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Autore Discussione: SERGIO RIZZO  (Letto 127759 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Gennaio 27, 2009, 10:02:19 am »

Franco Debenedetti

«Mio fratello, la politica e la lunga sfida con il Cavaliere»

Parla Franco Debenedetti: «Ragioni politiche contrastano spesso con ragioni industriali»
 

ROMA — Franco Debenedetti confessa che quando ha appreso la notizia il passato gli è scorso davanti agli occhi come un rapidissimo flashback: «Una carrellata dei suoi successi e anche delle sue sconfitte, degli entusiasmi che ha suscitato, delle energie che ha catalizzato. Che vuole, abbiamo lavorato trentacinque anni insieme...».
Fratelli con cognomi diversi.
«Mio padre ha sempre scritto il suo cognome Debenedetti, tutto attaccato. Mio fratello Carlo ed io siamo registrati all'anagrafe così. Alcuni fratelli di mio padre scrivevano invece il cognome De Benedetti, staccato. Entrambe le versioni convivono all'interno della stessa famiglia».
Quindi il vezzo non è suo.
«Io mantengo la versione filologicamente corretta. Mio fratello è più pragmatico».
Anche nel cognome?
«Diciamo che ha grande intuito».
Parla degli affari?
«Non è da tutti partire da un'azienda di 80 persone e diventare uno dei moschettieri alla testa di uno dei grandi gruppi industriali ».
Forse voleva dire «capitani»?
«Allora si chiamavano moschettieri. L'era dei capitani, cosiddetti coraggiosi, è venuta dopo. Eugenio Scalfari e Carlo avevano già messo in piedi un'impresa editoriale con quello che è stato il più grande giornale italiano ».
Però la strada del «moschettiere» e quella dei «capitani» si sono incrociate. Ricorda Colaninno?
«Se allude alla vicenda Omnitel, Carlo ha iniziato quando Colaninno ancora faceva crescere l'azienda di filtri. L'introduzione della telefonia mobile è stato forse il più grande successo di mio fratello. Grazie anche alla mente di Elserino Piol».
Cosa lo spinse verso i telefonini?
«Olivetti fece una gara per la telefonia mobile in Germania. Fu persa, ma si fece esperienza e si costruì l'alleanza, il raggruppamento d'imprese con cui si vinse in Italia ».
Aveva visto giusto?
«Altroché. Come sulla Sme, il primo tentativo di fare una privatizzazione. Come sulla Mondadori...».
Salvo poi andare a sbattere in entrambi i casi contro Berlusconi.
«Per interposta persona: l'ostacolo vero era Bettino Craxi. Ma la vicenda Mondadori è più complessa, c'entrano vicende familiari... ».
Poi De Benedetti e Berlusconi hanno rischiato di diventare soci.
«È stato un episodio molto marginale. Management e Capitali è un fondo di private equity in cui mio fratello ha una quota non di controllo. Fa parte della storia recente, del Carlo finanziere, non industriale».
Di chi fu l'idea?
«Credo venisse da mio fratello, in un colloquio ».
Rarissimo. E perché abortì?
«Ragioni politiche contrastano spesso con ragioni industriali. È impossibile per il proprietario di Repubblica fare affari con Berlusconi».
Lei che è stato parlamentare della sinistra, se ne fece un'opinione?
«Sì, ma non gliela dico. Comunque, ci sono due zeta».
Suo fratello passa per essere l'inventore delle scatole cinesi.
«Quello era Enrico Cuccia»
Ma lui ha imparato benissimo.
«Quel sistema è stato, a ragione, ampiamente criticato soprattutto in seguito: ma quanto a rapporto di leva, mio fratello è stato ampiamente superato da chi è venuto dopo».
La finanza, le auto, l'informatica, l'energia, i telefonini. Tutto questo non è stato dispersivo?
«La critica ha fondamento. Probabilmente se l'operazione sulla Sgb in Belgio fosse andata in porto, poteva essere uno strumento potente per realizzare i suoi obiettivi di politica industriale. Il turnaround dell' Olivetti aveva limiti intrinseci, che si scontravano con i vincoli tipici dell'Italia. Ha presente l'articolo 18?».
Allora tutti dovevano fare i conti con la politica. Anche suo fratello?
«Parliamo degli anni Ottanta, anni decisivi per la storia di questo Paese. Bruno Visentini era presidente dell'Olivetti quando Craxi lo chiamò al governo, e lui si dimise. Carlo non ha mai nascosto le proprie idee,anche allora molto in sintonia con quelle che sosteneva Repubblica».
Sarò più chiaro: ha avuto un rapporto organico con la sinistra?
«Organico non certo. Ma era a favore dell'apertura al Pci. Si vedeva sovente con Tonino Tatò».
Crede davvero che abbia lasciato per ragioni anagrafiche?
«Non lo credo affatto. Mio fratello sta benissimo. È un uomo deciso nelle proprie opinioni. Non ci farà mancare i suoi commenti ».
Allora c'è un nesso fra la sua decisione e i rigurgiti statalisti?
«Mio fratello non solo ha fatto cose importanti, ma ha anche suscitato energie, coraggio di fare. Ora sarà più difficile, non tanto per i tempi, terribili in sé, ma per l'ondata di statalismo che renderà più arduo per tutti uscire dalla crisi. Serviranno anni per liberarsene. Mio fratello sta bene, ma a 74 anni non credo pensi a un'altra campagna del Belgio».
Che cosa cambierà nell'editoria?
«Carlo resterà nella Fieg. In conferenza stampa ha detto che il nuovo contratto dei giornalisti deve rappresentare una forte discontinuità. Mi dica: la sua decisione frena o accelera il cambiamento?».

Sergio Rizzo

27 gennaio 2009
da corriere.it
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« Risposta #16 inserito:: Febbraio 05, 2009, 11:36:24 pm »

Stretta su scommesse e giochi via web. E il Fisco potrebbe incassare quasi 30 milioni

Carcere per il poker sui siti irregolari

Ma nella proposta del governo ci sono sanzioni anche per i giocatori che frequentano le bische online non a norma
 

La roulette online proposta da un casinò online americano.
I giocatori italiani potranno rivolgersi solo a quelli che si adegueranno alle norme che il governo sta per varare

Anche se di questi tempi non si butta via niente, con i 28 milioni che il governo conta di incassare quest'anno non ci risaneranno il bilancio dello Stato. Ma il punto non è questo: l'ultima mossa delle Finanze sui giochi via internet potrebbe aprire scenari diversi da quelli strettamente erariali.

Il 21 gennaio il ministero dell'Economia ha depositato un emendamento chilometrico e piuttosto contorto alla legge comunitaria del 2008 in discussione al Senato. In quel testo, accanto ad alcune disposizioni fiscali di adeguamento alle norme europee, sono stati infilati anche una ventina di commi che con le questioni di Bruxelles c'entrano come i cavoli a merenda. Ma sono pieni zeppi di notizie sconvolgenti per i maniaci di scommesse e giochi on line, come pure per chi li gestisce.

Un assaggio: i giocatori potranno accedere al sito, sempre che quello sia titolare di una regolare concessione, soltanto attraverso il portale dei Monopoli di Stato. Già questo potrebbe bastare. Per avere poi una delle 200 concessioni che le Finanze sono disposte a dare «in fase di prima applicazione» di questa specie di riforma, sarà necessario, per chi già non sia titolare di uno dei tradizionali permessi per le scommesse, i giochi a pronostico, il bingo, le lotterie e quant'altro, di una lunga serie di requisiti. Intanto avere hardware e software in un Paese dell' Unione. Quindi operare attraverso una società di capitali con fatturato biennale non inferiore a 1,5 milioni oppure in grado di fornire una garanzia bancaria per il medesimo importo, essere in regola con i requisiti di professionalità e affidabilità, garantire la sicurezza del browser e pagare un «contributo » al Fisco che può arrivare a 350 mila euro.

Per i gestori dei siti che vogliono fare i furbi c'è il deterrente del carcere: da sei mesi a tre anni. Ma rischiano fino a tre mesi d'arresto, oppure un'ammenda fino a 2 mila euro, anche i giocatori. Costoro dovranno sottoscrivere con il gestore del sito un contratto per l'apertura di un «conto di gioco» sulla base di un modello predisposto dai Monopoli. Su quel conto transiteranno le puntate del giocatore, le vincite e le perdite. Trascorsi tre anni senza giocate, tutto quanto è rimasto sul conto verrà incamerato dall'Erario.

Il governo motiva il giro di vite (comma 12 dell'emendamento) con l'esigenza di «contrastare in Italia la diffusione del gioco irregolare e illegale, nonché di perseguire la tutela dei consumatori e dell'ordine pubblico, la tutela dei minori e la lotta al gioco minorile e alle infiltrazioni della criminalità organizzata». Nella relazione tecnica si spiega poi che questo sporco giro d'affari via internet è di due miliardi di euro l'anno. E che questa operazione favorirà nel 2009 l'«emersione del gioco illegale» per 700 milioni di euro, facendo incassare allo Stato 21 milioni (più sette per le nuove concessioni). A regime, inoltre, gli incassi dovrebbero salire a 30 milioni. Stime che però il servizio bilancio del Senato mette palesemente in dubbio, sostenendo che «non è chiaro» come i calcoli siano stati fatti. Non entrano invece comprensibilmente nel merito, i tecnici di palazzo Madama, su dubbi di ben altro genere che inevitabilmente suscita la relazione tecnica del governo, quando afferma che alle stime di gettito dovuto all'emersione del gioco illecito «può aggiungersi anche una maggiore entrata derivante da una diversificazione in atto del portafoglio dei prodotti di giochi pubblici (giochi di carte, scommesse virtuali, scommesse a interazione diretta, ecc...)».


Sergio Rizzo
05 febbraio 2009

da corriere.it
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« Risposta #17 inserito:: Febbraio 14, 2009, 03:28:01 pm »

Incontri

Niente passeggiate ma solo vertici per il debutto internazionale del segretario Usa al Tesoro

La diplomazia di Geithner, un americano a Roma

787 milardi. Il valore del piano Usa varato ieri dal Congresso


Impegni
Niente jogging e shopping: solo «bilaterali» con i ministri del G7 per l’autore del nuovo piano americano anticrisi
ROMA - Chi sperava di incrociare Timothy Geithner mentre passeggiava per i Fori imperiali mano nella mano con sua moglie Carole Sonnenfeld, o magari di stringergli la mano a piazza Navona, si è dovuto rassegnare. La prima giornata da americano a Roma del segretario al Tesoro, primo rappresentante di un’amministrazione democratica a tornare sulle sponde del Tevere dopo gli otto interminabili anni dell’epoca di George W. Bush, non poteva essere come quella, pirotecnica, di Bill Clinton, nel giugno del 1994: anche allora, con Silvio Berlusconi a palazzo Chigi. Niente jogging in calzoncini e maglietta Radio city a Villa Borghese con l’ambasciatore, che del resto ancora non c’è. Niente scambi di battute con i passanti. Niente caramelle con il simbolo della Casa Bianca distribuite ai bambini.

