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Autore Discussione: Il 25 settembre sono andata a votare, ...ma  (Letto 10405 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Ottobre 18, 2022, 04:55:04 pm »

ESTENDERE I DIRITTI, OFFRIRE RAPPRESENTANZA
 
Concluso il Congresso, un'intervista al segretario riconfermato all'unanimità
 
Pierpaolo Bombardieri: "Sindacato, ma delle persone"

 
BOLOGNA - Estendere i diritti, aggredire intere aree spazi inesplorati dove la sofferenza non è ascoltata. Venti milioni di astenuto sul 50 milioni di aventi diritto al voto sono un problema enorme di sfiducia che rivela  uno spazio di rappresentanza sociale in questo paese molto grande, dovuto anche alla crisi dei partiti e dei movimenti.
“Noi siamo sempre stati dove siamo, non ci siamo spostati a sinistra come è stato scritto. Noi siamo con il lavoro e con chi soffre. E’ la sinistra che non si sa più cosa sia diventata e non ascolta la sua base”, grida Bombardieri dal palco durante le conclusioni dopo la sua elezione a Segretario generale.
Al termine del 18° Congresso della UIL, Pierpaolo Bombardieri si trattiene in un colloquio coi giornalisti per puntualizzare il nuovo profilo del sindacato che ha deliberato un documento conclusivo che disegna un ampio perimetro riformista su cui rafforzare il confronto e la convergenza con le altre confederazioni, ma soprattutto farsi rappresentante sociale dei temi non solo sindacali ma di politica economica e di welfare con il nuovo governo, indipendentemente dal colore.
 La scaletta degli obiettivi è lunga, ma la candidatura al rafforzamento della rappresentanza di bisogni sia delle imprese che dei lavoratori è sentita come un dovere implicito del sindacato per la ricostruzione della democrazia italiana a partire dalla questione sociale, la più urgente. Resta aperto il tema del vuoto della rappresentanza politica. Ma non è un compito del sindacato, precisa Bombardieri. Fatto sta che un rafforzamento della pressione delle piattaforme unitarie, nella prospettiva costringe la classe politica a definirsi come un interlocutore mano elitario. Per l’AvantI! un punto della leva per un aggiornamento dei propri compiti, un paradigma per noi del tutto naturale a sostegno di un progetto socialdemocratico e laburista.
 
Autonomia dei sindacati, come vede le sfide col prossimo governo?
 
Le vedo impegnative perché abbiamo una guerra e abbiamo una crisi e di tutto questo occorrerà tenere conto. Però siamo pronti a confrontarci e a misurarci e a dare il nostro contributo. Noi pensiamo che il confronto sia un pezzo della democrazia di questo Paese e quindi, al di là dei colori, siamo pronti a farlo con il governo sulla base dele nostre proposte.
Noi auspichiamo che il governo tenga conto del metodo del confronto e anche dei contenuti delle proposte che abbiamo fatto. Vorrei ricordare che in questo Paese c’è un grandissimo numero di lavoratori dipendenti e di pensionati che soffrono economicamente e vivono momenti di grande crisi. Perdono potere d’acquisto a cui si aggiunge il costo delle bollette. Bisogna innanzitutto dare risposte immediate a loro prima che ad altri.
 
Nel congresso si è parlato più volte di rinnovata unità sindacale. Cosa vede in una prospettiva pratica?
 
Noi abbiamo l’obbligo di superare alcune diversità di vedute. Siamo tre grandi organizzazioni sindacali con tre grandi storie. Il pluralismo sindacale in questo Paese è una ricchezza, non è un problema. Dobbiamo avere la capacità di stare insieme anche quando non a vediamo esattamente allo stesso modo. I problemi che abbiamo di fronte sono problemi troppo seri per rimanere divisi di fronte ad essi. Discutiamo intanto sulle piattaforme che sono intanto unitarie, discutiamo insieme come aggredire aree e spazi che sono inesplorati. Noi oggi abbiamo posto il tema di come “estendere i diritti”, di come parlare a tutte quelle aziende, lavoratori e lavoratrici che stanno in aziende sotto i 15 dipendenti, dove lo statuto dei lavoratori non è applicato, dove c’è ancora il ricatto, dove si licenzia senza giustificato motivo: allora è il caso di allargare gli orizzonti e di farlo insieme.
 
Come sarà questa UIL del terzo millennio?
 
Una UIL che sia in grado di allargare la propria rappresentanza , che vuole e intende rappresentare ancora di più chi sta in difficoltà. C’è uno spazio di rappresentanza sociale in questo paese molto grande, dovuto anche alla crisi dei partiti e del movimenti. Noi non abbiamo intenzione di presentarci alle elezioni, ma abbiamo intenzione di dar voce a chi oggi vive in grande difficoltà con gli strumenti che abbiamo a nostra disposizione: contratti, piattaforme, vertenze, aggiungendo a questi strumenti una più forte comunicazione con piattaforme informatiche come Terzo Millennio che siano in grado di ascoltare le tante periferie di questo paese, le tante persone che si sentono da sole. Ecco, proviamo a dare anche a loro una mano.
 
Come si ferma la strage delle morti bianche?
 
Si ferma intanto con una iniziativa culturale: in questo paese c’è una questione di scarsa cultura della legalità. Un aspetto che riguarda il lavoro, riguarda il fisco, riguarda tanti aspetti della vita sociale. Per noi è arrivata l’ora di parlare di omicidi sul lavoro. E’ stato introdotto il reato di omicidio stradale, ebbene ora va introdotto il reato di omicidio sul lavoro: non possiamo più accettare che questa strage sia inviolabile. Occorre aumentare la prevenzione, ma occorrono anche delle pene verso chi in modo irresponsabile vanifica i sistemi di sicurezza per non far remare le macchine, ad esempio.
 
Dare forza politica alla rappresentanza sociale. Il vostro documento conclusivo è molto articolato e preciso, sembra quasi un programma di governo
 
Non abbiamo intenzione di fare un programma di governo (sorride), abbiamo intenzione di rappresentare un’organizzazione sindacale che oggi diventa il Sindacato delle persone, non è un programma di governo, ma un programma che vuole occuparsi di chi è rimasto indietro, di chi forse oggi non va a votare, perché non riesce a trovare nessuno che lo ascolta. Di chi ha un problema e non sa dove andarlo a risolvere perché magari non ha i soldi per rivolgersi al commercialista o all’avvocato. Ecco la nostra organizzazione, insieme a quello che fa (rinnovare contratti fare piattaforme unitarie ecc.) vuole aggiungere anche questo. E vogliamo farlo perché c’è un grande momento di difficoltà e noi sentiamo la necessità e l’urgenza di dare rappresentanza sociale a chi ha questi problemi.
 
 
In una prossima NL ci soffermeremo nell’analisi della piattaforma che consideriamo un punto di riferimento per arricchire e innovare il dibattito politico.

S.Car.
 
