsioni nascoste: egoismi e nazionalismi che rischiano di far naufragare gli ideali stessi alla base dell’Unione. In questa crisi senza precedenti dei principi che da sessant’anni ci tengono insieme, l’Italia è il classico vaso di coccio. Con ottomila chilometri di frontiere liquide, impossibili da controllare, e la rotta dei Balcani ormai sbarrata, l’urto dell’immigrazione è tutto sulle nostre spalle, oltre che su quelle della Grecia. Un problema enorme da fronteggiare. A meno che non diventi un’opportunità.
In che modo hanno provato a immaginarlo quelli di Report di Milena Gabanelli nella puntata che va in onda domenica sera su Raitre. L’idea è quella di riportare la gestione dei rifugiati nelle mani dello Stato. Basta con gli affidamenti a certe cooperative: la storia del Cara di Mineo insegna. Basta con i finanziamenti agli alberghetti trasformati in ostelli degradati. Basta con il torbido intreccio su cui si allunga l’ombra di interessi politico-affaristici.

Le strutture pubbliche
L’Italia è piena di strutture pubbliche che potrebbero essere utilizzate per i compiti di accoglienza dei rifugiati. Caserme vuote ce ne sono dappertutto, e molte neppure in condizioni pessime. Alcune hanno cucine e servizi igienici funzionanti. Oltre a locali utilizzabili per i corsi di lingua, educazione civica e formazione professionale. Per accogliere 200 mila persone l’anno servirebbero 400 immobili. Il costo per rendere idoneo a tale funzione questo patrimonio pubblico si potrebbe aggirare, secondo le stime degli esperti consultati da Report (fra cui l’urbanista Paolo Berdini), intorno ai 2 miliardi. Altri 2 miliardi e 165 milioni l’anno sarebbero necessari per il mantenimento delle strutture, compreso lo stipendio per 25 mila addetti e 400 medici. Chi pagherebbe? «Se l’Italia mettesse in piedi un piano nazionale complessivo e il governo lo facesse suo presentandolo ufficialmente agli organi europei competenti, sarebbe senz’altro recepito positivamente. Se sono necessari più soldi ne discutiamo nel dettaglio, i soldi ci sono», risponde il commissario europeo all’immigrazione Dimitris Avramopoulos a Giuliano Marucci di Report. Potrebbe pagare dunque l’Europa. I rifugiati richiedenti asilo sarebbero accolti in strutture adatte e organizzate nel nostro Paese, per poi essere smistati secondo le quote nei vari paesi: identificati, preparati, istruiti e coscienti dei diritti e dei doveri europei. In cambio, una volta finita l’emergenza, ci resterebbe un patrimonio immobiliare pubblico ristrutturato e di valore enormemente accresciuto. Conosciamo l’obiezione: per la politica (e la burocrazia) italiana è una sfida impossibile. E non è campata per aria. Ma perché non provarci?

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7 maggio 2016 (modifica il 8 maggio 2016 | 08:34)

Da - http://www.corriere.it/cronache/16_maggio_08/cosi-l-immigrazione-puo-diventare-un-opportunita-l-italia-c4d45364-1494-11e6-b0b7-529290156e84.shtml
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« Risposta #247 inserito:: Luglio 14, 2016, 04:55:13 pm »

Lo scontro fra treni in puglia
La grave sciagura della non politica
Sono stati realizzati i lavori per l’Alta velocità, in compenso, ci siamo del tutto e volutamente dimenticati della parte numericamente più rilevante dell’utenza, ovvero quei milioni di pendolari che prendono ogni giorno il treno. In condizioni non sempre degne del genere umano

Di Sergio Rizzo

In una sfolgorante mattina di luglio hanno ferito a morte l’Italia intera. Non l’Italia dell’Alta velocità, delle carrozze con le poltrone in pelle, sala cinema e prosecco ghiacciato. Ma l’Italia degli studenti, dei pendolari, dei pensionati, dei poliziotti. Non può consolare sapere che secondo le statistiche il sistema ferroviario italiano è considerato fra i più sicuri d’Europa. Né che una collisione del genere non si verificava da nove anni. E neppure che dei 59 morti per incidenti ferroviari nel 2015 (meno di un cinquantesimo rispetto alle vittime della strada) 57 sono stati travolti sui binari. Se la causa sia da ricercare nell’errore umano o degli strumenti, speriamo venga presto accertato. Ma un colpevole oggettivo lo conosciamo già: la sciagurata non politica del non trasporto pubblico.

L’ultimo rapporto Pendolaria di Legambiente ci dà un quadro desolante. Il servizio ferroviario regionale ha subito dal 2010 a oggi tagli valutabili nel 6,5 per cento, mentre le tariffe continuavano ad aumentare. È successo in tutta Italia, ma il Sud è stato letteralmente massacrato: -9,8 per cento in Abruzzo, -12,1 in Sicilia, -15,1 in Campania, -18,9 in Basilicata, -26,4 in Calabria... E anche se la Puglia se l’è cavata con un modesto -3,6, i biglietti sono comunque rincarati di oltre l’11 per cento. Questa storia viene da molto lontano. Comincia già negli anni immediatamente successivi all’unità d’Italia quando il Sud, con un livello di infrastrutture ferroviarie pari a un decimo del Centro-Nord, viene pesantemente penalizzato negli investimenti.

E continua dopo la Repubblica, quando al ferro dei treni (l’ideale per un Paese stretto e lungo, sostengono gli esperti), si preferisce la gomma delle auto e dei camion. Per arrivare al disastro definitivo con le Regioni, alle quali lo stato centrale demanda la gestione del trasporto locale. Il risultato? Investimenti irrilevanti e qualità del servizio penosa. Una situazione che prefigura, analogamente a quanto accade nella sanità, differenze rilevanti nei diritti costituzionalmente garantiti fra pezzi dello stesso Stato. Per non parlare delle conseguenze sugli stessi livelli di sicurezza.

