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Massoneria, tangentopoli e il modello ateniese: l’equivoco della democrazia
scritto da Francesco Mercadante il 20 Settembre 2022
RES PUBLICA
Un antefatto, come ce ne sono tantiIl 17 marzo 1981, durante una perquisizione nella villa di Licio Gelli per il rapimento di Michele Sindona, rapimento astutamente simulato a coprire la latitanza del banchiere negli Stati Uniti, gl’investigatori entrarono in possesso di una lista recante 953 nomi: erano quelli dei membri della Loggia Propaganda 2, meglio nota come P2. Alcuni tra questi erano assai popolari. Lo sono ancora di più a quarant’anni di distanza: Silvio Berlusconi, Maurizio Costanzo, Alighiero Noschese, Roberto Calvi, Vittorio Emanuele di Savoia, Claudio Villa, Leonardo Di Donna, Duilio Poggiolini, Fabrizio Cicchitto, Romolo Dalla Chiesa e tanti altri che qui è impossibile, oltre che inutile, riportare. Insomma, tutte le categorie socioeconomiche del paese erano ben rappresentate: membri delle forze dell’ordine, magistrati, dirigenti dei servizi segreti, banchieri, industriali, docenti universitari, funzionari pubblici, giornalisti o, in sintesi, personaggi in grado di modificare l’equilibrio del sistema repubblicano. La loro colpa, per così dire, non era affatto l’affiliazione alla loggia massonica, che non costituiva né costituisce reato, ma quella di essere legati, direttamente o indirettamente, a una serie di scandali giudiziari. Lo stesso Sindona, piduista d’eccellenza, non a caso, fu avvelenato in carcere, mentre Calvi fu trovato impiccato sotto un ponte del Tamigi. Licio Gelli e i ‘suoi fratelli’ furono imputati di parecchi reati o, per lo meno, indicati come presunti responsabili, dal tentativo di golpe del Generale De Lorenzo allo scandalo dei petroli, per il quale le compagnie petrolifere garantivano ai politici il ‘5% degli introiti’ in cambio dell’approvazione di alcune leggi, dal crac del Banco Ambrosiano, che rivelò il coinvolgimento di parte della finanza cattolica italiana in un amplissimo circuito di riciclaggio, all’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, che si riteneva fosse sul punto di scoprire verità indicibili.
Non mancò, naturalmente, il cosiddetto filo rosso di collegamento con la clamorosa implosione dell’intera struttura politica italiana degli anni Novanta causata da tangentopoli.
FantasmagorieAlla luce dell’antefatto, è doveroso dire che è fin troppo semplice attaccare il concetto stesso di democrazia passando in rassegna una serie di eventi e personaggi piuttosto ambigui e finendo con l’annunciare l’avvento dell’antidemocrazia e la privazione dei diritti fondamentali. Se ti è concesso di parlare liberamente ed esibire certe ‘competenze’ (?) dialettico-politiche e, per di più, si è pagati adeguatamente per farlo, è evidente che la democrazia non corre alcun rischio. Potremmo chiederci per iperbole e paradosso: se alcuni denunciano l’antidemocratica democrazia di talune campagne elettorali, che cosa dovrebbe dire sulla democrazia un operaio che si ‘spacca la schiena’ dalla mattina alla sera per guadagnare un modesto salario col quale è costretto a mantenere una famiglia (affitto, spesa alimentare, almeno un’autovettura, scuola per i figli et cetera)?
Sulla base dello sproloquio, molti, non a caso, si sono lasciati ispirare dal “vaffa”, non altrimenti che se fosse un nuovo postulato della ragion pratica. Forse che la democrazia rappresentativa è un sistema elitario, sofisticato, per pochi, fondato sull’oscuro disegno d’un’aristocrazia intellettuale che abbia tempo e denaro per studiare e capire?
“Un popolo che governasse sempre rettamente non avrebbe bisogno di essere governato. Prendendo il termine nel suo significato rigoroso, non è mai esistita e non esisterà mai una Democrazia. Va contro l’ordine naturale che la maggioranza governi e la minoranza sia governata. È inimmaginabile che il popolo rimanga continuamente riunito per badare agli affari pubblici; e si comprende facilmente che non potrebbero essere costituite a tal fine delle commissioni senza che muti la forma dell’amministrazione” (ROUSSEAU, J-J, 1762, Du contrat social, ou principes du droit politique, a cura di R. Gatti, 2005, Il contratto sociale, BUR, Milano, p. 120)
La nostra democrazia – bisogna dirlo – vive di marcato istrionismo, è fantasmagorica e vede solamente fantasmi, trova continuità nella compensazione, che è falsa e dannosa induzione. Essa riesce ad essere conservatrice fino all’obsolescenza perché mantiene la distanza da tutto e da tutti; è irreale; ha bisogno di mostri: non per combatterli, ma per sentirsi viva. In questo modo, si fa parte del popolo, se e solo se si denunciano nemici e complotti e si adorano gli idoli. Si condannano Andreotti e Craxi come i mali della prima Repubblica, mitizzando e idolatrando chicchessia, ma si ignora che Aldo Moro, negli anni Cinquanta, percepiva dai Servizi Segreti un compenso mensile pari a quattro-cinquemila euro attuali per motivi che sembrerebbero non essere mai stati chiariti (Cfr. GIANNULI, A., 2009, Come funzionano i servizi segreti, Ponte alle grazie, Milano, p. 22). È vero, non si deve mai toccare un idolo, contravvenendo, in specie, alle regole della comunicazione di massa. E qui non intendiamo di certo gettare ombre sulla figura di Aldo Moro, che tanti meriti ha conquistato pagando con la propria vita l’impegno politico, ma la faciloneria con cui si giudicano gli eventi è allarmante e preoccupante. Il dissenso non è affatto centrato su Tizio o Caio; si estende, al contrario, alla modalità e ai contenuti coi quali si vuole e si può facilmente incantare e sedurre una platea.