 
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 21, 2022, 04:02:03 pm »

IMPARARE DAL SINDACATO

Dopo il Congresso nazionale della UIL e le conclusioni di Pierpaolo Bombardieri
 
Allargare la rappresentanza sociale
Costruire una rappresentanza politica 

 di Emanuele Fiano
 
“Non lasciare indietro nessuno, non lasciare solo nessuno”. Un’affermazione che vale un’identità, che rappresenta un senso e una direzione. Nonché una sfida, quella di passare dalla solidarietà caritatevole, fondamentale e sempre da sostenere, ad un sistema sociale e amministrativo che renda stabile e oggettivo l’obiettivo. La domanda, soprattutto oggi, davanti ad una delle peggiori crisi dal secondo dopoguerra ad oggi che oltretutto non ha ancora espresso fino fondo il suo devastante peso, è come raggiungerlo o, quantomeno, perseguirlo con coerenza e determinazione. E’ tutta li la sfida per la sinistra, sia per la sua missione storica, sia per il contrasto ad una cultura di destra nazionalista e sovranista che si appresta a governare.
Da parte sua la #UIL, con il suo ultimo congresso nazionale appena conclusosi, una risposta e una linea la individua: allargare la rappresentanza a chi rappresentato non lo è, mirare non solo al sostegno immediato ma anche, se non soprattutto, alla produzione della ricchezza che necessità di essere redistribuita, quindi lavoro qualificato e retribuito e accesso allo stesso, in un quadro di sostenibilità complessiva. Sottoscrivo visione e obiettivi, cosciente che il sindacato ha capito cosa e come e farlo ma che lo stesso non si può dire della politica, della nostra politica. E’ giusto che il sindacato affermi di voler trattare con qualsiasi sia il governo, è una prerogativa della sua stessa natura di organizzazione sociale, come lo è anche considerare che senza una rappresentanza politica che, in autonomia reciproca, permetta di perseguire gli obiettivi purché in sintonia culturale e ideale, senza una dinamica di “potere” democratico, il rischio reale è di sentirsi dire costantemente di no e rimanere con la sola leva della mobilitazione e della lotta sociale, senza che però gli obiettivi vengano raggiunti. E’ la storia del movimento riformista dei lavoratori e della socialdemocrazia che ci insegna che il punto chiave è questo: senza i partiti socialisti, laburisti, socialdemocratici, l’autorganizzazione dalle campagne, dalle fabbriche e dalle città, i modelli alternativi di lavoro cooperativi, la mutua assistenza, non avrebbero raggiunto i risultati di civiltà democratica raggiunti, pur tra mille difficoltà ed anche cocenti sconfitte. Senza il rapporto vivo e diretto tra rappresentanze sociali e organizzazioni politiche democratiche le grandi idee di libertà, giustizia e solidarietà non sarebbero state praticabili e usufruibili, non solo per i rappresentati dalle organizzazioni sociali ma per l’intero popolo, senza distinzioni.
Bene fa Pierpaolo Bombardieri a sottolineare che non spetta al sindacato fare “liste elettorali”, cioè organizzare la rappresentanza politica, invitando con ciò qualcuno a farle. Raccolgo in pieno questo invito, innanzitutto pensando al mio partito che ha l’occasione, attraverso il prossimo congresso, di chiudere una lunga fase che ormai ha esaurito tutte le sue energie e potenzialità e che se non viene superata rischia di portarci alla piena irrilevanza politica e numerica, come successo ai socialisti francesi, schiacciati tra l’incudine malechoniana e il martello macroniano.

Un congresso a tesi, plurale e proporzionale, dove non conta chi ma cosa, dove gli iscritti sono la platea di riferimento da cui poi si apre, esattamente come fa il sindacato da cui occorre anche trarre la lezione della capacità di rappresentanza democratica e di partecipazione alla sua elezione, come le percentuali di voto nei posti di lavoro dimostrano, che a noi sono mancate nonostante il rito del gazebo, ottimo per selezionare candidati monocratici alle elezioni ma non per la vita e il senso di un’organizzazione politica.
E se per aprire la strada ad un partito socialdemocratico europeo di cui non si può più rinviare la presenza, occorrerà cambiare l’attuale statuto del #PDoccorrerà farlo, senza dubbi e con decisione.
 
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 25, 2022, 10:18:46 pm »

La battaglia dell’opposizione: il manifesto di Nicola Zingaretti per ricostruire il Pd
Un contributo in esclusiva dell’ex segretario del Pd: dal programma alle alleanza, degli errori del passato alle scelte per il futuro, sino alla necessità di coinvolgere il popolo della sinistra nella ricostruzione del Partito Democratico.

A cura di Redazione

Abbiamo ricevuto e pubblichiamo in esclusiva un contributo di Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio e segretario del Partito Democratico dal 2019 al 2021, a proposito della ricostruzione del Pd e dell'area di centrosinistra. Da questo contributo speriamo nasca un dibattito e invitiamo sin da ora altri esponenti politici, o semplici militanti ed elettori, a mandarci le loro riflessioni in merito

Il 25 settembre abbiamo subito una grave sconfitta, che però ci consegna un ruolo e ci dà una responsabilità chiara: lottare dall’opposizione per i valori democratici di cui siamo portatori, proposte serie per la vita delle persone e preparare l’alternativa.

Il voto non ha decretato la fine del Pd o indicato i motivi del suo scioglimento. Il tipo di dibattito interno che si è aperto dopo rischia di farlo. Il pericolo viene da lì, perché ritorna la percezione drammatica non tanto dello scontro – anche duro – tra idee diverse, che sono sempre un bene, ma le fragilità nella volontà di ricerca comune e individuazione di un bene e di un lavoro collettivo. Emerge la debolezza di una cultura politica solidale e unitaria, e questo porta alla pratica dannosa di affermare ciascuno solo il proprio punto di vista, quasi ci trovassimo in presenza solo di un insieme di destini individuali che si uniscono per un patto di potere.

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Anche per questo, la normale dialettica politica rischia di degenerare in polemiche quotidiane, come accadde già ai tempi delle mie dimissioni da segretario, un anno e mezzo fa. Allora lanciai una forte denuncia e una richiesta di maggiore responsabilità. Responsabilità non significa silenzio. Ma la chiarezza che è necessaria produce risultati e forza se si esplicita dentro una cultura politica unitaria e di rispetto e ascolto altrimenti c’è la diaspora.

Il tema anche oggi, come è ovvio, non è negare il diritto al pluralismo o alla libertà di pensiero. Al contrario, se apriamo una fase costituente è proprio per aumentare il contributo di idee. Ma dobbiamo cambiare, ritrovare una missione comune, aprirci e costruire forme di organizzazione diverse per un pluralismo nuovo. Le regole che ci siamo dati non hanno prodotto ricchezza, fermento di idee, apertura e coinvolgimento nel dibattito, ma piuttosto separatezza ed esclusione. Ciò è successo perché le degenerazioni del correntismo cristallizzano le idee dentro gruppi e allontanano le persone. Questo non va bene, perché le filiere dei “simili” creano un’illusione di partecipazione dal basso, ma in realtà tolgono potere agli iscritti ai militanti per consegnarlo ai capi.

Eppure, il terreno di ricerca comune a me sembra evidente: come organizzare l’opposizione nei quartieri, nelle strade, nelle piazze, nel Parlamento. O meglio come, di fronte a un Governo guidato dalla destra populista e a condizioni di vita drammatiche per milioni di italiani, sia necessario mettere in campo tutta la nostra forza e impegnarci per rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione della persona umana, come ci indica la Costituzione, a partire dal principio dell’uguaglianza nel campo dei diritti, del lavoro, dell’accesso ai servizi pubblici. C’è qui uno spazio enorme di azione politica. Non limitarsi alla testimonianza di idee. Solo la coerenza nel perseguire questo obiettivo riaprirà una fase diversa e positiva.