Esistono ormai tecnologie tali da rendere il traffico ferroviario sicuro quasi al cento per cento, con sistemi capaci, in caso di pericolo, di bloccare automaticamente il convoglio. Che su quella linea della tragedia, peraltro ancora a binario unico nonostante un progetto di raddoppio partito addirittura nel 2007, non ci sono. Perché per averli bisogna investire: se i soldi non ci sono, o peggio ancora vengono sprecati come accadeva alle Ferrovie del Sud-Est nella stessa Puglia della tragedia del Barese, ecco che gli investimenti non si possono fare. Di conseguenza ci può andare di mezzo anche la sicurezza.

E qui viene fuori tutta la responsabilità della politica, incapace di concepire un disegno strategico per una funzione sociale così importante e delicata, che non sia quello dei tagli. Ricorda sempre Pendolaria che negli ultimi cinque anni sono stati chiusi 1.189 chilometri di ferrovie, con la soppressione di linee un tempo fondamentali per il Sud, come la Pescara-Napoli. Nel frattempo non si può dire che i cordoni della borsa siano rimasti sigillati. Tutt’altro. Abbiamo infatti costruito l’Alta velocità, anche se a un costo triplo rispetto a Paesi quali la Spagna e la Francia.

A parte quel dettaglio non esattamente trascurabile, da sommare ai vent’anni che ci sono voluti, siamo ovviamente felici che sia stata fatta. Almeno da questo punto di vista l’Italia si è avvicinata all’Europa. In compenso, ci siamo del tutto e volutamente dimenticati della parte numericamente più rilevante dell’utenza, ovvero quei milioni di pendolari che prendono ogni giorno il treno. In condizioni non sempre degne del genere umano. La mancanza di una seria politica del trasporto locale li ha precipitati in un girone dantesco fatto di carrozze sfasciate gelate d’inverno e roventi d’estate, convogli sudici, stracolmi e perennemente in ritardo. Un girone nel quale si accalcano operatori improbabili, non importa se pubblici o privati.

Il tutto in una demenziale ripartizione regionale frutto di un federalismo insensato e accattone. E se non esiste neppure un divario apprezzabile fra Nord e Sud (prova ne sia il fatto che dal 2010 sono state eliminate 15 linee in Piemonte, dove le tariffe sono salite del 47 per cento), di sicuro il Mezzogiorno è sempre più vicino all’Inferno. Adesso ascolteremo le promesse di rito. La cosa grave, temiamo, è che domani, dopo il dolore e i funerali, tutto tornerà come prima.

12 luglio 2016 (modifica il 12 luglio 2016 | 21:40)
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Da  -  http://www.corriere.it/opinioni/16_luglio_13/puglia-grave-sciagura-non-politica-10bded44-4866-11e6-9c18-dd6019c078c3.shtml
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« Risposta #248 inserito:: Novembre 05, 2016, 10:48:56 am »

IL CORSIVO DEL GIORNO
Non è l’Europa che fa crollare le scuole
Fa rabbia confrontare la situazione deprecabile in cui versa la nostra edilizia scolastica con il vergognoso spreco di fondi comunitari.
Altro che dare la colpa al patto di Stabilità

  Di Sergio Rizzo

Assai arduo sostenere, come ha fatto ancora Matteo Renzi, che «è impensabile» veder crollare le nostre scuole «per la stabilità europea». Perché questa non c’entra proprio nulla con gli edifici scolastici che vengono giù come castelli di carte a ogni scossa di terremoto. Non è certo responsabile il patto di Stabilità se nel 2002 la scuola di San Giuliano di Puglia ha schiacciato una intera prima elementare: unico edificio di quel paese a crollare. Come non si può imputare ai rigori di bilancio imposti da Bruxelles il crollo della scuola di Amatrice, peraltro oggetto di un «miglioramento antisismico» giusto prima del terremoto del 24 agosto.

Il presidente del Consiglio dovrebbe puntare piuttosto il dito contro la sconcertante indifferenza con cui il Paese tratta da decenni il proprio futuro. Già nel 2007 una indagine del governo di Romano Prodi aveva accertato che ben oltre metà degli edifici scolastici non era a norma. Proprio ieri Legambiente ha poi diffuso un rapporto sull’edilizia scolastica dal quale risulta che lo stato delle scuole nella regione Lazio, dove il rischio sismico è particolarmente elevato, risulta letteralmente disastroso. La provincia di Rieti, cui appartiene Amatrice, è al cinquantesimo posto fra tutte quelle italiane. La ragione? Pochi soldi, d’accordo, ma anche spesi male: con programmi eccessivamente frammentati e senza un coordinamento.

Una follia. Alla quale si è cercato ora di porre rimedio creando una unità di missione per gestire il piano da un miliardo e 680 milioni messo in campo dal governo. Di cui finora si è riusciti a impiegare 902 milioni. Quanto all’Europa, fa rabbia confrontare la situazione deprecabile in cui versa la nostra edilizia scolastica con il vergognoso spreco di fondi comunitari. Altro che dare la colpa al patto di Stabilità.

3 novembre 2016 (modifica il 3 novembre 2016 | 21:34)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/16_novembre_04/non-l-europa-che-fa-crollare-scuole-39925434-a1f9-11e6-9c60-ebb37c98c030.shtml
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« Risposta #249 inserito:: Dicembre 10, 2016, 11:26:55 am »

Dopo il voto

La vittoria del No, salvacondotto a vita per un Senato intoccabile
Chi avrà mai la forza di riproporre un sia pur minimo ridimensionamento dei poteri della Camera alta, dopo quello che è successo?

Di Sergio Rizzo

Dopo la vittoria del No si sono sparse notizie di calorosi festeggiamenti al Cnel redivivo. Reazioni più sobrie, invece, al Senato. Dove qualcuno non ha comunque risparmiato ironie. Maurizio Gasparri, per esempio, ha twittato: «Il Senato c’è, Renzi non c’è più». Niente di più vero. Il Senato c’è e ci sarà sempre, perché il No è soprattutto un salvacondotto perpetuo per Palazzo Madama. Giusta o sbagliata che fosse la riforma, il risultato non può essere che questo. Chi avrà mai la forza di riproporre un sia pur minimo ridimensionamento dei poteri della Camera alta, dopo quello che è successo? E quanti sostengono che ora «si potrà fare una riforma seria» lo sanno benissimo.