Sia chiaro: non perché il segretario al Tesoro di Barack Obama non sia uno sportivo. Tutt’altro. Gioca a tennis, pratica il surf, sa andare sullo snowboard ed è anche un discreto praticante di softball. Ma nemmeno perché Geithner non sia un tipo espansivo. Coetaneo del presidente, del quale è appena 14 giorni più giovane, ha vissuto in Africa, India, Cina e Tailandia. Se il giovane Obama visse per quattro anni a Giacarta con la madre e il suo secondo marito, Geithner ha finito le scuola superiori a Bangkok. Ha studiato cinese e giapponese, ha la fama di persona ottimista e aperta e non dimostra la sua età. Dettaglio che qualcuno considera un difetto. «A 47 anni Tim ne dimostra 32, invece di questi tempi devi avere i capelli grigi e l’aria grave. Non è che non sia qualificato. È come appare...», ha detto di lui al Washington post Ken Duberstein, ex capo dello staff di Ronald Reagan.

Il fatto è che Geithner, reclutato dalla Federal reserve di New York, di cui era presidente, non è un politico. È un banchiere centrale che aveva lavorato in precedenza al dipartimento del Tesoro con Robert Rubin e Lawrence Summers. Anche se nella sua storia da «civil servant» non manca un’ombra che negli Usa non è considerata proprio trascurabile: 35 mila dollari di dollari di contributi previdenziali non pagati quando era al Fondomonetario internazionale. Una scivolata a cui ha rimediato pagando e scusandosi, ma che è stata l’ennesima per il nuovo gabinetto, che ha perso il segretario designato alla Salute Tom Daschle, colpito dalle accuse di evasione fiscale, e Nancy Killefer, la garante governativa per i progetti economici che non aveva versato 900 dollari di contributi per la sua colf. Senza contare le dimissioni del senatore Bill Richardson, E poi lo stile obamiano ha oggettivamente poco a che vedere con quello clintoniano. Soprattutto oggi, a distanza di quasi 15 anni da quella prima volta da americano a Roma di Clinton. Allora non c’erano stati fallimenti bancari a ripetizione, l’economia mondiale non era in picchiata a causa dei disastri finanziari innescati proprio dagli Stati Uniti, e gli americani non dovevano difendersi dalle accuse di protezionismo che adesso piovono da tutte le parti.

Lo struscio nel centro di Roma, insomma, sarebbe stato decisamente fuori luogo. Anche a prescindere dagli impegni fittissimi della giornata, con un pomeriggio pieno zeppo di colloqui bilaterali fra il segretario del Tesoro americano e i suoi colleghi degli altri Paesi. Per evitare di passare proprio inosservato è stata sufficiente una stretta di mano con il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, che Geithner conosce bene per averlo frequentato a lungo da capo della Fed e componente del Financial stability Forum, immortalata dai fotografi fuori dall’Hotel Excelsior, e qualche sorriso ai curiosi che osservavano la scena. Prima di andare al ministero dell’Economia per incontrare Giulio Tremonti e pranzare con lui, nella foresteria di via XX settembre. Forse, tra tutti i ministri di questo G8, quello con il quale il nuovo e più giovane segretario al Tesoro ha almeno una cosa in comune: il giorno del compleanno. Tremonti e Geithner sono entrambi nati il 18 agosto.

Sergio Rizzo

14 febbraio 2009
da corriere.it
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« Risposta #18 inserito:: Febbraio 17, 2009, 05:55:34 pm »

Saglia (Lavoro): giusto riconoscimento.

E Tremonti elogiò l'ex nemico Prodi

Cazzola: ha dei meriti.

Ma Della Vedova: evitiamo di santificarlo
 
 
ROMA — Stefano Saglia dice di non avere alcuna difficoltà ad ammetterlo: «Dopo essere stato premier due volte, e soprattutto presidente della Commissione europea, Romano Prodi dev'essere necessariamente considerato una riserva della Repubblica. Indipendentemente dalle appartenenze politiche». Ne consegue che il presidente della commissione Lavoro della Camera non proverebbe stupore, afferma, se il governo di centrodestra decidesse di candidare l'ex capo dell'Ulivo per qualche prestigioso incarico internazionale. «Bene ha fatto Giulio Tremonti a rendergli merito», sottolinea.

Del resto l'articolo sulla prima pagina del Messaggero di domenica 15 febbraio, nel quale Prodi ha elogiato i risultati del vertice G7 di Roma che avrebbe posto le basi per «preparare qualcosa di simile a una nuova Bretton Woods» con toni sembrati a molti un riconoscimento implicito all'azione del governo, non poteva passare inosservato. «Tra i G7», ha scritto l'ex presidente del governo di centrosinistra, «non è stato soltanto siglato un patto a combattere il protezionismo, ma anche a costruire nuove regole e standard più rigorosi per i mercati finanziari internazionali». Come del resto non poteva passare inosservata nemmeno la reazione del ministro dell'Economia Giulio Tremonti, che il giorno dopo ha dato atto all'ex premier, sullo stesso giornale, di aver scritto «un articolo che esprime la cifra della grande politica. Una cifra che somma due addendi essenziali. La visione e la cultura istituzionale». Commenta Luigi Casero: «Questa che stiamo vivendo è una crisi che nasce dalla mancanza di regole.

Nel merito l'analisi di Prodi non può che essere condivisa. La sua è una posizione intelligente. L'economia deve comunque essere regolata, da solo il mercato non è sufficiente a garantire che non si ripeta quello che è già successo. E il fatto che il G7 abbia focalizzato la propria attenzione su questo aspetto è certamente positivo». Ma il sottosegretario all'economia aggiunge anche una considerazione di metodo: «Le parole di Prodi fanno sperare che su questo tema si possa finalmente uscire dalle inutili contrapposizioni». L'economista Mario Baldassarri, presidente della commissione Finanze del Senato, ricorda di aver scritto «un libro nel quale si sosteneva che la crisi sarebbe arrivata e che non ne saremmo mai usciti senza accettare l'idea della necessità di riscrivere le regole, tre anni fa». Dichiarandosi d'accordo sull'idea di rifare una nuova Bretton Woods planetaria al punto da aver sollecitato «un ordine del giorno del Senato». Ex viceministro dell'Economia nel precedente governo Berlusconi, Baldassarri conosce benissimo Prodi e non è sempre stato dalla parte opposta della barricata. Si può rammentare a questo proposito il manifesto per il rigore finanziario e il liberismo economico che i due economisti lanciarono sul Corriere nel dicembre del 1994, sul finire del primo governo Berlusconi, insieme al premio Nobel Franco Modigliani, a Paolo Sylos Labini e Franco Debenedetti. Saglia tuttavia mette in guardia dalla ricette semplicistiche: «Temo che le regole da sole non bastino. Il problema è la credibilità delle autorità di vigilanza che devono farle rispettare. Ho seguito la legge sul risparmio. Come tutti ho salutato positivamente l'approvazione del Sarabanes Oxley Act negli Stati Uniti, dopo lo scandalo Enron. E ne ho tratto una lezione. I mercati devono sapere che i responsabili vengono individuati e puniti severamente. Altrimenti la fiducia non tornerà». Mentre il vicepresidente del gruppo Pdl al Senato, Gaetano Quagliariello, presidente della Fondazione Magna Carta, arriva a scorgere addirittura «una linea di continuità» fra Prodi e Tremonti «nella convinzione comune che il debito pubblico sia il vero grande problema dell'Italia e che sia assolutamente necessaria una politica di rigore finanziario».

Pur con enormi differenze: «Le situazioni sono state opposte. Tremonti ha il sostegno dell'intera coalizione. Il governo Prodi al contrario era frantumato e rissoso». L'idea di un impegno comune per arrivare a una nuova Bretton Woods sulla quale hanno convenuto tanto il ministro dell'Economia quanto l'ex presidente del Consiglio convince anche Benedetto Della Vedova, che tiene a precisare come «quegli accordi hanno dato all'economia mondiale un impianto liberista che ha retto per sessant'anni». Quanto alle «affettuosità» apparse sulle prime pagine del Messaggero, il parlamentare leader dei Riformatori liberali non risparmia qualche «affettuosa» frecciata: «Il professore non diventa un santo adesso soltanto perché non è più al governo. E poi credo che il confronto dovremmo averlo con il centrosinistra reale, non con il professor Prodi. Nel caso in cui però ci fosse l'opportunità di un incarico internazionale, credo che sarebbe molto fair da parte nostra indicare un autorevole componente dello schieramento opposto. Personalmente, tuttavia, preferirei Mario Monti. La sua esperienza alla Commissione europea è stata a dir poco impeccabile». Il bolognese Giuliano Cazzola, ex sindacalista della Cgil ora deputato del Popolo della libertà, è convinto che «sul professore il giudizio della storia sarà migliore di quello della cronaca. Prodi è l'uomo dell'euro e dell'allargamento dell'Unione, due passaggi storici fondamentali. Magari in politica non ci ha preso molto....» Anche se, ci ripensa, «il suo governo del 1996 fece la riforma delle pensioni e il pacchetto Treu, che ha sbloccato il mercato del lavoro prima ancora della riforma Biagi. Una sua rivalutazione, come anche una rivalutazione di Giuliano Amato, non potrebbe che trovarmi d'accordo. A proposito, sa che Prodi è stato in assoluto la prima persona a parlarmi bene di Silvio Berlusconi?»

Sergio Rizzo

17 febbraio 2009
da corriere.it
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« Risposta #19 inserito:: Febbraio 27, 2009, 11:50:12 pm »

Focus La vita nelle aree urbane

Le città hanno paura. Della crisi

Sondaggio sulla insicurezza in undici grandi centri

La precarietà economica (32%) batte la criminalità

Torino è la città dove è più alto il numero di persone che hanno cambiato abitudini per la criminalità

Alcuni dicono che la tempesta durerà tutto il 2009. Altri, invece, prevedono tempi molto più lunghi. Ma nessuno sa quanto servirà perché quel profondo senso di insicurezza che la crisi economica più grave dal dopoguerra ha generato abbandoni la società. Difficilmente, un anno fa, alla domanda «Che cosa le fa più paura?» la risposta più frequente sarebbe stata questa: «La precarietà economica e lavorativa». Il 32% degli abitanti delle grandi città italiane è spaventato più da questo che dalla criminalità (30%) e dal male tipico di ogni metropoli, la solitudine (12%). Se poi si somma anche il 18% che mette la «caduta del tenore di vita» in cima alla lista dei propri timori, ecco che oltre metà degli abitanti delle grandi città è preoccupato soprattutto per le proprie condizioni economiche.