Craxiani per fede parlamentareE venne il giorno del pubblico ministero Antonio Di Pietro o, diversamente, dell’ingegner Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio arrestato in flagranza di reato mentre incassava una tangente di 7 milioni di lire, la metà della somma pattuita per l’ottenimento di un appalto da 140 milioni. Craxi, naturalmente, si affrettò a far sapere all’opinione pubblica che il Partito Socialista era estraneo ai fatti e a scaricare Chiesa, compagno di partito, come un truffatore indipendente. Presto, tuttavia, si scoperse che il caso del Pio Albergo Trivulzio era solo la cosiddetta punta dell’iceberg sotto il quale si celava un imponente sistema di corruzione e di finanziamenti occulti ai partiti.
Alcuni membri del PSI si tolsero la vita per lo sdegno di dover affrontare l’opinione pubblica, la quale manifestò concretamente la propria disapprovazione facendo perdere a DC e PSI, i principali partiti coinvolti, il consenso elettorale. Di qui, non a caso, la fine della prima Repubblica, ovverosia la scomparsa di quei partiti che avevano costituito fino ad allora l’identità politico-rappresentativa nazionale. La democrazia aveva appena annientato sé stessa. All’annientamento, in realtà, si giunse non solo e non già per il crollo politico-identitario appena descritto, bensì per l’ambiguità che il potere legislativo-parlamentare talora rivela. L’anno successivo, infatti, il Governo, con un decreto-legge, il decreto Conso, dal nome del Ministro della Giustizia dell’epoca, depenalizzava proprio il finanziamento illecito ai partiti, reato su cui aveva ruotato parte dell’inchiesta di Mani Pulite.
Così, ancor una volta, gl’italiani ‘dovettero’ indignarsi, contestare qualcuno chiedendone la testa, per così dire, pur nell’impotenza del proprio ruolo e nell’esiguità delle proprie risorse. Soprattutto: furono costretti a richiamare alla memoria la purezza d’un qualche tempo antico, un tempo, però, in cui la democrazia non esisteva. L’indignazione, dunque, veniva schiacciata dalla contraddizione o, probabilmente, dall’equivoco, dal luogo comune, specie se consideriamo che già lo stesso Dante non risparmiava alla propria Firenze pesanti accuse di malcostume.
“Fiorenza dentro da la cerchia antica, / ond’ella toglie ancora e terza e nona, / si stava in pace, sobria e pudica. / Non avea catenella, non corona, / non gonne contigiate, non cintura / che fosse a veder più che la persona. / Non faceva, nascendo, ancor paura / la figlia al padre, ché ‘l tempo e la dote. /” (PARADISO, XV, 97-104).
Democraticamente messo a morteNel dibattito politico, di tanto in tanto, all’improvviso, pur senza particolare pertinenza, spunta l’aggettivo “draconiano”: il retore di turno se ne serve, di solito, per indicare un processo politico antidemocratico o, quantomeno, irregolare. In realtà, Dracone, il leggendario legislatore ateniese del VII secolo a.C. – di lui si sa molto poco – è un personaggio che rappresenta la più antica testimonianza di democratizzazione che la Grecia classica abbia vissuto, giacché, in quel periodo, per la prima volta, in seguito alla crisi dello stato monarchico-aristocratico di tradizione micenea, si ebbe la codificazione del diritto. Tuttavia, alcuni reati, quand’anche non fossero gravissimi, erano puniti con la pena di morte; e inoltre, chi non pagava i propri debiti diventava schiavo del creditore. Da queste manifestazioni ‘democratiche’ si formò, nel tempo, l’aggettivo “draconiano”, che, di conseguenza, oggi, dovrebbe essere usato con più consapevolezza.
