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Autore Discussione: SERGIO RIZZO  (Letto 127806 volte)
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« Risposta #210 inserito:: Gennaio 05, 2015, 05:02:00 pm »

In un giorno 393 assunzioni
Quel rapporto del Tesoro su Roma
Dal 2000 al 2012, quasi 95 mila aumenti. Solo tra il 2008 e il 2012 sono stati impegnati per il salario accessorio dei dipendenti comunali 340 milioni di euro

Di Sergio Rizzo

Davvero un mercoledì da leoni, quel 25 novembre del 2009, per 393 vigili urbani con contratto a termine. Nel giro di una mattinata presentavano domanda di assunzione a tempo indeterminato, l’ufficio del personale verificava simultaneamente il possesso dei requisiti e il Comune di Roma sfornava istantaneamente il provvedimento di stabilizzazione. Firmato: Mauro Cutrufo, senatore del Pdl e vicesindaco. Peccato che la rapidità da salto nell’iperspazio di questa apparentemente complessa procedura faccia a pugni con quanto affermato nell’ormai arcinoto rapporto degli ispettori del Tesoro sui conti della Capitale. Cioè che in base alle norme allora vigenti quelle stabilizzazioni erano illegittime. Giudizio estendibile a tutte le 2.781 pratiche del genere, di cui ben 500 relative ai vigili urbani, concluse fra il 2007 e il 2010.

Il personale
Che nella gestione del personale il Comune di Roma non rappresentasse il top del rigore, era risaputo. Ma lo scenario delineato in quel rapporto, soprattutto per gli anni che hanno preceduto l’attuale amministrazione, va oltre ogni immaginazione. E ben si comprende il sindaco Ignazio Marino, che descrive l’inqualificabile diserzione dei vigili la sera di San Silvestro come «una ritorsione» per aver lui voluto cambiare certe regole inconcepibili, quali per esempio quelle che garantiscono una valanga di indennità: le più assurde. Perché a toccarle, tutti i 26 mila dipendenti del Comune, tanti quanti i lavoratori della Fiat in Italia, ci rimetterebbero qualcosa.

Il salario accessorio
A cominciare da quel salario accessorio che dovrebbe essere collegato a mansioni specifiche ed è sempre stato invece distribuito a chiunque senza particolari motivi. Una pioggerellina fitta e incessante che ha innaffiato tutti dal 2008 al 2012 con oltre 340 milioni di euro. Del resto, che il merito sia sempre stato una variabile ininfluente nel folle panorama retributivo del Comune di Roma lo dimostra una nota del Dipartimento risorse umane del dicembre 2011, nella quale si precisa che per non intascare il compenso di produttività bisogna «aver riportato una valutazione inferiore a 66 punti» e «aver lavorato un numero di giornate inferiore a 110». Cioè, essersi presentati sul posto di lavoro meno della metà del tempo stabilito per contratto. Regole, dunque, che giustificano l’assenteismo e il lassismo. Tanto più, notano gli ispettori, che non è prevista alcuna differenza nella somma corrisposta a chi viene valutato 66 e chi invece prende 100.

Le «progressioni»
Ma chi bada mai a una simile inezia, quando la pioggerellina è studiata apposta per bagnare indistintamente ognuno? Prendete le «progressioni orizzontali», termine che definisce i semplici aumenti di stipendio. Dal 2000 al 2012 sono state distribuite ben 5 volte, per un totale di 94.994 gratifiche: effetto di 94.994 valutazioni positive sul rendimento individuale. Quelle negative, 15. E sarebbe interessante sapere che cosa avevano combinato per meritarsele. Sputato in faccia al direttore? Mai andati a lavorare? Rubato? Spesa complessiva, 245,8 milioni fra il 2008 e il 2012. Alla quale si deve sommare quella per un’altra pioggerellina altrettanto stupefacente e copiosa per il capitolo delle indennità. Spesso e prelibato come un millefoglie. Indennità legata all’effettiva presenza in servizio, ovvero una somma erogata in più oltre allo stipendio per il semplice fatto di andare a lavorare. Indennità manutenzione uniforme. Indennità per l’attività di sportello al pubblico. Indennità oraria pomeridiana. Indennità annonaria. Indennità decoro urbano. Indennità di disagio: anche se non si capisce, sottolinea il rapporto, di quale disagio si tratti. E le promozioni, usate esclusivamente «per aumentare la retribuzione ordinariamente corrisposta ai dipendenti». Una slavina, a dire degli ispettori, non proprio legittima: 2.721, nei soli anni 2010 e 2011. E le assunzioni a tempo determinato fatte «intuitu personae» anche quando non riguardavano solo lo staff di fiducia dei politici. E le retribuzioni accessorie dei dirigenti, andate in orbita fra il 2001 e il 2012 passando in media da 45.640 a 88.707 euro l’anno pro-capite con una impennata del 94,3%. Premiando, per giunta, pure chi avrebbe dovuto essere sanzionato: «Non risulta», sostiene il rapporto, «che a nessun dirigente sia stata negata l’erogazione della retribuzione di risultato».

Gli incentivi
Qualche papavero comunale, poi, prendeva pure compensi dalle società municipalizzate che si andavano ad aggiungere a uno stipendio già non particolarmente modesto. Il che prefigura, dicono gli ispettori, la violazione del principio «di onnicomprensività della retribuzione». Un caso? Il rapporto cita la partecipazione alla Commissione di accordo bonario di Roma metropolitane, la società incaricata di tenere i rapporti con il general contractor della Metro C, del capo dell’Avvocatura comunale Andrea Manganelli. Il quale «nel solo 2013 avrebbe percepito la somma di 53.614 euro e 14 centesimi», anche se «la natura di società in house di Roma metropolitane», stigmatizza il documento del Tesoro, «non sembrerebbe consentire la corresponsione di simili compensi». Fatti singolari. Come «singolare» viene giudicato l’aumento di 1,7 milioni del fondo per gli incentivi economici dei dirigenti, per di più «proprio nell’anno, il 2008, in cui lo Stato si è accollato il debito del Comune di Roma». Una goccia nel mare, in grado però di spiegare molte cose. Per esempio, come sia stato possibile che nel 2012 la spesa corrente di Roma capitale fosse superiore «di circa 900 milioni», per gli ispettori, a quella del 2007. Mentre sull’efficienza delle strutture comunali e la qualità dei servizi offerti ai cittadini, per carità di Patria, forse è meglio sorvolare.

4 gennaio 2015 | 09:19
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Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_gennaio_04/giorno-393-assunzioni-quel-rapporto-tesoro-roma-3bebcdf8-93e8-11e4-8745-dbfbe9a3a0e4.shtml
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« Risposta #211 inserito:: Gennaio 05, 2015, 05:08:46 pm »

IL COMMENTO
Cantieri Salerno-Reggio Calabria, la beffa dei continui annunci
Spesso i comunicati sono fuorvianti, mancano resoconti dettagliati sulla situazione reale

Di Sergio Rizzo

ROMA - Non c’e’ niente di peggio che certi annunci. Prendete il comunicato con il quale prima di Natale l’Anas ha informato gli automobilisti che i cantieri su tutti i macrolotti della Salerno Reggio Calabria erano «sostanzialmente completati». Chi si fosse messo in viaggio ne avrebbe tratto la sensazione che il Calvario di quell’autostrada fosse finalmente del tutto concluso. Purtroppo non è così.

Le promesse non mantenute
Conosciamo le difficoltà che ha presentato l’opera, a cominciare da un contesto ambientale non proprio ideale per gli appalti pubblici. Per non parlare del fatto che in molti tratti il tracciato non è un semplice ampliamento di quello originario ma è nuovo di zecca, il che comporta ben altri problemi. Però sappiamo pure che i lavori vanno avanti dalla fine degli anni Novanta, e che non sono ancora finiti. Eppure continuiamo ad assistere a dichiarazioni, comunicati e previsioni (come quella secondo cui l’opera doveva essere completamente realizzata entro il 2013) che nella migliore delle ipotesi risultano fuorvianti. Ecco perché quando viene sfornato un comunicato ufficiale, ci aspetteremmo che accanto alla notizia della chiusura di questo o quel cantiere, comparisse anche un resoconto dettagliato della situazione reale: quanti chilometri ancora a corsia unica, quanti ancora da appaltare, a che punto sono i progetti per i pezzi ancora mancanti. Se non altro, per una questione di serietà.

4 gennaio 2015 | 20:12
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Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_gennaio_04/cantieri-salerno-reggio-calabria-97a506f0-943d-11e4-8745-dbfbe9a3a0e4.shtml
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« Risposta #212 inserito:: Gennaio 10, 2015, 10:00:18 am »

PROVVEDIMENTI DI LEGGE

Il favore alle autostrade contenuto nel decreto Milleproroghe
Altri sei mesi di tempo per le concessioni. E arriva anche la richiesta di aumentare i pedaggi

Di Sergio Rizzo

Dunque ci risiamo. Puntuale e inesorabile come l’alternarsi delle stagioni, le fasi lunari e i cicli della vita, anche quest’anno è arrivata la richiesta di aumentare i pedaggi autostradali. Una richiesta che finora nessun governo, di destra o di sinistra, ha mai potuto rifiutare. Plastica dimostrazione del potere della lobby dei concessionari, incarnata dalla figura imponente del capo della loro associazione Aiscat, il vicepresidente di Unicredit Fabrizio Palenzona, ex presidente margheritino della Provincia di Alessandria. E possiamo scommettere che neppure nel 2015, sulle autostrade, si cambierà verso.