Il meccanismo della conservazione, in questo Paese resistente a ogni cambiamento, è super collaudato. In un senso come nell’altro. Basterebbe ricordare in che modo si è salvato il ministero dell’Agricoltura dopo che un referendum popolare l’aveva abolito: semplicemente cambiando nome in «ministero delle Politiche agricole e forestali». O come i rimborsi elettorali siano esplosi proprio dopo un referendum che avrebbe dovuto cancellare il finanziamento pubblico dei partiti.

Idem accadrà per le Regioni, luoghi nei quali l’opposizione a ogni cambiamento è ancor più radicata. Vivrà in eterno quell’assurdo titolo V voluto nel 2001 da un centrosinistra in affanno nel disperato tentativo di arginare l’ondata leghista e poi incredibilmente confermato al successivo referendum dai cittadini ignari (come in questo caso) tanto del merito quanto delle conseguenze. Di più. Non solo le Regioni manterranno l’insensata competenza esclusiva su alcune materie quali turismo o energia, ma il voto del 4 dicembre varrà anche per loro come salvacondotto perpetuo nei confronti di qualunque tentativo di riforma futura. I consiglieri regionali, poi, sono finalmente al sicuro: nessuno potrà più imporre loro tetti alle generose buste paga, né vietare i contributi ai gruppi politici consiliari al centro di gravissimi scandali. L’ex commissario alla spending review Roberto Perotti ci ha già mostrato, del resto, con quale abilità i signori consiglieri siano riusciti ad aggirare il tetto alle retribuzioni imposto dal governo di Mario Monti.

Che dire infine delle Province? Sopravvivranno anch’esse nei secoli a venire. E quei martiri della democrazia che in Calabria hanno affisso una lapide nella sede della ex Provincia con scolpiti i nomi degli ultimi consiglieri «eletti a suffragio universale», troveranno un motivo di riscatto. Perché oggi nessuno si stupirebbe davanti a una proposta di abrogazione della legge Delrio che facesse tornare nuovamente elettivi quegli incarichi.

7 dicembre 2016 (modifica il 7 dicembre 2016 | 19:18)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_dicembre_08/vittoria-no-salvacondotto-vita-un-senato-intoccabile-aff7bc44-bca8-11e6-9c31-8744dbc4ec0a.shtml
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« Risposta #250 inserito:: Luglio 16, 2017, 04:57:57 pm »

I tagli mai fatti: ogni giorno una società pubblica in più

Lo studio Ires-Cgil: sono quasi 9mila, 5mila nate solo tra il 2000 e il 2014.
Gli enti locali assumono beffando le leggi. Record in Val d’Aosta con una partecipata ogni 1.929 cittadini.
E una su 5 è inattiva

Di SERGIO RIZZO
13 luglio 2017

La società delle Terme di Salsomaggiore è in rosso dal 2008
La pioggia delle società pubbliche, indifferente al clima politico e ai rovesci dell’economia, non si è mai fermata. Una al giorno, ne è nata. Per anni e anni, fino ad allagare Regioni, Province, Comuni. La fotografia scattata dalla Cgil con il suo centro studi Ires in un approfondito studio di 60 pagine, ci consegna oggi un’immagine mostruosa. Uno scenario popolato da 8.893 società partecipate dalle pubbliche finanze e cresciute a un ritmo impressionante: circa 5mila nel solo periodo compreso fra il 2000 e il 2014, fino a raggiungere uno spettacolare rapporto di una ogni 6.821 abitanti. Con i suoi amministratori, i suoi revisori, i suoi dirigenti: spesso soltanto quelli. E punte inarrivabili. Come nel Trentino Alto Adige, dove si sono contate 498 scatole societarie create con i soldi dei contribuenti. Ovvero, una ogni 2.126 residenti. Ma ancor più in Valle D’Aosta, la Regione più piccola d’Italia che detiene il record di società pubbliche in rapporto ai propri residenti. Una per ogni 1.929 valdostani.

La riforma delle autonomie La Cgil dice che l’inondazione è cominciata negli anni Novanta con la riforma delle autonomie locali. Da lì è partita la febbre che sempre più rapidamente ha contagiato gli enti locali, con la scusa di rendere più efficienti i servizi pubblici vestendoli con un abito privatistico. Ma è dal decennio successivo che il termometro ha preso a salire senza più controllo, complici i vari blocchi delle assunzioni di personale pubblico. E grazie pure ad alcune mosse legislative a dir poco discutibili, come la famosa riforma del titolo V della Costituzione voluta da un centrosinistra all’inseguimento forsennato della Lega Nord, che ha ampliato a dismisura le prerogative della politica locale alimentandone le tentazioni più inconfessabili.

Le poltrone ai trombati Le società pubbliche sono così diventate un comodo strumento per aggirare i divieti a gonfiare gli organici delle amministrazioni, per giunta senza dover fare i concorsi: con il risultato che oggi il numero dei loro dipendenti ha raggiunto 783.974 unità, più degli abitanti di Bologna e Firenze messi insieme. Non soltanto. Soprattutto questo sistema ha consentito di dare una poltrona a politici trombati o in pensione, onorare impegni elettorali, garantire segretaria e auto di servizio agli amici. Qualche anno fa la Corte dei conti ha stimato in 38 mila il numero delle figure apicali in quelle società. Talvolta in proporzione perfino superiore a quello degli stessi dipendenti. Questo spiega perché risultano inattive ben 1.663 delle 8.893 società partecipate. Il 18,7 per cento di scatole vuote. Con vette in Molise (31 per cento), Calabria (38 per cento) e Sicilia, dove si supera il 40 per cento. Persino in Trentino Alto-Adige è inattiva una su dieci.

Per non parlare di quante, pur apparendo formalmente attive, non hanno neppure un dipendente. Sono 1.214 di cui, precisa il documento, 1.136 partecipate esclusivamente dagli enti locali, con una concentrazione nelle Regioni a guida leghista, quali Veneto (106) e Lombardia (136), ma anche in quelle considerate tradizionalmente rosse come Toscana (114) ed Emilia Romagna (122). Ce ne sono poi 274 con più amministratori che dipendenti, 234 che nei quattro anni compresi fra il 2011 me il 2014 hanno chiuso i conti in perdita e 1.369 che hanno un fatturato inferiore a 500 milioni.

