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Autore Discussione: SERGIO RIZZO  (Letto 134728 volte)
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« inserito:: Giugno 24, 2007, 04:27:22 pm »

Retroscena Tps sotto assedio: «Per qualcuno due più due fa cinque»

Il ministro prepara il Dpef. E conta sul sostegno dei riformisti contro gli autori della lettera   


ROMA — Domanda un ragazzo: «Ministro, qual è la legge fondamentale dell’economia? ». Tommaso Padoa-Schioppa prende un pennarello e scrive sulla lavagna di carta: 2+2=4. Poi dice: «Eccola.Ma qualcuno ogni tanto vorrebbe da me che due più due facesse cinque». La sintesi del Padoa- Schioppa pensiero è tutta qua, nella risposta data agli alunni di una scuola media che nei giorni scorsi sono andati da lui a intervistarlo per il periodico Focus junior. E la legge del 2+2=4 è la stessa che viene ripassata accuratamente, in queste ore, nelle stanze di via XX settembre, a Roma, dove il ministro dell’Economia sta preparando con i suoi più stretti collaboratori il Documento di programmazione economico-finanziaria che dovrà essere approvato giovedì dal Consiglio dei ministri. Compresi, ovviamente, i quattro esponenti della sinistra radicale che hanno mandato venerdì una lettera a Prodi contestando le scelte del titolare dell’Economia e chiedendo una svolta con il Dpef.

Ieri mattina, sabato, Padoa-Schioppa era nella sua stanza, dopo una giornata, quella di venerdì, trascorsa in Austria a far visita a un amico: incurante, a quanto pare, della tempesta che si stava scatenando. Chi ha avuto occasione di parlarci l’ha trovato rilassato, come chi sa (o si illude?) di avere in tasca la carta giusta per sconfiggere giovedì il partito del 2+2=5.Ma quale sia questa carta magica, nessuno lo sa. Una telefonata «rassicurante» con Romano Prodi e poi una riunione, per mettere a punto il Documento di programmazione, insieme al sottosegretario Nicola Sartor, al direttore generale del Tesoro VittorioGrilli e a Lorenzo Cotogno, l’uomo del Dpef chiamato a via XX settembre da Giulio Tremonti poche settimane prima di lasciare l’incarico. Nessuno, durante quella riunione, ha sentito Padoa-Schioppa fare la benché minima allusione alla lettera dei quattro ministri, né alle prese di posizione in sua difesa dei riformisti della maggioranza.

Neanche il minimo riferimento alla campagna martellante della sinistra radicale contro di lui, che non accenna a esaurirsi, e all’invito nemmeno troppo velato del Sole-24ore alle dimissioni nel caso in cui il governo fosse costretto a un compromesso inaccettabile. Il fatto è che il ministro dell’Economia l’eventualità delle dimissioni non l’ha mai presa seriamente in considerazione. Per un motivo molto semplice, di cui Padoa- Schioppa è evidentemente consapevole. In un momento come questo le sue dimissioni, se determinate da una rottura con la sinistra radicale, dovrebbero essere inevitabilmente accompagnate da quelle di Prodi. Il destino del governo è appeso al suo. Mai come ora, Padoa-Schioppa è stato sotto assedio da parte della sua stessa maggioranza.

Mai come ora tuttavia la sua debolezza, accentuata dal non avere alcun partito dietro di sé, rappresenta una forza. Così al ministero dell’Economia c’è perfino la convinzione che la lettera dei quattro ministri di quello che ormai è battezzato come «il partito del 2+2=5», invece di indebolirlo l’abbia in realtà rafforzato, costringendo i riformisti a venire allo scoperto per difenderlo. Con il risultato che alla fatidica riunione di giovedì difficilmente anche loro, che pure sul tesoretto hanno progetti considerati da Padoa-Schioppa poco compatibili con i conti, potranno giocargli qualche brutto scherzo. La prova generale, comunque, sarà il Consiglio dei ministri di domani, che ha all’ordine del giorno il federalismo fiscale. Il ministro dell’Economia lo considera un punto di svolta fondamentale per la politica economica del governo Prodi.

La premessa per normalizzare i martoriati rapporti con gli enti locali, che sono perenne motivo di tensioni nella maggioranza e fonte di diffidenze nei confronti di Padoa-Schioppa. Ma anche una nuovo capitolo della sfida al cosiddetto partito della spesa. Domanda un altro ragazzo: «Ministro, come si fa per far tornare a posto i conti dell’Italia?». Risponde Padoa-Schioppa: «Il modo migliore è aumentare un po’ le tasse, non a chi le paga già "giuste", ma agli evasori fiscali. Contemporaneamente, però, bisognerebbe ridurre le spese senza diminuire i "servizi" essenziali dello Stato, cioè la sicurezza, la giustizia, la scuola, ma semplicemente ottenerli a un costo minore».

Sergio Rizzo
24 giugno 2007
 
da corriere.it
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 24, 2007, 10:40:14 am »

Politica e tagli, il Senato istituisce una commissione ad hoc

Via alla commissione anti sprechi

Dopo quelle su poveri e dentiere

La moltiplicazione degli «organi di inchiesta».

E Bossi ne chiese una sui soldi di Berlusconi 
 

ROMA - «Trattasi di un gruppo di svogliati selezionati da un gruppo di incapaci per il disbrigo di qualcosa di inutile». Ecco cos'è una «commissione» nella micidiale definizione di un antico e caustico editorialista del New York Times. Un giudizio forzato. Forse qualunquista.
Ma che non può non tornare in mente (facciamo gli scongiuri) davanti alla decisione presa dal Senato di affrontare la questione incandescente dei costi della politica istituendo una apposita commissione conoscitiva da mettere al lavoro dopo le vacanze, la tintarella, i bagni. Il metodo più sicuro, spesso, per guadagnare tempo.

COMMISSIONI UTILI - Si dirà: certe commissioni parlamentari hanno fatto un buon lavoro. Verissimo. Ottimo. Si pensi a quella sulla condizione contadina condotta alla fine dell'Ottocento da Stefano Jacini per denunciare la disperazione di un mondo di tuguri «ove in un'unica camera affumicata e priva di aria e di luce vivono insieme uomini, capre, maiali e pollame». O quella sulla Questione Meridionale di Leopoldo Franchetti, Sidney Sonnino ed Enea Cavalieri. O ancora, in tempi più recenti, quella sulla P2 sotto la presidenza di Tina Anselmi. O quelle, soprattutto in certi anni durissimi, sulla mafia. Sia pure concluse, a volte, purtroppo, con l'epilogo sconcertante di relazioni di maggioranza e relazioni di minoranza.

BOSSI E BERLUSCONI - Neppure i più accaniti teorici di questo strumento della democrazia, però, possono negare quanto esso sia andato via via alla deriva. Fino ad assumere, troppo spesso, altre funzioni. Non nobilissime. Di minaccia, di vendetta, di ricatto. Di pressione politica. Basti ricordare l'Umberto Bossi nella sua stagione di guerra al Cavaliere: «Parlare e discutere di par condicio è troppo poco. Io propongo una commissione parlamentare d'inchiesta sugli arricchimenti di Silvio Berlusconi. Da dove provengono i suoi soldi? Come ha costruito il suo impero televisivo? Come utilizza la politica per difendere gli affari personali?». O l'ambigua intimidazione di Luciano Violante: «Se facessimo come Berlusconi nella prossima legislatura, a elezioni vinte, potremmo istituire una commissione parlamentare su come è diventato ricco. Ha detto che andava in comune a Milano con l'assegno in bocca: a chi lo dava?». O ancora l'avvertimento dello stesso Cavaliere reduce dall'aver deposto al processo di Milano: «Faremo una commissione d'inchiesta sulla vendita della Sme». Per non dire dell'insistenza con cui pezzi della sinistra hanno premuto per una commissione sul G8 di Genova, la cui presidenza per Gigi Malabarba doveva andare alla madre di Carlo Giuliani. O delle polemiche divampate intorno alle commissioni sull'affare Mitrochin, su Telekom Serbia o perfino alle sole ipotesi di commissioni su Tangentopoli, sull'uso della giustizia negli anni di Mani Pulite o sulle scalate bancarie del 2005.

COMMISSIONI PIGRE - Non bastasse, si sono viste commissioni parlamentari, regionali o comunali così pigre, assurde o traboccanti di poltrone da minare gravemente la fiducia dei cittadini. Come quella costituita anni fa in Calabria «per la qualità e la fattibilità delle leggi», i cui risultati (zero) sono sotto gli occhi di tutti. O quella sui fondi neri Iri, istituita nel gennaio 1987 e defunta senza mai riunirsi una sola volta. O quella dedicata all'ambiente che, stando al rapporto Legambiente 2001, riuscì in un anno a esaminare «solo gli emendamenti all'articolo 1» (su dieci) della Legge Micheli contro l'abusivismo. O le due «commissioni interministeriali sul latte microfiltrato» chiamate a pronunciarsi (giudizio favorevole) sul via libera al latte «frescoblu» sul quale Calisto Tanzi aveva scommesso decine di milioni di euro.

L'ANTISPRECHI DEL VENETO - E la «commissione antisprechi» nella Sanità voluta dalla Regione Veneto nel 2003? Tre anni dopo, la Corte dei Conti riassumeva che era costata 340 mila euro e aveva prodotto (in tre anni!) due documenti, inutilizzati: che spreco! E le 24 commissioni permanenti o speciali (dalla «riforma della burocrazia » alla «garanzia e tutela della riservatezza della sfera personale e della privacy») del Lazio? E le 18 della Campania ridotte a 12 solo in seguito alle polemiche e alle risate sulla decisione di fare una «Commissione sul Mare» e una «Commissione sul Mediterraneo »? Fino al capolavoro, serissimamente descritto da un'agenzia del maggio 2002: «Parte operativamente da lunedì prossimo, con la prima riunione della speciale commissione che si riunirà al ministero della salute, il "progetto dentiera" voluto dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi per dare agli anziani "edentuli" e indigenti le protesi, cioè le dentiere, che non si possono permettere». Tra quelle ordinarie, permanenti, speciali, bicamerali, conoscitive o di inchiesta, le commissioni avviate da Camera e Senato in questa solo legislatura risultano essere (dal ciclo dei rifiuti al servizio sanitario nazionale, dagli infortuni sul lavoro all'uranio impoverito) ben 56. C'è la commissione di vigilanza sulla Cassa depositi e prestiti, la banca del Tesoro, la cui vita è riassunta dal deputato Carmine Santo Patarino così: «Finora abbiamo fatto due o tre incontri, ma ancora l'attività istituzionale non è stata avviata». C'è la commissione mista per «l'accesso ai documenti amministrativi». C'è quella «consultiva per il riconoscimento di ricompense al valore e al merito civile». Quella dell'anagrafe tributaria, che fino a oggi si è riunita sei volte: poco più di una a trimestre. Quella per la «semplificazione della legislazione» che in un anno e passa è stata convocata 13 volte (totale: 10 ore) sotto la sapiente guida di Pietro Fuda il quale, uomo giusto al posto giusto, è stato dirigente della Cassa del Mezzogiorno e poi della Regione Calabria: due modelli di burocrazia agile e scattante. E via così... Sperano davvero i senatori, con questi precedenti, che i cittadini si entusiasmino alla nascita di questa nuova commissione, che peraltro si aggiunge a quella già varata dalla Camera? In bocca al lupo. Ammettano però che un po' di scetticismo...

Sergio Rizzo
Gian Antonio Stella
24 luglio 2007
 
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 13, 2008, 11:49:33 am »

I protagonisti

I capi della rivolta dei piloti tifano An

Berti e Notaro al lavoro per cordate alternative.