Ma non è soltanto per questo che i risultati di un sondaggio condotto a metà gennaio in undici città italiane su un campione di 3.700 persone da Res publica Swg per una ricerca dell’Anci sulle «dimensioni della insicurezza urbana» appaiono sorprendenti. In nessuna città italiana, per esempio, l’immigrazione viene indicata dagli intervistati (ai quali è stato chiesto di esprimere tre giudizi) come il fattore che alimenta maggiormente il senso di insicurezza dei cittadini. Siamo al 24%, contro il 37% della «scarsa efficacia della giustizia» e il 36% della «mancanza o della precarietà del lavoro». La città dove le carenze della giustizia sono più avvertite come fattore di insicurezza è Roma (42%). Napoli è invece, com’è ovvio, quella dove invece il problema più grosso per l’incertezza sociale è il lavoro (49%). Nel capoluogo campano l’immigrazione è considerata un fattore di insicurezza quasi inesistente (9%). Ma anche nelle città dove raggiunge i valori più elevati (Torino e Venezia con il 32%), resta ben lontano dalla cima della classifica. Ancora: se si sommano le risposte che indicano la «mancanza e la precarietà del lavoro» (36%) con quelle che individuano fra le tre maggiori cause di insicurezza «l’aumento delle diseguaglianze e la crisi economica » (26%) si arriva al 62%. Eppure il sociologo Aldo Bonomi non si mostra affatto meravigliato: «Ho sempre sostenuto che il problema della sicurezza non è una questione di ordine pubblico. Semmai rimanda al concetto della società dell’incertezza». «Il fatto è — argomenta Bonomi — che siamo passati gradualmente da una società con mezzi scarsi ma fini certi, a una società con mezzi sovrabbondanti ma fini incerti. Nella società industriale tradizionale si andava a lavorare in un’azienda e tendenzialmente ci si rimaneva tutta la vita. Si sapeva cosa ci sarebbe toccato dalla nascita alla morte. Ora abbiamo mezzi sovrabbondati, internet, televisioni, possiamo girare il mondo con i voli low cost. Ma abbiamo una totale incertezza dei fini. Questo produce la vera grande paura, non il singolo fatto o la patologia criminale».

Non che il problema della criminalità non abbia il suo peso. Il 91% dei cittadini di Napoli avverte il proprio comune come «un luogo» insicuro. La stessa cosa pensano il 70% dei palermitani, il 62% dei baresi e il 55% dei romani. La città dove al contrario più predomina la sensazione di trovarsi in un «luogo» sicuro è Venezia (81%), seguita da Cagliari (77%) e Firenze (62%). Milano (considerata sicura dal 52%), Torino (51%) e Bologna (51%) sono al limite. Ma Milano, con Genova, ha anche un record negativo, fra tutte le 11 città prese in esame per la ricerca. Non c’è nessun milanese (come nessun genovese) che si senta di definire la propria città un luogo «molto sicuro». Anche se c’è da dire che se si eccettua Venezia (dove si sente «molto sicuro» l’11%), Firenze (7%) e forse Cagliari (5%), gli altri capoluoghi non sono in condizioni molto migliori. I giudizi «molto sicuro» sono il 3% a Bologna e Palermo, il 2% a Roma e Napoli, l’1% a Bari e a Torino.

Roma e Napoli, l’1% a Bari e a Torino. Il 71% dei napoletani, inoltre, ritiene che la città sia meno sicura di qualche anno fa. Giudizio identico a quello del 64% dei bolognesi, del 53% dei fiorentini, del 52% dei genovesi, del 51% dei torinesi e del 48% dei milanesi. la città dove la situazione della sicurezza risulta meno peggiorata è Cagliari. Bologna è la città dove le molestie e le violenze sessuali sono il fattore che incide maggiormente (secondo solo allo spaccio di droga) sulla percezione della sicurezza urbana: 43%. Soltanto Roma, con il 38%, si avvicina a questo valore. Milano è al 32%. Bonomi invita a ricordare un articolo sul Corriere «nel quale Claudio Magris si diceva stupito perché la gente ormai piscia per strada senza nessun problema. Il fatto è che la società ha perso le proprie capacità sanzionatorie. Una volta se un cittadino si comportava male, veniva colpito dall’ostracismo. Ora non più. E si delega ai soggetti di forza. Tutti dicono di volere più sicurezza, ma invece della luna si guarda il dito».

La percentuale maggiore di persone che a causa della scarsa sicurezza ha cambiato abitudini di vita è tuttavia a Torino: 62%, contro il 60% di Napoli e il 58% di Roma. Soltanto il 17% dei torinesi sarebbero tuttavia disponibili a partecipare alle ronde contro la criminalità. E nel capoluogo campano le ronde sono ancora meno popolari: 8%, contro il 10% di Roma, il 9% di Genova. E il 7% di Milano, il valore più basso insieme a Palermo, Venezia e Bologna.

Lo spunto dal quale è partita l’indagine di Cittalia, la fondazione per le ricerche dell’Anci, sono le circa 600 ordinanze emesse dai Comuni dopo il provvedimento sul «sindaco sceriffo». Per i due terzi (il 66%) al Nord. I sindaci del Sud hanno varato appena il 13% delle ordinanze, esattamente come i loro colleghi del Centro e più del doppio in rapporto ai primi cittadini delle Isole (6%). Principale obiettivo, la prostituzione. Più dietro, l’abuso di alcolici, gli atti vandalici e l’accattonaggio. Ma le ordinanze dei sindaci sceriffi non sono considerate risolutive dai cittadini. A Milano e Napoli il 44% delle persone è convinto che colgano un problema reale, ma sono poco efficaci. A Genova questo valore scende al 42%. A Torino è al 38%, a Venezia al 36%, come a Roma. Nel capoluogo lombardo i cittadini persuasi che l’ordinanza del sindaco si possa rivelare risolutiva sono però appena il 15%, percentuale superiore soltanto a quella registrata a Napoli (13%). In nessuna città italiana il numero di cittadini convinti dell’efficacia di queste ordinanze è superiore a quello di quanti si mostrano parzialmente o completamente scettici.

Sergio Rizzo

26 febbraio 2009
da corriere.it
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« Risposta #20 inserito:: Marzo 05, 2009, 09:18:37 am »

Retroscena

Banca del Sud: Tremonti vede D'Alema

L'incontro segreto e le telecamere della fiction
 

D'Alema e Giulio Tremonti avevano scelto per l'incontro un luogo riservato: una saletta dell'hotel Majestic, in via Veneto, nel centro di Roma. Non avrebbero mai pensato di trovarsi, alle 12.30 di ieri, sul set di Caterina e le sue figlie, una fiction di Canale 5 che in quel momento stavano girando nella hall dell'albergo. Commento fulminante di D'Alema, il primo a entrare, insieme al senatore del Pd Nicola Latorre: «Potevamo andare direttamente in teatro ».

Un minuto dopo è entrato anche il ministro dell'Economia, con il fido deputato Marco Milanese, seguendo lo stesso percorso, attraverso gli sguardi sorpresi di macchinisti e comparse e poi su per le scale, fino al primo piano. Per un lungo faccia a faccia. Abbastanza inedito, per i rapporti (praticamente inesistenti) che oggi intercorrono fra il governo e l'opposizione. Avrebbero parlato per un'ora, alla vigilia del credit and liquidity day, la giornata dedicata dal Tesoro alla verifica dello stato di salute finanziaria delle imprese, della crisi finanziaria. Un argomento che è stato spesso terreno di aspro confronto fra i due. Basta ricordare la puntata di Matrix dell'inizio di gennaio quando D'Alema dipinse Tremonti «come uno di quelli che amano andare contromano in autostrada». Oppure l'intervento a un convegno del Pd, nel giorno di San Valentino, quando aveva invitato a «distinguere fra socialismo e neopatrimonialismo di Tremonti, perché sono due modi diversi di concepire l'azione pubblica». Ma dietro le schermaglie verbali il dialogo fra i due non si è mai spezzato. Ieri D'Alema era reduce da un viaggio a Bruxelles dove martedì aveva visto il commissario agli Affari economici Joaquín Almunia, con il quale ha spezzato una lancia in favore degli eurobond: le emissioni di titoli continentali attraverso cui si dovrebbero finanziare le grandi infrastrutture europee. «Uno strumento ragionevole», li ha definiti l'ex ministro degli Esteri del governo di Romano Prodi.

Per inciso, l'idea degli eurobond, lanciata dall'ex presidente della Commissione Jacques Delors, è un cavallo di battaglia bipartisan degli italiani, sostenuto da Tremonti e Prodi, come dal vicepresidente del Parlamento europeo, il forzista Mauro Pepe, e dal capodelegazione democratico Gianni Pittella. Lo stesso Pittella autore, nel primo numero di quest'anno di Italianieuropei, bimestrale diretto da Giuliano Amato e D'Alema (che si apre fra l'altro proprio con un lungo articolo del ministro dell'Economia), di un preoccupato saggio nel «focus» sul Meridione. Il tema del Mezzogiorno sta particolarmente a cuore sia a Tremonti sia a D'Alema. Non senza qualche reciproca incomprensione. Per esempio, sul progetto di Banca del Sud, che durante l'incontro di ieri è stato comunque affrontato. Sabato 28 febbraio D'Alema non aveva risparmiato le critiche ai piani del Tesoro: «Il governo non può ritenere sufficiente la creazione della Banca del Sud per ripagare il Mezzogiorno degli otto miliardi di euro di fondi sottratti finora. Si tratterebbe solo di una mancia, buona a prendere il caffè. Qui non c'è bisogno del caffè. Ma di investimenti, sviluppo e lavoro». Ieri il chiarimento, con l'ex ministro degli Esteri che avrebbe chiesto impegni più consistenti per il Sud anche nell'ambito della strategia tremontiana. Se sono rose fioriranno.

Sergio Rizzo

05 marzo 2009
da corriere.it
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« Risposta #21 inserito:: Aprile 12, 2009, 10:59:18 am »

Dai comuni alle province

Come vengono aggirate le norme

Parlamentare e sindaco

Il popolo del doppio incarico da Pontida a Catania

Hanno altre mansioni 68 tra deputati e senatori


ROMA — Era la sera dell’11 no­vembre 2008. Il Senato era alle pre­se con il decreto che avrebbe potu­to salvare il dissestato Comune di Catania: per il sindaco Raffaele Stan­canelli era questione di vita o di morte. Poteva allora il senatore Raf­faele Stancanelli far mancare il pro­prio voto favorevole a un finanzia­mento di 140 milioni per la città et­nea? Non poteva. Votò a favore e si congratulò con se stesso esprimen­do «soddisfazione» per com’era an­data a finire. Perché il sindaco di Ca­tania e il senatore del Popolo della libertà sono la medesima persona. Domanda legittima: come fa Stanca­nelli a conciliare l’incarico parla­mentare con quello, ancora più gra­voso, di amministrare quella città di 313.110 abitanti nello stato in cui si trova? Non è semplice, come dice chiaramente il suo curriculum par­lamentare di un anno. Un solo inter­vento in assemblea, il compito di re­latore a un disegno di legge sulle pensioni dei militari, e nove dise­gni di legge: ma li ha soltanto firma­ti.

Eppure i due incarichi sarebbero incompatibili. Le norme attualmen­te in vigore stabiliscono che chi oc­cupa un seggio in Parlamento non possa fare il sindaco di una città con più di 20 mila abitanti, né il pre­sidente di una giunta provinciale, né l’assessore, né il consigliere re­gionale. Ma si tratta di norme che si prestano a varie interpretazioni, co­sì è facilmente possibile aggirarle. Di fatto, l’unica incompatibilità ri­spettata più o meno alla lettera è quella con gli incarichi nei consigli e nelle giunte regionali, grazie an­che, al Senato, al limite tassativo di tre giorni per optare fra Parlamento e Regione che venne fissato dal pre­sidente di palazzo Madama Renato Schifani e dal presidente della giun­ta delle elezioni Marco Follini. Per il resto, tutti o quasi hanno fatto spal­lucce. Anche di fronte al semplice buonsenso. Con il risultato che ora si contano 68 parlamentari che han­no altri incarichi istituzionali. Una quarantina fra sindaci e vicesinda­ci, e poi assessori, consiglieri comu­nali, consiglieri provinciali e perfi­no due presidenti di giunte provin­ciali: i deputati del Pdl Maria Teresa Armosino e Antonio Pepe, presiden­ti delle Province di Asti e Foggia.