La proliferazione del fenomeno. La giungla ha tratti geografici assai variegati, capaci anche di sovvertire alcuni luoghi comuni. Per esempio, non è affatto vero che la densità di società sia maggiore al Sud, come la qualità di certe amministrazioni lascerebbe immaginare: in Campania se ne trova una ogni 14.554 abitanti, il valore minimo in assoluto. Circa metà rispetto alla Lombardia, dove è possibile contarne una ogni 7.419 residenti. Va detto che neppure la crisi, né i vari provvedimenti presi a partire dal 2007 e tesi a scoraggiare la proliferazione di questo fenomeno l’hanno potuta frenare. Perché se è vero, come argomenta la Cgil in questo dettagliato dossier, che fra le società non attive bisogna considerare le 828 congelate o messe in liquidazione a partire dal 2010, è anche vero che da quell’anno e fino a tutto il 2014 ne sono state costituite 1.173 nuove di zecca. E il ritmo delle nascite si è appena rallentato.

Eppure è da molti anni che nella normativa i governi di turno cercano di infilare qualche pillola avvelenata. La quale subisce però sempre il medesimo destino, quello di venire immediatamente sterilizzata. Le ragioni sono facilmente intuibili. La politica locale rischia di dover rinunciare a muovere potenti leve clientelari. Pratica, ahinoi, assai diffusa. Qualche anno fa si scoprì che presso i gruppi politici del consiglio regionale della Campania erano distaccati 150 dipendenti di società pubbliche. Pagati dai contribuenti ma al servizio di partiti e loro capicorrente.

La mancata spending review Come stupirsi, allora, del fatto che qualunque tentativo di cambiare finisca nelle sabbie mobili? La legge 190 del dicembre 2014 prevedeva che gli enti locali predisponessero piani di razionalizzazione delle partecipate entro il marzo dell’anno seguente: ebbene, la Corte dei conti ha rilevato che due mesi dopo quella scadenza soltanto 3.570 soggetti sugli 8.186 interessati dalla disposizione l’avevano osservata. Quanto agli affondi della spending review, il processo di revisione della spesa pubblica avviato formalmente ormai da tempo, sono rimasti del tutto inefficaci. A questo proposito bisogna ricordare che l’ex commissario Carlo Cottarelli nel suo rapporto presentato all’inizio del 2014 aveva stimato in 2 miliardi l’anno i possibili risparmi derivanti dal disboscamento di tale giungla. Auspicando una strage: il numero delle partecipate si sarebbe dovuto ridurre a non più di mille.

Né minori difficoltà ha avuto la riforma di Marianna Madia, ideata per mettere in funzione finalmente una tagliola efficace. Ma prima si è incagliata alla Corte Costituzionale, quindi è finita nel tritacarne di una estenuante trattativa fra governo e poteri locali. Mentre i sindacati l’aspettano al varco insieme alle regole per la mobilità del personale. Un’altra rogna in vista della partita che si apre a settembre, quando vedremo se ancora una volta la realtà avrà più forza della legge. Dopo almeno dieci anni di indecente melina.

Il miraggio del Ponte sullo Stretto Avendo ben chiaro un particolare non indifferente, che se pure tutto dovesse andare per il verso giusto mettere mano al taglio delle società partecipate sarà un’opera immane. La durata delle liquidazioni nel nostro Paese, da questo punto di vista, parla chiaro. Le procedure possono durare decenni, e anche quando è la legge a fissare i paletti, quelli servono davvero a poco o nulla. Valga per tutti l’esempio della società pubblica Stretto di Messina, controllata dall’Anas, che avrebbe dovuto gestire la realizzazione del ponte fra Scilla e Cariddi opera miseramente archiviata da un lustro. Il governo di Enrico Letta aveva fissato

il 15 aprile 2013, per la sua liquidazione affidata all’ex capo di gabinetto di Giulio Tremonti, Vincenzo Fortunato, il limite massimo di un anno. Di anni ne sono passati invece già più di quattro e siamo ancora a carissimo amico. Con il conto già arrivato a 13 milioni.

© Riproduzione riservata 13 luglio 2017

Da - http://www.repubblica.it/economia/2017/07/13/news/i_tagli_mai_fatti_ogni_giorno_una_societa_pubblica_in_piu_-170664048/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T1
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« Risposta #251 inserito:: Luglio 18, 2017, 04:34:59 pm »

La resistenza dei dirigenti di Stato, sono i più pagati d’Occidente
Nonostante il tetto ai compensi introdotto nel 2014 lo stipendio dei mandarini italiani è superato solo dagli australiani.
Intanto una pioggia di ricorsi blocca la pubblicazione dei patrimoni

Di SERGIO RIZZO
17 luglio 2017
 
L'ULTIMA rilevazione dell'Ocse sulle retribuzioni dei dirigenti pubblici dice quanto la trasparenza sia preziosa, e per alcuni versi anche dolorosa. Grazie a lei sappiamo che i mandarini italiani sono i più pagati del mondo sviluppato, con la sola esclusione dell'Australia.

Affermare tuttavia che con il tetto agli stipendi dei funzionari pubblici fissato tre anni fa in 240mila euro lordi l'anno non sia cambiato nulla sarebbe ingeneroso: qualche busta paga scandalosa (e immeritata) è stata per fortuna ridimensionata. Ma è sempre la media, con o senza quel tetto, che continua a fregarci.

I confronti parlano chiaro. La retribuzione media delle nostre figure burocratiche apicali è scesa fra il 2011 e il 2015 da 339.249 a 212.132 euro lordi. Il calo non è stato affatto trascurabile: meno 37,4 per cento. Nonostante una simile sforbiciata, però, siamo ancora ben al di sopra di quella dannata media dei Paesi sviluppati che aderiscono all'Ocse. Fissata, secondo la rilevazione di cui parliamo, in 160.627 dollari: 132.315 euro lordi.