E l’ultimo assunto nella compagnia è il figlio del ministro Matteoli


ROMA — Perché in Italia esistano ben due sindacati autonomi dei piloti d'aereo, per i più rimane un mistero. Tutto ha origine quando c'era ancora l'Ati. Quelli che guidavano gli aerei della compagnia domestica dell' Alitalia erano guardati come piloti di serie B e allora orgogliosamente presero le distanze dall'Anpac, fondando il sindacato che poi sarebbe diventato l'Unione Piloti. Da allora, i rapporti sono stati di forzata fratellanza. Differenze nelle piattaforme sindacali, praticamente nessuna: a parte qualche passato distinguo sui tempi della privatizzazione dell'Alitalia. E anche sulla tragedia della compagnia di bandiera, siamo più che altro alle sfumature. A Fabio Berti (42 anni), presidente dell'Anpac, non dispiaceva la soluzione Air France? Massimo Notaro (53 anni), capo dell'Unione Piloti, avrebbe preferito un matrimonio con l'Iberia o Lufthansa. O magari con russi o cinesi. Notaro voleva partecipare con i suoi iscritti e il sostegno finanziario delle banche di credito cooperativo alla gara per comprare l'Alitalia? Berti adesso rilancia pure lui allo stesso modo, lasciando intendere che dietro ha nientemeno che l'Unicredit di Alessandro Profumo (che ha però smentito). Ma sulla sostanza, e cioè che le buste paga dei piloti non si devono nemmeno sfiorare con il pensiero, la sintonia è assoluta.

Inutile pure cercare differenze nei rispettivi punti di riferimento politici, che all'Alitalia, com'è noto, sono imprescindibili. Tanto l'Anpac quanto l'Unione Piloti hanno sempre guardato verso la stessa direzione: il centrodestra. Anzi, più destra che centro. Soprattutto adesso, che al governo è tornato Silvio Berlusconi e che al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, dicastero con compiti di vigilanza sulla compagnia di bandiera, si è insediato il sindaco di Orbetello Altero Matteoli, esponente di spicco di Alleanza nazionale e padre di Federico Matteoli: nome noto in azienda, se non altro perché è stato l'ultimo pilota assunto a tempo indeterminato dall'Alitalia dopo l'11 settembre 2001.

Chi conosce bene Notaro riferisce dei suoi ottimi rapporti personali con il ministro Andrea Ronchi, uno degli uomini più vicini al Leader di Alleanza nazionale e presidente della Camera, Gianfranco Fini. Ma anche delle amichevoli relazioni che il capo dell'Unione piloti intratteneva con Luigi Muratori, parlamentare di Forza Italia e pilastro della commissione Trasporti della Camera al tempo del precedente governo Berlusconi.

Di Berti si ricordano le circostanze che, nel 2004, proiettarono quel giovane pilota figlio d'arte, consapevole delle proprie qualità, ai vertici di quella che un tempo era conosciuta come "Aquila selvaggia".

I maligni dicono che il suo predecessore, Andrea Tarroni, rimase vittima di una manovra di corridoio dopo aver messo in crisi l'operazione dell'acquisto da parte dell'Alitalia della compagnia Volare. Scombinando magari qualche progetto dei piani alti, se è vero, come dicono, che quell' operazione non dispiaceva al potente sottosegretario del governo Berlusconi, Aldo Brancher. Ma come sia andata davvero nessuno è in grado di dirlo. È però certo che Tarroni non avrebbe mai lasciato di propria iniziativa, e in quel modo, il vertice dell' Anpac. Ed è altrettanto certo che ora, affiancato dal vicepresidente Stefano Di Carlo, che nella scalata al vertice del sindacato avrebbe avuto un ruolo decisivo, al suo posto ci sia Berti. Nominato con l'84% dei consensi nel 2004 e riconfermato lo scorso anno con una maggioranza ancora più bulgara: 93%. Cose che capitano.

Il risultato è comunque che la potente Anpac è riuscita ad allargare ancora la propria sfera d'influenza nell' azienda. A spese della più piccola Unione Piloti. Perché quello che c'è davvero dietro questa singolare duplicazione è la spartizione del potere interno. L'Anpac è in condizioni di influenzare le scelte degli uomini in molte direzioni chiave, e di fatto controlla le posizioni nevralgiche nel fondo di previdenza e nella cassa sanitaria. Qualche anno fa il sindacato aveva creato anche un piccolo gruppo societario con l'ambizioso progetto di sbarcare in forze nel mercato delle consulenze. Di quel gruppo, oggi sopravvive l'Anpac services, proprietaria dell'immobile del sindacato, che garantisce utili di 50 mila euro l'anno. Senza che nessuno, ovviamente, se ne lamenti. Ma che ne sarà di tutto questo, se non ci sarà più l'Alitalia?

Sergio Rizzo
13 settembre 2008

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« Ultima modifica: Settembre 18, 2008, 10:51:31 am da Admin » Registrato
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« Risposta #3 inserito:: Settembre 22, 2008, 10:33:45 am »

A Fiumicino

E nasce il fronte del sì: Oggi «la marcia» dei piloti

I confederali protestano: nel mirino l'Anpac


Non sono quarantamila, come i quadri della Fiat che nel 1980 sfilarono per le strade di Torino sfidando il sindacato. E forse non faranno nemmeno una vera e propria marcia. Ma la mobilitazione dei piloti iscritti a Uil, Cisl e Ugl, settecento in tutto sui circa 2 mila della compagnia di bandiera, non può non suscitare analogie con quell’episodio.
Se la marcia dei quarantamila passò alla storia come la ribellione dei dipendenti della Fiat che rivendicavano il diritto di lavorare, quello che comincia stamattina a Fiumicino ha tutto il sapore della rivolta dei piloti che hanno rotto il fronte del no, decidendo di aderire alla proposta di Roberto Colaninno. Una rivolta clamorosa, non soltanto perché scoppia in una categoria che per l'opinione pubblica è sempre stata tradizionalmente compatta, ma perché ha un obiettivo preciso: in primo luogo l'Anpac di Fabio Berti e Stefano De Carlo e poi la più piccola Unione piloti di Massimo Notaro, le associazioni professionali che hanno chiuso la porta alla Compagnia aerea italiana.
«Vogliamo parlare con i nostri colleghi per riportare con i piedi per terra una categoria che sembra in preda a un'isteria collettiva», dice Alessandro Cenci, il rappresentante dei piloti che aderiscono alla Cisl. E Francesco Alfonsi, il segretario nazionale della Ugl trasporto aereo, aggiunge: «Siamo al limite del precipizio. Qui si rischia l'irresponsabilità ».


Secondo Cenci i piloti sarebbero «vittime di una disinformazione incredibile. Si illudono che ci possano essere alternative, ma alternative non ce ne sono. Basterebbe ricordare che l'Alitalia sta volando con una licenza provvisoria. Ha capito bene, provvisoria». Chi sia l'imputato di aver fatto tanta disinformazia è presto detto. «L'Anpac», taglia corto Marco Veneziani, responsabile della Uil piloti, che per anni, come Cenci, è stato iscritto al sindacato ora guidato da Berti. «Sono loro che in azienda decidono tutto, nominano e cambiano i direttori nei posti chiave a loro piacimento. Ma lo sa che alcuni giorni fa hanno fatto una riunione e hanno dato ordine a capi piloti, istruttori e controllori di dimettersi da tutti gli incarichi?». Si parla di pressioni sui comandanti riottosi, di turni massacranti inflitti ai piloti che hanno tifato per Colaninno, girano voci di colpi bassi, volano parole pesanti. «Negli ultimi giorni mi hanno portato via trenta iscritti», denuncia Veneziani. Mentre all'Ugl dicono invece di aver accolto a braccia aperte un gruppetto di fuggiaschi dall'Anpac.


Il fatto è che la vicenda Alitalia ha scoperchiato un vaso di Pandora. Una situazione nella quale i gangli vitali della compagnia, con la compiacenza di qualche capo azienda, sono finiti pian piano sotto l'influenza delle associazioni di categoria. E chi ne è fuori ha deciso che ora la misura è colma. Oggi si parte con la mobilitazione per convincere la base a dire sì alla Cai. Poi, per domani, Uil, Cisl e Ugl stanno organizzando l'assemblea generale dei piloti. E c'è chi spera nella resa dei conti.


Sergio Rizzo
22 settembre 2008

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« Risposta #4 inserito:: Settembre 23, 2008, 10:36:08 am »

Epifani e Sacconi Ex socialisti

La barzelletta del ministro e le vite parallele

Il duello infinito


ROMA — Soltanto chi non li conosce bene può pensare che Guglielmo Epifani e Maurizio Sacconi si siano ritrovati nei panni dei duellanti per uno scherzo del destino. Il segretario della Cgil è di 111 giorni più anziano del ministro del Welfare. Entrambi sono socialisti ed entrambi, da giovani, lavorano alla Cgil. Con una differenza. Sacconi imbocca la strada della politica. Invece Epifani resta nella Cgil e sale tutti i gradini, fino a prendere il posto di Sergio Cofferati.

Quando succede, il 20 settembre del 2002, Sacconi gli spedisce un telegramma affettuoso: «Caro Guglielmo, sono sinceramente lieto che tu assuma oggi la guida della Cgil. È un traguardo meritato che corona un lungo e non sempre agevole percorso. Le tante cose che ci hanno unito per molti anni ci aiuteranno ora a mantenere il filo del dialogo e ovviamente del reciproco rispetto. Un saluto fraterno da un amico di ieri e di oggi». Sembra difficile pensare che chi ha scritto queste frasi sia la stessa persona che ieri, nel corso di una tavola rotonda al Corriere, ha paragonato la Cgil di Epifani a «quel signore che guida contromano in autostrada e ascoltando l'annuncio della radio commenta: "Non c'è un pazzo, sono centinaia"». Prima di quel fatidico 2002, in realtà, le strade dei due si erano incrociate sporadicamente. Negli anni Ottanta Sacconi è un giovane sottosegretario al Tesoro con delega sulle banche. Socialista riformista, il suo punto di riferimento nel partito è Gianni De Michelis, di cui è stato consigliere insieme a Renato Brunetta. A differenza del suo leader, però, non ama le discoteche. Preferisce studiare: nel partito c'è chi lo considera il massimo esponente dell'ala «secchiona». Lui si vendica con telefonate nelle quali imita alla perfezione la voce di Bettino Craxi. Nel 1984 è uno degli artefici dell'accordo di San Valentino sulla scala mobile, che mette all'angolo il Partito comunista provocando pure la spaccatura della Cgil di Luciano Lama: nell'occasione la componente socialista di Ottaviano Del Turco, di cui fa parte Epifani, si schiera con Cisl e Uil e firma l'intesa.

Ma è un caso più unico che raro di sintonia fra i nostri duellanti. I rapporti fra l'attuale ministro e la Cgil non erano certo ruvidi come oggi: «Maurizio Sacconi mi fu presentato da Cofferati», ricorda Giuliano Cazzola, anch'egli ex della Cgil e oggi parlamentare del Pdl. Ma poi, inevitabilmente, le cose cambiarono. Nel 1996 il ministro del Lavoro di Romano Prodi, Tiziano Treu, che lo stima, candidò Sacconi a capo dell'Ufficio internazionale del Lavoro, con il parere favorevole anche della Cgil. Però lui, diversamente da Epifani, insieme a molti altri socialisti stava già con il centrodestra. E nel 2001, tornato al governo come sottosegretario al Welfare, i contrasti con la Cgil divennero ben presto insanabili. Durissima fu la rottura sulla vicenda dell'articolo 18, vicenda resa ancora più drammatica dall'assassinio da parte delle Br del suo amico Marco Biagi. E con Cofferati si arrivò alle carte bollate. Arrivato Epifani, la musica cambiò solo impercettibilmente. Al primo sciopero del febbraio 2003, Sacconi accusò la Cgil di inseguire «un progetto ideologico e antagonista». Poi di fare «campagna elettorale».