Troppi compromessi
Il limite di questi anni a mio giudizio è evidente. Il Partito Democratico ha scelto di governare facendo compromessi enormi, per troppo tempo senza passare per la vittoria e un chiaro mandato elettorale. Non è un’accusa, ma un dato storico. Sicuramente è servito al Paese, molte cose buone sono state realizzate e forse andava anche rivendicato di più. C’è un ruolo svolto a difesa della democrazia che rimane un patrimonio. Al tempo stesso, non siamo riusciti a impedire un impoverimento di massa di milioni di persone. Il nostro sradicamento sociale nasce da qui: negli ultimi 14 anni abbiamo governato per 10 anni, legittimamente in una Repubblica parlamentare, ma avendo perso le elezioni abbiamo partecipato a 6 governi. Ebbene, in questo stesso lasso di tempo, nel Paese si è prodotto il più grande incremento delle disuguaglianze dal dopoguerra. Ripeto non è stata una storia di errori.

Io manifestai molti dubbi nell’agosto 2019 e, successivamente, segnalai nel 2021 la necessità di affiancare a un fortissimo e autorevole Presidente del Consiglio una maggioranza politica. Una maggioranza che partendo dall’alleanza a sostegno del nostro Governo, Conte2, poteva ulteriormente aprirsi ad altre forze sul modello europeo di Ursula Von der Leyen. Bisognava accompagnare l’azione di Governo per rendere più forte l’indirizzo politico e il Governo stesso. Si è preferita un’altra strada e si è ceduto all’ennesima iniziativa di rimozione di una parte della nostra storia. Una storia di governo, segnata come sempre da luci e ombre, ma come formula politica sicuramente in grado di fermare la vittoria delle destre. Comunque, malgrado la nostra debolezza numerica in Parlamento, sono state fatte, anche grazie a noi tante scelte utili a salvare l’Italia su fronti importantissimi.

Ovviamente, mi assumo tutte le mie responsabilità nelle decisioni che hanno segnato questi passaggi cruciali della legislatura appena conclusa. Fatemi dire, però, che appare ipocrita la fuga di tanti che, in questi mesi, fanno finta di dimenticare che tutto si è deciso insieme all’unanimità, tra applausi e standing ovation, prima all’annuncio dell’accordo politico e programmatico per il Conte 2 e poi sulla nostra partecipazione al Governo Draghi.

Al di là delle dinamiche politiche e parlamentari, tuttavia, quello che ha pesato in negativo è stata un’incapacità di capire i cambiamenti profondi che stavano avvenendo attorno a noi e le ragioni di un malessere montante di milioni di persone: abbiamo sottovalutato l’impatto dei processi della globalizzazione e della rivoluzione digitale nei modelli sociali, nel lavoro e, quindi, sulla vita delle persone. Non ci siamo accorti di quanto fosse necessario orientare lo sviluppo partendo dalla centralità della persona e per la salvaguardia del pianeta e di come, sotto la patina luccicante dello sviluppo tecnologico, si stessero scavando anche nuove colossali sacche di disuguaglianze, con una vertiginosa concentrazione della ricchezza, spesso a scapito della qualità del lavoro.
A dire il vero, io credo che siamo stati vittime di una drammatica subalternità, perché in molti hanno scambiato come “positivo” tutto ciò che coincideva con il “nuovo”. Inoltre, cosa ancora più grave, questo sguardo passivo sul “moderno” non ci ha fatto concentrare sulle immense opportunità e possibilità che un’innovazione ancorata a valori chiari avrebbe potuto produrre su capitoli fondamentali per la democrazia, come l’accesso e la qualità dei servizi pubblici, la tutela del pianeta, la stessa lotta alle disuguaglianze. Paradossalmente il Covid è stato uno spartiacque anche per noi. È stata la pandemia a riproporre l’importanza delle politiche pubbliche, la centralità che deve avere la tutela della salute e la dignità della persona

Nel dibattito congressuale del 2019, che riunì tante e tanti in quel processo che si definì “Piazza grande”, ricordo a volte addirittura il fastidio che in alcuni provocava aver indicato come obiettivo della ricostruzione di una nostra identità la “riduzione della distanza tra chi ha e chi non ha”. È lì, nella parte più dolente dell’Italia, che volevamo ancorare il nostro pensiero, il nostro agire politico e costruire un radicamento nel corpo vivo del Paese.

Non ce l’abbiamo fatta. Per dirla tutta, anche perché quel processo politico era inviso a un pezzo di classe dirigente. Forse spaventato da una parola come “riequilibrio”. Che invece trovo attualissima. Riequilibrio tra nord e sud, tra ZTL e periferie, tra piccoli centri e realtà metropolitane, tra fasce sociali, tra uomini e donne, tra generazioni. Tutte queste fratture sono ancora lì, davanti ai nostri occhi. Ecco, i dati ci dicono che i limiti e le difficoltà del modello di sviluppo italiano, e insieme la nostra perdita di senso, affondano proprio qui le loro radici. Come ha evidenziato anche l’ultimo rapporto Caritas, uscito proprio in questi giorni, in Italia ci sono 5,6 milioni di persone in condizione di povertà assoluta! Quasi una persona su dieci, un valore triplicato rispetto al 2007 e che colpisce soprattutto i minori, uno su sette vive in povertà assoluta. Abbiamo il record storico di lavoratori precari, e il tasso di occupazione femminile, unico Paese Ue insieme alla Grecia, è ancora sotto il 50%. Una situazione drammatica nel Mezzogiorno dove lavora solo una donna su tre, un valore quasi uguale a quello di 15 anni fa. Siamo il Paese dell’Unione Europea con la più alta percentuale di giovani tra i 15 e i 34 anni che non studiano ne lavorano: il 24,4%.

Il grande dilemma
Questa condizione di fragilità e incertezza così diffusa ormai è una minaccia per la stessa democrazia, perché crea paure e spinge milioni di persone verso la disillusione e la rabbia spesso nei confronti dello Stato stesso e dei suoi valori fondativi. C’è un nesso tra crescita delle disuguaglianze, declino della sinistra e rischi per la democrazia.

Paghiamo care le nostre difficoltà e timidezze nell’affermare un altro modello di sviluppo nello scommettere senza reticenze su un’opzione di tutela della terra nelle nostre politiche. Non è avvenuto perché siamo stati bloccati in un dilemma. Se si ferma la crescita, si determina un disastro sociale che fa morire la speranza e la democrazia. Senza però considerare che se va avanti “questo” sviluppo muore il pianeta. Affrontare e sciogliere questo “dilemma” ci avrebbe indicato un orizzonte e un campo d’azione.

L’unica salvezza che abbiamo è imboccare vie nuove per realizzare un nuovo modello di sviluppo in cui sostenibilità ambientale e sociale vadano di pari passo. Indicare questa opzione spetta a noi, anche perché la destra populista si disinteressa dell’ambiente e rimuove il tema delle diseguaglianze. La proposta pericolosa della Flat tax, che penalizza ancora una volta i più fragili e aumenta ancora le diseguaglianze, lo dimostra.