Decisamente meglio è andata ai dirigenti di prima fascia, quelli immediatamente al di sotto del massimo livello apicale. Dopo l'introduzione del famoso tetto le loro retribuzioni medie, sempre secondo i calcoli dell'Ocse, sono infatti addirittura aumentate, seppur di poco: l'incremento dai 197.962 euro del 2011 ai 199.330 (lordi, ovvio) del 2015 è dello 0,7 per cento, che sale all'1,5 con la metodologia di calcolo Ocse, che tiene conto anche dei contributi previdenziali e dell'orario effettivo di lavoro. A questo proposito andrebbe ricordato che l'ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli, prendendo proprio spunto dal raffronto internazionale aveva previsto risparmi di mezzo miliardo l'anno già a partire dal 2014. Ebbene, almeno in questo caso è accaduto il contrario. E qui siamo di nuovo al punto cruciale: la trasparenza. In questo nuovo studio, che peraltro ricalca i risultati della precedente analisi del 2013, l'Ocse precisa che non tutti i Paesi riportano nelle loro analisi i dati effettivi, come fa invece l'Italia. Da quattro anni, infatti, qui vige il principio della pubblicità dei compensi dei dirigenti pubblici. È la conseguenza di un decreto, il numero 33 del 2013, che però non è stato digerito da tutti gli interessati. Ma è nulla al confronto di ciò che è successo nel momento in cui si è deciso di estendere l'obbligo di trasparenza anche alle informazioni patrimoniali. Allora sono scoppiate improvvise allergie. Letteralmente incontenibili.

La battaglia comincia il 25 maggio 2016, quando la Funzione pubblica approva un decreto legislativo che impone ai dirigenti la pubblicazione della propria situazione economica e reddituale sui siti internet ufficiali di ogni singola amministrazione. E con le variazioni intervenute anno dopo anno. Nello stesso provvedimento viene specificato che la cosa riguarda tutti, ma proprio tutti, gli incarichi di livello dirigenziale: per capirci, anche quelli che vengono assegnati per decisione politica.

Tanto basta per innescare l'immancabile ricorso al Tribunale amministrativo, che il 2 marzo sospende senza battere ciglio l'efficacia della nuova misura. Affermano i giudici che è necessario considerare la "consistenza delle questioni di costituzionalità e di compatibilità con le norme di diritto comunitario sollevate nel ricorso", specificando di aver preso la travagliata decisione dopo aver valutato "l'irreparabilità del danno paventato dai ricorrenti discendente dalla pubblicazione online, anche temporanea, dei dati per cui è causa". Non bastasse, ecco un altro ricorso, stavolta del sindacato al quale si associano pure quattro burocrati, che contesta le linee guida emanate dall'Autorità nazionale anticorruzione per l'attuazione della norma del 2013 che prevede la trasparenza degli atti relativi agli incarichi di natura politica e dirigenziale. A quel punto l'Anac di Raffaele Cantone non può che fermare le macchine e sospendere tutto, in attesa del sospirato giudizio di merito del Tar. Che si prende tutto il tempo necessario, e forse anche qualcosina in più: sette mesi.

I giudici amministrativi hanno fissato la relativa udienza per martedì 10 ottobre 2017. Ovvero, 222 giorni dopo aver deliberato la sospensiva e a quasi un anno e mezzo dal decreto che imporrebbe l'obbligo di far conoscere ai cittadini anche i patrimoni dei dirigenti pubblici e la loro evoluzione durante lo svolgimento dell'incarico. Mentre tutti continuano a ripetere che la trasparenza è il migliore antidoto contro il cancro della corruzione.

© Riproduzione riservata 17 luglio 2017

Da - http://www.repubblica.it/economia/2017/07/17/news/la_resistenza_dei_dirigenti_di_stato_sono_i_piu_pagati_d_occidente-170953043/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P6-S1.8-T1
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« Risposta #252 inserito:: Agosto 03, 2017, 05:43:33 pm »

L'Italia dei condoni
Mansarde, villette e seminterrati.
Regione che vai, sanatoria che trovi. La motivazione è sempre la stessa: "Contenere il consumo del suolo”.
In realtà spesso è la formula usata dalla politica per aggirare le norme e aggiustare gli abusi edilizi

Di SERGIO RIZZO
31 luglio 2017

LA FOGLIA di fico è sempre la stessa, e quando la mettono si aspettano persino l'applauso: "Contenere il consumo del suolo". C'è scritto questo nella sanatoria delle mansarde, che la Regione Lazio sta prorogando da otto anni a questa parte, e c'è scritto questo pure nella sanatoria delle cantine, fresca di pubblicazione sul bollettino ufficiale della Regione Abruzzo. Avete capito bene: le cantine. Chi non sottoscriverebbe una legge regionale sul "Contenimento del consumo del suolo attraverso il recupero dei vani e locali del patrimonio edilizio esistente"? Leggendo il titolo si potrebbe immaginare un provvedimento per favorire il riuso degli immobili abbandonati, spesso così belli da lasciare senza fiato, dei quali l'Italia è piena. Prima però di aver scorso il testo, scoprendo che delimita invece quel recupero ai "vani e locali seminterrati " da destinare "a uso residenziale, direzionale, commerciale o artigianale ". Ma non religioso: sia chiaro. Perché la sanatoria delle cantine decretata dalla Regione Abruzzo esclude invece espressamente, all'articolo 3, la possibilità di cambiare la destinazione d'uso dei seminterrati "per la trasformazione in luoghi di culto". Insomma, fateci tutto, anche un bed & breakfast (non è forse attività residenziale?). Tranne che una moschea.

Certo, per ottenere questo curioso condono (termine che di sicuro i proponenti rigetteranno sdegnati) bisognerà pagare gli "oneri concessori". Se però l'intervento riguarda la prima casa è previsto uno sconto del 30 per cento. Va pure da sé che i locali debbano avere determinate caratteristiche. Per farci abitare gli esseri umani sono necessari impianti di "aero-illuminazione" (testuale nella legge) e l'altezza dei locali non può essere inferiore a due metri e quaranta. Ma a trovarle, cantine così alte... Niente paura. Anche in questo caso la legge della Regione Abruzzo offre una elegante scappatoia. Eccola: "Ai fini del raggiungimento dell'altezza minima è consentito effettuare la rimozione di eventuali controsoffittature, l'abbassamento del pavimento o l'innalzamento del solaio sovrastante ". Il vostro scantinato tocca a malapena uno e novanta? Niente paura: scavate un altro mezzo metro o alzate il solaio di cinquanta centimetri. Sempre rispettando "le norme antisismiche ", però. Dopo quello che è successo in Abruzzo, è il minimo. Già... Ma colpisce che nemmeno il terremoto sia stato capace di frenare lo stillicidio delle sanatorie. Anzi. Qualche mese fa c'è stato chi ha rivelato che i contributi pubblici per il sisma non avrebbero discriminato le case abusive. Suscitando la reazione risentita delle strutture commissariali, anche se nessuna smentita ha potuto cambiare la realtà dei fatti: per ottenere i denari statali è sufficiente autocertificare che l'abitazione andata distrutta non era interamente abusiva. E poi presentare domanda di sanatoria. La prova, se ce ne fosse ancora il bisogno, che abusivismo e condoni se ne infischiano anche delle scosse telluriche del settimo grado.