Quindi disse che vedeva «nel governo un nemico di classe». Fino ad affermare: «È tutto tranne che un sindacato». Senza risparmiare il suo segretario: «È un reazionario». E se durante la campagna elettorale del 2006 Sacconi era arrivato a dire che la Cgil aveva stretto «un patto scellerato con l'Unione», qualche mese più tardi commentò perfidamente l'assenza del socialista Epifani alla commemorazione di Craxi ad Hammamet: «Evidentemente non l'hanno lasciato venire». Da allora le scaramucce si sono moltiplicate. «Veltroni ed Epifani testimoniano il collateralismo fra Cgil e Pd». «Sacconi ha la rara capacità di fare e dire cose che non vanno dette». «La Cgil rischia la disfatta sindacale». «Sacconi con la Cgil ha un atteggiamento da crociato». E via di questo passo. Dice Pier Paolo Baretta, ex segretario generale aggiunto della Cisl, ora deputato del Pd, che conosce bene entrambi: «Credo che sia un errore appiccicare un'etichetta politica a qualsiasi sindacato. Ma forse pure la Cgil dovrebbe riflettere su questo modo di fare il sindacato».

Sergio Rizzo
23 settembre 2008

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« Risposta #5 inserito:: Ottobre 09, 2008, 10:28:09 am »

I politici e i risparmi

E Lehman tradì anche Stefania Craxi

La parlamentare di Forza Italia crede talmente nei «valori» occidentali da averci investito un patrimonio



ROMA — Non è perché gli siano apparsi in sogno Buddha o Confucio, per i quali Giuliano Urbani confessa comunque di avere un debole. Se un «liberista » come lui ha deciso di investire proprio sulla Cina, spauracchio del suo collega di partito «colbertista » Giulio Tremonti, è soltanto per un fatto di mercato. «Questa crisi finanziaria è la dimostrazione ulteriore che l'Occidente si è seduto. Mentre Paesi come Cina e India sono capaci di rinnovarsi continuamente», spiega Urbani al telefono. Da Pechino, e non è un caso che sia lì. L'investimento di Urbani si chiama Clic srl, acronimo che sta per Club Italia Cina. È una società che il titolare di una delle prime tessere di Forza Italia («nata da un'idea comune di Silvio Berlusconi e del sottoscritto», sottolinea) ha costituito al 50% con suo figlio Simone per gestire «servizi turistici», compresi i «pacchetti di viaggio». Ovviamente per turisti italiani che vogliono andare in Cina, ma soprattutto per turisti cinesi che vogliono venire in Italia. Urbani senior e junior non si sono svenati: il capitale, per ora, è diecimila euro. Ma in futuro, chissà. Magari ci sarà la fila di investitori disposti a versare soldi a palate nella loro società. Magari.

Stefania Craxi ha invece fatto una scelta opposta. La parlamentare di Forza Italia crede talmente nei «valori» occidentali da averci investito un patrimonio. Nell'ultima dichiarazione presentata alla Camera ha denunciato il possesso di 125 pacchetti azionari. E la figlia dell'ex leader socialista Bettino Craxi non si è davvero fatta mancare nulla. Nel suo cospicuo portafoglio, azioni Lehman Brothers, Goldman Sachs, Merrill Lynch, Morgan Stanley, Bank of America, Barclays e ThyssenKrupp. Che altro? Unicredit, Intesa Sanpaolo, Unipol... Anche Antonio Martino, altro liberista per antonomasia di Forza Italia, aveva un bel pacchetto di azioni di società americane, da Merrill Lynch a Texas Instruments a General Electric, insieme a titoli di banche italiane come Unicredit, Intesa Sanpaolo, Mediobanca, e anche Popolare di Sondrio: quest'ultima, la banca più amata dai politici di Forza Italia. Per gli investimenti, s'intende. Berlusconi ha lì in deposito «amministrativo» qualcosa come 896 mila azioni. E Tremonti, che a Sondrio è nato, ha affidato alla Popolare una «gestione patrimoniale dinamica», tiene a precisare, «con minima componente azionaria». Perché la prudenza non è mai troppa. Soprattutto di questi tempi. E se Martino ha opportunamente provveduto ad alleggerire il proprio portafoglio titoli, il sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto, che era bello carico di azioni (da Telecom Italia all'Eni, passando per Mediobanca), mesi fa ha venduto tutto. Aveva sentito puzza di bruciato? «La situazione mi ispirava poco», dice. Ma poi spiega il vero motivo della sua decisione: «Non trovarmi più sui giornali, com'è successo, l'elenco dei miei investimenti. Mi è andata bene». E ora? «Titoli di Stato, pronti contro termine... ». Non altrettanto bene è andata a Stefano Saglia, presidente della commissione Lavoro della Camera, che con i derivati si è bruciato le mani: «Un broker di Fineco mi aveva consigliato di comprare alcuni titoli strutturati. Non le dico com'è andata a finire».

Sono imprudenze che costano care. Forse anche per questo molti politici (prevalentemente a sinistra) si tengono accuratamente alla larga dalle nostre Borse. Nessuno però imitando Antonio Di Pietro, che ha investito in una società bulgara, la Suco di Varna (città che per sette anni, dal 1949 al 1956 si chiamò Stalin), di cui possiede il 50%. Vincenzo Visco, per esempio, ha soltanto immobili: nove, fra Roma, Pantelleria e Francavilla Fontana. Piero Fassino ha due appartamenti a Roma e Torino e un casale a Scansano, nella Maremma toscana. Anche Pier Ferdinando Casini ha due appartamenti (a Roma) ed è comproprietario di altri sette immobili a Bologna. Giuliano Cazzola, parlamentare del Pdl, ex sindacalista e già presidente del collegio sindacale dell'Inps che si professa favorevole alla «linea del conto corrente» (lasciando cioè i soldi in banca), dice che ha speso quasi tutto per comprare una casa a Roma. Una casa dell'Inps («ma ci abitavo da molto tempo prima di andare all'ente»), che era stata messa in vendita come abitazione di lusso. Quindi senza sconto. «Ma abbiamo fatto ricorso a Tar, Consiglio di Stato e Consulta e abbiamo vinto», spiega Cazzola. Che per questa vicenda si dichiara pure «perseguitato» dai giornali. L'ex ministro prodiano Giulio Santagata s'è comprato invece 22 metri quadrati a Parigi. Maurizio Leo (Pdl) ha investito in una casa a Malindi, in Kenya: «Costa meno di un monolocale ad Anzio, vuole mettere? E poi è un bel posto, si vive bene. Di questi tempi che cosa c'è di meglio del mattone?». Ma non ha certamente bisogno di convincere una vecchia volpe come il senatore del Pdl Giampiero Cantoni, presidente della commissione Difesa di palazzo Madama, già presidente della Bnl, che ha investito soldi in una discreta quantità di società immobiliari. E non è certamente l'unico. Perché crisi o non crisi, nel Palazzo i denari non mancano di certo. Ironizza Nicola Rossi: «Dico la verità. Non mi sembra di vedere fra i miei colleghi molte facce preoccupate».



Sergio Rizzo
09 ottobre 2008

da corriere.it
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« Risposta #6 inserito:: Novembre 02, 2008, 11:33:58 am »

Nessuno si chiede cosa succede ai lavoratori stranieri quando perdono il lavoro

Epifani: immigrati, la Bossi-Fini deve essere «congelata» per 2 anni

Il leader della Cgil: restituire il 70% dell'extragettito Irpef con le tredicesime


ROMA - Prima il No alla Confindustria. Poi il No al contratto del pubblico impiego. Quindi l'abbraccio con il leader della Fiom Gianni Rinaldini che prepara lo sciopero delle tute blu.

Ma la campagna d'autunno di Guglielmo Epifani riserva altre sorprese. Come la clamorosa richiesta al governo di sospendere per due anni la legge Bossi-Fini sull'immigrazione. E la proposta di distribuire sei miliardi con le tredicesime.

Operazioni anche queste funzionali a «scalare il Partito democratico », progetto che gli attribuisce il segretario della Cisl Raffaele Bonanni, l'uomo che finora ha invece detto sempre sì?

«Scalare il Pd? Fandonie. L'unica tessera che ho in tasca è quella della Cgil. Cerco di fare il mio, senza interferire. Sono sempre stato fra quelli che consigliano prudenza. Le scelte del sindacato sono certamente politiche, ma non siamo né vogliamo diventare un partito», replica il segretario della Cgil. «L'atteggiamento di Bonanni», aggiunge, «è quello di chi cerca di cambiare discorso».

Perché mai dovrebbe farlo?

«La stanno buttando in politica invece di mettersi a ragionare seriamente sulla crisi. Noi gli chiediamo di fare una piattaforma comune per aprire con il governo un tavolo sulla situazione pesante nella quale sta precipitando l'economia reale, e loro in realtà sfuggono».

Non sarà perché finora la Cgil ha detto soprattutto no?

«La verità è che non abbiamo mai avuto l'opportunità di discutere. Da quando è scoppiata la bufera finanziaria il governo ha incontrato tutti ma non ha mai voluto parlare con il sindacato».

Veramente pare che Giulio Tremonti sia andato a cena con Bonanni e Luigi Angeletti.

«Con le cene separate a lume di candela non si risolve nulla. Qui bisogna aprire un tavolo trasparente con il governo e presentare proposte precise. Io finora non ho sentito alcuna proposta da Cisl e Uil».

Se è per questo nemmeno la Cgil ne ha tirate fuori.

«Lo faremo il 5 novembre e chiederemo anche a Cisl e Uil di discuterle e condividerle. Se la crisi è eccezionale, servono misure eccezionali».

Del tipo?

«Nessuno si chiede che cosa succede ai lavoratori stranieri nel momento in cui perdono il lavoro. Sono quattro milioni, sono stati assunti per fare lavori che nessuno avrebbe fatto, e producono il 10% del reddito nazionale».

Dovrebbero essere rispediti ai Paesi d'origine?

«Proprio così. In base alle norme attuali perderebbero insieme al lavoro anche il titolo per restare in Italia. Siccome sono persone che hanno lavorato, e lavorato bene, non avrebbe alcun senso mandarle via per poi richiamarle quando l'economia dovesse riprendere. Né per loro né per il nostro Paese».

Allora?

«Allora la Cgil proporrà di sospendere l'efficacia della legge Bossi-Fini per due anni, allo scopo di consentire a queste persone di trovare una nuova occupazione». Quanti si troverebbero in questa condizione? «Sicuramente decine di migliaia».

Nessuno di loro avrebbe altre forme di tutela?

«Anche se le avessero non servirebbero a nulla. L'indennità di disoccupazione agricola, per esempio, non sarebbe sufficiente a garantire il mantenimento del permesso di soggiorno, per il quale è necessario dimostrare ogni anno di avere un certo reddito. Aggiungo che sono state innalzate le soglie di reddito per il ricongiungimento familiare, il che complica ancora di più le cose. L'unica tutela, per loro, sarebbe la sospensione della Bossi- Fini per un certo periodo».

Perché due anni?

«Se non due anni, quindici mesi o il tempo che si riterrà necessario. Come per le altre misure che proponiamo, tutte transitorie. Occorre trovare più risorse per la cassa integrazione per le piccole e medie imprese. Ci sono dei fondi, ma non bastano. Quindi bisogna individuare qualche ammortizzatore sociale per i precari».

Anche loro perdono il lavoro?

«Abbiamo calcolato che nel settore privato ne sono già saltati duecentomila. Senza uno straccio di sostegno al reddito. C'è poi la questione della cassa integrazione: se dura troppo si pone un problema di reddito anche per i cassintegrati».

Dove prendiamo le risorse?

«Perché non usare i denari che si spendono oggi per la detassazione degli straordinari? Se la crisi ha queste proporzioni, che senso ha detassare il lavoro straordinario e contemporaneamente, magari nella stessa azienda, mettere la gente in cassa integrazione e licenziare i precari?».

Sicuro che i soldi si trovino?

«Nel primo semestre di quest'anno il gettito dell'Irpef è aumentato di 8 miliardi e mezzo. Siccome il 70% di questa imposta è pagato dai lavoratori dipendenti e dai pensionati, significa che a parità di salario pagano più tasse, come avevamo già denunciato. Allora noi proponiamo di restituire a lavoratori e pensionati tutto questo 70% a dicembre, ridistribuendolo sulle tredicesime».