Il congresso e la battaglia
Si decideranno tempi, temi e appuntamenti di un processo che abbiamo voluto chiamare Costituente. Io credo che la nostra unica salvezza è fare in modo che questo periodo di elaborazione sia intrecciato ad una forte battaglia politica e popolare nel Parlamento e nei territori. Solo questo renderà il Pd la forza dell’alternativa. Quindi contenuti chiari e spirito unitario e aperto nella capacità di coinvolgere le persone.

Teniamo per ora, come chiedono in molti sullo sfondo il tema delle alleanze, ma per essere franchi è una rimozione. Con il 19% dei voti, in un Paese che elegge il Parlamento, i Comuni le Regioni con sistemi elettorali di tipo maggioritario continuare a demonizzare questo tema lo trovo un limite. Oltre a contenuti, scelte e politiche chiare, non possiamo alle elezioni non avanzare una credibile proposta di Governo che parli al Paese. Senza una proposta che dia gambe alle nostre idee si afferma un’idea distorta di riformismo, come se fosse semplicemente “fare leggi”, e non piuttosto cambiare la società attraverso riforme che portino a una società più giusta ed equilibrata.

Senza questa proposta si afferma una cultura massimalista che propone il “massimo possibile”, senza poi cambiare nulla. È il massimalismo di chi divide nel nome di Mario Draghi, ma in realtà spiana la strada a Giorgia Meloni.  Anche l’opposizione per essere più efficace nella battaglia parlamentare dovrebbe almeno coordinarsi su alcune grandi questioni da individuare insieme. Non è credibile denunciare ogni ora i “pericoli della destra al Governo” e continuare a tenere congelate le divisioni nelle opposizioni.

La destra populista presenterà il suo volto rassicurante e corporativo, ma io credo alla fine mostrerà i sui limiti. A parte le forme “gentili” e rassicuranti, nelle scelte già compiute, emerge una tendenza all’estremismo. Emergerà grande capacità di rappresentare problemi, ma grande difficoltà a trovare soluzioni a quei problemi e quando le soluzioni le troveranno, tendenzialmente saranno la difesa dei più forti. Le prime avvisaglie si vedono nei silenzi e nelle allusioni su come si affronterà il Covid o ancora di più nella Flat tax.

Organizzare l’opposizione
Ripeto, c’è un nostro cammino possibile, lo indica la democrazia: organizzare l’opposizione, nei quartieri e nel Paese. Molti non ci hanno votato, non per il programma, ma accusandoci di non essere credibili perché troppe volte incoerenti. Il recupero di credibilità ora passa anche per la coerenza dei nostri comportamenti.

Dobbiamo batterci con durezza e con passione per far vivere e affermare l’impianto del nostro programma, le nostre idee e rilanciare politiche popolari e gli impegni che ci siamo presi: sul lavoro di qualità, sui salari, sulla scuola e la sanità pubblica, sul digitale, sull’energia, sulla parità di genere, sul cambiamento climatico. Favorire la crescita delle nostre imprese accompagnandole nella transizione green e digitale e sostenendone gli investimenti in ricerca e innovazione, rendere facile la loro vita e quella di tutti i cittadini, semplificando, combattendo la cattiva burocrazia. E insieme vigilare con intransigenza sui diritti che la destra minaccia di abbattere.

Questi capitoli devono diventare “l’agenda del Pd”, da far vivere nelle strade, nelle piazze, e da promuovere con tutta la nostra forza in Parlamento, perché solo contenuti, uniti a coerenza e visione, creano le condizioni per ricostruire un nostro radicamento sociale. Non possiamo lavorare da soli, ma dobbiamo farlo rendendo protagonisti e “decisore” un popolo diffuso e spesso organizzato nella società responsabile, nei comitati, associazioni, nella cultura, nel terzo settore spesso con tanti amministratori. Questo popolo aveva risposto all’appello di “Piazza Grande”, è stato il protagonista delle vittorie alle amministrative e alle europee, ma poi io stesso non sono riuscito a farlo contare abbastanza nelle dinamiche interne.   Per questo il processo politico, popolare, sociale e culturale, fatto tra e con le persone, in piazze grandi dei nostri Comuni “è”, secondo me, il processo costituente di cui abbiamo bisogno. Ma dobbiamo muoverci. Non possiamo fare errori.

continua su: https://www.fanpage.it/politica/la-battaglia-dellopposizione-il-manifesto-di-nicola-zingaretti-per-ricostruire-il-pd/https://www.fanpage.it/
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« Risposta #3 inserito:: Dicembre 06, 2022, 04:16:10 pm »

Le contrapposizioni novecentesche per il cui superamento il partito è nato: ciò che in parte non è stato ancora accettato dalla sua ala sinistra – Il mancato dialogo tra le due anime del partito e la necessità vitale che esso si riattivi se il partito vuole risorgere

Articolo pubblicato su la Repubblica il 5 dicembre 2022 – In argomento v. anche Un partito e due anime che non si parlano

Quindici anni fa il PD è nato, per iniziativa di Walter Veltroni sostenuta da Romano Prodi, con l’obiettivo di voltare pagina rispetto a cinque contrapposizioni novecentesche:
– quella fra riformisti e rivoluzionari: il PD nasceva invece dall’idea condivisa dagli eredi degli uni e degli altri secondo cui nel nuovo secolo l’iniziativa politica per la costruzione di una società più giusta dovesse collocarsi senza riserve all’interno del modello delle società occidentali liberal-democratiche;
–  quella tra cattolici progressisti e sinistra laica: sul terreno del governo della res publica nessuno ha verità rivelate da far valere, né vi è alcun impedimento a che i patrimoni ideali degli uni e quelli degli altri si fondano in un grande patrimonio comune definibile nei termini di una “cultura moderna dei diritti civili”;
– quella fondata sull’antagonismo irriducibile fra operai e imprenditori: al contrario, gli uni e gli altri condividono un interesse comune alla prosperità dell’impresa, per la quale sono indispensabili tanto il ruolo dell’imprenditore, quanto la partecipazione di tutti i dipendenti alla scommessa comune sull’innovazione e alla divisione equa dei frutti;
– quella fra Stato e mercato: mentre per un verso lo Stato non è in grado di sostituirsi all’imprenditore nella sua funzione economica imprescindibile, per altro verso il libero mercato non  esiste in rerum natura, ma è il frutto di un ordinamento molto sofisticato, che presuppone un insieme di regole incisive e un’amministrazione pubblica efficiente, capace di applicarle con rigore e di intervenire efficacemente a correggere gli effetti delle market failures;
– quella fra liberismo e socialismo: il progetto politico del PD è stato invece fin dall’inizio quello di una società aperta ispirata al principio della contendibilità di tutte le funzioni e i ruoli, che implica al tempo stesso la garanzia delle pari opportunità per tutte le persone (da costruirsi principalmente con la scuola e la formazione) e la vigilanza costante contro ogni rischio del riprodursi di privilegi castali, siano essi ambientati nell’amministrazione pubblica o nella società civile, nella grande impresa, nelle corporazioni di mestiere, nelle istituzioni culturali.

Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema
La composizione delle liste elettorali con cui il PD si presentò alle elezioni politiche del 2008 rappresentava plasticamente il superamento di queste contrapposizioni e la sintesi progressista che il nuovo partito intendeva perseguire. Senonché, come mi sono proposto di mostrare in un saggio pubblicato nell’ottobre scorso, fin dall’inizio della XVI legislatura fu subito chiara nel partito la perdurante esistenza di un’anima politica  che aveva digerito soltanto il superamento delle prime due contrapposizioni, ma non delle altre tre: chiamiamola “l’anima dei nostalgici del P.D.S.”, ovvero del partito che era nato dopo il congresso della Bolognina dalle ceneri del P.C.I. Quel che è peggio, apparve con evidenza la grande difficoltà di un dialogo fra queste due anime del PD: invece di cercare la sintesi, nel corso della XVI legislatura esse si sono guardate in cagnesco, limitandosi ciascuna ad aspettare l’occasione buona per “fare le scarpe” all’altra: con la crisi dell’autunno 2011 e il Governo Monti ha prevalso di fatto l’anima veltroniana, con le primarie del 2012 ha prevalso quella dei nostalgici del P.D.S., rappresentata da Pierluigi Bersani. Nel corso della XVII la contesa tra le due anime si è riprodotta, con l’elezione nel 2013 di Renzi al vertice del partito e la scissione a sinistra di Pierluigi Bersani, Massimo D’Alema e Stefano Fassina, ma al tempo stesso con il permanere all’interno del P.D. di un’ala sinistra, rappresentata ora da Cesare Damiano e Andrea Orlando, che rinnegava pressoché totalmente non soltanto l’operato del Governo Monti in materia di pensioni e lavoro, ma anche l’operato su questo terreno del Governo Renzi, bollato come “di destra”.
Nel corso della XVIII legislatura il confronto interno è stato più confuso e si è risolto in una sorta di lottizzazione delle politiche del partito: sul terreno della politica europea e della politica estera saldo ancoraggio alle scelte europeistica e atlantica; sul terreno della politica economica, sociale e del lavoro, ritorno allo statalismo, alla svalutazione delle politiche attive del lavoro e al prevalere delle politiche passive, alla concentrazione della spesa sociale sull’anticipazione dell’età del pensionamento, cioè al ritorno indietro rispetto alla riforma Fornero, e dunque a un convinto collateralismo con la Cgil.
Ora, all’inizio della XIX legislatura, anche quell’equilibrio precario fondato su di una contraddittoria lottizzazione delle politiche estera ed economica interna si è rotto; l’ala sinistra non solo ha preso il sopravvento nel governo del PD, ma si propone di modificarne la costituzione in modo da emendarla dei contenuti originari, almeno per quei tre quinti che essa non ha mai digerito, col risultato di escludere di fatto chi quei contenuti considera ancora essenziali. Ma anche col risultato di svuotare di ogni significato l’incipiente congresso del partito: che senso ha la scelta come nuovo segretario – poniamo – di un Bonaccini piuttosto che di una Schlein, se la scelta di fondo di rinnegare gran parte dell’ispirazione originaria del partito è stata imposta nel suo nuovo DNA con la scelta compiuta dai “costituenti”?
Ho aderito (pur non avendo potuto partecipare alla sua redazione) al “manifesto laburista” di un gruppo di iscritti al partito che si oppone al ritorno all’assetto del P.D.S. dei primi anni ’90, con l’intento di contribuire a evitare questa grave involuzione. L’ho fatto nonostante qualche perplessità sul titolo che si è voluto dare a questo manifesto: vada per il termine “laburista”, ma solo a patto che con esso non si intenda richiamare l’esperienza di un partito essenzialmente caratterizzato dal legame a doppio filo con un sindacato di lavoratori dipendenti. Il “lavoro” da difendere e promuovere ricomprende ogni attività umana riconducibile alla nozione delineata dagli articoli 4 e 35 della Costituzione, dipendente o autonoma, ivi compresa quella degli imprenditori.
Detto questo, nutro pur sempre la speranza che la parte del PD ancora convinta della bontà della sua ispirazione originaria sappia rialzare la testa e opporsi efficacemente all’involuzione incipiente. Ma una cosa è certa: cioè che il vero atto di rinascita del PD può essere costituito non solo da un reciproco riconoscimento del pieno diritto di cittadinanza di ciascuna delle due parti nella casa comune, ma anche e soprattutto dall’apertura di un dialogo vero tra di esse, che, a ben vedere, ancora non c’è mai stato.
 
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« Risposta #4 inserito:: Dicembre 19, 2022, 07:46:24 pm »

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Perché il 25 settembre andrò a votare
“Non voterò con convinzione, ma almeno di una cosa sono certa: avrò cercato di tenermi stretta la mia libertà e la mia Costituzione. Perché le due cose – libertà e Costituzione – sono indissolubilmente legate”.

Marilù Oliva 15 settembre 2022

“Senza la libertà non muore nessuno, della libertà si può fare a meno. Infatti è la prima cosa alla quale i cittadini impauriti sono disposti a rinunciare. Al punto che spesso reclamano a gran voce di perderla, vogliono che sia loro tolta, non vogliono rivederla nemmeno dipinta, mai più, e acclamano chi viene a strappargliela e poi votano per lui”.
Inizio questo articolo con le parole di Javier Marías, purtroppo scomparso proprio in questi giorni, perché rispecchia la situazione dell’elettorato di oggi. I risultati li aspettiamo a metà tra sbigottimento e indignazione, eppure i sondaggi parlano chiaro e lanciano un sinistro presentimento sull’esito. Una fetta consistente del nostro Paese si è fatta incantare dal populismo cripto-fascio-retorico di Giorgia Meloni, questo spiega la loro posizione nei sondaggi, sondaggi in linea con una nazione dove la Storia del Novecento è la grande dimenticata, trascurata nelle scuole (e parlo anche del Secondo Novecento, non basta arrivare al Dopoguerra, i/le discenti devono sapere cosa è avvenuto proprio quando il Partito fascista avrebbe dovuto sparire dalla faccia della Terra e invece si è ricostituito sotto mentite spoglie. Dovrebbero sapere cos’è la P2, chi c’era dietro, il fenomeno del brigatismo, le lotte femministe e così via).
Perché Meloni è in testa, facendosi tra l’altro illegittimamente interprete dei diritti delle donne? Perché la sinistra non ha presentato una leader, tra le tante donne del partito (alcune molto in gamba)? Sono molte le amarezze che il Pd ha arrecato al suo elettorato negli ultimi anni. Gli ammiccamenti ai poteri forti, l’adeguamento al sistema dei clientelismi, il non aver preso posizioni nette di fronte a questioni importanti, il timore di inimicarsi una Chiesa con cui intrattiene rapporti reverenziali, la mancata coesione, l’incapacità di tenersi stretti gli affezionati, come lo sono stata io negli ultimi 20 anni. È come se il Pd avesse una malattia autoimmune che cerca di distruggerlo. O come se due soggetti esterni fossero entrati in incognito nel direttivo e portassero avanti una competizione, dicendosi l’un l’altro: “Vuoi vedere che rendo il partito discrepante con gli ideali che professa? Vuoi vedere che riesco a renderlo inviso persino ai suoi più accesi sostenitori?”. Ci si stanno mettendo d’impegno, questi infiltrati. E sto parlando del Pd ai vertici, non di quello delle amministrazioni locali, dove i politici – lo vedo qui a Bologna, ad esempio, o ogni volta che viaggio per presentare i miei libri e la politica spesso sostiene iniziative culturali – spesso lavorano con grinta e motivazione.
A tutto ciò va aggiunta una pessima gestione dell’immagine pubblica e un ufficio stampa assai scarso, con slogan propagandistici a dir poco imbarazzanti. Perché questo autolesionismo? Perché?
Io il 25 settembre andrò a votare per diversi motivi. Andrò a votare perché non credo nell’efficacia dell’astensionismo (e perché il diritto di voto secondo me è sacro, quindi voglio esercitarlo, anche se capisco chi, esausto per le delusioni, non si recherà alle urne per protesta). Non credo che l’astensionismo possa costituire un segnale, nel senso che a nessuno interesserà (nemmeno alla sinistra) se non per una questione di mero calcolo di convenienza. Senza contare che statisticamente ha sempre comportato un vantaggio per la destra (nel senso che coloro che non votano per protesta sono di sinistra, questo ci dicono le statistiche).