Di più. Con il consueto decreto Milleproroghe approvato dal consiglio dei ministri la sera del 24 dicembre, i concessionari hanno avuto anche un regalino di Natale. Vale a dire altri sei mesi di tempo, fino al 30 giugno prossimo, per mettere a punto le proposte di integrazione fra diverse tratte che offrirebbe loro, come previsto da una contestatissima norma del cosiddetto Sblocca-Italia, la possibilità di prorogare automaticamente e senza gara le concessioni a fronte di una promessa di nuovi investimenti. Conseguentemente, anche il termine per i nuovi piani finanziari slitta al 31 dicembre 2015. La ragione? Evidentemente c’è bisogno di più tempo per far digerire l’operazione, che favorirebbe soprattutto il gruppo Gavio, le Autovie Venete e l’Autobrennero, alla Commissione europea. Dove non è un mistero che ci sia una certa riluttanza a mandar giù norme poco profumate di concorrenza.
Come appunto questa, che ha già incassato il giudizio fortemente negativo della nostra Autorità dei trasporti presieduta da Andrea Camanzi. Naturalmente, per ciò che può valere: poco o nulla. E qui è d’obbligo ricordare un altro regalino prenatalizio che il governo, in quel caso targato Monti, aveva già fatto ai medesimi concessionari nel dicembre 2011. Perché la norma del Salva-Italia che istituì l’authority fece decorrere (guarda caso) la competenza sulle tariffe autostradali a partire dalle concessioni future. Quindi, se scatteranno anche le proroghe automatiche senza gara previste dallo Sblocca-Italia renziano, campa cavallo. Con il risultato che quando si parla di autostrade Camanzi è ancora di fatto completamente esautorato.

Il che contribuisce a spiegare perché ogni anno i pedaggi salgono, e salgono, e salgono. Dal 1999, anno della privatizzazione della concessionaria statale, e fino al 2013, i prezzi sono cresciuti del 65,9% a fronte di una inflazione del 37,4%. Conseguenza di un sistema assurdo tutto favorevole ai concessionari, ai quali consente di scaricare sulle tariffe anche gli extracosti di opere e investimenti anche se procedono al passo della lumaca. Il tutto sotto lo sguardo mai arcigno del governo di turno. Nel 2014, a fronte della richiesta di aumenti medi del 4,8 %, il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi ha concesso «solo» il 3,9%: appena due volte e mezzo l’inflazione programmata. Esultando per il risparmio (se un mancato rincaro si può definire risparmio...) «di 50 milioni» in favore de agli automobilisti senza però poter dire di quanto i profitti delle concessionarie sarebbero cresciuti. Peccato poi che quel tasso programmato, cioè l’1,5%, si sia rivelato ben superiore a quello reale. Ora l’inflazione annua è allo 0,2 %: venti volte inferiore all’aumento medio concesso dal governo .

E siamo al nuovo round. Ovvero, gli aumenti richiesti per il 2015. Rosario Trefiletti di Federconsumatori e l’ex senatore Elio Lannutti (Adusbef) affermano scandalizzati che i concessionari pretenderebbero stavolta aumenti fino al 9%. Il top, a quanto pare, per l’autostrada Roma-Pescara di cui è concessionario il costruttore abruzzese Carlo Toto, consigliere Aiscat. Tanto da far imbestialire il sindaco dell’Aquila Massimo Cialente: «Gli ennesimi aumenti sull’autostrada sono una vergogna, è ora di dire basta». Per tutta risposta Lupi dice che il governo, irremovibile, non è disposto a concedere aumenti superiori al famoso tasso programmato: ancora l’1,5%. Ovvero, almeno sette volte l’inflazione reale.
Questa volta le ragioni dei concessionari sarebbero anche nel calo del traffico causato dalla crisi economica. Meno auto, meno incassi, meno profitti: dunque se ne facciano carico gli utenti. Ai quali però si dovrebbe pure spiegare come mai quando il traffico invece aumentava, gli incassi salivano e i profitti volavano, le tariffe aumentavano lo stesso.

27 dicembre 2014 | 07:33
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Da - http://www.corriere.it/economia/14_dicembre_27/favore-autostrade-milleproroghe-751b0772-8d91-11e4-8076-7a871cc03684.shtml
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« Risposta #213 inserito:: Gennaio 21, 2015, 06:55:51 pm »

Il caso
Consiglieri, commessi e segretari
Ecco il Parlamento dei parenti
La burocrazia più ricca di intrecci familiari d’Italia? È quella delle Camere. Legami L’ex tesoriere della Margherita Lusi aveva il fratello in Senato e il cognato alla Camera

Di Sergio Rizzo

ROMA - Chi guarda con apprensione alla fusione fra le amministrazioni di Camera e Senato, per possibili traumi o crisi di rigetto, si può tranquillizzare. Il ruolo unico è già stato realizzato, con reciproca soddisfazione, per via familiare. La recente nomina all’impegnativo incarico di segretario generale di Montecitorio di Lucia Pagano, figlia dell’ex consigliere della Camera Rodolfo Pagano e moglie del nuovo capo dell’informatica di Palazzo Madama, Mauro Fioroni, ne è la certificazione più limpida. In Italia non esiste burocrazia con intrecci parentali e dinastici così diffusi e profondi come in quella del Parlamento. A tutti i livelli: da quelli più bassi ai più elevati. E altri casi, oltre a quello di Lucia Pagano, rendono bene l’idea.

Figli e mogli, il Parlamento dei parenti

L’ascensore sociale
Il suo vice Aurelio Speziale, per esempio, è sposato con Gloria Abagnale, consigliere del Senato. Giovanni Gifuni, consigliere della Camera, è figlio dell’ex potentissimo segretario generale di Palazzo Madama Gaetano Gifuni. Mentre l’ex vicesegretario generale della Camera Carlo Goracci è il papà di Alessandro Goracci, alto funzionario del Senato. E se il padre di Ugo Zampetti, fino a qualche giorno fa capo indiscusso della burocrazia di Montecitorio, era il responsabile della biblioteca di Palazzo Madama, quello dell’attuale segretario generale del Senato Elisabetta Serafin era solo un commesso. Commesso come anche il papà di Daniela D’Ottavio, consigliera d’Aula. A dimostrazione del fatto che l’ascensore sociale, fermo ormai ovunque, qui non è mai andato in manutenzione.


Nel passato matrimonio «vietato»
Anche se qualche volta s’inceppa. Figlio di un ex consigliere della Camera, Fabrizio Castaldi ne sarebbe diventato a 43 anni uno dei segretari generali più giovani di sempre se la sua candidatura non fosse naufragata in extremis. Come quella di Giacomo Lasorella, incidentalmente fratello della giornalista Rai Carmen Lasorella. E quella del possibile terzo incomodo Costantino Rizzuto Csaky, consorte di Maria Teresa Stella, consigliera della Camera al servizio biblioteca. Parentela, quest’ultima, che ci riporta a un illustre caso del passato. Fece scalpore, cinquant’anni orsono, il matrimonio fra Antonio Michela-Zucco, nipote dell’omonimo inventore della rivoluzionaria macchina di stenotipia, e Magda Sammartino. Erano entrambi stenografi del Senato e la cosa venne considerata causa di incompatibilità. Per rimuoverla fu deciso il trasferimento della moglie alla Camera. Dove Magda Sammartino fu protagonista di una splendida carriera arrivando, prima donna nella storia, all’incarico di vicesegretario generale. Ma erano altri tempi.

I coniugi di oggi
Oggi la presenza di coniugi nelle stanze dei bottoni della stessa amministrazione non scandalizza più davvero nessuno. Marito e moglie sono il capo servizio controllo parlamentare Carlo Lomaglio e la direttrice dell’ufficio pubblicazioni della Camera Consuelo Amato: figlia del magistrato ed ex capo dell’amministrazione penitenziaria Nicolò Amato. Marito e moglie sono Stefano Cicconetti, dirigente di Montecitorio ora in pensione, e la sua collega ancora in servizio Maria Teresa Calabrò: figlia del potentissimo ex presidente del Tar Lazio e dell’Agcom Corrado Calabrò. Marito e moglie sono Alessandro Palanza, ex vicesegretario generale della Camera e la funzionaria Martina Mazzariol. Attualmente vicepresidente della Fondazione Italiadecide di Luciano Violante, Palanza ha guidato a lungo un’amministrazione nella quale aveva un ruolo di rilievo anche sua sorella Maria Rita. Marito e moglie sono Pietro Calandra, alto dirigente del Senato poi finito all’autorità di vigilanza dei lavori pubblici su indicazione del Pd e la funzionaria di Palazzo Madama Stefania Boscaini.

Gli intrecci con la politica
Ma si potrebbe andare avanti chissà quanto, notando come il gioco degli intrecci e delle parentele non sia limitato ai soli burocrati. Dice tutto quello intorno alla funzionaria della Camera Giuliana Coppi. Figlia del principe del Foro Franco Coppi, legale di Silvio Berlusconi, è sposata a sua volta con un altro avvocato. Non uno dei tanti. Il suo nome è Pierantonio Zanettin, senatore di Forza Italia eletto al consiglio superiore della magistratura in quota al partito di Berlusconi. Si potrebbe anche ricordare come il vicesegretario della Camera Guido Letta sia il nipote di Gianni Letta e cugino di Enrico Letta. Oppure che il funzionario del Senato Luigi Ciaurro sia figlio dell’ex ministro liberale Gianfranco Ciaurro, scomparso ormai quindici anni fa. O che Valentina Loiero, figlia dell’ex governatore della Calabria Agazio Loiero, e Giulia Laganà, figlia dell’ex parlamentare del Pd Tana De Zulueta, facciano parte dello staff della presidente Laura Boldrini. La cui segreteria, peraltro, era stata per otto mesi guidata da Marco Cerase, genero di Alberto Asor Rosa, prima che venisse trasferito ad altro incarico per far posto all’astro emergente Castaldi. Come dimenticare poi che l’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, ex senatore, aveva il fratello direttore del servizio del Senato, mentre suo cognato Francesco Petricone è funzionario della Camera? E che Cristiano Ceresani, un altro funzionario della Camera già vicecapo legislativo di Gaetano Quagliariello e oggi addirittura capo con il ministro Maria Elena Boschi, è il marito di Simona De Mita, quindi genero dell’ex presidente del Consiglio e attuale sindaco di Nusco Ciriaco De Mita?