Il vecchio caro condono edilizio ha così pian piano cambiato pelle. Sbarrata la strada in Parlamento, si è aperto la via nelle pieghe delle leggi regionali assumendo le forme più subdole e creative. Non soltanto per i sottotetti, come nel Lazio e in Lombardia (Regione che ha deliberato anch'essa il salvataggio delle mansarde), o per le cantine, come in Abruzzo. Emblematico è il caso della Campania, dove il Consiglio regionale ha appena sfornato una legge per l'adozione di "linee guida per supportare gli enti locali che intendono azionare misure alternative alla demolizione degli immobili abusivi". Tradotto dal burocratese, sono le direttive alle quali si devono attenere i Comuni per evitare di buttare giù le costruzioni illegali. Per esempio, si deve valutare "il prevalente interesse pubblico rispetto alla demolizione". Come pure tenere debitamente conto dei "criteri per la valutazione del non contrasto dell'opera con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell'assetto idrogeologico ". E che dire dei "criteri di determinazione del requisito soggettivo di 'occupante per necessità"? Ecco dunque gli abusivi per bisogno, quella figura mitica capace di spazzare via ogni tabù ambientale con relativo senso di colpa. In Campania sono il corpo elettorale fra i più consistenti e la tentazione di grattargli la pancia, tipica di certa destra, ha ormai fatto breccia anche presso certa sinistra.

I Verdi hanno adesso chiesto al governo di Paolo Gentiloni di impugnare la legge votata dalla Regione governata dal suo compagno di partito Vincenzo De Luca e di stroncare insieme anche la sanatoria delle cantine che ha fatto breccia nel cuore dell'Abruzzo presieduto da un altro dem: Luciano D'Alfonso. Arduo prevedere con quali speranze di successo. Probabilmente non più di quante ne abbiano gli oppositori di una recentissima leggina della Regione Sardegna, ora governata dal centrosinistra di Francesco Pigliaru, per bloccare la possibile invasione delle coste dell'isola con bungalow e casette di legno. Nel provvedimento sul turismo è spuntata infatti la possibilità per i camping isolani di piazzare costruzioni mobili (ma nella versione iniziale erano ammesse anche nella versione non amovibile) al fine di "soddisfare esigenze di carattere turistico". Le quali, precisa il disegno di legge, "non costituiscono attività rilevante ai fini urbanistici ed edilizi". Sono quindi case vere e proprie, ma è come se non lo fossero. Bisogna ricordare che questa non è una novità assoluta. Anche in precedenza

le leggi regionali consentivano di impiantare strutture del genere nei camping. Ma all'inizio non si poteva superare il 25 per cento della capacità ricettiva di un campeggio. Poi si è saliti al 40. E ora al 45. Arrivare al 100, di questo passo, sarà uno scherzo...

© Riproduzione riservata 31 luglio 2017

Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2017/07/31/news/l_italia_dei_condoni-172043709/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P3-S1.8-L
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« Risposta #253 inserito:: Ottobre 04, 2017, 11:03:23 am »

Evasione, i record dell'Italia: in fuga dal Fisco 111 miliardi all'anno

L'inchiesta.

Dall'Unità a oggi 80 condoni. Il Paese ha deciso che la lealtà nel pagare le tasse non è un valore.
Esattori in tilt: incassano solo l'1,13% delle somme da riscuotere contro il 17% Ocse

Di SERGIO RIZZO
04 Ottobre 2017

Coprire le spese sanitarie della nazione per un anno intero. Oppure mettere in sicurezza tutto il patrimonio edilizio italiano. O ancora, tagliare almeno un quinto delle tasse. Lasciamo alla fantasia ciò che si potrebbe fare con più di cento miliardi. Quei soldi appartengono solo alla sfera dell'immaginario. Secondo i calcoli della commissione governativa sull'economia sommersa sono i denari che ogni dodici mesi sfuggono al fisco. Sottratti alla collettività da un esercito di evasori: quel che è più grave, senza colpo ferire. Perché qui lottare contro i furbetti è come svuotare il mare con il colabrodo. In Italia si riscuote appena l'1,13 per cento del carico fiscale affidato all'esattore, contro una media Ocse del 17,1 per cento.

Anno dopo anno, infatti, il maltolto aumenta: 107,6 miliardi nel 2012, 109,7 nel 2013, 111,7 nel 2014.
E sia pure in diminuzione i dati provvisori del 2015, contenuti nella nota di aggiornamento al Def, non fanno presagire un cambio sostanziale di rotta come ha anticipato qualche giorno fa il nostro Roberto Petrini. Il calo risulterebbe infatti di 3,9 miliardi e non c'è ancora una valutazione esatta del mancato introito Irpef dei lavoratori dipendenti irregolari, pari nel 2014 a 5,1 miliardi. Ben che vada, si tornerebbe quindi ai livelli del 2012. Una situazione tale da far dire ieri al presidente dell'Istat Giorgio Alleva che la lotta all'evasione "è strategica". Ovvio.
Il problema è come farla. Perché il sostegno al conseguimento del risultato è corale, come fa capire una relazione del sostituto procuratore di Pistoia Fabio Di Vizio, uno dei più esperti magistrati del ramo evasione, riciclaggio & affini. Quelle 50 pagine piene di numeri e tabelle scritte in occasione di un suo intervento alla bolognese InsolvenzFest, organizzata ogni anno dall'Osservatorio sulla crisi d'impresa, tracciano lo scenario di un Paese che in tutte le sue componenti ha coscientemente deciso che la lealtà fiscale non fa parte dei valori della convivenza civile. È bastato mettere in fila circostanze, fatti e dati per nulla riservati, rintracciabili negli atti e nei documenti ufficiali. A patto, naturalmente, di saperli e volerli leggere.