Andrò a votare per la coalizione di sinistra nella speranza che alla fine ci sia una grande forza che contrasti la destra. Perché, se non mi recassi alle urne, ciò significherebbe permettere alla destra di stravincere e io voglio essere un piccolo tassello di coloro che cercheranno di impedirlo. Qui a Bologna, ad esempio, lo spettro più probabile è che, nel caso in cui prevalga la destra, salirà al Senato Vittorio Sgarbi. La persona giusta per le alleanze di destra, di cui incarna i “valori” di prevaricazione (anche verbale), arroganza e conservatorismo.
Quello che io vorrei da un partito credo che lo chiedano in molti. E vorrei che non si esaurisse nei punti di un programma accattivante, ma venisse messo in pratica.
Qualcuno che abbatta i privilegi e si schieri seriamente a favore dei diritti dei lavoratori, magari risollevando anche il ruolo di sindacati assonnati.
Qualcuno che pensi a una distribuzione più equa delle risorse, con una tassazione che non colpisca così esosamente la fascia basso-media. Qualcuno, quindi che impedisca anche le porcate perpetrate dai grandi evasori a nostro discapito.
Qualcuno attento alle tematiche ecologiche, su grande scala. Qualcuno che davvero abbia capito che questo mondo non ci appartiene e se lo mandiamo a rotoli, precipitiamo giù con esso.
Qualcuno che non sia così screditato agli occhi delle nazioni estere da non esser preso minimamente in considerazione (il caso Regeni docet).
Qualcuno che risollevi il tessuto sociale, impegnandosi a favore di temi quali le differenze, la disoccupazione, le possibilità dei giovani, le minoranze, la cultura a 360 gradi (quindi cinema, musica, editoria eccetera), la sacrosanta istruzione e che abbia il coraggio di introdurre nelle scuole quell’ora di educazione sessuale (quindi prevenzione delle malattie, anatomia, ecctera) cui i ragazzi e le ragazze di oggi suppliscono tramite altri canali, quali YouPorn. La chiedono in molti a gran voce: perché ci ostiniamo a negarla? Forse per l’ennesimo ossequio a una Chiesa ancorata a princìpi obsoleti?
Siamo in molti a insistere su questi punti che, lo so, non mancano in alcuni programmi, ma, come dicevo sopra, occorre anche l’applicazione di questi bei concetti. Chiediamo troppo? Eppure sono passaggi imprescindibili se vogliamo vivere in un Paese civile e sviluppato.
Non voterò con convinzione, lo ammetto, ma almeno di una cosa sono certa: avrò cercato di tenermi stretta la mia libertà – per ricollegarmi alla citazione di Javier Marías – e la mia Costituzione. Perché le due cose – libertà e Costituzione – sono indissolubilmente legate.

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« Risposta #5 inserito:: Luglio 06, 2023, 12:08:53 am »

Gianni Cuperlo.

Oggi alla Camera la discussione generale sul decreto lavoro del governo. Sono intervenuto e mi fa piacere condividere con voi le cose che ho detto.
Buona serata e un abbraccio