19 gennaio 2015 | 07:50
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Da -http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_gennaio_19/consiglieri-commessi-segretari-ecco-parlamento-parenti-424c0af0-9fa5-11e4-84eb-449217828c75.shtml
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« Risposta #214 inserito:: Gennaio 24, 2015, 11:37:02 am »

Sprechi
Addio ai Palazzi Marini: la mensa resta e costerà 1 milione per un mese
Il calcolo Il questore Dambruoso (Sc): 73 euro a pasto. Replica della Camera: no, sono 17,50 euro

Di Sergio Rizzo

Settantatré euro. Per quanto sia davvero difficile immaginare che un singolo pasto in una mensa di un ufficio pubblico, per quanto di livello extra, possa costare ai contribuenti una cifra simile, sarebbe questo uno dei sorprendenti effetti collaterali della rescissione dei contratti per i palazzi Marini da parte della Camera.
Parliamo di quei quattro stabili che una quindicina d’anni fa l’amministrazione di Montecitorio aveva preso in affitto dall’immobiliarista nonché allevatore di cavalli Sergio Scarpellini per dare una scrivania a ogni deputato. A un costo medio annuo di 547 euro al metro quadrato, più il prezzo dei servizi. Per un totale sborsato, in tre lustri, di gran lunga superiore al mezzo miliardo: cifra che sarebbe stata più che sufficiente per acquistare tutti quegli immobili.

Finché un bel giorno, grazie soprattutto alle denunce pubbliche sull’enormità di quella spesa e al pressing determinante del Movimento 5 Stelle, che l’anno scorso è riuscito non senza resistenze a far passare una legge per consentire allo Stato di interrompere gli affitti passivi prima della scadenza pur in assenza di clausole precise, la Camera ha deciso di rescindere i contratti risparmiando una montagna di quattrini. E il 21 gennaio scorso sono state restituite le chiavi. Ma con una piccola coda: uno strascico da un milioncino di euro. Nel più grande dei palazzi Marini c’è anche la mensa per i dipendenti. Il servizio è curato da 45 dei 426 lavoratori della società Milano 90 di Scarpellini
 che potrebbero perdere il posto in seguito alla rescissione dei contratti. Per questo da mesi stanno andando avanti le trattative con i sindacati e per cercare di tamponare la situazione è scesa in campo anche la Regione Lazio che sta esaminando la possibilità di metter in campo le procedure di mobilità. Nel frattempo gli uffici dei deputati sono stati trasferiti in un altro stabile della Camera, a vicolo Valdina. E in attesa di perfezionare l’operazione del trasloco con un nuovo appalto per i servizi, si è deciso di far funzionare ancora la mensa fino alla fine del mese di febbraio.

Qui però viene il bello. Perché per tenere aperta la mensa e assicurare l’agibilità dei locali la società di Scarpellini ha richiesto il pagamento dell’affitto per tutto l’immobile, che resterà comunque completamente inutilizzato. O meglio, ci saranno i 45 addetti alla mensa più altri 45 lavoratori di solito impiegati nei servizi al piano. I quali però, com’è facilmente intuibile, non avranno proprio nulla da fare. «Uno spreco assolutamente insensato di denaro pubblico», per il questore di Scelta civica Stefano Dambruoso che ha votato contro la decisione presa dall’ufficio di presidenza della Camera. Non prima di aver messo per iscritto il proprio dissenso in una lettera girata a tutti i suoi componenti. Nella quale ha anche fatto i conti. Sommando all’onere del servizio mensa il canone per il palazzo vuoto, «l’operazione avrebbe un costo complessivo di 991.291,14 euro». Siccome poi «la media giornaliera dei pasti presso la mensa di palazzo Marini 3 mi viene riferito essere di 399, è facile calcolare che il costo di un singolo pasto, attesa la durata contrattuale di 34 giorni, sarebbe di 73 euro, considerando anche l’apertura il sabato e la domenica». Immediata la replica della Camera: «quei conti sono sbagliati, ogni pasto costa 17,50 euro». E la saga continua...

24 gennaio 2015 | 08:08
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_gennaio_24/palazzi-marini-mensa-camera-roma-a6c91b70-a393-11e4-808e-442fa7f91611.shtml
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« Risposta #215 inserito:: Febbraio 04, 2015, 08:09:16 am »

Il caso
Il buco nero dei servizi pubblici
In rosso anche le farmacie
Atac, gli autisti guidano la metà che a Milano.
Quasi 200 milioni spesi in attività finanziarie.
E Roma è l’unico Comune ad avere una compagnia assicurativa «in casa»

Di Sergio Rizzo

ROMA - Chiudere baracca e burattini. Per quanto fosse l’unica soluzione accettabile, nessuno prima d’ora aveva mai voluto guardare in faccia la realtà. Caso unico sul pianeta, il Comune di Roma possiede una propria compagnia assicurativa che copre dai rischi tutti i suoi veicoli. Ma a un costo assurdo. Il Campidoglio paga infatti alle Assicurazioni di Roma (Adir) premi 3,2 volte più cari rispetto al Comune di Milano. E liquida sinistri ancora più salati, con un rapporto rispetto al capoluogo lombardo di 4,2 a uno. Fece scalpore un paio d’anni fa l’indennizzo astronomico di 1,2 milioni versato senza battere ciglio dalla compagnia comunale allora presieduta da Marco Cardia, figlio dell’ex presidente della Consob Lamberto Cardia, al tronista di «Uomini e Donne» Karim Capuano che era andato a sbattere con la sua Smart contro un autobus. Ma altrettanto scalpore avrebbero dovuto provocare i 92.662 euro di costo pro-capite di ogni dipendente, contro una media di 68 mila delle compagnie private, e con «prestazioni di lavoro autonomo» salite del 42% in due anni. Oppure i 194,6 milioni investiti in attività finanziarie, dice un esplosivo dossier degli uffici comunali, ben più rischiose dei Bot. Non sta in piedi. Come non sta in piedi la Farmacap, azienda che gestisce 44 farmacie con 358 dipendenti, le uniche in Italia sempre in perdita che hanno costretto il Comune sei mesi fa a tirare fuori 15 milioni per tappare i buchi. Anche qui non c’è che una strada possibile: vendere.

Perché non sia stata percorsa prima, come del resto la liquidazione della Adir, è presto detto. I partiti non l’avrebbero permesso. E nemmeno ora lo vorrebbero consentire, a giudicare dalle reazioni al massiccio piano della giunta di Ignazio Marino di dismissioni e chiusure delle Municipalizzate romane, da Risorse per Roma al Centro Carni, dalle controllate dell’Ama a quelle dell’Atac, passando per le assicurazioni. Un universo gigantesco e dai confini imprecisati di oltre un centinaio di sigle, intorno al quale ruotano 37 mila stipendi per un costo di 1,4 miliardi l’anno, ma che non regge più. La situazione è al collasso, prova tangibile del degrado in cui la città è piombata, e non certo da ora. Fino a livelli dai quali risollevarla rischia di essere un’impresa quasi disperata. Lo squilibrio strutturale del Campidoglio, valutato in 550 milioni l’anno, è frutto anche di questo. Non c’è forse città nella quale sprechi e inefficienze delle società comunali siano così storicamente radicati, fra clientele e ombre di corruzione.

Sinistri scricchiolii si avvertono dappertutto. Il Tesoro, che ne è azionista al 90%, ha deciso di portare in tribunale i libri della super indebitata Eur spa, società amministrata fino a un anno fa da un fedelissimo del sindaco Gianni Alemanno: quel Riccardo Mancini accusato di tangenti per i filobus dell’Atac e ora finito in carcere per lo scandalo Mafia Capitale. Ma fa venire i brividi anche la situazione dell’Ama, un gruppo con oltre 11 mila dipendenti. La città ferita da Mafia Capitale è sporca, talvolta al limite dell’indecenza. Nel rapporto scritto un anno fa dagli ispettori della Ragioneria ci sono pagine che fanno riflettere a proposito della controllata Multiservizi, società che si occupa della pulizia delle scuole e alla quale partecipa la Manutencoop della Lega con il 45,5% e una ditta privata (La Veneta servizi) con il 3,5%. Si racconta di un rapporto con il Campidoglio costellato di irregolarità, con gare dall’esito stridente, affidamenti diretti e proroghe discutibili.

E poi l’Atac. Non esiste al mondo città più congestionata di Roma. Due milioni e 800 mila veicoli per poco più di due milioni e 800 mila persone è un record inarrivabile. Ce ne sono 978 per ogni mille abitanti, con 700 mila fra moto e scooter. Una follia. A Parigi i veicoli circolanti ogni mille residenti sono 415. A Londra, 398. Si calcola che nella città di Roma il traffico faccia perdere 135 milioni di ore l’anno. Come se ogni cittadino, dai neonati agli ultracentenari, restasse imprigionato due giorni nell’auto. Un miliardo e mezzo di euro evapora così. Più il miliardo e 300 milioni del costo degli incidenti: nel 2012 ce ne sono stati 15.782, con 154 morti e 20.670 feriti. Incalcolabili il prezzo per l’ambiente e le conseguenze per la salute dei cittadini, mentre l’uso del trasporto pubblico è trascurabile. Nelle ore di punta non va oltre il 28%. E pensare che l’Atac paga 12.184 stipendi, mille più dell’Alitalia. Duemila, anzi, considerando l’appalto delle linee suburbane: i sindacati erano riusciti pure ad affrancare i loro iscritti dell’Atac dal fastidio di guidare in certe periferie. Incombenza quindi affidata, dietro compenso annuo di 107 milioni, al consorzio privato Tpl.