Si scoprirebbe, per dirne una, che la propensione a evadere l'Irpef da parte del lavoro autonomo ha raggiunto nel 2014 un impressionante 59,4 per cento. Significa che entrano nelle casse pubbliche solo quattro euro su dieci delle imposte sul reddito dovute da chi esercita un'attività non dipendente. Il 3,5 per cento non viene versato, ma il 55,9 per cento neppure dichiarato. Trenta miliardi e 736 milioni evaporati ogni anno, ma la cosa davvero preoccupante è che in cinque anni l'aumento di questa evasione, dicono i dati della commissione presieduta da Enrico Giovannini, ha superato il 50 per cento. Nel 2010 la calcolatrice si era fermata a 20 miliardi e 149 milioni.

Per non parlare dell'Iva. Qualche giorno fa da Bruxelles è arrivata la brutta notizia che l'Italia è il Paese europeo che detiene il record dell'evasione di questa imposta. Ma purtroppo non è una notizia nuova, perché è così da sempre. Il differenziale fra l'Iva dovuta e quella effettivamente pagata sfiora il 30 per cento: 29,7, esattamente. Altri 40,1 miliardi sfumati. Cinque anni prima erano 37,4. È colpa della crisi, deduzione ovvia. Ma fino a un certo punto. Perché la crisi da sola non spiega il fatto che l'Italia rappresenti quasi un quarto dell'evasione Iva dell'Unione europea, contro il 15,3 per cento della Francia e il 3,9 per cento della Spagna, che dalla stessa crisi non sono state certo risparmiate.

Se a quelli delle imposte dei lavoratori autonomi e dell'Iva si aggiungono i buchi sui redditi d'impresa, dell'Irap e dei contributi previdenziali, arriviamo appunto ai 111,7 miliardi cui sopra. Una cifra enorme. Che in più si riferisce per oltre due terzi alle tasse non pagate dai fantasmi: cioè da coloro che per il fisco nemmeno esistono. In media, 75 miliardi e mezzo l'anno. Somma pari al 15 per cento di tutte le entrate tributarie.

Basterebbe questo per mettere in dubbio la tesi di chi assolve l'infedeltà fiscale considerandola alla stregua della legittima difesa contro uno Stato ingordo. E assolvendola, per giunta, dai vertici dello Stato stesso. "L'evasione di chi paga il 50 per cento dei tributi non l'ho inventata io. È una verità che esiste. Un diritto naturale che è nel cuore degli uomini": sono le parole memorabili pronunciate da Silvio Berlusconi ai microfoni di Radio Anch'io il 18 febbraio 2004. Ripetute più volte dal Cavaliere prima, durante e dopo le sue permanenze a palazzo Chigi. Senza che in tutti quegli anni la pressione fiscale sia calata e gli evasori si siano dati una regolata.

Sul fatto che in Italia l'imposizione fiscale sia per tutti troppo pesante, davvero non ci piove. La stessa Corte dei conti certifica un dato mostruoso che era stato già calcolato da Confartigianato: su un'impresa di medie dimensioni grava un carico fiscale complessivo del 64,8 per cento, superiore di quasi 25 punti alla media europea (40,6). Né le cose vanno meglio per il cuneo fiscale, che con il 49 per cento oltrepassa di dieci punti il valore medio continentale (39). E se la pressione del fisco, che statisticamente si è aggirata negli anni più recenti intorno al 43 per cento (decimale più, decimale meno), risulta inferiore a quella di Danimarca, Francia, Belgio, Finlandia e Austria, non si può non considerare che a sostenerla è una platea di contribuenti in proporzione nettamente più ridotta. Per non parlare della qualità dei servizi offerti con quel costo ai cittadini italiani. Ma ciò non può giustificare affatto quanti si sottraggono ai propri obblighi verso la collettività. Né, a maggior ragione, giustificare chi li giustifica.

Certo, qualcuno potrebbe tirare in ballo questioni che sconfinano nell'indole degli italiani. Come la storica avversione per le tasse, oggetto persino di proverbi popolari. Ma se quel sentimento esiste, va detto pure che è stato sempre coccolato dalla politica, fin dai tempi antichi. Con i condoni. Il primo è del 118 dopo Cristo. Autore l'imperatore di origini iberiche Adriano, che rinunciò a riscuotere le tasse ancora non pagate dai cittadini dell'impero nei 16 anni precedenti: 900 milioni di sesterzi. Ricorda Di Vizio che dall'unità d'Italia a oggi si possono contare 80 (ottanta) condoni fiscali sotto varie forme. Anche la rottamazione delle cartelle esattoriali, a modo suo, può rientrare in questa fattispecie.

E per avere un'idea del rapporto fra gli italiani e il fisco basti dire che ne 2016 erano 21 milioni i residenti con una pendenza aperta a Equitalia: che in ogni caso, per il 54 per cento di loro, non superava i mille euro. Il fatto è che all'evasione contribuisce un sistema pubblico obeso e inefficiente che affoga nelle follie burocratiche. Cervellotico e strampalato al punto da imporre a chi vuol pagare le tasse rateizzandole un interesse di dilazione pari al 4,50 per cento, cioè addirittura più alto rispetto a quello di mora a carico di chi le imposte non le paga affatto: 3,50. E questo semplicemente perché quei tassi sono fissati da due leggi diverse, che nessuno ha mai pensato di rendere coerenti l'una con l'altra. Troppa fatica.