Un bel regalo di Natale. Si rende conto che sono quasi sei miliardi?

«Con questa operazione si ottiene un doppio risultato: aiutare le famiglie nel periodo più difficile e dare una iniezione di fiducia».

Venerdì scorso lei ha benedetto lo sciopero generale dei metalmeccanici della Fiom. Potrà diventare lo sciopero generale di tutta la Cgil?

«Le iniziative che prenderà la Cgil, anche un eventuale sciopero, avranno come obiettivo le mancate risposte alla crisi economica e sociale».

Ma quello delle risposte alla crisi non sembra un tema molto popolare neppure a sinistra. Le risultano proposte del Partito democratico?

«Finora per tutti il tema è stato quello dell'emergenza. Ci sono frammenti di proposte. Il Pd ha chiesto di detassare le tredicesime. Ma certamente manca un disegno organico».

Che l'opposizione sia in difficoltà non è un fatto nuovo.

«Il risultato elettorale è stato molto pesante e non è facile riprendersi dopo una sconfitta simile, anche se la manifestazione del 25 ottobre è stata un successo. Ma bisogna anche considerare che c'è una difficoltà oggettiva a mandare avanti le proposte politiche».

E sarebbe?

«Come per il sindacato non ci sono tavoli di confronto, così il Parlamento non è più terreno di discussione. Alla maggioranza non interessa. Il governo va avanti a colpi di decreti legge».

Non c'entra nulla la presunta debolezza della leadership del Pd?

«Credo che Veltroni stia facendo bene, in condizioni difficili, con un partito complesso che deve ancora radicarsi, e dove esistono tante culture che debbono omogeneizzarsi. Ma le ricordo che sono il segretario della Cgil...».

Sergio Rizzo
02 novembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #7 inserito:: Novembre 12, 2008, 06:01:10 pm »

Le uscite nel 2008 sono salite di 13 milioni.

Colpa dei nuovi vitalizi

I costi della politica: più 100 milioni


I Palazzi del potere hanno aumentato le spese Dalle agende alle liquidazioni, sprechi e privilegi
Nelle bellissime agende da tavolo e agendine da tasca del Senato, appositamente disegnate per il 2009 dalla fashion house Nazareno Gabrielli, tra i 365 giorni elegantemente annotati ne manca uno. Il giorno con il promemoria: «Tagli ai costi della politica». A partire, appunto, dal costo delle agendine: 260.000 euro. Mezzo miliardo di lire. Per dei taccuini personalizzati. Più di quanto costerebbero di stipendio lordo annuo dodici poliziotti da assumere e mandare nelle aree a rischio. Il doppio, il triplo o addirittura il quadruplo di quanto riesce a stanziare mediamente per ogni ricerca sulla leucemia infantile la Città della Speranza di Padova, la struttura che opera grazie a offerte private senza il becco di un quattrino pubblico e ospita la banca dati italiana dei bambini malati di tumore.

Sentiamo già la lagna: uffa, questi attacchi alle istituzioni democratiche! Imbarazza il paragone coi finanziamenti alle fondazioni senza fini di lucro? Facciamone un altro. Stando a uno studio del professor Antonio Merlo dell'Università della Pennsylvania, che ha monitorato gli stipendi dei politici americani, quelle agendine costano da sole esattamente 28.000 euro (abbondanti) più dello stipendio annuale dei governatori del Colorado, del Tennessee, dell'Arkansas e del Maine messi insieme. È vero che quei quattro sono tra i meno pagati dei pari grado, ma per guidare la California che da sola ha il settimo Pil mondia-le, lo stesso Arnold Schwarzenegger prende (e restituisce: «Sono già ricco») 162.598 euro lordi e cioè meno di un consigliere regionale abruzzese.

Sono tutti i governatori statunitensi a ricevere relativamente poco: 88.523 euro in media l'anno. Lordi. Meno della metà, stando ai dati ufficiali pubblicati dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, degli emolumenti lordi d'un consigliere lombardo. Oppure, se volete, un quarto di quanto guadagna al mese il presidente della Provincia autonoma di Bolzano Luis Durnwalder, che porta a casa 320.496 euro lordi l'anno. Vale a dire quasi 36.000 euro più di quanto guadagna il presidente degli Stati Uniti.(...) Se è vero che non saranno le agendine o i menu da dieci euro a portare alla rovina lo Stato italiano, è altrettanto vero però che non saranno le sforbiciatine date dopo il deflagare delle polemiche a raddrizzare i bilanci d'un sistema mostruosamente costoso. Né tanto meno a salvare la cattiva coscienza del mondo politico. Certo, l'abolizione dell'insopportabile andazzo di un tempo, quando bastava denunciare la perdita o il furto di un oggetto per avere il risarcimento («Ho perso una giacca di Caraceni». «Prego onorevole, ne compri un'altra e ci porti lo scontrino»), è un'aggiustatina meritoria. Come obbligati erano la soppressione a Palazzo Madama del privilegio del barbiere gratuito e l'avvio di un nuovo tariffario (quasi) di mercato: taglio 15 euro, taglio con shampoo 18, barba 8, frizione 6... E così la cancellazione del finanziamento di 200.000 euro per i corsi di inglese che non frequentava nessuno. E tante altre cosette ancora. Un taglietto qua, una limatina là... (...) Sul resto, però, buonanotte. L'andazzo degli ultimi venti anni è stato tale che, per forza d'inerzia, i costi hanno continuato a salire. Al punto che i tre questori Romano Comincioli (Pdl), Benedetto Adragna (Pd) e Paolo Franco (Lega Nord), nell'estate 2008, hanno ammesso una resa senza condizioni scrivendo amaramente nel bilancio: «Non è stato possibile conseguire l'obiettivo di inversione dell'andamento della spesa in proposito fissato dal documento sulle linee guida».

Risultato: le spese correnti di Palazzo Madama, nel 2008, sono salite di quasi 13 milioni rispetto al 2007 per sfondare il tetto di 570 milioni e mezzo di euro. Un'enormità: un milione e 772.000 euro a senatore. Con un aumento del 2,20 per cento. Nettamente al di sopra dell'inflazione programmata dell' 1,7 per cento.

Colpa di certe spese non facilmente comprensibili per un cittadino comune: 19.080 euro in sei mesi per noleggiare piante ornamentali, 8.200 euro per «calze e collant di servizio» (in soli tre mesi), 56.000 per «camicie di servizio » (sei mesi), 16.200 euro per «fornitura vestiario di servizio per motociclisti ». Ma soprattutto dei nuovi vitalizi ai 57 membri non rieletti e dei 7.251.000 euro scuciti per pagare gli «assegni di solidarietà» ai senatori rimasti senza seggio. Come Clemente Mastella. Il cui «assegno di reinserimento nella vita sociale» (manco fosse un carcerato dimesso dalle patrie galere) scandalizzò anche Famiglia Cristiana che gli chiese di rinunciare a quei 307.328 euro e di darli in beneficenza. Sì, ciao: «La somma spetta per legge a tutti gli ex parlamentari». Fine.

Grazie alle vecchie regole, il «reinserimento nella vita sociale» di Armando Cossutta è costato 345.600 euro, quello di Alfredo Biondi 278.516, quello di Francesco D'Onofrio 240.100. Un pedaggio pagato, ovviamente, anche dalla Camera. Dove Angelo Sanza, per fare un esempio, ha trovato motivo di consolazione per l'addio a Montecitorio in un accredito bancario di 337.068 euro. Più una pensione mensile di 9.947 euro per dieci legislature. Pari a mezzo secolo di attività parlamentare. Teorici, si capisce: grazie alle continue elezioni anticipate, in realtà, di anni «onorevoli » ne aveva fatti quattordici di meno.

Un dono ricevuto anche da larga parte dei neo-pensionati che erano entrati in Parlamento prima della riforma del 1997 e come abbiamo visto si erano tirati dietro il privilegio di versare con modica spesa i contributi pensionistici anche degli anni saltati per l'interruzione della legislatura. Come il verde Alfonso Pecoraro Scanio, andato a riposo a 49 anni appena compiuti con gli 8.836 euro al mese che spettano a chi ha fatto 5 legislature pur essendo stato eletto solo nel 1992: 16 anni invece di 25. Oppure il democratico Rino Piscitello: 7.958 euro per quattro legislature nonostante non sia rimasto alla Camera 20 anni ma solo 14. Esattamente come il forzista Antonio Martusciello. Che però, con i suoi 46 anni, non solo ha messo a segno il record dei baby pensionati di questa tornata ma ha trovato subito una «paghetta» supplementare come presidente del consiglio di amministrazione della Mistral Air: la compagnia aerea delle Poste italiane.

C'è poi da stupirsi se, in un contesto così, le spese dei Palazzi hanno continuato a salire? Quirinale, Senato, Camera, Corte costituzionale, Cnel e Csm costavano tutti insieme nel 2001 un miliardo e 314 milioni di euro saliti in cinque anni a un miliardo e 774 milioni. Una somma mostruosa. Ma addirittura inferiore alla realtà, spiegò al primo rendiconto Tommaso Padoa-Schioppa: occorreva includere correttamente nel conto almeno altri duecento milioni di euro fino ad allora messi in carico ad altre amministrazioni dello Stato. Ed ecco che nel 2007 tutti gli organi istituzionali insieme avrebbero pesato sulle pubbliche casse per un miliardo e 945 milioni. Da aumentare nel 2008 fino a un miliardo e 998 milioni. A quel punto, ricorderete, nell'ottobre 2007 scoppiò un pandemonio: ma come, dopo tante promesse di tagli, il costo saliva di altri 53 milioni di euro, pari circa al bilancio annuale della monarchia britannica? Immediata retromarcia. Prima un ritocco al ribasso. Poi un altro. Fino a scendere a un miliardo e 955 milioni. «Solo» dieci milioncini in più rispetto al 2007. Col Quirinale che comunicava gongolante di aver tagliato, partendo dai corazzieri (lo specchietto comunemente usato per far luccicare gli occhi delle anime semplici), il 3 per mille. Certo, era pochino rispetto ai tagli del 61 per cento decisi dalla regina Elisabetta, però era già una (piccola) svolta...

Bene: non è andata così. Nell'assestamento di bilancio per il 2008 i numeri hanno continuato a salire e salire fino ad arrivare il 13 agosto a 2 miliardi e 55 milioni di euro. Cento milioni secchi più di quanto era stato annunciato in un tripudio di bandiere che sventolavano per festeggiare i «tagli». Risultato finale: l'aumento che avrebbe dovuto essere virtuosamente contenuto nello 0,5 per cento si è rivelato di almeno il 5,6: undici volte più alto.

(Brano tratto da «La Casta», nuova edizione aggiornata)

Sergio Rizzo, Gian Antonio Stella
12 novembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #8 inserito:: Novembre 30, 2008, 11:10:14 pm »

Il leader della Cisl «Un sindacato diviso non serve a nessuno»

Bonanni: pronto a un passo verso Epifani

«Pd troppo condizionato: Veltroni la pensa come noi ma la Cgil lo mette in difficoltà»


ROMA — «Cugini», li ha chiamati Raffaele Bonanni. E mai come in questo momento, con i rapporti fra la Cisl (che firma tutti gli accordi) e la Cgil (che non ne firma quasi nessuno) sono prossimi al minimo storico, la rima fra «parenti» e «serpenti » sembra azzeccata. «Cugini», ha ironizzato qualche giorno fa il segretario della Cisl, che «ogni tanto salutano senza dirlo e se ne vanno...».

Dica la verità, Bonanni: era una battuta. Al pranzo di palazzo Grazioli con Berlusconi c'è andato lei, mica Guglielmo Epifani. «Ho detto pure che non si corre da soli».