Negli ultimi cinque anni l’Atac ha accumulato perdite per 997 milioni. L’azienda gestisce 330 linee di superficie contro le circa 100 di Milano, che ha però una robusta ed efficiente rete di metropolitane, incassando circa metà dei biglietti della milanese Atm. Gli autisti guidano mediamente 32 ore alla settimana, con un massimo giornaliero di 6 ore e 20, mentre nel comparto tram e metro le ore di guida annue pro-capite non superano le 736, contro 850 a Napoli e 1.200 a Milano. Il tutto grazie ad accordi sindacali negoziati direttamente con il livello politico. Le sigle sindacali sono 13 e gli iscritti 9.684, più dell’80%. Sulla base delle vecchie intese le ore annue di permesso sindacale erano 153 mila, corrispondenti a 90 persone sempre assenti dal lavoro. Quando Marino si è insediato, gli autisti temporaneamente inidonei alla guida erano poco meno del 10% dei circa 4.500 in forza all’azienda.

Poi c’è la città. Con le strade distrutte e buche e voragini che massacrano i mezzi. Con le macchine perennemente in seconda fila a ostruire il traffico, fra l’indifferenza dei vigili urbani, dei quali ce ne sono in strada al massimo mille su seimila. Con 100 chilometri appena di corsie preferenziali, meno della metà rispetto a Milano: l’1,8 per cento dell’intero sviluppo viario del territorio comunale.

Non che a fronte di un tale disastro non si stia facendo nulla. Ci sono più controllori, l’assenteismo è calato, diversi dirigenti sono stati accompagnati alla porta, le perdite sono calate. Gli accordi sindacali integrativi sono stati disdettati. Il nuovo piano industriale prevede che si guidino gli autobus 36 ore alla settimana e la metro 900 ore l’anno, una lotta più dura all’evasione, la vendita di immobili per 190 milioni... Ma la buona volontà non cancella il sospetto che al punto in cui siamo servirebbe forse uno choc ancora più violento. E non solo all’Atac. Dove per inciso c’è un amministratore delegato che a quell’incarico ne somma altri sette, fra cui la presidenza di Poste assicura, del gruppo Poste italiane. «Prendo 67.500 euro lordi l’anno. Al sindaco ho detto che avrei accettato l’incarico solo a patto di poter continuare a svolgere la mia attività», spiega Danilo Broggi. Ne conveniamo: resta il dubbio se sia giusto pagare chi è chiamato a gestire un’azienda pubblica, e nelle condizioni dell’Atac, meno della metà di un commesso anziano del parlamento. Ma che possa essere amministrata part time, è un fatto altrettanto singolare.

2 febbraio 2015 | 08:24
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Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_febbraio_02/buco-nero-servizi-pubblici-rosso-anche-farmacie-6ca98d5e-aaa9-11e4-87bf-b41fb662438c.shtml
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« Risposta #216 inserito:: Febbraio 13, 2015, 02:45:36 pm »

I COSTI DELLA POLITICA il DOSSIER
Enti, fondazioni e authority
Il collocamento dei non rieletti pd
Uno su due ha avuto un posto tra società pubbliche e impieghi «politici»

Di Sergio Rizzo

Di esperienza sul campo ne aveva da vendere. Era lui che dagli schermi di Video Calabria conduceva Calabria Verde, trasmissione d’inchiesta sull’agricoltura calabrese. A Francesco Laratta detto Franco mancava solo un adeguato riconoscimento istituzionale. Mai dire mai: a settembre del 2014 ha avuto un posto nel consiglio di amministrazione dell’Ismea, l’istituto pubblico per i servizi nel mercato agricolo. Trombato alle politiche del 2013, il coordinatore regionale di Areadem, componente del Pd che fa riferimento a Dario Franceschini, è stato uno degli ultimi ex onorevoli del partito di maggioranza a trovare una ricollocazione. Sia pure come semplice consigliere di un ente statale non di primo livello.

- I NUMERI: ECCO I DEM FUORI DAL PARLAMENTO …

Non si può lamentare. A causa di un ricambio generazionale senza precedenti il giorno dopo le elezioni ben 165 onorevoli democratici della scorsa legislatura si sono trovati senza seggio. Considerando le componenti esterne, vedi i radicali che facevano parte del gruppo Pd, o quanti rimasti fuori dal Parlamento per scelta personale che certo non aspirano alla poltroncina di una società pubblica, si riducono a 135. Ma sono comunque un esercito. E chi si aspettava cambiamenti con la nuova stagione politica deve ricredersi.

Perché la realtà dei fatti è ben diversa dalle dichiarazioni di principio. Tanto più che nel 2013 è intervenuto un fatto nuovo e non trascurabile: l’impossibilità per gli ex onorevoli di riscuotere il vitalizio prima dei sessant’anni. Così pure in questi due anni si è assistito a una strisciante e metodica opera di risistemazione dei parlamentari bocciati o esclusi dalle liste. E se il termine «riciclati» può apparire in qualche caso esagerato, vero è che una buona metà ha avuto un incarico pubblico o ha intercettato un ruolo legato in qualche modo alla politica.

In sei sono stati ricandidati o rieletti in altri partiti, salvo poi (qualcuno) rientrare nel Pd. Altrettanti hanno avuto incarichi nelle amministrazioni locali, e non parliamo soltanto dei sindaci di Roma (Ignazio Marino) o di Catania (Enzo Bianco): ma anche di Giovanni Lolli, assessore alla Ricostruzione della Regione Abruzzo, e di Alberto Fluvi, capo segreteria dell’assessore al Bilancio della Toscana Vittorio Bugli.

Sono per ora tredici, invece, i destinatari di incarichi di partito. E anche qui c’è incarico e incarico, perché una cosa è fare come l’ex senatore Fabrizio Morri il segretario provinciale a Torino o come l’ex deputato Stefano Graziano il presidente del partito in Campania, e un altro conto essere direttore generale del gruppo pd alla Camera, qual è Oriano Giovanelli.

In cinque si sono trasferiti al governo con ruoli che vanno da viceministro dell’Economia (Enrico Morando), a consigliere del ministro della Giustizia Andrea Orlando (Guido Calvisi), a capo della segreteria tecnica del sottosegretario alla presidenza con delega ai servizi segreti Marco Minniti. Quest’ultimo è il caso di Achille Passoni, ex senatore di provenienza Cgil, marito della neoeletta senatrice Valeria Fedeli, già sindacalista Cgil e ora vicepresidente di Palazzo Madama.

Ancora. A diciotto ex parlamentari del Pd sono stati attribuiti incarichi in fondazioni, authority, enti e organismi pubblici di vario tipo. Sia pure con enormi differenze fra ruoli simbolici e posti di grande potere. Mario Cavallaro è diventato presidente del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria. Antonello Soro, presidente dell’Autorità garante della privacy. L’ex senatrice e insegnante Marilena Adamo, presidente della Fondazione scuole civiche del Comune di Milano. L’ex segretario della Cisl e già viceministro Sergio D’Antoni, presidente del Coni Sicilia. L’ex deputata Rosa De Pasquale, direttore dell’ufficio scolastico della Toscana: nomina alla quale la Corte dei conti, come ricordato dal Fatto Quotidiano, ha rifiutato la registrazione. L’ex senatore Carlo Chiurazzi, trombato alle Politiche 2013, presidente del Consorzio di sviluppo industriale di Matera. Mariapia Garavaglia, consigliere della Fondazione Arena di Verona. L’ex onorevole Federico Testa, commissario dell’Enea. L’ex ministro Luigi Nicolais, presidente del Consiglio nazionale ricerche: nomina che al pari di quella di Soro ha preceduto di poco le elezioni. Idem per Giovanna Melandri, passata direttamente da Montecitorio alla presidenza del Maxxi. Giovanni Forcieri, che ha preso il suo posto, era presidente dell’Autorità portuale di La Spezia. E su quella poltrona è stato ricollocato senza alcuna difficoltà dopo la breve parentesi parlamentare. Mentre troviamo Luciana Pedoto, laureata in Economia e specializzata in «epidemiologia dei servizi sanitari», ex segretaria di Giuseppe Fioroni ed ex onorevole non rieletta, all’Istituto nazionale di astrofisica. È responsabile di trasparenza e anticorruzione.

Competenze a parte, su cui pure ci sarebbe molto da dire, il punto è il metodo con cui vengono fatte certe scelte. Le società e le aziende pubbliche, per esempio. Pure lì, dove secondo i piani del governo dovevamo assistere a tagli impietosi, si è assistiti all’inesorabile migrazione degli ex.

Di Pier Fausto Recchia alla guida di Difesa servizi abbiamo parlato in varie occasioni. Come dell’assunzione a Invitalia di Costantino Boffa dopo selezione ministeriale ad hoc. Poco, invece, si è detto delle nomine della Regione Lazio alle presidenze delle Ipab: all’Istituto Sacra Famiglia è stato collocato Jean Léonard Touadi; a Santa Maria in Aquiro, Massimo Pompili. Oppure della designazione di Sandro Brandolini alla vicepresidenza di Cesena Fiera. O dello sbarco di Maria Leddi al posto di amministratore unico di Ftc holding, serbatoio di partecipazioni del Comune di Torino. E dei tre incarichi all’ex deputato Ivano Strizzolo: presidente dei revisori della Unirelab S.r.l., società del ministero dell’Agricoltura (di cui figura procuratore Silvia Saltamartini, sorella l’ex portavoce alfaniana Barbara Saltamartini al tempo stretta collaboratrice dell’ex responsabile di quel dicastero Gianni Alemanno) nonché sindaco di Istituto Luce e Postecom. La presidenza di un’altra società delle Poste, la compagnia aerea postale Mistral Air, è toccata a Massimo Zunino. Il quale, uscito dalla Camera, ha costituito anche una società di consulenza, la Klarity innovaction consulting, insieme a due suoi colleghi di partito rimasti anche loro senza seggio. Ovvero, Michele Ventura e Andrea Lulli.