Di fronte a questa situazione sur­reale, perché mai Stancanelli avreb­be dovuto dimettersi? Tanto più se non l’hanno fatto nemmeno i suoi colleghi di Senato e di partito, Vin­cenzo Nespoli a Antonio Azzollini, rispettivamente sindaci di Afragola e Molfetta, entrambe città con oltre 62 mila abitanti. Considerando pu­re che Azzollini non è un senatore qualsiasi, ma addirittura il presiden­te di una commissione permanente di palazzo Madama, la commissio­ne Bilancio. In quella veste, a febbra­io, ha sollecitato per iscritto il mini­stro dell’Agricoltura, Luca Zaia, a mettere mano al portafoglio per da­re sostegni al settore ittico. Per la gioia dei pescatori molfettesi.

Non che alla Camera non ci siano casi simili. Eletto contemporanea­mente sindaco di Brescia (187.567 abitanti) e deputato, il 18 aprile del 2008 Adriano Paroli ha dichiarato: «Se sarà utile alla città, resterò sin­daco e parlamentare». Così è stato. C’è da dire che anche come deputa­to del Pdl s’è dato piuttosto da fare. Ha presentato otto sue proposte di legge, fra cui una per istituire un ca­sinò stagionale nei comuni di San Pellegrino Terme (Bergamo) e Gar­done Riviera (Brescia). Il suo colle­ga deputato Giulio Marini, invece, si è concentrato (legislativamente parlando) sul personale delle Came­re di commercio dopo aver conqui­stato insieme un seggio a Monteci­torio e la poltrona di sindaco di Vi­terbo (59.308 abitanti), sconfiggen­do un altro parlamentare: il tesorie­re diessino Ugo Sposetti.

I parlamentari che sono contem­poraneamente sindaci di Comuni con oltre 20 mila abitanti sono cin­que. Ma guidano un plotone di pri­mi cittadini ben più numeroso, con­siderando i centri più piccoli. Fra Camera e Senato se ne contano 36. Di ogni schieramento, ma moltissi­mi della Lega Nord. Come per esem­pio il sindaco di Pontida, il deputa­to Pierguido Vanalli, e il primo citta­dino di Varallo, Gianluca Buonan­no, che si è reso protagonista nel­­l’estate del 2007 di una stravagante iniziativa: l’istituzione dell’assesso­rato alla dieta, con premi in denaro pubblico fino a 500 euro per i citta­dini che avessero perso cinque (le donne) o sei chili (gli uomini). Sen­za trascurare il centrosinistra. Il se­natore Claudio Molinari, eletto nel 2005 sindaco di Riva del Garda (15.693 abitanti), è approdato nel 2006 e nel 2008 in Senato, conser­vando sempre lo scranno da primo cittadino con l’affermazione, risolu­ta, che non lascerà in anticipo ri­spetto alla scadenza naturale del 2010. C’è addirittura un senatore che somma all’incarico di parlamen­tare e primo cittadino anche quello di governo: il ministro delle Infra­strutture Altero Matteoli, sindaco di Orbetello, città di 14.607 abitan­ti. Ci sono poi quattro vicesindaci: quelli di Roma (il senatore del Pdl Mauro Cutrufo), Milano (il deputa­to dello stesso partito Riccardo De Corato), Lecce (la senatrice Adriana Poli Bortone) e Caravaggio (il leghi­sta Ettore Pirovano). A questi si sa­rebbe dovuta aggiungere, fino a qualche settimana fa, la senatrice Angela Maraventano, vicesindaco di Lampedusa alla quale a gennaio 2009 il sindaco Bernardino De Ru­beis ha revocato le deleghe.

Non mancano gli assessori comu­nali. Ce ne sono tre. Uno di loro è Vittoria D’Incecco, deputata del Par­tito democratico, che amministra la sanità nella città di Pescara (116.286 abitanti). Restando nei Co­muni, si contano altri 17 consiglieri comunali, alcuni dei quali in grandi città. Gian Luca Galletti (Udc) a Bo­logna, Alessandro Naccarato (Pd) a Padova, Gaetano Porcino (Idv) a To­rino, Gabriele Toccafondi (Pdl) a Fi­renze) e Matteo Salvini, capogrup­po leghista a palazzo Marino, Mila­no. Caso singolare, quello del consi­glio comunale di Borgomanero, in Provincia di Novara, che ospita ben due parlamentari donne: la deputa­ta leghista Maria Piera Pastore, pre­sidente del consiglio, e la senatrice democratica Franca Biondelli. Non meno singolare la situazione in cui si trova il deputato Armando Valli, detto Mandell, senatore della Lega Nord e componente di ben quattro commissioni parlamentari, consi­gliere comunale del suo paese d’ori­gine, Lezzeno, e anche consigliere della Provincia di Como.

Si dirà che sono cariche non in­compatibili e che comunque la pre­senza degli amministratori locali in Parlamento assicura il necessario le­game con il territorio. Ma la questio­ne è sempre la stessa: anche ammet­tendo che amministrare un comu­ne di 19.999 abitanti e uno di 20.001 siano due mestieri diversi, dove trovano il tempo?


Sergio Rizzo
12 aprile 2009

da corriere.it
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« Risposta #22 inserito:: Aprile 14, 2009, 10:50:34 pm »

Strategie


La svolta «operaista» di Di Pietro

Tour elettorale dell’ex pm nelle fabbriche di Brescia. La regia dell’ex Fiom Zipponi


ROMA — L’offensiva parte dalla «solitudine dell’operaio», per usare una definizione cara a Maurizio Zippo­ni. Ex segretario della Fiom di Brescia, eletto in Parlamento nel 2006 con Ri­fondazione comunista, ora candidato alle Europee con l’Italia dei valori, è lui la punta di diamante della nuova stra­tegia dipietrista nelle fabbriche. Un inedito assoluto, per il partito dell’ex pm di Mani pulite, che finora non ave­va mai mostrato vocazione per il mon­do delle catene di montaggio. «Oggi l’operaio si sente solo. Tremendamen­te solo. Ed è lì che la rendita di posizio­ne del Partito democratico si sta pian piano sgretolando», dice Zipponi. La­sciando intendere che quel bacino di voti al quale ha già attinto a piene ma­ni Umberto Bossi comincia a fare gola (e molta) anche ad Antonio Di Pietro. L’operazione scatterà il 20 aprile proprio dalla città di Zippo­ni.

Mattinata nelle fabbriche, po­meriggio davanti ai cancelli del­­l’Iveco, il più grande stabili­mento bresciano, serata con l’ex sindaco di Brescia Paolo Corsini e Di Pietro a parlare del libro scritto dal­l’ex ministro con Gianni Barba­cetto: Il guastafeste. Non per caso. Perché in quel libro c’è un messaggio (la netta pre­sa di posizione per l’«antifa­scismo » e «la costituzione repubblicana») indirizzato da Antonio Di Pietro a chi continua a rimproverargli di essere privo dei cromosomi della sinistra. «Il punto di snodo», spiega Zip­poni, «è stato l’adesione dell’Italia dei Valori allo sciopero generale proclama­to dalla Cgil il 12 dicembre dello scor­so anno». Da allora i dipietristi hanno cominciato a mettere insieme i pezzi del nuovo puzzle, fino ad arrivare a condividere anche lo sciopero della Fiom e della Funzione pubblica Cgil del 13 febbraio e a mettere in campo una serie di proposte per le elezioni eu­ropee. Un pacchetto che comprende l’idea di un contratto unico europeo di lavoro per l’industria, ma anche la semplificazione dei contratti di catego­ria (dagli attuali 450 a quattro soli) e l’abolizione degli accordi di Basilea 2 che, sostiene Zipponi, «strozzano le piccole imprese, impedendogli l’acces­so al credito».

Che c’entra Basilea con gli operai? «Oggi l’operaio è il giovane che sta alla catena di montaggio, ma anche il lavo­ratore del call center, come pure il tito­lare di partita Iva...» dice l’ex sindacali­sta della Fiom, convinto che sia in atto una profonda mutazione genetica. «Le fabbriche sono piene di giovani. L’età media all’Ilva è di 35 anni. All’Alfa di Pomigliano, addirittura 32. Giovani che non hanno padri ideologici. Ope­rai dentro, cittadini fuori. Stanno con il sindacato ma esprimono un voto non coerente con le scelte politiche dei dirigenti sindacali. Si pensava che il vo­to di costoro per la Lega Nord fosse un segno di protesta, invece no. Il voto del leghista di fabbrica si è strutturato». Perché allora non provare a giocarsi questa partita sul terreno un tempo egemonizzato dalla sinistra che «ora però parla soltanto di conservazione, senza mai incrociare la parola cambia­mento »? E magari con parole d’ordine in grado di mettere seriamente in crisi pure le decisioni dei vertici del sindaca­to? Per esempio, la democrazia diretta in fabbrica sempre e comunque, con gli accordi sindacali sottoposti regolar­mente al giudizio di tutti i lavoratori.

E sorprese sempre più frequenti, come insegna la vicenda della Piaggio di Pon­tedera, dove la Fiom ha perso il referen­dum e ha dovuto firmare l’accordo sot­toscritto da Cisl, Uil e Ugl. Per esempio, l’attacco frontale ad alcune prerogative delle organizzazioni, come la verifica periodica delle deleghe firmate dai pen­sionati che si ritrovano iscritti a vita al sindacato. Si attendono ora le con­tromosse del Partito demo­cratico, che dopo la Lega Nord rischia ora di trovarsi nelle fabbriche un altro pe­ricoloso concorrente. Pier Paolo Baretta, parlamenta­re del Pd e già segretario generale aggiunto della Ci­sl non nega che il proble­ma esista. «Ma credo che la competizione sia più con la sinistra radicale che con noi», afferma. «E sarebbe un errore tragico», avverte Baretta, «mettersi a inse­guire Di Pietro tentando di occupare lo spazio della contestazione. L’opposizione non si fa soltanto in quel modo. Il Partito demo­cratico non può essere un semplice contenitore di dissenso, come invece è l’Italia dei valori. La nostra risposta è avere una fisionomia netta e propo­ste precise».

Sergio Rizzo
14 aprile 2009
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« Risposta #23 inserito:: Aprile 15, 2009, 12:45:12 pm »

Il caso

L’eredità del barone Quintieri destinata ai non vedenti e finita alla Campania

Un patrimonio immenso che doveva finire in beneficenza «bruciato» dalle malefatte della burocrazia

Ecco, di seguito, un brano di «Rapaci» di Sergio Rizzo.