*
Grazie presidente.
Su questo decreto abbiamo espresso un giudizio severo che ancora oggi altri colleghi del mio gruppo hanno motivato con argomenti solidi e dettagliati.
D’altra parte siamo l’opposizione e si potrebbe pensare che svolgiamo semplicemente il nostro compito.
E però nel caso di questo decreto c’è qualcosa che va oltre la divisione dei ruoli all’interno di quest’Aula.
Nel caso nostro è l’intreccio tra una valutazione di merito sulle misure che avanzate e il giudizio sulla cultura che le ispira.
Se volete, a partire dal calendario: dal titolo e dalla data che avete scelto.
“Decreto lavoro”: lo avete battezzato così.
E lo avete varato in un giorno altamente simbolico.
Quel Primo Maggio – Festa dei Lavoratori istituita più di 130 anni fa – e che nella storia ha visto l’umanità degli operai, dell’impiego salariato, della precarietà, e di pensionati, e giovani e donne rivendicare il riconoscimento di un valore primario: la loro dignità.
Per voi l’occasione era imperdibile.
La mattina che vedeva le piazze riempirsi e sfilare nella richiesta di tutele per chi non ne possiede, il governo licenziava un decreto che quelle piazze avrebbe dovuto tacitare mostrando il volto più concreto del nuovo potere verso gli ultimi, i penultimi e i terzultimi della fila.
Questo almeno il racconto pensato per convincere milioni di italiani che la musica era cambiata.
Che era finito il tempo di un’assistenza costosa per migliaia di sfaccendati abbandonati sul divano e che si tornava al primato dell’impegno, della fatica, del merito.
Con lo stesso spirito per tutta la campagna elettorale avevate promesso di esibire lo scalpo del reddito di cittadinanza.
E alla fine, un po’ come in quei b-movie ambientati nel vecchio west – quelli meno epici e più pistoleri – alla fine lo scalpo lo avete esibito.
Col risultato di togliere l’unico sostegno universalistico a una serie di categorie che, a vostro avviso, non lo meritano.
E lasciandolo come una carità a quanti non potevate negarlo.
Donne e uomini ultra sessantenni, con un minore o un disabile in carico.
E questo nonostante i dati dell'ANPAL dicano che solo il 3 per cento dei percettori di quel sostegno è realmente occupabile.
Ma questo, vedete, è il primo segnale di quella coerenza tra il merito che avete scelto e la cultura che lo legittima.
Non solo perché sopprimete la misura universalistica che per tanti è stata condizione di sopravvivenza, prevista in tutta Europa e introdotta qui con un grave ritardo.
Da principio col nostro reddito di inclusione.
Poi con quel reddito di cittadinanza divenuto ai vostri occhi un drappo rosso piovuto nell’arena.
Con la vostra norma il 50 per cento delle persone che quel reddito hanno sinora percepito lo perderanno.
Ma vi siete almeno chiesti, in un sussulto di compassione, cosa accadrà in quelle case?
In quelle famiglie?
Lasciate stare noi, l’opposizione.
Ascoltate la Caritas che nelle audizioni al Senato vi ha spiegato perché l’occupabilità di una persona non dipende solo dall’età.
Ma vi incidono molti altri elementi: la sua formazione, il contesto sociale dove nasce e dove vive, come qui ha ricordato la collega Guerra.
Vedete, basterebbe questo a rendere insopportabile l’abuso di potere che vi spinge a precipitare nell’angoscia centinaia di migliaia di famiglie messe nella condizione di non quadrare più l’affitto con le bollette e il carrello della spesa da riempire il sabato.
Oltre a questo, però ciò che vi distingue – forse inconsapevolmente, ma ne dubito – è la vostra concezione della povertà.
Nel senso che quella metafora sgraziata del divano, del rubare i soldi allo Stato invece che impegnarsi a cercare un lavoro, rivela fino in fondo una concezione della povertà come colpa da espiare.
E non un’ingiustizia da combattere.
Eppure, non vi siete accontentati neppure di questo.
Avete voluto introdurre un’aggravante.
Vi ricordate quando durante l’ultima sessione di bilancio avete impedito l’adozione di un semplice aggettivo?
Si dice che nella lingua italiana gli aggettivi abbiano una funzione descrittiva, ma non sempre è così.
Nel caso specifico, l’aggettivo era, “congrua”.
Si riferiva al fatto che l’offerta di un impiego a un percettore del reddito di cittadinanza doveva risultare compatibile con le sue condizioni di vita in termini di retribuzione, ruolo.
E luogo dell’impiego che gli veniva proposto.
Per capirci, se l’offerta del lavoro contempla un reddito di 900 o 1000 euro mensili, ma prevede il trasferimento dalla casa di residenza a decine di chilometri di distanza, è evidente che quell’offerta congrua non è e rischia solamente di peggiorare l’esistenza di quella famiglia.
Ora, l’idea che la povertà si debba considerare una colpa non è – questo desidero che lo sappiate, ma immagino lo sappiate già – un vostro copyright.
Insomma, una vostra esclusiva.
Quell’impostazione ha una tradizione consolidata nel pensiero più conservatore e reazionario.
Esiste una legge inglese di moltissimi anni fa, forse un secolo e mezzo, più o meno.
Mi pare si chiamasse “New poor law”.
Prevedeva che qualunque persona senza un’occupazione e un tetto sulla testa fosse obbligata ad accettare un impiego a qualsivoglia condizione e con qualsiasi salario, anche il più infimo nello sfruttamento del suo corpo e delle sue braccia.
Se rifiutavano la pena era il ricovero coatto all’ospizio dei poveri.
Bene, di quella antica legge, anche volendolo, non trovate traccia nei documenti dei partiti di maggioranza o di opposizione di quel paese.
Però, sempre volendolo e con poco sforzo, potete trovarla descritta nelle prime pagine di Oliver Twist.
Charles Dickens.
1837.
Come vedete, nulla di nuovo sotto il sole.
Salvo che noi pensavamo, e speravamo, che in un paese quale il nostro i riferimenti al valore del lavoro, alla dignità del lavoro, potessero trovare uno sviluppo diverso.
Una diversa evoluzione.
Fosse solo per quella dose di empatia, di vicinanza umana, che dovrebbe spingere le élite al potere a coltivare una tensione e cura costanti verso quelle che tempo addietro si sono battezzate “vite di scarto”.
Ma voi avevate bisogno di risorse, come tutti i governi del resto.
La differenza, però, la fanno le scelte che ogni singolo governo compie su dove andare a cercarle quelle risorse.
Per dire, avete presente il richiamo sul fatto che non vi sarebbe più alcuna distinzione tra destra e sinistra e che a contare sarebbe solamente la concretezza delle soluzioni?
Per un istante prendiamolo per buono, anche se personalmente la considero un’assurdità.
Ma ragioniamo pure sulle soluzioni.
Un governo può scegliere di andare a cercare le risorse che servono a fare del bene agli ultimi e penultimi recuperando una quota dei cento e passa miliardi di evasione fiscale di questo paese.
Cosa ci sarebbe di male?
Al fondo, chi evade il fisco entra di diritto dentro lo schema descritto dal professor Cipolla nel suo teorema sulle regole della stupidità umana.
Secondo la teoria nel quadrante dell’egoismo si colloca chi compiendo un atto dannoso per la comunità sceglie di favorire unicamente sé stesso.
Allo stesso modo, sempre in quel teorema, il quadrante della massima virtù coincide, all’opposto, con l’intelligenza di compiere azioni che beneficiano chi le fa e contestualmente tutti gli altri.
Bene, pagare le tasse rientra a pieno titolo nel quadrante della virtù.
Vuol dire garantire a me stesso che in caso di bisogno sarò assistito da un ospedale pubblico con professionalità (ammesso che non costringiate altre migliaia di medici e infermieri a fuggire per i tagli insostenibili del settore).
Mentre non pagare le tasse equivale a un danno della comunità, e dunque dello Stato e di chi lo gestisce, che si trova a disporre di risorse inferiori a quelle che sarebbero necessarie.
Ora come sapete il quadrante del teorema dove è più sgradevole ritrovarsi è quello che contempla la scelta di agire in danno di sé stessi e allo stesso tempo procurando danno agli altri.
Secondo il teorema in quel caso si entra nel contesto più delicato: quello della stupidità umana.
Ora, senza volere esprimere giudizi, tantomeno offensivi, essendo voi la maggioranza che oggi guida il paese, e quindi il governo, chiedo appunto a voi, in base a questa logica, di giudicare dove andrebbe collocata l’affermazione secondo cui pagare le tasse corrisponderebbe a un “pizzo di Stato”!
Dunque, voi avevate bisogno di risorse e non avete deciso di andare a prenderle nel mare profondo dell’evasione.
No.
Voi le avete prese dalla misura del reddito di cittadinanza per consentirvi di dire in quella giornata del Primo Maggio che avreste tagliato il famoso cuneo fiscale.
Salvo il dettaglio che non l’avete fatto in forma strutturale, cioè in modo permanente.
Ma vi siete limitati a prevederlo a una scadenza discretamente ravvicinata: la fine di quest’anno.
Che poi è come dire a un ragazzo appena diplomato con ottimi voti che finalmente avrà il motorino agognato.