Modo alternativo, sembrerebbe, con cui può fruttare la ricca esperienza parlamentare. Un po’ come è capitato a coloro che hanno assunto per strade diverse incarichi «privati» ma non proprio estranei alla storia politica di ciascuno. L’ex ministro Giulio Santagata, prodiano senza se e senza ma, è consigliere delegato di Nomisma, la società di consulenza fondata da Romano Prodi. Due mesi fa l’ex prefetto e senatore Luigi De Sena è stato cooptato nel consiglio del Colari, la società di smaltimento dei rifiuti che fa capo a Manlio Cerroni, come garante degli accordi con la municipalizzata romana Ama. Per non parlare degli incarichi di curatore fallimentare (Cinzia Capano) o di liquidatore di cooperative sociali (Ezio Zani, subentrato a Soro e poi trombato alle elezioni). E senza contare chi, rieletto, al seggio ha preferito il «privato»: la senatrice Rita Ghedini, ora presidente di Legacoop Bologna.

8 febbraio 2015 | 08:19
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_febbraio_08/enti-fondazioni-authority-collocamento-non-rieletti-pd-parlamentari-f9433bf4-af61-11e4-bc0d-ad35c6a1f8f9.shtml
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« Risposta #217 inserito:: Febbraio 18, 2015, 07:59:07 am »

Il commissario al debito
Il funzionario licenziato dallo Stato ma costretto a continuare a lavorare
Massimo Varazzani è stato rimosso dopo il ricorso vinto dal suo predecessore Oriani, che però non ha ripreso l’incarico. Il caso finito alla Consulta

Di Sergio Rizzo

ROMA - Un alto funzionario licenziato dallo Stato può essere costretto dal medesimo Stato a continuare a lavorare? Impossibile, penserete. Invece è proprio la situazione kafkiana nella quale si trova Massimo Varazzani, il commissario governativo al vecchio debito del Comune di Roma. Circa un mese fa il governo di Matteo Renzi ha revocato il decreto con il quale l’esecutivo di Silvio Berlusconi gli aveva affidato quell’incarico, al posto del magistrato della Corte dei conti Domenico Oriani. Quella decisione è stata presa per evitare una figuraccia allo Stato italiano, anticipando la sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio dove pende un ricorso contro quel provvedimento del 2011. L’esito negativo di quel giudizio sarebbe infatti scontato, a causa di una sentenza sacrosanta della Corte costituzionale.

Il caso alla Consulta
Ricordiamo com’è andata. Nel 2010 il ministro dell’Economia Giulio Tremonti affida l’incarico di commissario a Varazzani, reduce dalla Cassa depositi e prestiti. Lo fa con un decreto di nomina che stabilisce contestualmente la revoca di Oriani. Il quale non ci sta e fa immediato ricorso, puntualmente accolto dal Tar. I geni del ministero dell’Economia pensano allora di correre ai ripari infilando nella legge «Milleproroghe» a cui siamo da anni ormai abituati, una norma che impone per l’incarico di commissario al debito di Roma una precedente esperienza nel campo privato. Che Varazzani, già dirigente di rango di Intesa San Paolo ha. E Oriani invece no. Inevitabile un nuovo ricorso e inevitabile pure che la cosa finisca alla Consulta. Dove nel luglio 2014 i giudici non possono che stabilire l’incostituzionalità di una disposizione in base alla quale un incarico pubblico dovrebbe essere condizionato a una precedente esperienza privata. Con il risultato che il Tar, nell’udienza prevista per il 28 gennaio 2015, sarebbe obbligato ad annullare il secondo decreto di nomina di Varazzani, rimettendo in sella per la seconda volta Oriani.


La beffa per il Commissario
Vista la mala parata, il governo sceglie di abrogare di propria iniziativa quel vecchio provvedimento, evitando così il giudizio. Ma qui c’è una nuova sorpresa, perché all’udienza del 28 gennaio nella quale al Tar si dovrebbe prendere atto che il Tesoro ha gettato la spugna e la faccenda si chiude per cessata materia del contendere, i legali di Oriani si oppongono al decreto che licenzia Varazzani. Per ragioni che fatichiamo a capire vogliono una sentenza. Perciò la Corte dei conti, della quale Oriani è presidente onorario, non registra il decreto. E il Tar rinvia tutto alla fine di aprile. Il risultato è che Varazzani, pur avendo l’incarico revocato, è costretto a continuare a fare abusivamente il commissario, firmando atti necessari a evitare il rischio di default: andrebbe ricordato che ci sono in ballo miliardi di euro.
Finché non c’è il successore non può abbandonare la cassa. Ma del sostituto, per ora, nemmeno l’ombra. Su quella poltrona che scotta non rivedremo certamente Oriani, che ha compiuto 79 anni a ottobre ed è in pensione. Si fa il nome, fra gli altri, del segretario generale del Comune di Roma Liborio Iudicello.

I costi per i contribuenti
Dopo quanto è accaduto, però, è tutto in alto mare. E non si può che ripensare al tempo perso in una vicenda giudiziaria surreale dovuta alla superficialità dei mandarini che hanno combinato il pasticcio ma non saranno chiamati a risponderne. Una vicenda della quale hanno fatto le spese soltanto i diretti interessati e soprattutto i contribuenti: ai quali l’incompetenza di burocrati lautamente retribuiti è costata un sacco di soldi.

15 febbraio 2015 | 09:08
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Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_febbraio_15/funzionario-licenziato-stato-ma-costretto-continuare-lavorare-7da64240-b4e6-11e4-b826-6676214d98fd.shtml
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« Risposta #218 inserito:: Febbraio 20, 2015, 04:44:56 pm »

Il COMMENTI
Il manager della Fiera licenziato e la demagogia sugli stipendi d’oro
Il dg è stato licenziato in tronco perché ha rifiutato il taglio della retribuzione da 280 a 81 mila euro

Di Sergio Rizzo

ROMA - Segno dei tempi. Il direttore di Investimenti spa, una società pubblica controllata dalla Camera di commercio di Roma, di cui sono azionisti anche la Regione Lazio, il Comune e la Provincia di Roma, è stato licenziato per essersi rifiutato di ridurre il proprio stipendio. Le agenzie di stampa che hanno dato la notizia informano che la sua retribuzione era stata già ridotta da 300 mila a 280 mila euro l’anno, ma la richiesta del consiglio di amministrazione era quella di allineare il compenso al livello di quello dell’amministratore delegato: 81 mila euro.

Paghe astronomiche e demagogia
Fino a un anno fa, c’è da giurarci, una decisione del genere non sarebbe mai stata presa. Ma il direttore generale di un’azienda pubblica non avrebbe neppure ricevuto una richiesta simile in termini tanto perentori. E la dice lunga pure il fatto che Vincenzo Alfonsi, questo il suo nome, non verrebbe rimpiazzato: fatto dal quale si potrebbe dedurre che quella poltrona è ritenuta di scarsa utilità. Segno dei tempi, dunque. Tempi segnati dalla crisi più grave da un secolo a questa parte e dalla giusta necessità di farla finita con certi privilegi quali le paghe astronomiche e non di rado ingiustificate di manager e burocrati pubblici. Segnati però, in certi casi, anche da una discreta dose di demagogia.

Legare stipendi ai risultati
Non conosciamo nei dettagli il caso di Alfonsi, quali fossero le sue competenze specifiche e le sue responsabilità. Abbiamo però contezza di quale macigno abbia sulle spalle l’amministratore delegato di un’azienda come l’Atac: basta dire che il numero dei dipendenti è superiore a quello dell’Alitalia e i problemi di sicuro non sono molto inferiori. Ebbene, le norme stabiliscono che chi la guida non può guadagnare più dell’80 per cento del sindaco. Ovvero, 67.500 euro lordi l’anno. E dato che il bilancio è strutturalmente in perdita, l’amministratore delegato dell’Atac non può incassare premi di produttività. Accontentandosi quindi di portare a casa meno di un quarto di uno degli avvocati dipendenti del Comune di Roma. Assurdo. La cosa più logica sarebbe modificare il sistema introducendo la regola che i pubblici amministratori vengano retribuiti non secondo tetti prestabiliti ma sulla base dei risultati reali ed effettivi: non soltanto quelli dei bilanci aziendali ma anche sul fronte dell’efficienza e della qualità dei servizi. Sappiamo che cedere alla demagogia, soprattutto in momenti come questo, è molto più facile. Ma con la realtà, alle volte, bisogna fare i conti.

13 febbraio 2015 | 08:23
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Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_febbraio_13/manager-fiera-licenziato-demagogia-stipendi-d-oro-5747f1d6-b34f-11e4-8ea5-42a1b52c991f.shtml
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« Risposta #219 inserito:: Febbraio 27, 2015, 04:28:15 pm »

Il mausoleo dei Plautii è una discarica a cielo aperto
Il tesoro romano di Tivoli violato

Di Sergio Rizzo

«Idea! Mettiamoci un paio di oblò...». L’idea venne a qualcuno alla Regione Lazio, con l’illusione di placare le proteste contro il muro della vergogna. Succedeva dieci anni fa, quando la barriera di cemento armato che avrebbe dovuto salvare dai frequenti allagamenti un’area a ridosso del fiume Aniene era stata appena tirata su. Gli oblò avrebbero dovuto permettere ai turisti di dare una sbirciatina (sigh!) al di là del muro, dove lo spettacolare mausoleo dei Plautii, che con la celebre tomba di Cecilia Metella sull’Appia Antica è uno dei rarissimi esempi di sepolcri monumentali delle famiglie nobiliari romane dell’età tardo repubblicana, stava precipitando nel degrado. Gli oblò ebbero il buon gusto di risparmiarceli. Il muro, invece, è ancora lì. E gli allagamenti puntualissimi.