Il barone Giovanni Paolo Quintieri non poteva prevedere un finale più acido. Non poteva, perché quando ha fatto testamen­to la Regione Campania non esisteva anco­ra. Mai avrebbe dunque immaginato che un giorno tutto il suo sterminato patrimo­nio sarebbe finito nelle mani dei politici. Anche se la politica, il barone Quintieri, l’aveva avuta in famiglia. Suo padre Ange­lo (...) fu deputato del parlamento del Re­gno d’Italia per sei legislature (...). Mentre lui si dava alla politica, sua moglie Evelina Casalis profondeva energie e soldi per i ciechi dell’istituto Paolo Colosimo di Na­poli. Il figlio seguì con tale convinzione le benefiche orme della madre al punto che alla sua morte, avvenuta il 18 agosto del 1970, lasciò in eredità ogni cosa a lo­ro. L’immenso patrimonio della fa­miglia Quintieri venne perciò ini­zialmente assorbito dal Patrona­to Regina Margherita pro cie­chi Istituto Paolo Colosimo. Poi nel 1979 passò tutto al­la Regione Campania. E qui comincia un’altra sto­ria. Per «tutto» si inten­de quanto segue.

Un enorme castello me­dievale, fra i più gran­di e meglio conserva­ti dell’Italia centrale, già appartenuto alle famiglie Colonna, Orsini e Rospigliosi, con intorno una te­nuta agricola, a una trentina di chilome­tri da Roma, località Passerano: 900 ettari (...) con oliveti, colti­vazioni a mais, orzo, grano e fieno, e quasi cinquecento capi di be­stiame. Una seconda te­nuta agricola di 160 etta­ri, sempre con relativo ca­stello, nelle Marche, a Mon­­tecoriolano, nei pressi di Por­to Potenza Picena (...).

Una se­rie di possedimenti in Calabria. Un palazzo di 52 appartamenti co­struito durante il fascismo a Roma, in via Panama, nel cuore del prestigio­so quartiere dei Parioli. Oltre, natural­mente, agli arredi e alle suppellettili pre­senti nelle dimore. Nel 1996, quando alla presidenza della Regione c’è Antonio Ra­strelli, si fa un inventario con 765 voci. Va­si cinesi. Lampadari di Murano. Tappeti persiani. Candelabri d'argento. Salotti d’epoca (...) E quadri. Tanti da riempire una pinacoteca. Quadri di Domenico Bar­tolomeo Ubaldini, detto Il Puligo, pittore del primo Cinquecento. Quadri di alcuni fra i più importanti pittori del Seicento e del Settecento. Andrea Vaccaro. Giacinto Diano. Francesco De Mura. Gaetano Gan­dolfi. Peter Roos, alias Rosa da Tivoli. Pa­cecco De Rosa. Giovanni Francesco Barbie­ri, detto Il Guercino. Jusepe de Ribera, det­to Lo Spagnoletto. E Rembrandt. Già, an­che un «Ritratto di gentiluomo a mezzo busto» dipinto nel 1635 dal celebre pitto­re olandese Rembrandt Harmeszoon Van Rijn.

Il testamento del barone Quintieri stabi­lisce che il lascito serve a mantenere il Co­losimo e i suoi ospiti non vedenti. Ma non dice come debba essere amministrato.
Il condominio di Roma, i castelli, le ville, le tenute e quant’altro vengono quindi affi­dati alla Sauie, Società anonima urbana in­dustria edilizia srl, una vecchia scatola cre­ata dal barone proprio per gestire l’immo­bile di via Panama, che passa anch’essa sotto il controllo della Regione Campania e diventa la stanza dei bottoni per ammini­strare un patrimonio di centinaia di milio­ni di euro (...) Quale però sia il rendimen­to di questo incredibile tesoro, è un capito­lo a parte(...) All’inizio degli anni Duemila inizi una battaglia a suon di interrogazio­ni condotta da un consigliere regionale di An, in seguito passato all’Udc, Salvatore Ronghi. Denuncia che l’Istituto per i cie­chi ha ricevuto per vent’anni soltanto le briciole: 600 milioni di lire l’anno, per giunta soldi versati dagli enti locali e non proventi dell’eredità Quintieri. Che le pi­gioni sono ridicole, e porta l’esempio di un appartamento di cinque stanze al pia­no nobile di via Partenope affittato per an­ni a 85.535 lire al mese (...)Che «a seguito di tale, a dir poco, disinvolta amministra­zione », gli eredi della famiglia Quintieri hanno fatto causa per rientrare in posses­so dei beni «così malamente utilizzati».

Ma Ronghi non si ferma a questo. Chie­de di conoscere come sono gestite le azien­de agricole, e perché 38 ettari di terreno in quella laziale sono stati affittati alla socie­tà Aviocaipoli, per realizzare una pista di volo per aerei ultraleggeri, a un canone provvisorio di 5 mila euro l'anno. Chiede di sapere il motivo per cui si spendono centinaia di migliaia di euro di consulen­ze. Chiede chiarimenti sulla lievitazione dei costi di alcuni appalti per sistemare lo­cali. E cita come esempio di gestione «falli­mentare » un fatto incredibile: la vendita di 30 mila bottiglie di vino Doc prodotto dall’azienda agricola marchigiana al prez­zo di un euro l’una, «a fronte di un valore che va da 5,50 a 12 euro, con una perdita secca di 200 mila euro». Un quadro, quello dipinto da Ronghi (...) stupefacente. Condito da una quanti­tà incredibile di particolari sconcertanti, come quello di un presunto furto di 37 vacche dalle stalle di Passerano, dove se­condo un’altra sua interrogazione presen­tata a febbraio del 2009 sarebbero morti «oltre cento capi di bestiame». Magari i suoi sospetti sulla evaporazione di alcuni beni erano esagerati (...)

Ma è difficile da credere che un privato avrebbe gestito peggio di così tutto questo ben di Dio. E l’Istituto Colosimo, con i suoi ospiti non vedenti, sarebbe letteralmente coperto d’oro. Sapete quanti sono oggi i ciechi per i quali viene giustificata l’esistenza in vita della società immobiliare della Regione, con i suoi amministratori, il collegio sinda­cale, i dirigenti, i dipendenti, i contabili, le aziende agricole, i castelli, i 52 apparta­menti dei Parioli, le pratiche burocratiche, gli appalti e gli scontri furiosi in consiglio regionale?

Sono quarantasette, dei quali appena trentuno a convitto. Quarantaset­te!


Sergio Rizzo

15/04/2009
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« Risposta #24 inserito:: Aprile 22, 2009, 12:53:05 pm »

Ad essere in ritardo nei pagamenti sono soprattutto le Asl: Lo Stato paga dopo 138 giorni

È il tempo per saldare le fatture.

Confindustria: 60 miliardi alle imprese. Il Tesoro: sono 30
 
 
«La presidenza del Consiglio dei mi­nistri è estranea a ogni rapporto scaturente dalla presente ordinan­za». Firmato: la presidenza del Consiglio dei ministri. Questo passaggio del provvedimen­to governativo con cui è stato nominato il nuovo commissario per l'emergenza rifiuti in Calabria basta da solo a spiegare che cosa sta succedendo alla Tec, una società che brucia nell'inceneritore di Gioia Tauro la spazzatura calabrese per conto del commissariato.

Un paio d'anni fa il gruppo francese Veolia ha comprato dall'ex amministratore delegato della Cogefar Impresit Enso Papi, uno dei pri­mi a finire nel ciclone di Mani Pulite, il 75% della Termomeccanica, ritrovandosi così pro­prietario anche dell'azienda calabrese. Flori­da sulla carta, inguaiata nella sostanza, visto che nessuno paga. Non paga lo Stato, ma nep­pure la Regione. I crediti della Tec superano ormai 90 milioni di euro. Una parte di essi, quella dei contributi regionali sulle tariffe, aspetta di essere saldata addirittura dal 2004. Con un paradosso: che gli interessi di mora adesso si sono mangiati anche la piccola fetta che era stata pagata. E il debito è tornato prati­camente al livello iniziale.

I responsabili dell'azienda hanno chiesto spiegazioni a Palazzo Chigi. Sentendosi ri­spondere dal sottosegretario Guido Bertolaso che non devono battere cassa da Silvio Berlu­sconi ma dal presidente della Regione Cala­bria Agazio Loiero. Da allora è cominciato un imbarazzante ping pong. Il governo avrebbe chiesto anche un parere al Consiglio di Stato su certe pendenze, con i francesi sempre più allibiti, al punto da non escludere, in assenza di risposte certe, di lasciare la Calabria.

Gli si può dar torto? In Francia l'ammini­strazione di Nicolas Sarkozy ha appena fatto una legge che impone alle imprese (tutte, pubbliche e private), di pagare tassativamen­te entro 30 giorni. La Gran Bretagna ha addi­rittura ridotto il termine massimo per i paga­menti della pubblica amministrazione ai suoi fornitori da 30 a 8 (otto) giorni. E da noi, do­ve non hanno certamente tutti le spalle lar­ghe come quelle di Veolia?

Secondo un'indagine della Confartigianato che risale a due anni fa le pubbliche ammini­strazioni italiane pagano mediamente in 138 giorni, contro una media europea di 68 gior­ni. Peggio, soltanto il Portogallo. Vero è che in Italia nessuno paga sull'unghia. Anche le grandi imprese come la Fiat sono abituate a prendersela piuttosto comoda con i loro for­nitori. Tanto più con la crisi. Ma c'è un limite a tutto. Sapete in quanto tempo mediamente (e si deve sottolineare il «mediamente») le aziende sanitarie locali molisane, secondo l'Assobiomedica, onoravano i propri impegni nel gennaio 2008? In 921 giorni.

Proprio così: due anni, sei mesi e undici giorni. A febbraio 2009 si era scesi a 633 gior­ni. In linea con Calabria e Campania, le ulti­me della classe. Ma il bello è che non ci sono progressi reali. A febbraio del 2009 il ritardo medio dei pagamenti delle Asl risultava, sem­pre secondo l’Assobiomedica, di 288 giorni. Esattamente come nel dicembre del 1990. Per­ché? «Per due motivi. In primo luogo le pub­bliche amministrazioni italiane non credono nel sistema, sono sempre state convinte che meno soldi danno più risparmiano. In secon­do luogo la loro affidabilità viene valutata dal­le agenzie di rating sulla cassa: meno spendo­no, più sono considerate affidabili, indipen­dentemente dal debito», dice il presidente dell’Assobiomedica Angelo Fracassi.

Ma forse nel 1990 i volumi erano diversi. Nessuno è in grado di dire quanti debiti ab­biano accumulato le pubbliche amministra­zioni con le imprese, prevalentemente nei set­tori della sanità e dei servizi. E già questo è un fatto decisamente curioso. Ma lo è ancora di più che si litighi su dati che nessuno ha. Confindustria stima che l’esposizione totale sia pari a metà di quei 120 miliardi di euro che ogni anno Stato ed enti locali spendono per acquistare beni e servizi. Stima che il Te­soro contesta, preferendo parlare di una tren­tina di miliardi, forse meno. In ogni caso la cifra vale da un minimo di due fino a quattro punti di Prodotto interno lordo.