E glielo si consegna pure, corredato di libretto, chiavi in mano e assicurazione.
Ma quando è già saliti in sella gli si comunica che il mezzo è a scadenza.
Come lo yogurt.
Sarà felice il ragazzo?
Lo lasciamo valutare a voi.
Noi abbiamo avanzato proposte, emendamenti, sia al Senato che qui, per rendere strutturale quel taglio, ma nonostante avessimo indicato le coperture possibili non avete ritenuto di ascoltare almeno una volta la voce dell’opposizione.
Vi abbiamo anche chiesto, nel contesto di questa discussione oltre che in passato, di cambiare rotta sul salario minimo.
Altra misura prevista ovunque salvo che qui e in una manciata di paesi, per altro non dei migliori.
Ma anche su questo la vostra saracinesca è rimasta abbassata.
Perché per la vostra visione del paese la competitività delle imprese non passa da un incremento della produttività.
Da investimenti mirati su ricerca e sviluppo e per una vera innovazione nella qualità del lavoro e dei prodotti.
La vostra strada è sempre la stessa, quella che ha spinto al declino di tanti nostri comparti produttivi.
Una compressione di salari già colpiti dall’inflazione: quella sì, la tassa più ingiusta.
E tutto questo in un paese – il nostro – dove un terzo dei dipendenti privati non raggiunge i 12 mila euro di salario annuale.
Dove la disoccupazione tra i giovani sfiora un quarto del totale.
Dove il 12 per cento dei lavoratori vive in condizione di povertà e 3 milioni di lavoratori risultano essere irregolari.
Ecco perché servirebbe investire sulla lotta alla precarietà.
Per contrastare ingiustizie insopportabili e favorire la competitività della nostra economia.
Basterebbero tre mosse simultanee, e rubo la sintesi a Fabrizio Barca.
Un’efficacia erga omnes dei contratti firmati dalle organizzazioni sindacali e datoriali “rappresentative”.
Una soglia minima legale per il salario di ogni lavoratrice e lavoratore.
Il rafforzamento e l’unificazione delle capacità ispettive.
Ma è esattamente l’opposto di quello che fate voi.
E allora vedete, anche nel caso del salario minimo, più delle parole a contare sono le storie, le vite.
Oggi nella sola logistica migliaia di lavoratori inquadrati formalmente come addetti alla vigilanza sono pagati 5 euro e 37 centesimi l’ora per un totale di 173 ore mensili, con una retribuzione netta di 650 euro.
Significa rimanere molto al di sotto della soglia di povertà.
Parliamo di retribuzioni non indicizzate all’inflazione che negli ultimi due anni si è mangiata quasi il 15 per cento del potere d’acquisto di queste fasce di occupati.
In questi segmenti produttivi anche i sindacati faticano a entrare mentre molti di questi lavoratori vengono inquadrati come autonomi anziché dipendenti.
Parliamo di una giungla dei contratti e delle retribuzioni dove sarebbe necessario intervenire con una legge sulla rappresentanza in modo da disboscare la selva di accordi fittizi o pirata.
Ma dove soprattutto un salario minimo – insisto, applicato in gran parte dei paesi OCSE – farebbe emergere dal sottosuolo la dignità di donne e uomini, spesso giovani e con bassa qualifica, che non meritano il destino al quale la politica in questi anni li ha relegati.
A conferma di questo, dal Regno Unito alla Germania, in paesi che da poco tempo hanno introdotto una misura simile, si sono ridotte le disuguaglianze di salario senza che ciò abbia penalizzato i livelli occupazionali.
Come vedete, colleghe e colleghi, sul merito delle misure che intendete approvare le nostre obiezioni e contro proposte hanno provato a correggere un provvedimento scritto male e pensato peggio.
Per molti versi un provvedimento offensivo verso qualche milione di italiani, lavoratori e disoccupati, che non avrebbero voluto ricevere benevolenza o carità.
Ma solo certezza del diritto in un paese che troppo spesso quella certezza calpesta.
Il dramma di salari bloccati da trent’anni, i contratti scaduti e non rinnovati per milioni di lavoratrici e lavoratori, sono tutti elementi che condannano all’irrilevanza quel capolavoro di significato e linguaggio scolpito all’articolo 36 della nostra Costituzione.
“Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Libera e dignitosa, appunto.
Perché libertà e dignità sono sempre stati caposaldi di una concezione matura del lavoro e del valore che aveva, e dovrebbe tornare ad avere, nella vita delle persone.
Sapete perché in apertura dei vecchi copioni teatrali, di commedie o tragedie passate alla storia e che ancora si rappresentano sui palcoscenici di mezzo mondo, i personaggi vengono descritti con nome, cognome, il grado di parentela, e quasi sempre con il mestiere, la professione che esercitano?
Perché indicare quella qualifica era una prima nota di regia.
Era il modo di dettagliare natura e identità del personaggio.
Persino la sua psicologia, nella consapevolezza che un ciabattino non osservasse il mondo con gli stessi occhi di un aristocratico.
Ma è tutta la nostra cultura, la letteratura, intrisa di questo significato.
Quando Pinocchio viene turlupinato dal gatto e la volpe che lo convincono a sotterrare gli zecchini nel campo dei miracoli, l’argomento che i lestofanti utilizzano è che la mattina dopo lui, Pinocchio, avrebbe trovato appesi all’albero tanti zecchini d’oro – testuale nella lingua di Collodi – “quanti chicchi di grano può avere una bella spiga nel mese di giugno”.
Che non è una formula buttata lì tanto per dire.
Voleva esprimere il contrasto tra l’arricchimento facile paventato dai due imbroglioni (potremmo paragonarlo alla speculazione finanziaria) e la fatica del lavoro, della cura della terra, affinché produca dai semi il frutto, il grano, e la sorgente del cibo.
Il cibo, che poi è la prima fonte della dignità.
Capite perché prendendovela con quelli che col reddito di cittadinanza sono sopravvissuti, reintroducendo i voucher e alimentando ancora di più il lavoro precario, sventolando il taglio del cuneo al caldo dell’estate ignorando cosa sarà dell’inverno, voi pensate di guadagnare qualche consenso. Ma nemmeno su questo cullerei grandi certezze.
So, invece, che mancate all’appuntamento più prezioso: quello con la storia migliore del paese.
Con un’etica del lavoro che in tanti abbiamo conosciuto da ragazzi dentro le nostre famiglie, per la testimonianza di genitori, nonni, parenti magari lontani.
E che alcuni tra noi hanno conosciuto dentro circoli e sezioni dei partiti dove abbiamo militato o militiamo e dove poteva accadere che l’operaio discutesse da pari a pari col primario o il preside di facoltà perché accomunati dall’idea che il lavoro di ciascuno fosse sempre meritevole della massima considerazione e dignità.
Noi siamo l’opposizione.
Noi facciamo l’opposizione.
Anche se proviamo a ragionare in quest’Aula per migliorare provvedimenti che trovano sempre un muro da parte vostra.
Che dirvi?
Continueremo a farlo.
Ma per la semplice ragione che crediamo sia giusto per la principale forza della sinistra farsi carico di quante e quanti qui dentro non hanno voce.
Presidente, care colleghe e colleghi,
dare voce a chi non ne ha e rivendica i propri diritti lo si può fare in modi diversi.
La sola cosa che di fatto è impedita è farlo mancando a loro – alle donne e agli uomini che lavorano – il rispetto di sé.
Questo non sempre la politica lo ha compreso.
Invece dopo la tragedia della guerra lo compresero benissimo Paolo Grassi e Giorgio Strehler, e il Piccolo Teatro di Milano, che grazie al Comune e a un sindaco illuminato, nella sala storica di Via Rovello avevano fondato il primo teatro stabile del paese.
E sapete cosa fecero?
Decisero che il lunedì – ogni lunedì – alle 19.30 ci fosse una replica straordinaria dello spettacolo in cartellone.
Poteva essere Goldoni, Shakespeare, Cechov o Moliere.
Quella replica era dedicata agli operai.
Alle lavoratrici e ai lavoratori che finivano il turno alle 18.30.
La maggior parte di quelli non abitava a Milano, nelle case del centro.
Venivano da Sesto San Giovanni e altri comuni della provincia.
E allora cosa s’inventarono?
Due cose.
Che assieme al biglietto della replica consegnavano a tutti un sacchetto con dentro un panino e una bibita.
E che alla fine dello spettacolo, in assenza di mezzi pubblici, fuori dal teatro avrebbero trovato degli autobus per riportare a casa quegli spettatori nuovi – i più preziosi – che la mattina dopo avevano da stare in fabbrica o in ufficio.
Vedete cosa vuol dire pensare al lavoro come al complemento di una vita piena?
Vissuta, nel calore della dignità e della cultura.
Tutto qui.
Ma sapete qual è la realtà?
La più sincera per noi.
La più triste per voi?
Che sul divano non ci sono i fannulloni.
Sul divano ci siete voi!
Anche per questo – per non lasciarvi comodi dove state – voteremo contro al vostro decreto.

Da FB del 27 giugno 2023
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