Forse vuole ricucire lo strappo? «Senz'altro. Un sindacato diviso non serve a nessuno, né ai lavoratori né al Paese. Se ci sono state sempre ragioni per stare insieme, oggi ce ne sono almeno dieci volte di più. Guardi come si stanno comportando i politici. Da tre mesi litigano per la presidenza della commissione parlamentare di Vigilanza sulla Rai e non concordano niente sulle strategie economiche per il futuro mentre sta per arrivare un annus horribilis».

Anche le liti nel sindacato non sono male... «Adesso sento i miei amici della Cgil che dicono che bisogna fare un patto fra produttori. All'anima!».

Ma non erano cugini? «I nostri cugini neanche vogliono condividere la definizione di un nuovo impianto contrattuale che inseguiamo da dieci anni. Altro che patto fra produttori. Il sindacato dev'essere unito, però un Paese pluralista nella politica e nel sociale è un Paese ricco. Ma a condizione che ogni volta si arrivi a una sintesi».

Da una parte e dall'altra, no? «Certamente».

Sul modello contrattuale Cisl e Confindustria hanno posizioni molto distanti da quella della Cgil. Forse se nessuno fa qualche passo avanti o indietro è difficile arrivare alla sintesi. «Si può fare tutto, purché in sintonia con il documento unitario della scorsa primavera firmato dai vertici di Cgil, Cisl e Uil. Suggerisco a tutti, ma proprio tutti, di rileggerlo e confrontarlo in controluce con le linee guida sottoscritte dalla Confindustria. L'80% delle questioni è lì. Nessuno può fare finta di niente. Inutile che ora mi si accusi che vado a fare gli incontri riservati, ammesso e non concesso che sia un errore».

Scusi ma se lo doveva aspettare. «Il fatto è che la Cgil ha capovolto la sua posizione. Otto mesi fa erano in rotta di collisione con la Fiom. Ora la posizione è stata ribaltata. Allora Giorgio Cremaschi lo stavano buttando fuori, adesso Cremaschi inneggia alla posizione della Cgil».

La Cgil ha confermato che farà lo sciopero. Me lei dice che si deve ricucire lo strappo. «Io sono pronto. La gente ci vuole uniti, è consapevole che se un sindacato confederale che rappresenta 12 milioni di persone prende una posizione unitaria può condizionare fortissimamente le opinioni del governo, dell'opposizione, della finanza. Oggi gli italiani sono impauriti e smarriti. Non l'hanno capito i governanti e i politici, che discutono come se fossimo negli Emirati arabi».

Che c'entrano gli Emirati arabi? «I nostri politici ragionano come se l'Italia avesse risorse illimitate e non il debito pubblico che ha. Soprattutto, ci sono pezzi della politica per i quali o si fa come vogliono loro, o si rompe. È un vizio culturale presente anche nel sociale e nel sindacato ».

Come se lo spiega? «Non hanno avuto la maturazione che li porta a una cultura riformatrice. Cito ogni volta Federico Caffè, secondo il quale il vero riformatore agisce giorno per giorno, al contrario di chi vuole risolvere tutti i problemi insieme ma poi li rimanda sempre a un momento che non verrà mai».

Nomi e cognomi, per favore. «Basta vedere anche nell'opposizione. Governavano e avevano una opinione. Ora fanno gli oppositori e hanno cambiato completamente opinione. Lo stesso vale in relazione alle parti sociali».

Sta dicendo che nel Partito democratico c'è pure un problema rispetto al sindacato? Non si fanno mancare proprio nulla... «Credo che il Pd sia uno sforzo importante in direzione riformista. Anche se risente ancora di questo condizionamento. La Cisl guarda con molta attenzione al rafforzamento di un partito democratico di opposizione, perché finché questo non si verifica non c'è simmetria nella politica italiana. Ci sono stati passi in avanti importanti ma bisogna ancora continuare. Posso dire che apprezzo la posizione di Walter Veltroni sulle politiche contrattuali, vedo che hanno opinioni molto simili a quelle che unitariamente abbiamo espresso questa primavera, e che il cambiamento della Cgil li ha messi in difficoltà».

Concretamente, lei che cosa è disposto a fare? «Lavorerò per favorire il ritorno a una strategia unitaria del sindacato, anche sul nuovo modello contrattuale. Naturalmente a condizione che si tenga conto anche delle posizioni della Confindustria, perché gli accordi non si fanno tra di noi. Farò ancora dei passi in questi giorni». Quanto grandi? «Farò un passo intero. Spero che loro ne facciano almeno metà».

Sergio Rizzo
30 novembre 2008

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« Risposta #9 inserito:: Dicembre 03, 2008, 12:06:15 pm »

IL CASO SKY

Prodi: scelta Ue giusta «Mi impegnai a provvedere»

Ma sull'Iva più alta per le pay tv è lite a sinistra dal '95
 

ROMA — Ricorda Romano Prodi: «Le sollecitazioni dell'Unione europea perché fosse risolta l'asimmetria delle aliquote Iva per le televisioni in Italia ci furono. Una posizione assolutamente condivisibile, tanto che ci impegnammo a provvedere. Ma poi non entrammo mai nel merito». Erano giorni particolari. Il 29 gennaio di quest'anno, quando la lettera di impegno di palazzo Chigi partì alla volta di Bruxelles, il governo dell'Unione aveva esalato l'ultimo respiro da cinque giorni. Il premier Prodi era in carica solo per l'ordinaria amministrazione. E certamente la sua ultima preoccupazione era l'aliquota dell'Iva per le pay tv. Idem per i due che nel governo seguivano materialmente il dossier: il ministro delle Politiche europee, Emma Bonino, e il viceministro dell'Economia con delega per le Finanze, Vincenzo Visco. Anche perché soltanto un pazzo avrebbe potuto pensare di aumentare una sia pur piccola tassa alla vigilia delle elezioni, con Berlusconi pronto ad approfittare (come è accaduto) di ogni minimo errore dell'avversario. Soprattutto trattandosi di una materia che ha spesso fatto torcere le budella alla sinistra. Come accadde il 24 ottobre del 1995, dopo che i deputati di Rifondazione comunista avevano votato insieme al centrodestra per mitigare al 10% il rincaro dell'Iva sulle pay tv che i progressisti avrebbero voluto portare al 19%. Sentite che cosa disse Visco nell'occasione: «Il voto di Rifondazione conferma che il legame tra quel partito e il Polo è ben più strutturale di quanto si vorrebbe far credere». Parole pesanti, ma mai quanto quelle del responsabile comunicazione dell'allora Pds, Vincenzo Vita: «È squallido che Fausto Bertinotti abbia permesso un simile regalo a questo nuovo trust della comunicazione, figlio della Fininvest». Al governo c'era Lamberto Dini e dietro la pay tv tutti scorgevano nitida la figura del Cavaliere. Nonostante ciò Bertinotti fece lo sgambetto al Pds. Franco Giordano, che in seguito gli sarebbe alla guida del partito, rammenta: «Volevamo creare le condizioni per uscire dal duopolio. Così ci sembrò equa una misura intermedia fra il 19% proposta dagli stessi che ora sono nel Pd e adesso, contrariamente ad allora, non vogliono aumentare l'Iva, e il 4% che era in vigore». La misura del 4% era stata decisa nel 1991 dal governo di Giulio Andreotti, con il socialista Rino Formica alle Finanze «Si doveva lanciare un sistema televisivo nuovo», concede Visco. Non senza aggiungere che «quello fu un favore chiaramente fatto a Berlusconi». Una versione che però, diciassette anni più tardi, lo stesso Formica contesta: «Non feci altro che accogliere un parere unanime della commissione dei Trenta, allora presieduta da Mario Usellini, dove si sosteneva la necessità di applicare la stessa aliquota Iva agevolata in vigore per la Rai, che era appunto al 4%. Altro che regalo a Berlusconi. Per la precisione, ricordo che di quella commissione faceva parte anche Visco».

Dopo la successiva decisione del governo Dini, per tredici anni l'Iva sulle pay tv non si schiodò dal 10%. «La verità», racconta oggi lo stesso Visco, «è che ogni volta che si deve fare una manovra economica viene compilato un elenco delle cose sulle quali si potrebbe agire. E storicamente c'è l'aumento dell'Iva sulle televisioni a pagamento. Gli uffici mi hanno sottoposto più volte questa eventualità, ma ho sempre rifiutato di farlo, considerando inopportuno adottare una norma che colpisse nella sostanza una sola azienda». Nella fattispecie, Sky Italia. Cioè la rete del magnate australiano Rupert Murdoch, che una volta poteva diventare alleato di Berlusconi e che ora è il suo più agguerrito concorrente, titolare, secondo il premier, di un «rapporto privilegiato» con la sinistra. «Scherziamo? La pay tv è rimasta l'unica alternativa reale al duopolio delle tv in questo Paese. La Sette — dice Visco — è stata bloccata e mi risulta che ci sarebbero ulteriori pressioni sulla proprietà». Da chi, scusi? «Da chi? Ma da mio nonno...».

Sergio Rizzo
03 dicembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #10 inserito:: Dicembre 19, 2008, 12:52:27 am »

La situazione L'area milanese è quella più colpita: oltre mille risoluzioni di rapporto

Cinquemila manager licenziati

In due anni a casa il 10% dei dirigenti

È il dato record del 2008 in Italia. «C'è chi accetta incarichi inferiori per salvare il posto di lavoro»
 
 
Davvero non ci può essere alcun dubbio: nel suo caso il licenziamento non ha proprio nulla a che vedere con la crisi. Con ogni probabilità Valerio Zappalà ha pagato il fatto di essere stato assunto dall'ex viceministro con delega alle Finanze Vincenzo Visco. Ma anche l'amministratore delegato della Sogei, già partner della Ernst Young, che il ministro dell'Economia Giulio Tremonti ha dimissionato per rimettere su quella poltrona il suo predecessore Aldo Ricci (liquidato meno di due anni prima, secondo la Corte dei conti, con una faraonica buonuscita di 1,3 milioni) ha finito involontariamente per rendere il conto dei manager messi alla porta quest'anno ancora più salato di quanto già non sia.

Il direttore generale di Federmanager, l'organizzazione che rappresenta i dirigenti d'azienda, Giorgio Ambrogioni, lo definisce «un fenomeno strisciante, nel quale la parola licenziamento è stata sostituita con la formula della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro ». Ma se non è zuppa è pan bagnato. E la formula serve soltanto a indorare un poco la pillola. Secondo una stima dell'associazione dei dirigenti, quest'anno sono stati licenziati dalle aziende italiane almeno 5 mila manager. È un calcolo che tiene conto dei 2.991 casi che sono stati gestiti direttamente dalle strutture più rappresentative che fanno capo alla Federmanager, ai quali si dovrebbero però aggiungere ancora altre 2 mila «risoluzioni del rapporto di lavoro» avvenute in aree più periferiche e non trattate in sede sindacale.

Una cifra decisamente enorme, soprattutto se si tiene presente il suo peso relativo: i dirigenti d'azienda italiani sono in tutto circa 82 mila. Parliamo perciò di un taglio secco del 6%. Che sfiora addirittura il 10% prendendo in esame anche l'emorragia di poltrone già registrata nel 2007, quando sono stati «indotti» alla «risoluzione consensuale», cioè dimissionati dalle rispettive aziende, qualcosa come 3.000 dirigenti.

Un altro chiaro segnale, se ce ne fosse ancora il bisogno, delle difficoltà crescenti del ceto medio. Con l'unica eccezione della situazione della zona industriale di Latina, dove sono stati mandati a casa a partire dallo scorso gennaio 55 dirigenti di imprese chimico-farmaceutiche, fra cui Pfizer e Abbott, le vicende più gravi si dipanano da Roma in su.
È stato calcolato che soltanto nell'area del milanese i manager licenziati quest'anno abbiano raggiunto la cifra record di 1.050, prevalentemente nel settore dell'informatica e delle telecomunicazioni. La Federmanager non manca di segnalare situazioni critiche, fra l'altro, in Eds, Pirelli, Siemens e Fujitsu engineering.