Ma come si è potuti arrivare a questo pun­to? La colpa non è soltanto di una burocrazia ottusa che partorisce norme apparentemente strampalate come quella dell’ordinanza per i rifiuti della Calabria, che richiama alla mente il «Comma 22» del famoso film di Mike Ni­chols. Ricordate com’era formulato? «Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esen­tato dalle missioni di volo non è pazzo». An­che in Italia, pur senza voler considerare la di­rettiva europea che avrebbe fissato per tutti i Paesi il limite di un mese, esisterebbero un termine più o meno certo per i pagamenti del­la clientela pubblica: 90 giorni. Ma il condizio­nale è d’obbligo. I trasferimenti dello Stato ar­rivano sempre in ritardo. Poi le Regioni ci mettono del loro. Qualcuna si impegna soldi che non ha. E poi c’è sempre quel meccani­smo bizantino del bilancio pubblico fatto sia sulla base della «cassa» che della «competen­za » (la differenza fra i soldi che materialmen­te si devono tirare fuori e quelli che invece si devono solo impegnare sulla carta)a compli­care le cose. Risultato: i mesi passano senza che nessuno faccia nulla.

Nemmeno le imprese, che ormai (quelle che possono perché non devono pagare trop­pi stipendi) si sono abituate all’andazzo. Do­po 90 giorni, dice la legge, le aziende dovreb­bero far scattare automaticamente gli interes­si. Salatissimi. Ma non scattano quasi mai, perché le ditte hanno paura di essere penaliz­zate nei contratti futuri. Si è arrivati al paradosso che la Campania ha recentemente ap­provato una legge regionale (impugnata dal governo) con cui si stabilisce che ospedali e Asl non possono subire pignoramenti.

Ogni tanto qualcuno solleva in Parlamen­to, con emendamenti e disegni di legge, il problema di uno Stato velocissimo a preten­dere ma lentissimo a riconoscere i propri de­biti. Uno per tutti: Nicola Rossi. Ma le sue pro­poste, manco a dirlo, non sono state nemme­no esaminate. Le hanno lasciate semplice­mente ammuffire nel cassetto. Più comodo andare avanti così, nascondendo sotto il tap­peto qualche miliardi di euro di debito pubbli­co. Pazienza se le imprese aspettano anche an­ni per incassare il dovuto.

Sentite Fracassi, che è anche presidente della D-group, una impresa che opera nel set­tore dei sistemi per le analisi di laboratorio clinico: «Il Policlinico Umberto primo di Ro­ma è fallito qualche anno fa. Hanno fatto un’azienda nuova e i fornitori della vecchia sono ancora in attesa. Io sto aspettando da dieci anni. Ma questo è ancora niente: sei me­si fa ho incassato crediti per 300 milioni delle vecchie lire dalla Regione Puglia che risaliva­no a prima del 1994. E ho dovuto rinunciare agli interessi».

Per non parlare di quello che succede nel settore dei rifiuti. Nel Lazio gli enti locali han­no debiti per circa 200 milioni di euro: a di­cembre del 2008 l’Ama, l’azienda municipaliz­zata di Roma, doveva a Manlio Cerroni, il tito­lare della discarica di Malagrotta, 135 milio­ni. A 900 milioni ammontano invece i debiti «pubblici» nei confronti delle aziende che smaltiscono i rifiuti in Sicilia. Regione dove c’è una situazione assurda: il 90% dei Comuni ha trasferito la competenza sui rifiuti alle au­torità di bacino, insieme alla riscossione del­le imposte. Ma ci si è dimenticati, piccolo par­ticolare, che la Tarsu non copre che il 60% (quando va bene) del costo dello smaltimen­to. Perciò i soldi per pagare le imprese mate­rialmente non ci sono. Si arrangino.

Insomma, è un pandemonio. Aggravato da norme come quella rinverdita dal governo di Romano Prodi, che vieta alle amministrazio­ni pubbliche di pagare le imprese che abbia­no una sia pur piccola pendenza con lo Stato. Per esempio, un contenzioso fiscale. Tutto questo, naturalmente, ha un costo che è stato calcolato in circa un miliardo di euro l’anno di maggiori oneri finanziari: 150 milioni per le sole imprese della Lombardia.

Come uscirne da una faccenda tanto grave e complicata che l’Authority per i lavori e le forniture pubbliche presieduta da Luigi Giam­paolino ha deciso di avviare un’indagine co­noscitiva? Nel decreto anticrisi diventato leg­ge alla fine di gennaio il governo ha inserito un paio di norme per agevolare la riscossione di quei crediti. E ora il Tesoro ha quasi com­pletato la stesura dei regolamenti attuativi. La prima norma è la possibilità di far interve­nire la Sace, compagnia assicurativa del Teso­ro, per dare garanzia alle banche che conceda­no anticipazioni alle imprese creditrici o per riassicurare polizze stipulate dai creditori ga­rantendosi dal rischio che il «pubblico» non paghi. Iniziativa singolare, considerando che così, anche se indirettamente, lo Stato garan­tisce il privato contro il rischio che lo Stato si riveli inadempiente.

La seconda norma stabilisce invece che le Regioni e gli enti locali rilascino al creditore una «certificazione» per non avere difficoltà a scontare il credito in banca. Un modulo, co­me quello che già c’è per lo Stato, nel quale semplicemente si ammette l’esistenza del de­bito. Un’ovvietà. Se non fosse che quella «cer­tificazione » trasformerebbe automaticamen­te il debito commerciale in debito pubblico. Motivo per il quale il Ragioniere generale del­lo Stato è molto preoccupato. Molto. Perché almeno due punti in più, di colpo, su un debi­to pubblico come il nostro non sono mai uno scherzo. Figuriamoci adesso.

Sergio Rizzo

22 aprile 2009
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« Risposta #25 inserito:: Maggio 12, 2009, 10:48:33 pm »

Sotto l’Etna il 23,9% degli inquilini non avrebbe i titoli per ottenere un alloggio

Le case popolari dei conti in rosso

Catania riscuote solo un affitto su dieci

Buco record di quasi 8 milioni di euro. Ma scatta la corsa a cento poltrone


ROMA — La notizia è dentro una ricer­ca fatta dal Censis e Federcasa con Dexia Crediop: alle case popolari di Catania chi paga l’affitto è una mosca bianca. La moro­sità aveva raggiunto nel 2006 il 92,5%. Su 8 milioni 617.680 euro di canoni lo Iacp del capoluogo etneo ne aveva incassati in un anno intero 644.376. Una miseria. So­prattutto considerando il costo medio del­­l’affitto: 67 euro al mese. Una situazione oltre i limiti dell’incredi­bile, che non si spiega soltanto con l’abusi­vismo dilagante, ai livelli più alti d’Italia. Su 10.003 alloggi popolari, a Catania ce ne sono 2.386 occupati abusivamente. È il 23,9% del totale. Un record nazionale bat­tuto soltanto da Palermo, dove le case po­polari occupate da inquilini senza titolo per starci sono circa 3.000, ossia il 27,3% del totale.

Di fronte a questo stato di cose sarebbe logico aspettarsi che qualcuno si rimboc­casse le maniche. E non che invece, come sta accadendo in Sicilia, si discutesse di poltrone. Cento, per l’esattezza. Il caso è stato sollevato alla Regione da due «depu­tati» regionali del Popolo della libertà, Marco Falcone e Pippo Correnti. Sono sta­ti loro a denunciare l’imminenza di una ondata di nomine agli Istituti autonomi delle case popolari siciliani. Gli enti sono dieci (uno per provincia più quello di Aci­reale), ognuno dei quali con dieci posti in consiglio di amministrazione: tre nomina­ti dalla Provincia, tre dai sindacati, due da­gli assessorati al Lavoro e ai Lavori pubbli­ci, uno dalle associazioni degli inquilini e l’ultimo dagli ordini professionali. Una lot­tizzazione con il bilancino, dove al solito sono i politici a fare la voce grossa. Un ca­so per tutti: alla presidenza dello Iacp di Catania c’era fino a poco tempo fa Vincen­zo Gibiino, parlamentare in carica eletto con il partito di Silvio Berlusconi.

Il fatto è che la Sicilia è praticamente l’unica regione a trovarsi in questa situa­zione. Nell’isola la riforma del 1998 che ha spazzato via gli Iacp in quasi tutta Italia, passando la competenza alle Regioni e tra­sformandoli in aziende con un consiglio di amministrazione al massimo di cinque componenti, non è mai stata attuata. I vec­chi istituti per le case popolari sono so­pravvissuti a ogni timido tentativo di cam­biamento. Nei mesi scorsi il presidente della Regione Raffaele Lombardo ha sosti­tuito i presidenti con commissari ad acta. E ora sono partite le grandi manovre per rinnovare completamente i consigli di am­ministrazione.

Uno scandalo, anche secon­do il sindacato guidato da Guglielmo Epi­fani. Hanno denunciato Michele Palazzot­to e Antonio Crispi della Cgil: «Gli Iacp rappresentano terreno di conquista per politici di ritorno e clientele politico affari­stiche. In Sicilia ogni istituto ha ben dieci consiglieri, fra cui un presidente e un vice­presidente, tutti con status giuridico, in­dennità, diritto all’aspettativa e spese di missione». Di che cifre si sta parlando, lo spiega Falcone: «Con una legge regionale del 2008 gli emolumenti dei vertici degli Iacp siciliani sono stati parametrati a quelli dei vertici delle Province. La retribuzione del presidente di ognuno dei dieci istituti è pari al 75% di quella del presidente della Provincia». Facendo i conti, non meno di 7.500 euro al mese. «Lo Iacp di Catania, per esempio, potrà arrivare a costare 50 mila euro al mese per i compensi degli am­ministratori», sostiene il deputato regio­nale del Pdl. «L’esperienza dice che dove i vecchi Iacp sono diventati aziende e i consigli so­no stati ridotti a tre, al massimo cinque componenti, si riesce a gestire il servizio senza contributi pubblici e magari otte­nendo qualche piccolo utile. La Sardegna, per esempio, ha chiuso i vecchi Iacp e li ha riuniti in una sola azienda. In Liguria hanno fatto la scelta dell’amministratore unico. Come nelle Marche», dice Luciano Cecchi, il presidente di Federcasa, l’asso­ciazione che riunisce gli istituti riformati.

Non che i problemi manchino neppure dove la legge del 1998 è stata attuata. Nel Comune di Roma, per esempio, le case po­polari occupate abusivamente sono 5.863, l’11,1% del totale. A Milano, invece, 3.409, il 5,2%. E se a Palermo la morosità, pur no­tevolmente inferiore a quella di Catania, raggiunge comunque la vetta del 34,7%, a Roma si arriva al 41,2%, con 21 milioni di euro non incassati ogni anno, e a Cagliari si tocca il 44%. Ben più che a Torino (32,5%), e addirittura a Napoli, città nella quale non si riscuote circa il 24% degli af­fitti delle case popolari. Mentre a Milano la morosità è al 10,2%, ma fra il 2001 e il 2006 è raddoppiata.

Sergio Rizzo
12 maggio 2009

da corriere.it
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« Risposta #26 inserito:: Maggio 17, 2009, 02:56:20 pm »

Bozza di intervento sulle autonomie locali: nessun limite di mandato per i primi cittadini

Il piano-tagli: via 1.612 enti «dannosi»

Nei Comuni meno poltrone e sindaci a vita

Il progetto di Calderoli: addio alle comunità montane e ai difensori civici


Dopo cinquantratrè anni di fru­strante conflitto (la guerra è comin­ciata nel 1956) con gli enti inutili, ec­co schiudersi un nuovo fronte. Quel­lo contro gli enti «dannosi». Avete letto bene: «dannosi». Proprio così li definisce una bozza (anzi, una «boz­zaccia » come la chiama il leghista Ro­berto Calderoli) di disegno di legge al quale il ministro della Semplifica­zione sta lavorando insieme ai suoi colleghi dell'Interno, Roberto Maro­ni, e degli Affari regionali, Raffaele Fitto. Enti non soltanto inutili, ma an­che «dannosi»: quindi da chiudere e poi gettare via la chiave. «Norme di soppressione degli enti dannosi», re­cita testualmente il capo terzo della “bozzaccia”.