Fu necessario attendere il 594 a.C. perché la schiavitù per debiti venisse abolita. In quell’anno, infatti, Solone, eletto arconte, divenne protagonista della seisàchtheia (scotimento dei pesi), provvedimento grazie al quale la persona non poteva più costituire oggetto d’ipoteca. L’impatto di questa riforma sarebbe tale, almeno in apparenza, da indurci a credere a una prima concreta trasformazione democratica del corpo politico dirigente. Ma, nella sostanza, non fu così: potevano diventare arconti solamente gli appartenenti alle prime due classi sociali, pentacosiomedimni e triacosiomedimni; ceto medio e nullatenenti, vale a dire zeugiti e teti, erano privi di qualsiasi diritto. Nel 508 a.C., cioè quando Clistene ebbe istituito appieno la democrazia, la situazione non cambiò molto: donne, stranieri, schiavi e poveri non avevano alcun accesso all’attività sociopolitica.
Circa cinquant’anni dopo, alla guida di Atene giunse una delle figure più note alla memoria popolare, quella di Pericle, indubbiamente meritevole di aver conferito alla propria polis il primato di capitale della cultura e, nello stesso tempo, di avere ammesso all’arcontato pure la terza classe, ma mai talmente audace da contrastare l’aggressività sulla quale si reggeva il sistema democratico.
Di fatto, le magistrature più importanti spettavano alle famiglie benestanti e ciò determinava vere e proprie faide familiari, che si svolgevano all’insegna del cinismo e grazie allo strumento dell’ostracismo. Nato, forse, sotto Clistene, affinché il popolo segnalasse politici potenzialmente pericolosi per la polis, ovverosia perché ci si difendesse dalla tirannide, divenne un comodissimo mezzo per eliminare ‘democraticamente’ dalla scena politica gli avversari: così, furono estromessi dalla politica personaggi come Milziade (489, incriminato da Santippo, padre di Pericle), Santippo (485), Aristide (482), Temistocle (470), Cimone (461) e tanti altri. Insomma, l’idea di potersi sbarazzare fisicamente dell’avversario politico era una costante, nella democraticissima Atene.
Il celeberrimo Pericle, quello tucidideo dell’epitafio, sebbene i più ignorino il riscontro letterario in questione, ci è giunto come raffinato ed eccellente mentitore: “Si è oggetto di considerazione in base al merito, né la povertà o l’essere uno sconosciuto costituiscono un impedimento se uno ha da dare un apporto positivo alla città” (Tuc., II, 37). In realtà, solamente coloro che potevano permetterselo parlavano nell’assemblea. Gli altri, i cittadini comuni, non parlavano, ma, al più, urlavano, interrompevano i relatori e lanciavano insulti, come ci è testimoniato negli Acarnesi di Aristofane, dove il piccolo proprietario Diceopoli attende che l’assemblea si popoli per chiedere la pace a modo proprio: appunto, “pronto a urlare, a interrompere e insultare gli oratori se qualcuno parla di altro che non sia la pace” (Acarnesi, 37-39). L’ammirazione di Tucidide per Pericle è estranea, invece, a Platone, che, nel Gorgia (515e), al contrario dello storico, fa dire a Socrate che i maggiori corruttori di Atene erano stati Milziade, Temistocle, Pericle e Cimone, nemici tra di loro, ma accomunati dalla stessa capacità di raccontare al popolo ciò che esso voleva sentirsi dire e di abbindolarlo con la loro palese demagogia.
L’egualitarismo del demos non era altro che un privilegio.In questo contesto, non avendo il dovere di redigere un documento storico particolareggiato e desiderando, nello stesso tempo, offrire solo uno spunto in materia di luoghi comuni ed equivoci, ci concediamo qualche salto e qualche naturale, oltre che inevitabile, riduzione. Dal nostro punto di vista, infatti, il culmine del malinteso e delle contraddizioni cui l’opinione comune va incontro in fatto di democrazia ateniese si raggiunge con l’età dell’oratoria e, in particolare, con l’illustre Demostene e col trascurato Eschine, entrambi protagonisti d’una condotta che oggi potrebbe essere considerata corruzione elettorale. Grazie a Plutarco (Vita di Demostene, 20, 4-5), sappiamo che i satrapi della Ionia versavano a Demostene grosse somme di denaro affinché egli sostenesse la necessità, per i Greci, di opporsi in ogni modo a Filippo; Alessandro, presso gli archivi persiani di Sardi, avrebbe anche trovato le lettere di Demostene in risposta a quelle dei Persiani, nonché i resoconti dei satrapi relativi alle somme versate a costui. Eschine, per converso, come veniva denunciato dallo stesso Demostene, era prezzolato dai Macedoni per finalità opposte.
Che dire, da ultimo, della condanna di Socrate? Il filosofo venne messo a morte da una democrazia appena restaurata, in seguito alla costosissima Guerra del Peloponneso e alla caduta dell’oligarchia dei Trenta. Meleto e Anito erano la voce stessa della democrazia. E inoltre, all’epoca in cui ebbe inizio il processo (300 a. C.), non esisteva un canone di ortodossia in base al quale si potesse formulare un procedimento per empietà. Socrate fu ucciso, senza un vero e proprio capo d’imputazione.
Se vuoi fare un viaggio etimologico nel lessico economico, leggi “Le parole dell’economia”
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