A Torino, dove la crisi ha cominciato a produrre effetti devastanti su tutte le imprese (il caso della Motorola ha fatto in queste settimane il giro d'Italia) il numero dei dirigenti che hanno perso il posto di lavoro è di 565, in larghissima parte, com'è comprensibile, nei settori collegati all'auto e all'informatica. Nell'area intorno a Roma i licenziamenti censiti dall'associazione dei manager sono stati addirittura 796. E anche nella capitale i settori maggiormente colpiti sono quelli dell'elettronica e delle telecomunicazioni.

Poi 227 licenziati a Bologna, dove il comparto che ha sofferto di più è quello delle imprese metalmeccaniche. Ancora 103 a Genova, usciti da aziende come la Elsag, 77 a Firenze, estromessi da società tessili e meccaniche, 69 a Parma (coinvolta anche la Barilla), 49 a Verona (con la questione Glaxo in cima alla lista). Non vanno poi dimenticate le vicende che riguardano Alitalia, Telecom Italia, H3g. Le società alle prese con il problema degli esuberi dirigenziali sono in continua crescita. Con risvolti in qualche caso clamorosi. E destinati anche a dettare la linea.

Racconta Mario Cardoni, vicedirettore dell'associazione dei dirigenti, che «a Telecom Italia, ma in qualche caso anche alle Poste, sia stata proposta ad alcuni manager la retrocessione invece delle dimissioni. Chi accetta, resta in azienda con la qualifica di quadro ». E, naturalmente, una consistente riduzione di stipendio. Spiega Ambrogioni: «Si tratta di figure più professionali che veri e propri manager. Tecnici magari assunti come quadri ai quali era stato concesso un avanzamento di carriera per non farli andare via dall'azienda. E ai quali ora, che la crisi impone pesanti ristrutturazioni, l'azienda chiede di fare il passo del gambero ». Episodi. Che tuttavia potrebbero sconvolgere un principio finora ritenuto intoccabile nei rapporti di lavoro dipendente: quello secondo il quale una volta raggiunto un determinato grado, nello stesso posto di lavoro non si può tornare mai indietro. Anche se dovessero cambiare le mansioni.

Per alcuni che hanno accettato di essere degradati, tuttavia, rispetto a inesistenti prospettive di una rapida ricollocazione alle stesse condizioni, la retrocessione ha rappresentato comunque la salvezza. Dice Ambrogioni: «Siamo gli unici lavoratori dipendenti che pagano la mobilità ma poi non ne possono usufruire. Vista la situazione drammatica, ho chiesto al ministro del Welfare Maurizio Sacconi di introdurre nel decreto varato dal governo per fronteggiare la crisi una norma in grado di assicurare l'indennità di mobilità ai manager licenziati che abbiano superato i cinquant'anni».
Ma chi l'avrebbe mai detto che un giorno anche i dirigenti d'azienda avrebbero avuto bisogno dei tradizionali ammortizzatori sociali, oltre a quelli che la categoria si autogarantisce? I dirigenti ultracinquantenni che perdono il lavoro hanno diritto a 1.500 euro lordi al mese per un anno. Quelli più giovani si devono invece accontentare di otto mesi. I soldi arrivano da un fondo finanziato dal contratto collettivo.


«Quella che si sta verificando — afferma il direttore di Federmanager — non è la prima grave crisi per i dirigenti d'azienda. Va ricordato, per esempio, che all'inizio degli anni Novanta si persero 20 mila posti sui circa 100 mila di allora. Ma ora quello che colpisce è la vastità del fenomeno. Si accendono fuochi da tutte le parti. Prenda l'Alitalia: soltanto in quel-l'azienda stiamo gestendo 90 licenziamenti, visto che dei 150 dirigenti della compagnia di bandiera ne resteranno una sessantina. Poi c'è il polo chimico-farmaceutico, con 700 dirigenti a rischio fra aziende piccole e grandi e l'indotto. Per non parlare della durata dei rapporti di lavoro. Ormai i casi di manager che durano meno di un anno e vanno a casa soltanto con l'indennità di preavviso sono diffusissimi ».

Ma c'è pure chi il posto non lo rischia affatto. Anzi. Qualcuno si trova perfino nella condizione di diventare manager pubblico senza aver fatto nemmeno un concorso. Direttamente dalla politica e grazie a una «retrocessione» in questo caso a dir poco curiosa. A maggio di quest'anno, mentre la situazione economica si stava facendo già difficile e anche le imprese molisane cominciavano a mandare a casa qualche manager, i consiglieri regionali del Molise approvavano una piccola modifica a una legge del 2007 che gli spalancava le porte a un brillante futuro dirigenziale. Stabilendo che gli stessi ex consiglieri o ex assessori, purché laureati e in carica per almeno cinque anni, avrebbero potuto ricoprire i più alti gradi dirigenziali dell'amministrazione regionale: direttore generale, oppure segretario generale del Consiglio, o ancora segretario generale della Giunta regionale. È o non è una beffa?


Sergio Rizzo
18 dicembre 2008

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« Risposta #11 inserito:: Dicembre 19, 2008, 12:54:34 am »

Berlusconi alla Confindustria:

«Non diffondere stime negative su crisi»
 
 
 ROMA (18 dicembre) - Il premier Silvio Berlusconi sparge ottimismo a piene mani. Agli ambasciatori d'Italia riuniti in conferenza alla Farnesina ripete il leit motiv di questi tempi di crisi: guai a dare corpo alle «self full feeling prophecy», le profezie negative che si autoavverano. Guai quindi a dire che le cose vanno male innescando un circolo vizioso. Berlusconi ce l'ha soprattutto con il Centro studi di Confindustria che vede nero per l'economia proprio ieri ha previsto due anni di recessione e 600mila posti di lavoro in meno: «Io non renderei note queste cose», afferma il giudizio del premier.

«Il sistema bancario - ripete poi come un mantra il presidente del Consiglio, ammettendo però l'aprirsi di qualche crepa - è solido ed ha avuto le garanzie dello Stato. Il sistema delle imprese non dovrebbe soffrire di carenze di liquidità». «Proprio in questi giorni - spiega il Cavaliere - ci giungono notizie negative dalle Prefetture sulla sofferenza delle imprese» che non possono attingere dagli istituti di credito. Il governo ha infatti invitato le aziende a rivolgersi proprio ai prefetti per denunciare eventuali tagli di liquidità da parte delle banche.

Ricapitolando davanti agli ambasciatori le tante cose fatte dall'esecutivo in politica interna ed  internazionale, il premier cita il provvedimento appena adottato a Palazzo Chigi dal Cipe. «Abbiamo varato un primo stanziamento di 16,6 miliardi per le grandi infrastrutture», afferma. E poi rivela di aver raccolto il consenso di Consob ed Fmi su una sua «suggestione»: la proposta di limitare verso l'alto e verso il basso l'andamento delle contrattazioni borsistiche, per ancorare di più il valore della azioni a quello della reale produttività delle imprese.

La conferenza alla Farnesina è infine scena di un siparietto con il sottosegretario Gianni Letta, di solito silente nelle pubbliche occasioni. «Il taglio dei tassi Usa da parte della Fed ha generato un paradosso -osserva il premier -. Con i tassi a zero il capitale non rende niente. Siamo al comunismo!». E Gianni Letta: «Il capitale devi investirlo perché renda...». Il premier ribatte: «Si. Ma non prestandolo, non depositandolo nelle banche. Il capitale soffre di inflazione».

Berlusconi infine rivendica la scelta della social card per sostenere le famiglei più povere. «Ne abbiamo date più di un milione e 300 mila - afferma - ed è stato un grande successo. Sono anonime e quindi non toccano la dignità di nessuno. Infatti le poste sono state invase da un gran numero di persone che ne hanno fatto richiesta». 

da ilmessaggero.it
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« Risposta #12 inserito:: Dicembre 30, 2008, 05:28:53 pm »

Centrodestra e centrosinistra applicano da anni lo stesso metodo dopo ogni elezione

Le poltrone libere per i politici bocciati: trovano posto nelle società di Stato

Dai Beni culturali alla compagnia aerea delle Poste italiane, da Finmeccanica a Eni ed Enel


Aspiravano a un seggio di palazzo Madama. Si dovranno accontentare invece del regalo di Natale: un poltrona in una società di Stato. Il 18 dicembre Mauro Mainardi, imprenditore con un debole per il Popolo della libertà, e Paolo Dalla Vecchia, avvocato, esponente di Alleanza nazionale, che già aveva tentato invano nel 1995 di conquistare la Provincia di Venezia, sono entrati nel consiglio di amministrazione di Arcus, società dei Beni culturali e delle infrastrutture. Entrambi accomunati dal medesimo destino. Candidati al Senato in Veneto, rispettivamente al decimo e al tredicesimo posto, per un soffio non ce l'hanno fatta. Ma ora potranno mettere la loro passione, congiunta, al servizio dell'arte e della cultura.

Esattamente come Giacomo de Ghislanzoni, già parlamentare di Forza Italia, ex presidente della Commissione agricoltura della Camera: anche lui nominato nel consiglio di Arcus, su designazione del ministero dell'Economia. Se queste saranno state le scelte giuste lo dirà il tempo. Ma quel che è certo è che grazie ai politici la vita di Arcus è stata finora abbastanza tormentata. Prima le dimissioni in massa del consiglio, al tempo del ministro dei Beni culturali Rocco Buttiglione. Poi il commissariamento, affidato al consigliere giuridico dell'ex ministro della Margherita Francesco Rutelli. Quindi un nuovo commissario (Arnaldo Sciarelli), che si dichiarò subito «un vecchio socialista iscritto ai Ds e tra i più grandi sostenitori del Partito democratico». Ancora un terzo commissario nominato da Bondi, e infine un nuovo consiglio di amministrazione: per metà composto da politici della nuova maggioranza. Poteva andare diversamente? Poteva, se il ragionevole appello che aveva lanciato l'ex presidente della Confindustria Luca Cordero di Montezemolo quando ancora governava Romano Prodi («abbiamo o no il diritto di dire basta alle cariche pubbliche che con i soldi dei contribuenti fanno da discarica dei politici trombati?») non fosse caduto anche questa volta nel vuoto. Con una differenza: che nella «discarica» non finiscono più soltanto i politici «trombati», cioè quelli rimasti senza un posto.

Vero è che nel consiglio dell'Ipi, l'istituto di promozione industriale controllato dal ministero dello Sviluppo, si è trovata una poltrona per l'ex deputato di Forza Italia Giovanni Marras, insieme a Marco Claudio Lupi, consigliere leghista del Comune di Sanremo (nella roccaforte elettorale del ministro Claudio Scajola), e all'imprenditrice Luisa Todini, un tempo parlamentare europea di Forza Italia. Come è vero che Antonio Martusciello, già potentissimo luogotenente di Berlusconi in Campania, attualmente privo di seggio parlamentare è stato prontamente recapitato alla presidenza di Mistral Air. Cos'è? Una compagnia aerea fondata nel 1981 da Bud Spencer, ma ora posseduta dalle Poste italiane, che assiste fra l'altro l'Opera romana pellegrinaggi nei collegamenti con Lourdes, Santiago de Compostela, Chestochowa... E sia. Ma perché Martusciello? Domanda, si badi bene, che potrebbe essere rivolta in moltissimi altri casi.