Quali sono?

I difensori ci­vici, innanzitutto, che dovrebbero scomparire nel momento stesso in cui questa legge venisse approvata. Poi i commissariati per la liquidazio­ne degli usi civici, la cui funzione de­riva da una norma del 1927. E i tribu­nali delle acque pubbliche, istituiti come conseguenza di un provvedi­mento del 1933. Tuttavia questo non è che l'antipa­sto di una riforma destinata a rivolu­zionare Comuni, Province e tutto quello che c'è intorno, ben più rapi­damente della legge delega sul fede­ralismo. Ma anche a scuotere la politi­ca suscitando reazioni controverse. Un esempio? La «bozzaccia» del dise­gno di legge di riforma delle autono­mie locali prevede l'abolizione del li­mite dei due mandati consecutivi per l'incarico di sindaco e di presidente della Provincia. Se la proposta passe­rà, si potrà fare il sindaco a vita, ri­mettendo indietro di anni l'orologio della nostra storia. Una modifica che è fortemente sostenuta dalla Lega Nord, ma che non piace invece al Pdl. E non sarà nemmeno facile far pas­sare i tagli, sacrosanti, stabiliti per i consigli e le giunte comunali e pro­vinciali. I consiglieri dei Comuni con oltre 500 mila abitanti non potranno superare il numero di 40. E così a sca­lare.

Per i Comuni minori, fino a 3 mi­la abitanti, il limite massimo è di 6. I consiglieri provinciali non potranno in ogni caso essere più di 30. Fra sin­daco e assessori le giunte comunali non dovranno avere più di 12 poltro­ne. Quelle provinciali, non più di 8. I Comuni fino a mille abitanti non avrebbero nemmeno la giunta, ma soltanto il sindaco. Non sono le uni­che novità. La riforma stabilisce pure che Province e Comuni abbiano un segretario con l'incarico di controlla­re gli atti: nominato non dall'ammini­strazione ma da un organismo terzo, una speciale «Agenzia autonoma per l'efficienza degli enti locali».

Facile immaginare le reazioni che provocheranno pure le altre sforbicia­te previste dalla «bozzaccia». Forse ancora più dolorose di quelle appena descritte. Sforbiciate, in numero di ben 1.612 (tanti sono gli enti che ver­rebbero eliminati) recepite da una proposta di legge del deputato del Pdl Mario Valducci, ora convogliata pressoché integralmente in questa ri­forma, di cui rappresenta una delle parti più sostanziose.

La tagliola calerà sulle 185 comuni­tà montane. Identica sorte avrebbero i 63 «Bacini imbriferi montani», i 138 enti parco regionali, le 91 Ato, i 600 enti strumentali regionali. E i 191 consorzi di bonifica, pianeta tutto da scoprire. Un caso per tutti: il consor­zio di bonifica delle colline livornesi ha 16 dipendenti ma 33 fra consiglie­ri delegati, deputazione amministra­trice e collegio sindacale. Con regola­re gettone di presenza.

Calerà, la tagliola, anche sulla ple­tora dei consigli circoscrizionali. La «bozzaccia» prevede che sopravviva­no soltanto nelle città con più di 250 mila abitanti: una riforma già tentata dal centrosinistra ma affossata nelle paludi della politica. E si capisce per­ché. Il testo unico del 2000 sugli enti locali stabilisce che ci siano le circo­scrizioni soltanto nelle città con più di 100 mila abitanti, lasciando però spiragli anche per chi ha anche appe­na 30 mila residenti. Il risultato è che una città come Asti, con 70.598 abi­tanti, ha 110 consiglieri circoscrizio­nali. A Como, 8 mila anime più di Asti, sono 144. Come ad Ascoli Pice­no, che è forse un caso limite. Perché nel capoluogo marchigiano, 50.135 abitanti, c'è un eletto ogni 348 cittadi­ni, contro un rapporto di uno a 5.178 per Roma.

E le Province? Dopo le vane pro­messe elettorali di abolirle («tutte», tenne a precisare Silvio Berlusconi) sono state salvate dalla legge sul fede­ralismo. E pure da questa riforma. Anche se qualcuna potrebbe rischia­re. Entro due anni il governo dovrà fare un decreto per razionalizzare le province, prevedendo fra l'altro la soppressione di quegli enti con un rapporto non ottimale fra popolazio­ne ed estensione territoriale. Ne ve­dremo delle belle, sempre che la «bozzaccia» arrivi al Consiglio dei mi­nistri, si prevede il mese prossimo, con tutto quello che c'è dentro ades­so. Manca solo un argomento, forse il più spinoso: l'incompatibilità degli incarichi. Ma questo, in un Parlamen­to nel quale ci sono 70 deputati e se­natori che fanno anche i sindaci, gli assessori, i consiglieri e perfino i pre­sidenti di Provincia, è davvero un'al­tra storia.


Sergio Rizzo
17 maggio 2009

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« Risposta #27 inserito:: Maggio 25, 2009, 11:01:04 am »

GRANDI OPERE/IL CASO

Dal Ponte sullo Stretto al Mose

Bloccate le nomine dei 16 commissari

Fermata sul filo di lana la lista dei nomi Il decreto anticrisi approvato da sei mesi
 

Il Mose - Manifestanti protestano contro la costruzione delle dighe mobili (Ansa) 
ROMA — La lista dei sedici nomi era pronta. Qualche al­to papavero ministeriale, qualche superburocrate, qual­che tecnico. Pronti per avere il bollo del governo: commis­sari alle grandi opere pubbli­che. Uno per ognuna delle in­frastrutture strategiche per il Paese. Impacchettata per il via libera del Consiglio dei ministri della scorsa settima­na, all’ultimo momento è sta­ta rimessa nel cassetto. Tutto rimandato. A quando? Appe­na possibile. Ma a questo punto, settimana più, setti­mana meno… Da quando il governo ha varato il decreto anticrisi con le misure urgenti (urgenti!) per far ripartire l’economia, fra cui figura proprio (artico­lo 20) l’istituzione dei com­missari per mettere il turbo al­le opere infrastrutturali che procedono a passo di lumaca, sono passati sei mesi. Quat­tro, invece, da quando il Parla­mento ha convertito definiti­vamente in legge il provvedi­mento. Ma dei famosi com­missari nemmeno l’ombra. Si dirà che per i tempi italiani, dove le decisioni si prendono al ritmo delle ere geologiche, quattro o sei mesi non sono niente. Peccato soltanto che gli effetti della crisi non aspet­tino i comodi della nostra bu­rocrazia.

Negli ambienti della mag­gioranza, dove i commissari vengono ovviamente difesi a spada tratta, si rigetta la tesi che tutto si sia bloccato a cau­sa di contrasti politici o scon­tri fra poteri. I continui rinvii avrebbero a che fare piutto­sto con altre questioni. Prima è sorto il problema di defini­re con esattezza le risorse a di­sposizione per il nuovo piano di infrastrutture: a un certo punto era stata ventilata l’eventualità di dirottare lì una parte dei soldi non utiliz­zati per gli ammortizzatori so­ciali. Poi c’è stato il terremoto dell’Abruzzo, che ha oggetti­vamente complicato tutto. Con la conseguenza di rende­re più difficile la decisione sulle opere da accelerare. Qua­li affidare ai commissari? Il Ponte sullo Stretto di Messi­na? La Salerno-Reggio Cala­bria? Oppure il Mose? O ma­gari la fantomatica autostra­da Livorno-Civitavecchia, che sta tanto a cuore al mini­stro delle Infrastrutture Alte­ro Matteoli, sindaco di Orbe­tello? Inutile dire che anche qui c’è stato un bel tira e mol­la.

Non che non ci siano an­che altri problemini. Vero è che i nuovi commissari si so­no visti accrescere i poteri ri­spetto ai loro precedessori. Per esempio, potranno agire in deroga ad alcune norme vi­genti, in caso di necessità. Ma anche intervenire quando ci si trovi di fronte a ritardi in­giustificati. E perfino propor­re la revoca dei finanziamen­ti. Senza però avere in mano i cordoni della borsa, che resta­no saldamente in pugno alle cosiddette «stazioni appaltan­ti »: le Ferrovie, l’Anas… Un meccanismo che rischia di mettere oggettivamente i commissari in contrasto con i vertici di quelle «stazioni ap­paltanti ». Ecco perché Ange­lo Cicolani, ex direttore gene­rale dell’Astaldi, parlamenta­re del Pdl considerato fra i massimi esperti di questo set­tore, aveva suggerito di nomi­nare commissari proprio lo­ro. Soluzione ora sempre pos­sibile, ma non esplicitamente prevista.

Esiste poi una pattuglia di burocrati frenatori che, in centro e in periferia, ha sem­pre considerato i commissari un’inutile iattura, buona sol­tanto a pestare i piedi ai prov­veditori alle opere pubbliche. Insomma, non manca nem­meno chi, sotto sotto, non ha mai smesso di remare contro. C’è da dire che i precedenti non sono esaltanti. I commis­sari alle grandi opere sono un’invenzione del primo go­verno di Romano Prodi, mini­stro l’ex sindaco di Venezia Paolo Costa. Senza grandi ri­sultati. Non migliore fu l’espe­rienza dei commissari nomi­nati nel 2003 dal secondo go­verno di Silvio Berlusconi, che con la legge obiettivo con­tava di rinverdire (parole del­l’ex ministro delle Infrastrut­ture Pietro Lunardi) i fasti del Colosseo e delle Piramidi. «Avevano poteri limitati. E so­no serviti concretamente in poche occasioni», ricorda og­gi uno di loro: Aurelio Misiti, ex presidente del consiglio su­periore dei Lavori pubblici, assessore della Regione Cala­bria, attualmente parlamenta­re dell’Italia dei Valori. Allora i commissari si dividevano cinque macroaree. A Misiti toccò il Sud e la Sicilia. Ma do­po qualche tempo si dimise in polemica con il governo avendo preso atto che, nono­stante quanto era scritto nel piano delle grandi opere, non c’era alcuna intenzione di rea­lizzare l’alta velocità ferrovia­ria fra Salerno e Palermo. Il secondo governo di Ro­mano Prodi, estremamente diffidente nei confronti del piano infrastrutturale berlu­sconiano e diviso al proprio interno, dove i Verdi esercita­vano un notevole potere di condizionamento, ereditò con il massimo scetticismo quei commissari. E alla sca­denza degli incarichi non li rinnovò: da allora sono passa­ti più di due anni.