La storia di questa follia può essere presa a esempio degli sprechi insensati che produce l’ottusità di certe burocrazie, ma anche di quello che succede al nostro e prezioso patrimonio quando ci sono in ballo interessi economici privati. Il mausoleo dei Plautii era il primo monumento che veniva incontro ai viaggiatori del Grand Tour, di cui Tivoli era tappa fondamentale. Per arrivare a Villa Adriana, maestosa residenza dell’imperatore Adriano, Wolfgang Goethe e Giovan Battista Piranesi ci passavano davanti appena dopo aver attraversato il ponte Lucano, costruito fra il crepuscolo della repubblica e l’alba dell’impero romano. Su quel ponte che si poteva ancora attraversare in auto trent’anni fa e oggi ha tre delle cinque arcate sepolte dai materiali trasportati dal fiume, come i detriti scaricati dalle industrie di travertino e mai rimossi, si incontrarono papa Adriano IV e Federico I Barbarossa: incontro che sancì una cosetta da nulla come la nascita del Sacro romano impero. Tanto basterebbe perché quel ponte e tutto quello che c’è intorno, compreso lo straordinario mausoleo dei Plautii con iscrizioni ancora quasi perfette nelle quali si citano l’impresa militare della conquista della Britannia, fosse considerato un’attrazione formidabile custodita con la massima cura. E anche una fonte di reddito e lavoro non indifferente. Accadrebbe in qualunque altro Paese civile al quale fosse capitato di avere un’eredità tanto preziosa. Ma non in Italia. Non a Tivoli, che pure fu il cuore dell’impero romano nei suoi anni più smaglianti.

Ponte e mausoleo sono inaccessibili, chiusi da quel muro che taglia in due l’antica via Tiburtina e da una barriera di lamiera arrugginita. Intorno, ovunque immondizia che nessuno raccoglie: bottiglie di plastica, lattine, stracci, siringhe, cartacce, liquami. Da un lato, i ruderi di una vecchia osteria seicentesca diroccata che non crollano del tutto soltanto perché indecorosamente puntellati. Alle sue spalle, una orrenda superfetazione abusiva abusivamente occupata da alcuni rom. E poi il mausoleo: il basamento sepolto da una colata (abusiva) di cemento mentre la parte che ne è stata risparmiata viene divorata dalla vegetazione. Non che prima della costruzione di quel muro la cura di quel sito, che oggi è per l’organizzazione americana World Monument Fund fra i cento monumenti del pianeta da salvare, fosse molto migliore. La dimostrazione è che quella straordinaria area archeologica è da decenni stritolata fra capannoni industriali e brutture edilizie di vario genere. Ma il muro è stato un autentico colpo di grazia. I lavori vengono completati dall’Ardis, l’Agenzia per la difesa del suolo della Regione Lazio, nell’estate del 2004, con la giustificazione che la barriera dovrebbe difendere la zona dalle esondazioni dell’Aniene. Sindaco di Tivoli è l’attuale capogruppo del Partito democratico al consiglio regionale del Lazio, Marco Vincenzi. Ministro dei Beni culturali è Giuliano Urbani di Forza Italia, che evidentemente non può opporsi. La Regione costruisce il muro riempiendo anche l’area di cemento senza il benestare della Soprintendenza, e una successiva denuncia al tribunale di Italia Nostra e del Wwf viene archiviata con la motivazione pilatesca che le opere «costituiscono esercizio di discrezionalità amministrativa». Peccato che non sia mai stato fatto uno studio sulle cause delle esondazioni. E peccato che quella «discrezionalità amministrativa» che tanto diligentemente ha sottolineato il magistrato nella sua sentenza non abbia neppure risolto il problema. Perché manca un collettore fognario, e continua ad allagarsi tutto all’interno e all’esterno del muro. Incuranti del ridicolo, alla Regione hanno allora pensato di risolvere la faccenda installando delle pompe idrovore che aspirano l’acqua dalla strada e la sputano verso il ponte e il mausoleo. Il tutto senza che quell’opera, a dieci anni di distanza, sia stata ancora collaudata. Chi mai potrebbe collaudare un tale abominio? Più che logica, quindi, la decisione del nuovo arrabbiatissimo sindaco di Tivoli, Giuseppe Proietti, finalmente determinato a prendere di petto la questione, che nel luglio scorso ha chiesto alla Regione di revocare la vecchia pratica di eliminazione del vincolo di esondazione: con la motivazione che quella roba non serve a niente.

I quattro milioni e mezzo di euro spesi non sono nemmeno serviti a evitare che il Comune sia sommerso da cause di risarcimento per i danni provocati dagli allagamenti. Con esborsi milionari anno dopo anno. Mentre il protocollo d’intesa per il recupero dell’area, firmato addirittura nel 2005 sull’onda delle proteste dei cittadini e delle associazioni ambientali, è ancora lettera morta. E qui, riavvolgendo il nastro, vengono tanti pensieri. Pure che lo scempio non sia solo frutto di umana stupidità e incoscienza. Il problema di quel tratto dell’Aniene è noto da decenni: ha a che fare con il restringimento artificiale del fiume causato dai detriti. Per risolverlo non serve un muro, ma una seria opera di bonifica e il rispetto del divieto (esistente per legge) di scaricare materiali nell’alveo. Lo capirebbe anche un bambino. Perché allora si è scelto di alzare una barriera di cemento armato di quattro metri, spendendo inutilmente tutti quei soldi? C’è chi ha tirato in ballo la legge in materia di difesa idraulica emanata dopo il disastro della frana di Sarno, nel 1998. E c’è chi, come Italia Nostra e Wwf che l’hanno scritto nell’esposto rigettato dal tribunale di Tivoli, ha avanzato il sospetto che l’obiettivo non era tanto quello di evitare le esondazioni quanto quello di far venir meno il vincolo alla zona antistante Villa Adriana. Per dare via libera a una lottizzazione. Pura fantasia, dicono... Anche se qualche volta la realtà supera la fantasia.

22 febbraio 2015 | 20:50
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Da - http://www.corriere.it/inchieste/mausoleo-plautii-discarica-cielo-aperto/a725697a-baae-11e4-9133-ae48336c4c83.shtml
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« Risposta #220 inserito:: Marzo 07, 2015, 04:25:40 pm »

Il caso
Quote latte, costo infinito: punita la «grazia» agli allevatori multati
Deferimento dell’Italia alla Corte di giustizia per non aver recuperato dagli allevatori, che avrebbero sforato le quote latte imposte dall’Europa, multe per 1,3 miliardi

Di Sergio Rizzo

Roma, confederazione italiana degli agricoltori protesta a Montecitorio contro il decreto sulle quote latte (Jpeg) Roma, confederazione italiana degli agricoltori protesta a Montecitorio contro il decreto sulle quote latte (Jpeg)

Non serviva certo la palla di vetro per sapere come andava a finire. Era scontato il deferimento dell’Italia alla Corte di giustizia per non aver recuperato dagli allevatori che avrebbero sforato le quote della produzione di latte imposte dall’Europa multe per 1,3 miliardi già pagate dallo Stato. La melina era andata avanti per anni, confidando che la patata bollente sarebbe toccata al prossimo governo, o al successivo ancora. Nonostante richiami sempre più severi: due lettere di messa in mora avevano preceduto il deferimento annunciato ieri da Bruxelles dopo aver riscontrato la mancanza di «alcun progresso significativo nel recupero».

La ragione, fin troppo facile da comprendere: pretendere quelle multe era impopolare. Tanto più pretenderle da coloro ritenuti i più fedeli fra i propri elettori. Fedeli al punto che il leader dei Cobas del latte Giovanni Robusti, inguaiato pure con i giudici ordinari e contabili, era stato senatore della Lega Nord nel 1994 ed europarlamentare nel 2008. E se il Carroccio si metteva di traverso, non è che gli altri partiti si stracciassero le vesti perché non si chiedevano i soldi agli allevatori. Poco importa se l’inerzia dettata dal tornaconto politico caricava sulla collettività un peso finanziario immane e il rischio di una sanzione europea salatissima. Pagheranno i contribuenti, come sempre. Anche perché per questo genere di faccende, a differenza di quanto spesso accade qui, la prescrizione non opera.

Solo che questa volta il destino ha giocato uno scherzo beffardo, facendo scattare il deferimento quando è in carica un governo che quelle multe si è mostrato deciso a farle pagare. Il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina, secondo cui il segretario leghista Matteo Salvini ora dovrebbe mettersi una felpa con su scritto «scusa», dice che in questi giorni sono partite le cartelle indirizzate a 1.300 allevatori che dovrebbero all’erario 832 milioni. Altri 507 milioni sono invece incagliati nella solita giungla di ricorsi: e lì allarga le braccia. Ma temiamo che non basti per impietosire Bruxelles. Meglio prepararsi al peggio.

27 febbraio 2015 | 09:45
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Da - http://www.corriere.it/cronache/15_febbraio_27/quote-latte-costo-infinito-punita-grazia-allevatori-multati-686d9928-be5a-11e4-abd1-822f1e0f1ed7.shtml
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« Risposta #221 inserito:: Marzo 09, 2015, 05:03:51 pm »

Trani, agenzie di rating
Un processo e domande scomode

di Sergio Rizzo

Al processo di Trani contro le agenzie di rating accusate di manipolazione del mercato per i declassamenti del nostro debito pubblico avvenuti nel 2010 e nel 2011 il governo italiano non si è costituito parte civile, sollevando pesanti critiche della destra. Critiche, riteniamo, non proprio campate in aria.

In un suo recente parere l’Avvocatura dello Stato ha affermato: «La costituzione di parte civile risulta opportuna qualora vengano in rilievo interessi pubblici, patrimoniali e non patrimoniali, di rilevanza talmente elevata da postulare come necessario l’affiancamento del pubblico ministero nel processo penale». E in questo caso gli interessi patrimoniali dello Stato non si possono certo definire irrilevanti, a cominciare dall’aggravio della spesa per interessi che quelle decisioni hanno causato.

La pubblica accusa ha sottolineato che dopo il declassamento da parte di Standard & Poor’s da A a BBB+ del debito italiano, il governo di Mario Monti dovette pagare in base a una clausola del contratto di finanziamento ben 2,5 miliardi di euro alla Morgan Stanley. Banca d’affari americana che è fra gli azionisti di Mc Graw Hill, proprietario della medesima agenzia di rating.