Per esempio: perché nel consiglio di amministrazione della Tirrenia, compagnia di navigazione con base a Napoli, è stato nominato Giuseppe Venturini, ex consigliere regionale della Dc, oggi esponente di Forza Italia, veronese e presidente della società che gestisce gli immobili del Comune di Verona? Interrogativo ovviamente destinato, come il precedente, a restare senza una risposta plausibile. Caso destinato probabilmente a fare scuola è poi quello di Dario Galli. Senatore della Lega Nord per tre legislature, quest'anno ha deciso di cambiare aria. Lo scorso aprile si è presentato alle elezioni provinciali varesine e ha preso più del 64% dei voti. Nominato presidente della Provincia di Varese, questo non gli ha impedito, nemmeno due mesi più tardi, di avere l'incarico di consigliere di amministrazione della Finmeccanica, società controllata dal Tesoro e, dettaglio non trascurabile, quotata in Borsa. Altro che «trombato». Nessuno griderà allo scandalo: fra i consiglieri della Finmeccanica resiste anche un politico di lunghissimo corso come l'ex senatore democristiano Franco Bonferroni, all'epoca del Caf luogotenente di Arnaldo Forlani in Emilia. Ma, a differenza di Bonferroni, si dà il caso che il pur competente Galli (ha lavorato all'Aermacchi di Varese) sia un politico che ricopre un incarico istituzionale. Nemmeno di secondo piano. Il bello è che non è neanche l'unico.

Da segnalare, all'Eni, la nomina di Paolo Marchioni, capogruppo della Lega nel consiglio provinciale di Verbano Cusio Ossola. Prima di lui, a rappresentare la Lega nel consiglio della compagnia petrolifera pubblica, c'era addirittura un senatore in carica (Dario Fruscio). All'Enel il Carroccio si è ritenuto soddisfatto, si fa per dire, con un posto assegnato a un consigliere comunale di Busto Arsizio: Gianfranco Tosi. Alle Poste, invece, è stato confermato il solito ex parlamentare della Lega Mauro Michielon, accanto all'ex sindaco forzista di Monza, Roberto Colombo. Non che il centrosinistra non abbia avuto il suo. Sulla presidenza delle Poste è planato Giovanni Ialongo, già segretario dei postali della Cisl. Sindacato che ha così coronato il sogno di entrare nella stanza dei bottoni. Scavalcando d'un balzo la barricata. Ialongo non è un politico di mestiere, ma la sua fede nel Partito democratico non è in discussione, come neppure il suo legame con l'ex presidente del Senato Franco Marini.

Nemmeno Antonio Mastrapasqua, che ha un carnet di mezzo centinaio di incarichi, molti dei quali in società pubbliche, è un politico di professione. Ma se il governo l'ha spedito al vertice dell'Inps, ente previdenziale lottizzato per definizione, un motivo ci sarà pure. Anche se, dal punto di vista puramente estetico, fa forse più impressione la nomina al vertice dell'Inpdap, l'Istituto di previdenza dei dipendenti pubblici, di Paolo Crescimbeni: coordinatore regionale di Alleanza nazionale in Umbria, aveva inutilmente tentato la strada del Senato sia nel 2001 che nel 2006. Per due legislature ha avuto invece un seggio in Parlamento, nei banchi della Lega Nord, Marco Fabio Sartori, ora al vertice dell'Inail. Naturalmente ogni storia è diversa. Così la qualità, le competenze e le motivazioni delle persone. In qualche caso certe decisioni sono perfino inevitabili.

Come sorprendersi, per citare un caso, del fatto che il nuovo ministro della Gioventù, Giorgia Meloni, abbia nominato direttore dell'Agenzia per i giovani, dove Giovanna Melandri aveva collocato l'ulivista Luca Bergamo, il vicepresidente di Azione giovani (l'ex Fronte della gioventù), Paolo Di Caro? Ma si possono trovare tutte le giustificazioni: resta il fatto che la politica non ha smesso di penetrare anche nei gangli più remoti degli enti pubblici, delle società statali, delle municipalizzate. Talvolta pure quando meno te l'aspetti. La società Stretto di Messina, per esempio. Mentre il governo di Romano Prodi avrebbe voluto spazzarla via insieme al ponte, quello di Silvio Berlusconi, che il ponte vuole rilanciarlo, ha deciso di irrobustirla. Con un paio di nuovi e «pesanti» consiglieri di amministrazione.

Il primo è l'ex parlamentare di Alleanza nazionale Guglielmo Rositani, settant'anni di Varapodio, in provincia di Reggio Calabria. Il secondo è nientemeno che il palermitano Antonio Pappalardo. Ex ufficiale del Cocer dei Carabinieri, è stato protagonista di un tumultuoso percorso politico che l'ha portato nel 1992 in Parlamento con il Partito socialdemocratico, quindi sottosegretario alle Finanze nel governo di Carlo Azeglio Ciampi, poi capolista al Comune di Roma contro Rutelli, in seguito nel Patto di Mario Segni, in Alleanza nazionale e di nuovo nei Carabinieri. Prima di fondare il movimento Popolari europei, fare l'occhiolino a Sergio D'Antoni e Antonio Di Pietro, candidarsi al Senato con la Lega d'Azione meridionale collegata a Giancarlo Cito, ritornare al Psdi con Franco Nicolazzi, partecipare al V-day e infine aderire al Movimento per l'autonomia di Raffaele Lombardo. Anche in questo caso, senza riuscire a essere eletto, ma guadagnando almeno l'investitura lombardiana per la società dello Stretto. Resisterà almeno sul ponte?

Sergio Rizzo
29 dicembre 2008(ultima modifica: 30 dicembre 2008)
da corriere.it
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« Risposta #13 inserito:: Gennaio 14, 2009, 05:24:23 pm »

Ha finanziato Ca' Foscari avrà la laurea ad honorem

Una laurea ad honorem per il mecenate

Dall'ex presidente del porto, Zacchello, 800 mila euro di fondi pubblici.

E l'Università lo fa dottore
 
 
Un malloppo val bene una laurea. Così, colma di riconoscenza per un finanziamento di 800mila euro, l'università Ca' Foscari mette oggi all'ordine del giorno la laurea honoris causa del donatore, l'ex presidente dell'Autorità portuale di Venezia. Il quale aveva fatto il regalo coi soldi dell'ente che guidava.

Una decisione che apre luminose prospettive a tutti i furbetti della pubblica amministrazione: come resistere alla tentazione di diventare «dottore ad honorem» regalando agli atenei un po' di pubblico denaro?

Il protagonista della storia è Giancarlo Zacchello, 75 anni, un trevigiano che, nonostante grondi di incarichi italiani come un banano gronda di banane, risulta essere residente alla periferia di Villach, la prima cittadina austriaca dopo il confine italiano di Coccau. La stessa località in cui, stando al curriculum dato ai docenti di Ca' Foscari, ha sede la «Seaarland », una «società che fornisce servizi di gestione navale (commerciale, tecnica, armatoriale) per conto terzi» dalla quale sarebbe germogliata la «Seaarland Management Services» di Ginevra. Un imprenditore dai mille legami internazionali, dai mille interessi, dai mille agganci societari che spaziano dagli affari immobiliari al turismo, dalla tecnologia ai servizi, dalla ricerca medica all'energia e alle banche. Azionista diretto di una decina di società e indirettamente di almeno il doppio di imprese e finanziarie. Benedet- to oggi da dieci incarichi da presidente e quattro da consigliere. In grado di comprare nell'ultimo anno e mezzo un'azienda agricola di 146 ettari («Le Pezzate», a Pordenone) per 6 milioni 387.500 euro e l'albergo Capitol di San Giuliano a Mestre per dieci milioni e mezzo. Il tutto da solo o in parte, attraverso società spesso olandesi come la «Sc Ventures Bv» o la «San Marco Finanziaria», della quale è presidente e il cui capitale risulta custodito per il 97% dalla «Chirona International Bv» e per il 3% dal novantanovenne Antonio Zacchello.

Insomma, un uomo ricco di spirito d'iniziativa. Con forti interessi, da solo o in società, spesso insieme con moglie e parenti vari, di hotel come il «Crowne Plaza Stabiae Sorrento Coast», compagnie di navigazione come «Motia», stabilimenti balneari con ristorante come a Castellammare, società immobiliari come la «Ca' Pianiga» di Mestre, imprese agricole a Musile di Piave con allevamento ittico, fabbriche per la produzione di impianti a cogenerazione di energia quali la «Genera srl» di Arzignano. Una miriade di iniziative che, a volte, gli ha tirato addosso anche roventi polemiche. Come quando, da presidente dell'Autorità Portuale di Venezia (poltrona affidatagli dall'allora ministro dei trasporti Pietro Lunardi su indicazione del governatore veneto Giancarlo Galan), fu al centro di un'affilata inchiesta de «l'Espresso» dedicata ai conflitti d'interesse tra le sue attività e il ruolo pubblico. In particolare, scrisse Gigi Riva, «disse di essersi liberato della “Multi Service”, azienda fondata da lui stesso e dai suoi familiari che poi, con Zacchello regnante sul porto, ha goduto dell'assegnazione di diverse aree su cui compiere affari d'oro. Fino all'iperbole di un'area comprata per 4 milioni e rivenduta dopo due anni per 15.

Tutto bene se non fosse che un'accurata inchiesta condotta da Alessandra Carini per il quotidiano «La nuova Venezia», ha dimostrato come i legami tra Zacchello e la Multi Service non siano del tutto recisi se una società del presidente ha mantenuto un pegno che scade nel maggio 2008 a garanzia del pagamento di 1,4 milioni di euro». Ma veniamo alla laurea ad honorem. Punto di partenza, la convenzione firmata da Zacchello nella veste di presidente dell'Autorità Portuale e dal rettore dell'Università Ca' Foscari, Pier Francesco Ghetti. Dove si dice che, partendo da un accordo del 2001, l'Autority pubblica, «interessata allo sviluppo di competenze scientifiche nell'ambito della ricerca e dell'insegnamento del diritto amministrativo applicato al campo marittimo (…) è disposta ad integrare il finanziamento» dando dei soldi all'ateneo per assumere un «professore associato di diritto Amministrativo» e promuovere «un dottorato di ricerca nelle materie suddette». Quanto? «Euro 100.000,00 per ciascuno degli anni dal 2008 al 2015 a valere sugli impegni dei rispettivi anni e con liquidazione entro il 31 dicembre dell'anno di riferimento». Otto anni, ottocentomila euro. Per carità: tutto legittimo. Ma è la data in calce al documento a essere curiosa: 28 marzo 2008. Dieci giorni prima che a Zacchello scada il mandato. Di più: il ministro dei trasporti del governo prodiano, Alessandro Bianchi, ha già dichiarato di non avere alcuna intenzione di rinnovare l'incarico e neppure di concedere al presidente uscente la proroga richiesta di 45 giorni. Una decisione dettata da tutto tranne che da ostilità politiche.

Tanto è vero che, pur essendo indicato come vicino a Forza Italia, il nostro aspirante «dottore» sarà scaricato anche dal governo berlusconiano, che il 13 maggio 2008, per mano di Altero Matteoli, metterà al suo posto l'ex sindaco veneziano ed ex ministro ulivista Paolo Costa. «Ingrati!», penserà il nostro sospirando sulle assunzioni di collaboratori destrorsi che gli avevano tirato addosso le accuse della sinistra. Evidentemente, però, non è ingrata l'Università. Dove il «beau geste » generosamente compiuto dall'amico Giancarlo con quegli ottocentomila euro donati a Ca' Foscari per assumere quel professore associato (e a questo punto sarà curioso vedere come verrà scelto…) non viene dimenticato. Tanto è vero che viene avviato l'iter per concedere all'ormai ex presidente una laurea specialistica ad honorem in «Economia degli scambi internazionali». La faccenda è all'ordine del giorno del Consiglio di facoltà, prima del passaggio al Senato Accademico, proprio questa mattina. Docente incaricato della laudatio: «il Direttore o altro docente del Dipartimento di Scienze Giuridiche ». Tema della lezione del laureando: «Lo sviluppo dei sistemi portuali tra logistica e mercato». Ma assolutamente spettacolare è la motivazione della laurea. Nero su bianco: «Ha finanziato la didattica e la ricerca nel campo del lavoro marittimo. Ha assicurato la propria disponibilità ad ulteriori finanziamenti per la didattica e la ricerca nel settore dei trasporti e del diritto marittimo ». E a questo punto avanziamo sommessamente al magnifico rettore una domandina: perché non dare una laurea «honoris causa» anche a tutti i cittadini italiani ai quali appartenevano quei soldi?