Sergio Rizzo
25 maggio 2009

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« Risposta #28 inserito:: Giugno 02, 2009, 11:41:33 am »

IL CASO DEI VOLI DI STATO

Aerei blu, corsi e ricorsi dei privilegi

I casi che hanno fatto discutere da Mastella ad Apicella
 
Mastella arrivato a Linate con l'aereo di Stato per andare al Gp di Formula 1, a settembre 2007 (Sestini)


«Tempo di rumba, tempo di te / Ballo e non ballo: ma perché?», si chiede Mariano Apicella in una canzone. Pare ora per quelle foto che lo mostrano mentre scende da un volo-blu, dei giudici potrebbero farlo «ballare» sul serio. Tanto più che in un’intervista a Claudio Sabelli Fioretti il menestrello del Cavaliere confidava già tutto: «Quando lui ha bisogno mi telefona Marinella, la segretaria: “Mariano, se non hai problemi il dottore ti vorrebbe stasera”. Io vado a Roma, poso la macchina a Ciampino e parto con lui sull’aereo presidenziale. Quasi sempre per la Sardegna, qualche volta per Milano». A spese dei cittadini.

Si dirà: che c’entra? L’aereo pubblico partirebbe lo stesso e un passeggero in più non incide di un centesimo! È esattamente ciò che disse Clemente Ma­stella, nel settembre 2007, dopo essere stato denunciato dall’Espresso mentre saliva col fi­glio sul volo di Stato che portava Francesco Rutelli a Monza per il Gran premio di F1: «Mio figlio non lo vedo mai, che male c’è se l’ho por­tato al Gran premio? Tanto, se in aereo erava­mo 10 o 15 non cambiava niente».

Eh, no, è una questione di principio, titolò la Padania: «L’inGiustizia vola al Gran Pre­mio ». Il Giornale berlusconiano rincarò: «Non dicevano di voler tagliare i costi della politica? Forse usare l'aereo di Stato più farao­nico che ci sia per assistere al Gp di Monza non è il miglior modo di risparmiare. O no? Per dire: il Gran premio lo trasmettevano pu­re su RaiUno, il cui segnale, ci risulta, dovreb­be arrivare fino a Ceppaloni». E Alessandra Mussolini, furente: «Ho messo sul sito gli indi­rizzi e-mail di Rutelli e Mastella per consenti­re a tutti i cittadini di coprirli di “Vergogna!”» Dice oggi Palazzo Chigi che i «passaggi» of­ferti al cantautore personale del Cavaliere («Mi disse: “Vorrei avere qualcuno che mi fa un po’ rilassare nei fine settimana”») sono as­solutamente legittimi: «La disciplina dell'im­piego degli aerei di Stato è stabilità dalla Diret­tiva 25 luglio 2008, regolarmente registrata al­la Corte dei Conti, che ne detta le regole per tutte le Autorità ammesse ad usufruirne». E cosa dice questa legge, che spazzò via quella più restrittiva fatta dal governo Prodi per argi­nare un andazzo che nel 2005 aveva visto im­piegare i voli di Stato per 37 ore al giorno con una spesa di 65 milioni di euro pari al costo di 2.241 (duemiladuecentoquarantuno) biglietti andata e ritorno al giorno (al giorno!) da Mila­no a Londra con la Ryanair?

Dice quella legge (bollata allora da Libero con il titolo «Onorevoli e vip: Silvio allarga gli aerei blu» sotto l’occhiello: «Voli di Stato: la Casta mette le ali») che quelli che Luigi Einau­di chiamava «i padreterni» possono imbarca­re persone estranee «purché accreditate al se­guito della stessa, su indicazione dell'Autori­tà, anche in relazione alla natura del viaggio e al rango rivestito dalle personalità trasporta­te ». Di più: «L'imbarco di persone estranee al­la delegazione non comporta quindi alcun ag­gravio degli oneri comunque a carico dell'era­rio ». Appunto: la tesi di Mastella.

Obiezioni? Ma per carità: la legge è legge. E non ci permettiamo di dubitare che sia stata rispettata fino in fondo. Un conto è il rispetto delle regole formali, però (tanto più se queste sono state cambiate apposta) e un altro è l'op­portunità. È probabile che lo stesso Berlusco­ni avesse tutti i diritti mesi fa di prendere l’eli­cottero della protezione civile per andare a far­si un massaggio alla beauty farm di Mességué in Umbria, come documentò un filmato del TG3. L’opportunità, però è un’altra cosa. E di­spiace che anche questi episodi, gravi o secon­dari che li si consideri, confermino una certa «rilassatezza» sui costi e i privilegi della politi­ca. Come se la rovinosa sconfitta della sinistra alle elezioni dell'aprile 2008 avesse già saldato il conto tra la politica e i cittadini indignati.

Che la sinistra, incapace di capire l'insoffe­renza montante, meritasse la batosta, lo han­no ormai ammesso in tanti. Compreso Fausto Bertinotti, finito nel mirino proprio per i voli blu: «I nostri gruppi dirigenti? Sganciati e lon­tani dalla realtà dei lavoratori, autoreferenzia­li, così si è venuta formando anche a sinistra una vera e propria casta, un ceto politico inte­ressato solo alla propria sopravvivenza». Sarebbe davvero un peccato se la destra, che in gran parte cavalcò quei sentimenti di indignazione e oggi, secondo il Pd, triplica (da 150 a oltre 400 ore medie al mese) quei voli blu che ieri bollava con parole di fuoco, pensasse che la grande ondata di insofferenza si sia allontanata per sempre. Peggio ancora se pensasse che non c'è più bisogno di una ro­busta moralizzazione del sistema. Certo, alcu­ne misure sono state prese. La Camera e il Qui­rinale, quest'anno, dovrebbero costare meno dell'anno scorso. Ma già al Senato, ad esem­pio, non sarà così. E molti episodi rivelano una sconfortante indifferenza nei confronti dei tagli e soprattutto delle riforme ancora ne­cessari.

Basti pensare alla recentissima denuncia dei «portaborse» secondo i quali i presidenti delle Camere, dopo avere «annunciato solen­nemente un giro di vite radicale contro lo scandalo dei collaboratori parlamentari assun­ti in nero», hanno riciclato «parola per paro­la, i contenuti di una missiva analoga spedita il 28 marzo 2007» e da loro stessi giudicati «inadeguati». O all’assenteismo dei nostri eu­ro- parlamentari, 10 dei quali sono tra gli ulti­mi 20 nella classifica. O alla decisione di vara­re l'area metropolitana di Reggio Calabria no­nostante sia per abitanti al 44º posto tra gli agglomerati urbani perfino dietro Aversa, Va­rese, Chiari, Vigevano… O ancora alla timidez­za nel prendere di petto temi politicamente spinosi come la gestione di carrozzoni quali la Tirrenia o l’Amia, la società che dovrebbe occuparsi dei rifiuti da cui è sommersa a Paler­mo e i cui capi (tra i quali il presidente, pro­mosso a senatore) andavano negli Emirati Ara­bi a «vendere» la raccolta differenziata «alla palermitana» spendendo anche 500 euro a pa­sto.



Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella
02 giugno 2009

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« Risposta #29 inserito:: Giugno 11, 2009, 05:38:39 pm »

Il libro

La rivelazione del tesoriere Pd «In 5 anni ai partiti 941 milioni»

Mauro Agostini svela i meccanismi dei «rimborsi» e la difficile convivenza con i colleghi di Ds e Margherita
 

ROMA - «Il tesoriere ha in mano i cordoni della borsa di un partito. Figura tradizionalmente oscura, un po’ sinistra, al punto da passare per colui che manovra non solo i denari ma anche i segreti più turpi della politica ». Tanto basterebbe a spiegare perché nessun tesoriere di partito abbia mai scritto un libro. Nessuno prima di Mauro Agostini, l’uomo che un anno e mezzo fa ha avuto (e ha tuttora) in mano i cordoni della borsa del Partito democratico: non si sa se per coraggio o incoscienza. Il suo libro, da cui sono tratte queste frasi, esce oggi in libreria, l’ha pubblicato Aliberti in una collana diretta da Pier Luigi Celli e si chiama semplicemente Il tesoriere. Da un titolo così è lecito attendersi anche qualche considerazione numerica. Che infatti non manca. A cominciare dal calcolo minuzioso di quanti soldi pubblici, attraverso il meccanismo ipocrita dei cosiddetti rimborsi elettorali, sono entrati nelle tasche dei partiti italiani soltanto negli ultimi cinque anni, dal 2004 al 2008. Reggetevi forte: 941 milioni 446.091 euro e 14 centesimi. Cifre senza eguali in Europa, se si eccettua, sostiene Agostini, la Germania. La ciccia, tuttavia, non è nei numeri. Il tesoriere sostiene che è necessario un sistema di finanziamento dei partiti «prevalentemente pubblico » senza più ipocrisie, ma con «forme di controllo incisive e penetranti » di natura «squisitamente pubblica» e il «vincolo esplicito» di una gestione sobria ed economica prevedendo anche «sanzioni reputazionali ». Ma al tempo stesso non può non ripercorrere la storia dei ruvidi rapporti con i suoi colleghi dei Ds, Ugo Sposetti, e della Margherita, Luigi Lusi, i due partiti che hanno dato vita al Pd. «Il nuovo partito nasceva senza un euro. L’obiettivo, mai esplicitato, ma evidente in comportamenti (...) dei tesorieri Ds e Margherita era quello di dare vita a una sorta di triumvirato nella gestione delle risorse, di cui però i veri sovrani avrebbero dovuto essere Ugo Sposetti e Luigi Lusi, in quanto titolari dei rimborsi elettorali.

Con le conseguenze facilmente immaginabili: quando le cose sarebbero andate secondo i desiderata dei due vecchi azionisti, i soldi sarebbero affluiti regolarmente, in caso contrario no. È evidente che la questione rivestiva un valore (...) squisitamente politico e di autonomia del nuovo partito». Una ricostruzione che indica senza mezzi termini fra le cause delle difficoltà interne del Pd la sopravvivenza dei vecchi apparati di partito, con le rispettive munizioni finanziarie. Agostini ricorda che i Ds avevano provveduto a blindare in fondazioni «con un percorso opaco» migliaia di immobili. E che il tesoriere della Margherita, Lusi, aveva dato sì la disponibilità a contribuire al Pd con i rimborsi elettorali, «a condizione che anche i Ds avessero fatto la loro parte, in ragione di quaranta a sessanta per cento». Ma «l’impossibilità dei Ds» a mettere mano al portafoglio motivata da quel partito con il forte indebitamento «assolveva tutti dall’obbligo politico di sostenere il Pd». Questa vicenda è chiaro sintomo di quella che Agostini definisce «un’ambiguità di fondo mai esplicitata ma che percorrerà il progetto sotto pelle in tutto il suo primo anno di vita e che rischia di essere anche la causa profonda della crisi che sfocia nelle dimissioni di Walter Veltroni ». Ancora: «L’ispirazione sembra più quella di dare vita a una specie di consorzio o di holding i cui diritti principali restano in mano ai soci fondatori, piuttosto che fondare una nuova formazione politica». La notizia con la quale comincia Il tesoriere, e cioè che il Pd ha fatto certificare il bilancio 2008 dalla Price Waterhouse Coopers («la prima volta», rivendica con orgoglio Agostini, che un partito italiano sottopone i suoi conti a una verifica del genere), valga a questo punto come una consolazione. Perché se la diagnosi politica è giusta, la strada è ancora tutta in salita. Dettaglio non trascurabile: il libro viene presentato oggi dal segretario del Pd, Dario Franceschini.

Sergio Rizzo
11 giugno 2009

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