Succede così, sottolinea Di Vizio nel suo studio, che in un Paese nel quale l'economia sommersa vale il 21,1 per cento del prodotto interno lordo e l'evasione fiscale incide per il 24 per cento sul gettito potenziale, siano necessarie mediamente 269 ore l'anno per adempiere a tutti gli obblighi fiscali, contro le 173 della media europea. Mentre il sistema di riscossione fa acqua da tutte le parti. Inaccettabile il balletto che avviene fra l'accertamento e la riscossione. Dal 2000 al 2016 gli enti creditori hanno affidato a Equitalia 1.135 miliardi di euro da riscuotere: una cifra pari alla metà dell'attuale debito pubblico. Di questi, una parte è stata annullata dagli stessi creditori e una piccola fetta riscossa negli anni, con un residuo contabile che oggi ammonta a 817 miliardi. Ma 147,4 riguardano soggetti falliti, 85 i morti, 95 i presunti nullatenenti, 348 posizioni per cui si è già tentato invano il recupero, 26,2 sono oggetto di rateizzazioni e 32,7 non sono riscuotibili a causa di norme favorevoli ai debitori. Di quella enorme massa, grazie anche al contributo dei ricorsi tributari che hanno visto nel 2016 l'amministrazione soccombente in terzo grado nel 62 per cento dei casi, restano così aggredibili 51,9 miliardi, con una previsione di concreto realizzo che si riduce a 29 miliardi. Nella migliore delle ipotesi potrebbe rientrare il 3,5 per cento. Da chiarire come ciò si possa conciliare con i roboanti risultati nella lotta all'evasione (una ventina di miliardi introitati, secondo Maria Elena Boschi).

E veniamo ai controlli. Di Vizio segnala che nel 2016 gli accertamenti dell'Agenzia delle entrate sono calati del 33,8 per cento, passando da 301.996 a 199.990. Logico, perciò, che gli introiti siano diminuiti del 17,2 per cento, da 7,4 a 6,1 miliardi. Al netto, va precisato, della cosiddetta "voluntary disclosure". Qui sta il bello. Perché dietro a quelle due paroline inglesi apparentemente misteriose si nasconde la spiegazione di dove sparisce una bella fetta dei soldi rubati al Paese. Ma questa è un'altra storia.

Fiscoevasione fiscale
© Riproduzione riservata04 Ottobre 2017

Da - http://www.repubblica.it/economia/2017/10/04/news/evasione_i_record_dell_italia_in_fuga_dal_fisco_111_miliardi_all_anno-177304834/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P3-S1.8-T1
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« Risposta #254 inserito:: Maggio 13, 2018, 05:56:54 pm »

La verità sul conflitto d’interessi

10 MAGGIO 2018

DI SERGIO RIZZO

Tuonava Luigi Di Maio il 26 aprile: "Metteremo fine al conflitto d'interessi. Roba da far venire i sudori freddi a Silvio Berlusconi, che infatti schiumava rabbia: "Vuole fare un esproprio proletario anni Settanta, è un pericolo per la democrazia e la libertà". Il Cavaliere era riuscito a tenere a bada la sinistra per un quarto di secolo e ora, all'improvviso, si trovava davanti un'orda intenzionata a seguire senza se e senza ma la linea scandita da Beppe Grillo in persona: "Qui o si risolve il conflitto d'interessi o continueremo a prenderlo in quel posto" (2007). Da mesi il nervo scoperto del Cavaliere veniva stuzzicato. "Se qualcuno mi vota la legge sul conflitto d'interessi mi ci metto insieme", prometteva Roberta Lombardi un mese prima delle elezioni.

E un mese dopo il voto lo stesso Di Maio annunciava che "nel contratto di governo alla tedesca ci sarà la fine del conflitto d'interessi". Dando il via al martellamento, fino all'acme di quel 26 aprile. Ma in quei giorni il forno con il Partito democratico era in piena funzione. Chiuso quello, e riaperto con successo il forno dei leghisti alleati di Berlusconi, la promessa rischia ora di evaporare con rapidità superiore a quella con cui un camaleonte cambia il colore della pelle. Lo si capisce dai toni. Il conflitto di interessi "resta sul tavolo del programma", ci hanno fatto sapere ieri, anche se Di Maio risponde a chi lo incalza come avrebbe fatto Arnaldo Forlani ai tempi del Caf: "Discuteremo di tutto quello che c'è nei rispettivi programmi con pazienza perché il contratto che ne uscirà sarà l'unione di due programmi non sempre compatibili".

Se faccia parte, o meno, del prezzo da pagare al Cavaliere per la sua "benevolenza critica" da assicurare al governo Lega-M5S non è chiaro. Di sicuro è un brutto copione già visto in troppe occasioni. Questa rischia di essere la settima evaporazione consecutiva dal 1994. Alla sua "discesa in campo" Berlusconi, in quanto proprietario di tre reti tivù in concessione pubblica, sarebbe ineleggibile: naturalmente se fosse interpretata nel modo corretto una disposizione del 1957. Invece fanno finta di niente, tanto la gioiosa macchina da guerra dei progressisti è sicura del successo: ma perde. Due anni più tardi l'Ulivo annuncia sfracelli in caso di vittoria: però parte la bicamerale D'Alema-Berlusconi per le riforme mentre in parlamento arriva fra gli ulivisti anche un certo Vittorio Cecchi Gori, che ha appena comprato tre reti televisive e la giunta delle elezioni non ci trova niente da ridire. Nel 2001 Berlusconi fa cappotto e le Camere approvano una legge sul conflitto d'interessi grottesca e inutile, considerato che non prevede alcuna sanzione: al massimo una sculacciata, toccata peraltro solo a un anonimo sottosegretario e a un commissario governativo.

Nel 2006 torna Prodi con un governo che ha dentro due partiti comunisti, ma dura troppo poco e poi nessuno ha davvero voglia di smuovere le acque. Due anni più tardi riecco Berlusconi, e la faccenda finisce ancor più nel dimenticatoio. Nel 2013, poi, Forza Italia va addirittura al governo con il Partito democratico. E siamo al 2018, con il conflitto d'interessi che rischia di svanire per la settima volta in un Paese nel quale la politica è talmente ipocrita da averne fatti almeno cinque, in sessant'anni, di provvedimenti per regolare i rapporti fra chi ha incarichi pubblici e i propri affari. Ma sempre riuscendo, insieme, a porre le condizioni per non applicarli. E prendere così in giro, di volta in volta, gli italiani. Che non accada più.

Da - https://rep.repubblica.it/pwa/commento/2018/05/10/news/_la_verita_sul_conflitto_d_interessi-196050368/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_11-05-2018
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