Sergio Rizzo Gian Antonio Stella

14 gennaio 2009

da corriere.it
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« Risposta #14 inserito:: Gennaio 18, 2009, 07:41:33 pm »

Crisi e ricette

Tremonti: il Paese tiene. Ora altri 8 miliardi per gli ammortizzatori

«Bene Obama e la scelta di continuità con Bush»


ROMA — La prima cosa che viene in mente a Giulio Tremonti pensando all'insediamento di Barak Obama alla Casa Bianca, è che il futuro presidente giurerà domani sulla Bibbia di Abramo Lincoln. Formalità che potrebbe apparire insignificante.
Se non fosse che per il ministro dell'Economia ha un particolarissimo significato. «Prima le citerò Lincoln, poi un passo della Bibbia. Un giorno Lincoln disse: "Ho due grandi nemici, l'esercito del Sud davanti a me e le società finanziarie dietro di me. Dei due nemici, il secondo è il peggiore" ».

Potrebbe averlo detto Karl Marx.
«Non per caso Marx scrisse a Lincoln identificando nella bandiera a stelle e strisce un simbolo di speranza per i lavoratori».

La citazione della Bibbia?
«È nel Levitico, il passo sul sabbatico, sulla separazione fra il bene e il male».

E Obama che c'entra?
«La missione di Obama si pone nella dialettica fra la paura e speranza, tra crisi catastrofica, in atto o in potenza, e uscita salvifica. Certa la prima, ancora incerta la seconda. Si pone tra continuità su di una linea di intervento già sviluppato nel biennio 2007-2008 e rottura di continuità. Nel 2007-2008 è stato attivato l'intero armamentario della politica economica. Iniezioni di liquidità, manovra sui tassi d'interesse, abbattimenti fiscali...».

Ricordo la promessa di Bush e Bernanke di distribuire dollari con gli elicotteri.
«Ma non è servito a niente. Fallimenti bancari, salvataggi bancari, il piano Paulson. Siamo arrivati al tasso d'interesse uguale a zero che, se vuole, citando ancora Marx, nel terzo libro del Capitale è un elemento di comunismo. Comunque non è solo un fatto economico ma anche politico. Il sequitur è diverso per quantità, più grande, e per qualità: un terzo ancora fiscale, due terzi spesa pubblica keynesiana, e cioè opere pubbliche, investimenti pubblici».

Ci crede che sarà un New Deal keynesiano?
«Per la verità John Maynard Keynes non c'entra molto con il New Deal. In America lo fece Roosevelt per conto suo, come Hitler e Mussolini in Europa, ma senza aver letto la "Dottrina generale". In realtà Keynes si afferma in seguito, negli anni Cinquanta e Sessanta, e il keynesismo è la risposta socialista al marxismo. La politica di Obama sembra un po' essere nella continuità con il biennio precedente, con varianti quantitative e qualitative».

Più soldi, più spesa pubblica...
«E per inciso più deficit pubblico. La continuità è una ipotesi positiva, nella quale confidiamo fortemente e che ha elevate possibilità di successo. Ipotesi positiva oggettivamente, non necessariamente risolutiva. La speranza del mondo è che sia efficace nel biennio 2009-2010. Ma all'ottimismo della volontà si deve sempre accompagnare la cautela della ragione. Nelle strategie ci dev'essere sempre una uscita di sicurezza».

Una specie di piano B?
«Il male da contrastare non sta nell'economia, ma nella finanza. E ha un nome oscuro: derivati. Non per caso nessuno osa parlarne. La massa è in continua crescita, l'importo nozionale dei derivati è ormai pari a dodici volte e mezzo il Prodotto interno lordo del pianeta. l'importo netto oscilla fra i 20 e i 40 trilioni di dollari, mentre il piano Obama, è di un trilione. Ma importo lordo o netto che sia, nei derivati è insito il cosiddetto rischio incalcolabile, non sai a vantaggio di chi o a carico di chi finirà questa enorme mole di scommesse finanziarie fini a se stesse».

C'è proprio da stare allegri.
«Questa è la causa della sfiducia che domina la finanza. Un deficit di fiducia non si cura con il deficit pubblico. La prima ipotesi prima è che nel medio andare il risanamento dell'economia reale porti con sé il risanamento dell'economia finanziaria. La seconda ipotesi è che questa asimmetria non si chiuda così. Ecco perché l'uscita di sicurezza è finanza su finanza».

Sarebbe a dire?
«L'ipotesi di soluzione è nuovissima ed anzi vecchissima. È nella Bibbia, nell'immagine del sabbatico, della segregazione del male dal bene. Salvare tutto è compito divino, non umano. I governi possono salvare le famiglie, le imprese e la parte funzionale delle banche, quella che finanzia l'economia, non la parte che si presenta come finanza fine a se stessa».

Di quella che ne facciamo?
«La formula va definita, ma passando dalla Bibbia alla finanza lo schema è quello della bad bank.
Costituire contenitori ad hoc, immetterci i derivati, eccetera, pianificare una lunghissima moratoria, modificare conseguentemente le regole contabili».

Un altro salasso per i contribuenti?
«Non servono capitali pubblici. Non ha senso utilizzare capitali pubblici per rilevare la finanza derivata a deviata, per due ragioni: perché non basterebbero e non sarebbe equo».

Ma chi, e dove dovrebbe fare la bad bank?
«Nelle giurisdizioni dove si è generato e radicato il fenomeno. Prevalentemente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, ma non esclusivamente. Qualcosa di simile è stato fatto in Svizzera e Svezia».

Si rende conto della difficoltà?
«So bene che non è una scelta tecnica, ma politica. E tra le scelte politiche, una scelta radicale. L'alternativa del Diavolo sarebbe quella di lanciare una "grande inflazione"».

Che cosa avrebbe di tanto diabolico questa alternativa?
«Che l'inflazione la pagano tutti, senza che si risolva nulla».

Dopo la Seconda guerra mondiale accadde una cosa del genere. E fu la premessa del boom economico in Europa.
«In un mondo diverso. Allora c'era una sola moneta, il dollaro, e non c'erano le altre, perché erano distrutte. Adesso abbiamo l'euro ed è critica l'ipotesi della grande inflazione in una parte sola del mondo. Euro e Banca centrale europea sono l'opposto dell'inflazione. Quindi non resta che l'alternativa della Bibbia. In aggiunta, gente nuova e regole nuove».

Anche per l'Italia?
«Il nostro caso è radicalmente diverso. La crisi non si è prodotta Italia su Italia. È venuta da fuori sull'Italia e per ora più in termini di economia reale, non tanto per la caduta della domanda interna, che non c'è stata, quanto per la caduta dell'export ».

Sui muri del Veneto è comparso un manifesto del Popolo della libertà. C'è scritto: «Grazie, Silvio, per aver salvato i nostri risparmi». Non è un po' prematuro?
«L'opposizione ci ha fatto una doppia accusa: non siete intervenuti sulle banche come altri in Europa invece hanno fatto, e avete dato i soldi alle banche. Delle due l'una. In realtà Berlusconi non ha garantito le banche, ma il risparmio. E con il decreto anticrisi ha finanziato le imprese. In base alle informazioni che riceviamo dalla Banca d'Italia e dal mondo bancario, la posizione delle banche italiane è migliore di quella delle banche estere ».

Una buona notizia. Ma siamo sicuri che importi tanto a chi non arriva alla fine del mese?
«La crisi c'è ed è grave. Avendo scritto nel nostro programma elettorale già nel marzo 2008 "la crisi arriva e si aggrava", lo sappiamo bene. Ogni Paese ha le sue particolarità. L'Italia ha forza nella sua struttura sociale e produttiva, estesa dalle famiglie alle imprese, e debolezza nei conti pubblici, con il terzo debito pubblico del mondo. Il governo ha fatto la finanziaria a luglio e l'ha stabilizzata su tre anni prima che arrivasse la crisi. Senza sarebbe stato un disastro».

Anche così le prospettive non sono molto rosee. Per la Banca d'Italia il Pil potrebbe calare quest'anno del 2%.
«Il bilancio pubblico ha garantito e garantisce i fondamentali, dalla sanità, alle pensioni, alla scuola, alla sicurezza. Servizi pubblici continui e struttura sociale solida fanno dell'Italia un Paese socialmente saldo. In Italia non c'è solo un consenso politico verso un governo forte, ma anche un diffuso e generale consenso sociale. Questo insieme è valorizzato positivamente quando si fa il rating del-l'Italia che non per caso viene confermato, considerando l'alto debito pubblico ma anche il basso debito privato e la complessiva vitalità del sistema produttivo».

Davvero questo le sembra un Paese tranquillo e dove regna il consenso sociale? Negli ultimi mesi scioperi e manifestazioni di piazza erano all'ordine del giorno.
«La chimera del conflitto sociale può essere agitata, ma credo inutilmente. Non c'è da attendersi una rivolta dell'"esercito industriale", soprattutto perché interno al blocco sociale delle partite Iva, dove imprenditori e lavoratori vivono insieme. Non una rivolta dell'esercito dei lavoratori dipendenti privati e pubblici, ben consapevole della fortuna di conservare il lavoro, e sostenuto dal crescente potere d'acquisto perché i prezzi stanno scendendo...».

Ma la rivolta dei precari, quella sì.
«Più che rivolta, sofferenza. Ed è su questa area, proprio per evitare il conflitto, che siamo concentrando tutte le forze, potenziando gli strumenti di protezione sociale. La settimana prossima inizieremo incontri costruiti nella logica dell'economia sociale di mercato. Non faremo tutto il desiderabile ma tutto il possibile, e stiamo lavorando in squadra Claudio Scajola, Maurizio Sacconi, Renato Brunetta, Raffaele Fitto ed io».

L'opposizione dice che finora non avete fatto abbastanza per rilanciare l'economia e sostenere le famiglie.
«Alessandro Manzoni diceva: "Anche nelle maggiori strettezze, i denari del pubblico si trovano sempre per impiegarli a sproposito". E Carlo Azeglio Ciampi ha detto: "Per fortuna si è resistito alle sirene che spingevano per bruciare le esigue risorse disponibili in un generico aiuto ai consumi". I numeri sono questi: 16 miliardi per la tenuta del tessuto sociale e imprenditoriale, 16 miliardi per le infrastrutture e presto altri 8 miliardi aggiuntivi per gli ammortizzatori sociali. Con il prossimo Cipe arriveranno ulteriori e maggiori finanziamenti. Non solo. La nuova norma sui distretti industriali, lo sblocco delle procedure burocratiche sui lavori pubblici...».

Ma c'è chi si è lamentato perché la sua social card era scarica.
«La carta acquisti e il bonus che pensionati e lavoratori troveranno in busta paga tra febbraio e marzo sono strumenti addizionali, non sostitutivi. La carta acquisti è in experimentum in molti Paesi dell'Occidente. Abbiamo avuto difficoltà procedurali. Ma mezzo milione di carte in un mese, senza avere una banca dati, è poco? Mentre parliamo la distribuzione continua ed è in continua crescita. Normalmente le crisi generali sono crisi sociali e le crisi sociali sono causate da tagli sociali. Che non ci sono stati».

Che cosa la preoccupa maggiormente?
«Il Nord e il Centro hanno 38 milioni di abitanti e sono fra le aree più ricche d'Europa. Se fosse vero che in Italia non ci sono ricerca, produttività, istruzione, non sarebbe così. Il dramma dell'Italia è nel Sud, l'unica area europea che non ha una sua banca, ma soprattutto che vive un deficit sociale e culturale generale. E questa è una grande responsabilità della politica. Non c'è futuro per l'Italia se non c'è futuro per il Sud. Ed è questa la missione che sento più profondamente».


Sergio Rizzo
18 gennaio 2009

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