Andrebbe però pure ricordato che all’epoca dei fatti nessun leader politico di spicco prese la faccenda sul serio: né a destra, né a sinistra. D avanti al fatto che a indagare fosse un pubblico ministero, Michele Ruggiero, di una procura di periferia come quella di Trani, facevano tutti spallucce. Tutti, tranne il deputato del Pd Francesco Boccia, pugliese, che invocò invano la costituzione di un’agenzia di rating europea per liberarsi dal giogo delle società americane, e tranne il suo collega del Pdl Francesco Paolo Sisto, pugliese anch’egli, che capitanò un manipolo di onorevoli del centrodestra pronti a costituirsi loro parte civile.

Fecero spallucce anche uffici giudiziari ben più blasonati. L’inchiesta, come spesso accade in Italia, partì da un esposto presentato da alcune associazioni dei consumatori nel quale si sosteneva che i declassamenti del debito italiano erano funzionali a un’enorme speculazione ai nostri danni orchestrata dai colossi finanziari in combutta con le agenzie di rating. La denuncia era stata recapitata a una decina di procure della Repubblica, da Roma a Milano, ma soltanto quella di Trani la prese in considerazione. Beccandosi anche in seguito gli sfottò di influenti magistrati che l’accusavano neanche troppo velatamente di protagonismo. Convinti com’erano, evidentemente, che tutto sarebbe a finito in una bolla di sapone. Si sbagliavano di grosso: l’inchiesta è sfociata nel rinvio a giudizio di due analisti di Fitch e di sei esperti di Standard & Poor’s. Siamo dunque nuovamente alla decisione del governo di non costituirsi parte civile. Su quella storia si possono avere opinioni politiche diverse. Anche ritenere il procedimento infondato. Magari tutto si concluderà con un’assoluzione e gli imputati ne usciranno immacolati. Glielo auguriamo di cuore. Ma si dà il caso che ci sia un processo in corso nel quale gli interessi dello Stato non sono affatto trascurabili.

Indipendentemente dal dibattimento e dai suoi esiti, qui si pone tuttavia un’altra serie di problemi. Che le valutazioni delle agenzie di rating siano talvolta basate su stime così datate nel tempo da risultare poco aderenti alla realtà del momento in cui avviene il declassamento, è stato oggetto di ampia discussione. Come è conclamato che in capo a quelle società s’intreccino conflitti d’interessi mai risolti, capaci di gettare ombre sulle decisioni. Basterebbe rammentare le figuracce rimediate nei casi Enron e Parmalat. Elementi di cui tutti i governi sono sempre stati a conoscenza, e che avrebbero dovuto consigliare in questo frangente maggiore prudenza e minore indifferenza.

Il fatto è che l’inchiesta di Trani dovrebbe spingere a fare finalmente luce su quelle vicende del 2010-2011 anche i loro protagonisti. Per sgombrare il campo, se non altro, dai sospetti sorti in questi anni alimentando l’idea che la finanza sia diventata soltanto un gioco di biechi complotti.
Alcuni sospetti certamente risibili, come il fatto che il declassamento fosse parte di un disegno planetario ordito per far cadere il governo di Silvio Berlusconi e sostituirlo con un esecutivo prono ai diktat di Berlino e agli interessi degli speculatori mondiali.

Altri, invece, assai meno infondati. Esiste davvero una profonda e inconfessata sudditanza del nostro potere politico, di quale orientamento poco importa, nei confronti della grande finanza internazionale? Un atteggiamento che potrebbe essere motivato dai 160 miliardi di derivati emessi da quei soggetti che il Tesoro ha in portafoglio, e come sta a dimostrare il caso Morgan Stanley possono rivelarsi una bomba a orologeria: meglio allora non farli arrabbiare. Comprensibile, forse. Impossibile, però, non notare come molti dei nostri ex ministri ed ex direttori generali del Tesoro, per non parlare di qualche ex presidente del Consiglio, abbiano avuto in passato o abbiano tuttora rapporti di consulenza o dipendenza con le merchant bank che ci hanno finanziato o hanno prestato servizi lautamente retribuiti dallo Stato italiano. Anche questo aspetto andrebbe chiarito una volta per tutte.

9 marzo 2015 | 08:12
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_marzo_09/processo-domande-scomode-6b17371a-c620-11e4-80fc-ae05ebe65fb1.shtml
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« Risposta #222 inserito:: Marzo 19, 2015, 06:07:17 pm »

L’editoriale
La ragnatela dei mandarini
Il potere (eterno) dei burocrati

Di Sergio Rizzo

La chiave della storia che vede protagonista Ercole Incalza è tutta in una frase che dice al telefono il ministro Maurizio Lupi, minacciando la crisi di governo in caso di chiusura della struttura in mano al suo «consulente». Dal che è agevole dedurre chi dei due, nel suo ministero, avesse il potere reale. Lupi stava lì da nemmeno un paio d’anni. Incalza frequentava il palazzone di Porta Pia da più di trenta.

In ogni democrazia sana ed efficiente c’è un principio fondamentale che ne regola il funzionamento: l’esistenza di un confine chiaro e invalicabile fra politica e burocrazia. Una frontiera che in Italia si è andata via via indebolendo, fino a diventare in alcuni casi impalpabile. E questo caso ne è la dimostrazione lampante, anche se non l’unica.

Le conseguenze di un’anomalia tutta italiana, come purtroppo emerge dalle inchieste giudiziarie, possono risultare estreme. Non c’è indagine sulle opere pubbliche dove non emerga una perversa confusione di ruoli fra la sfera della politica e quella di burocrati sempre più ingombranti e potenti, tanto da essere loro stessi a dirigere l’orchestra dei grandi appalti. In questa «gelatina», termine con cui gli inquirenti avevano magistralmente definito il sistema nel quale operava la Cricca dei Grandi eventi un tempo gestiti dalla Protezione civile, si mischia tutto e facilmente proliferano complicità e malaffare.

Si potrà dire che è colpa della debolezza della politica italiana (e della sua palese mediocrità, per dirla con il politologo della Pennsylvania University Antonio Merlo) se i «mandarini» arrivano a soppiantarne le funzioni. Di sicuro, almeno da un quarto di secolo, la commistione è sempre più profonda e inquietante, favorita anche dalla frequente interruzione delle legislature e dunque dalla breve durata in carica dei ministri che ha rafforzato l’inamovibilità degli inquilini dei piani alti dei ministeri. Attraverso lo stesso processo di formazione delle leggi si è consegnato un potere crescente ai funzionari dello Stato, delegandoli a scrivere i famosi decreti attuativi di quei provvedimenti. Con il risultato che se le burocrazie remano contro, le leggi non vengono attuate o lo sono in modi esclusivamente funzionali agli interessi di quelle stesse burocrazie. La caduta del confine comincia da questo punto: il Parlamento che abdica alle proprie prerogative legislative in favore dei burocrati. Loro scrivono le norme, negli uffici legislativi dei ministeri, e loro consentono che divengano operative o meno.

Da qui a invadere il campo della politica il passo è davvero breve. Con ogni genere di distorsione anche sul versante istituzionale. È successo che direttori generali di ministero siano passati direttamente a occupare la poltrona di ministro (e un seggio in Parlamento). Abbiamo visto anche funzionari diventare Guardasigilli, prefetti ministri dell’Interno, avvocati dello Stato ministri della Pubblica amministrazione, consiglieri di Stato sottosegretari alla presidenza e a loro volta ministri e viceministri, dirigenti del Senato ministri delle Finanze. E in seguito magari deputati o senatori per volontà del capo partito, grazie a un sistema elettorale che ha privato i cittadini del diritto di scegliere i propri candidati.

Per combattere la corruzione non basta certamente mettere in discussione l’inamovibilità degli alti dirigenti pubblici: onestissimi nella stragrande maggioranza, ovvio. Ma restare troppo a lungo nelle stesse posizioni di potere può fatalmente produrre incrostazioni pericolose. Non sappiamo se con la rotazione degli incarichi o con altri meccanismi da studiare, che comunque devono assolutamente preservare l’indipendenza delle amministrazioni. Sappiamo però che quel confine fra politica e burocrazia va ristabilito. Al più presto.


18 marzo 2015 | 09:30
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_marzo_18/ragnatela-mandarini-180be302-cd48-11e4-a39d-eedcf01ca586.shtml
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« Risposta #223 inserito:: Aprile 04, 2015, 12:01:40 pm »


Un ritardo che non è scusabile
Expo, il Padiglione Italia e le difficoltà di arrivare pronto alla data di apertura

Di Sergio Rizzo   

I vertici di Expo 2015 giurano che siamo al rush finale. Ma è chiaro che per completare in tempo Padiglione Italia servirebbe qualche cosa di più. Un miracolo, dice qualcuno. Dobbiamo dunque sperare nell’intervento divino, che comunque non abbiamo meritato. Domani, 31 marzo, sono sette anni precisi dal fatidico giorno in cui l’allora sindaco Letizia Moratti annunciò trionfante che la città di Milano aveva vinto la sfida con Smirne. Era ancora in carica il governo Prodi e il presidente della Provincia Filippo Penati rimarcava orgoglioso come gli ispettori del Bureau International des Expositions fossero rimasti impressionati dalla «coesione istituzionale».

Non c’è che dire: nelle apparenze i nostri politici sono sempre stati bravissimi. Peccato che quando si deve passare dalle parole ai fatti la «coesione istituzionale» vada regolarmente a farsi friggere. Come nel caso dell’Expo. Dove le cose sarebbero andate ancora peggio se dopo gli scandali non fosse intervenuta tempestivamente l’Autorità anticorruzione, con modalità tali da meritare il riconoscimento dell’Ocse. Pur fra mille difficoltà forse anche sorprendenti. Si duole il presidente dell’Anac Raffaele Cantone nel libro Il Male italiano scritto con Gianluca Di Feo di «aver incontrato i problemi maggiori proprio in due cantieri simbolo dell’Expo, i due progetti che più di ogni altro dovrebbero rappresentare il nostro Paese agli occhi del mondo: il Padiglione Italia e il cosiddetto Albero della Vita. In entrambi i casi i lavori erano in ritardo sulla tabella di marcia e pian piano sono emersi non pochi problemi». C antone parla di insofferenze verso i controlli, superficialità nell’affidamento dei contratti, anomalie nelle procedure. Il tutto giustificato evidentemente con la necessità di fare in fretta per recuperare il troppo tempo perduto, anche se ormai irrecuperabile.

Dei sette anni passati dal 31 marzo 2008 più di metà se ne sono evaporati in contrasti fra i partiti, lotte di potere interne, guerre di poltrone. Prima lo scontro sull’amministratore delegato della società. Poi la battaglia per i terreni, in vista delle future appetitose speculazioni immobiliari. Quindi commissari generali che si sovrapponevano ai commissari straordinari e gli inevitabili conflitti. Per non citare le deroghe infinite (e sospette) al codice degli appalti, con i lavori dell’Expo esentati da ben 78 articoli di quel monumentale regolamento. Una corsia preferenziale tanto larga da provocare le proteste dell’Associazione dei costruttori proprio a proposito dell’appalto da 25 milioni per il solito Padiglione Italia: subito rintuzzate da uno stizzito Antonio Acerbo, il direttore di quell’opera che avrebbe poi patteggiato una condanna a tre anni. E intanto i giorni passavano. Mentre la corruzione dilagava, come fosse il capitolo conclusivo, e naturale, di questo incredibile copione. Adesso che manca un mese al 1° maggio, la memoria non può che andare all’altra Esposizione universale milanese, quella di oltre un secolo fa. Fu un successo senza smagliature, preceduto dalla costruzione del traforo del Sempione: realizzato in poco più di sei anni, era il più lungo del mondo e permetteva il collegamento ferroviario diretto con Parigi. L’Expo del 1906 viene ricordato come l’evento che certificò l’ingresso della giovane Italia unita nel novero delle nazioni industrializzate e l’investitura di Milano come città simbolo di quella svolta. Non vorremmo che l’Expo del 2015 passasse invece alla storia quale prova della italica incapacità a rispettare gli impegni. Anche i più banali, per esempio finire in tempo di arredare casa nostra.

30 marzo 2015 | 09:04
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http://www.corriere.it/editoriali/15_marzo_30/ritardo-che-non-scusabile-161ad50a-d69c-11e4-a883-4c9c44a1b2f9.shtml
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« Risposta #224 inserito:: Aprile 04, 2015, 12:19:31 pm »

Partiti e correnti
La selva oscura delle fondazioni e quel controllo che non c’è

Di Sergio Rizzo

Che una cooperativa finanzi una fondazione politica, come sembrava essere nei progetti della Cpl Concordia finita nell’inchiesta sulle mazzette al sindaco pd di Ischia, non è affatto uno scandalo. Nelle democrazie occidentali è questa la forma con cui i privati contribuiscono anche alla formazione della classe dirigente dei partiti. Ma in piena trasparenza. Proprio quella che invece in Italia manca: alimentando il sospetto che la funzione principale di queste fondazioni, moltiplicatesi in modo esponenziale negli ultimi anni proprio mentre l’opinione pubblica premeva per imporre ai partiti regole più stringenti, sia decisamente più prosaica.

Ai magistrati che indagano su Mafia capitale Franco Panzironi, ex segretario generale della Nuova Italia di Gianni Alemanno e insieme collaboratore della Alcide De Gasperi di Franco Frattini, ha raccontato che le fondazioni politiche sono un comodo salvadanaio dove gli imprenditori mettono soldi in cambio dell’accesso a un sistema di relazioni. Lungi da chi scrive il voler fare di tutta l’erba un fascio. Ma il problema esiste, e lo sanno bene i partiti. Che però di metterci mano seriamente non ne hanno alcuna intenzione.

Nel 2012, mentre si discuteva alla Camera il taglio dei rimborsi elettorali, un emendamento pensato da Linda Lanzillotta e Salvatore Vassallo che mirava a imporre le stesse regole di trasparenza previste per i partiti anche alle fondazioni, fu impallinato da destra e da sinistra.

Due anni più tardi, nella legge sulla presunta abolizione del finanziamento pubblico, ecco spuntare finalmente quell’obbligo. Peccato che sia inapplicabile. La norma di cui parliamo dice che sono soggette agli obblighi di trasparenza validi per i partiti le fondazioni i cui «organi direttivi» siano nominati «in tutto o in parte» dai partiti medesimi. Neppure una di quelle esistenti ricade in questa fattispecie. E siccome chi l’ha scritta non ha l’anello al naso, la norma aggiunge che le regole di trasparenza, (per esempio la pubblicazione online di tutti i contributi di entità superiore a 5.000 euro) si applicano anche a quelle fondazioni che destinano più del 10 per cento dei proventi al finanziamento di attività politiche. Si tratta soltanto di stabilire come e chi controlla che quel limite non venga superato. Ma di questo non si fa cenno. Fatta la legge, non si deve neppure fare la fatica di trovare l’inganno.

Quante fondazioni resterebbero in vita se le regole della trasparenza venissero correttamente applicate e fatte rispettare, non possiamo dirlo. Ma sul fatto che sia ormai necessario intervenire senza furbizie ci sono pochi dubbi. Lo sostiene con fermezza anche il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone. Che per questo si è beccato una punzecchiatura dalemiana dalla Velina rossa con l’invito a far pubblicare tutti i contributi alle fondazioni, “anche a quelle di Firenze». Bersaglio: Matteo Renzi. Ma forse Pasquale Laurito, autore della Velina, non aveva consultato il sito della renziana Fondazione Open. Avrebbe trovato una lunga lista di finanziatori. Dai 175 mila euro del patron del fondo Algebris Davide Serra ai 50 mila dell’ex presidente Fiat Paolo Fresco e della sua consorte Marie Edmée Jacqueline, ai 60 mila della Isvafim di Alfredo Romeo, ai 62 mila del finanziere molisano Vincenzo Manes... Va però detto che non compaiano i nomi di chi non ha dato l’assenso alla pubblicazione. Come se la privacy possa valere per i finanziamenti a una fondazione che fa riferimento al premier e con un consiglio direttivo nel quale accanto al suo amico del cuore Marco Carrai ci sono il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi, il sottosegretario alla presidenza Luca Lotti e l’avvocato Alberto Bianchi, nominato dal governo nel consiglio di amministrazione dell’Enel.

Nessuna lista abbiamo trovato invece nel sito della Italianieuropei presieduta da Massimo D’Alema, di cui Claudio Gatti e Ferruccio Sansa ricordano nel loro libro «Il sottobosco» alcuni finanziatori: gli imprenditori Alfio Marchini e Claudio Cavazza, i gruppi Pirelli e Asea Brown Boveri, nonché le immancabili Coop, queste ultime per 103.291 euro.

Per la sinistra Italianieuropei è stata un formidabile rompighiaccio. Da allora è stato un fiorire di fondazioni, associazioni, centri studi, think tank. Pier Luigi Bersani e Vincenzo Visco hanno messo su Nuova economia nuova società. Anna Finocchiaro la Fondazione Cloe. Walter Veltroni la scuola di politica Democratica, che ha cambiato nome in Idemlab. Impossibile poi non citare Astrid di Franco Bassanini e Glocus di Linda Lanzillotta. Come pure le associazioni Riformismo e solidarietà dell’attuale sottosegretario (all’Economia) Pier Paolo Baretta e Libertà Eguale del viceministro (stesso ministero) Enrico Morando. E il network trasversale di Enrico Letta e Angelino Alfano, Vedrò.

La destra non è stata certo da meno. Ecco allora la Free Foundation di Renato Brunetta. Poi la già citata Nuova Italia di Alemanno, adesso orfana di quel Panzironi finito nella bufera giudiziaria romana: al suo posto Claudio Ferrazza, avvocato dell’ex sindaco di Roma. Orfana del medesimo soggetto pure la Alcide De Gasperi di Frattini, dove Panzironi, ha raccontato l’ex ministro degli Esteri, era arrivato dietro consiglio di Alessandro Falez, imprenditore della sanità con solidissimi rapporti vaticani. Quindi la Cristoforo Colombo per le Libertà di Claudio Scajola, con un comitato politico presieduto dall’ex ministro Mario Baccini: il quale a sua volta ha una propria fondazione, la Foedus.

Ecco poi la Fondazione della Libertà per il Bene Comune: presidente l’ex ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli, al suo fianco il costruttore suo braccio destro Erasmo Cinque insieme a Roberto Serrentino e Giovan Battista Papello, entrambi già piazzati all’Anas dalla destra. Ecco ancora Italia Protagonista di Maurizio Gasparri. E Riformismo e Libertà di Fabrizio Cicchitto. Mentre si chiama Europa e civiltà la fondazione di cui è presidente onorario Roberto Formigoni. Per non parlare di Magna Carta di Gaetano Quagliariello, che ha il merito di esporre gli stemmi (ma non i contributi) dei soci fondatori, fra cui Erg e Mediaset: mentre non troviamo più l’elenco dei soci aderenti, dove tre anni fa figurava anche la holding pubblica Finmeccanica. Esiste ancora il Movimento delle Libertà dell’ex parlamentare di Forza Italia Massimo Romagnoli. Come Città Nuove, embrione di quello che poteva essere il partito della ex presidente della Regione Lazio Renata Polverini.

E sopravvive pure Costruiamo il futuro, forse un tantino abbacchiata dopo quello che è successo al suo presidente (autosospeso) Maurizio Lupi.

1 aprile 2015 | 08:46
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_aprile_01/selva-oscura-fondazioni-quel-controllo-che-non-c-e-6915ab98-d838-11e4-9d80-6397ff38e0a5.shtml
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