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Autore Discussione: IL DISAGIATO E L’ANTROPOCENE  (Letto 1337 volte)
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« inserito:: Agosto 29, 2022, 10:12:12 pm »

Gabriele Costantino
 
IL DISAGIATO E L’ANTROPOCENE

Basta fare un giro sulle timeline dei soliti noti per trovare al primo colpo (one shot, one strike, as usual) il Disagiato che scrive: ecco, visto? A Ferragosto c’è stato il nubifragio e questi continuano a parlare di crisi climatica. Gretini!!!
Il Disagiato (con la D maiuscola) ovviamente ricapitola una figura platonica, l’essenza del disagio, la Disagianità, insomma. E tu, disagiato (con la d minuscola) che mi leggi avidamente di nascosto, non pensare che ce l’abbia con te, non ti si fila nessuno neppure per prenderti in giro.
Detto questo, cosa occorrerebbe dire in più? Nulla. Chi usa questi argomenti non fa altro che manifestare la propria mancanza di minime basi intellettive, proprio a livello di QI. Quindi, inutile anche provare a controbattere, se il disagiato (minuscolo) fosse un idraulico, sarebbe quello che ti monta i rubinetti al contrario, fosse un muratore, sarebbe quello che ti fa la pendenza del piatto doccia in salita, fosse un medico, sarebbe quello che dice che il covid è clinicamente morto, fosse un chimico, sarebbe il chimico scettico. Insomma, roba da non perderci neppure un secondo di tempo.
E invece qualcosa vale la pena dire, non al Disagiato che tanto non capisce, ma a se stessi. Il problema della crisi climatica, dei cambiamenti, della loro relazione con l’attività umana non è affatto semplice. Sull’argomento, personalmente ho un’opinione laica, di quel laicismo derivante dalla propria ignoranza e non so se, e in quale misura, le emissioni provocate dall’attività umana abbiano un effetto macroscopicamente determinabile sul clima. La letteratura scientifica dice di si, seppur (mi permetto di dire, forse sbagliando) con un approccio riduzionista, ma qualcuno dice anche di ‘ni’. Mi pare che valutazioni oggettive siano particolarmente complesse, mancando un sistema di controllo e tentando di modellare fenomeni che si manifestano su scala di tempi millenarie con osservazioni di pochi decenni. La tentazione della narrazione aneddotica è forte, e quanto mai inopportuna e confondente.
Dunque, ha ragione chi mi dà, indirettamente, del ‘gretino’? Naturalmente no. Chi usa questo termine manifesta se stesso come il prototipo del disagiato rappresentato da ‘Don’t look up’. Non ha ragione perché se l’impatto a medio-breve termine sul clima è (forse) discutibile, il fatto che l’attività umana stia cambiando in maniera ragionevolmente irreversibile (nel senso che se di ere glaciali o di ere calde si è sempre avuta alternanza, di questa era, dell’antropocene, non ci sarà alternanza) la fisionomia di questo pianeta. E non sappiamo se e per quanto tempo il pianeta sarà in grado di tollerare la nostra attività. Antropocene, l’epoca che stiamo vivendo e che segue il Olocene, un periodo di circa 11.000 anni caratterizzato dalla ‘stabilità’ e che ha consentito lo sviluppo di homo sapiens e delle sue attività, appare essere un epoca instabile.
La temperatura sta aumentando.
Negli ultimi 100 anni, la distribuzione relative delle specie terrestri si è alterata in maniera impressionante. Homo sapiens è circa triplicato (passato da una stima di 3 miliardi di esemplari ad inizio 1900 ai circa 8.5 di adesso), mentre gran parte dei grandi mammiferi non strumentali e’ scomparso. I grandi felini, i grandi primati antropomorfi, i grandi cetacei sopravvivono solo perche’ alcuni homo sapiens (gretini?) hanno deciso di farli sopravvivere.
L’attività di homo sapiens è un’attività energivora, e la produzione di lavoro da energia obbedisce alla termodinamica, ed è un processo intrinsecamente inefficiente. La produzione di lavoro dissipa energia in calore, e la generazione di calore, in un pianeta (sistema) basato sul carbonio, si accompagna ad emissione di anidride carbonica. Ogni qual volta noi produciamo un’auto, accendiamo la luce, usiamo il condizionatore, generiamo calore. Non sappiamo (io non lo so, perlomeno) se questo calore è sufficiente a indurre cambiamenti climatici planetari nel breve periodo, ma non c’e’ dubbio, alcun dubbio, che Homo sapiens sta scaldando il pianeta.
E questa operazione di riscaldamento è fatta, ahimè, da pochi Sapiens, di pelle generalmente chiara, ai danni di molti Sapiens di pelle più scura. Ora, non e’ che i sapiens di pelle scura siano migliori di quelli di pelle chiara, per cui è solo questione di tempo, poco tempo, che anche i Sapiens scuri decidano che è ora di scaldare anche loro, e godere del condizionatore, dell’auto nuova, della luce dentro casa. E perché’ no?
Ricordate -sembrano passati cent’anni- della ridicola campagna contro l’olio di palma? Eliminata dalla discussione la sciocchezza sulla cancerogenità, rimase l’argomento ‘ambientalista’: non usiamo l’olio di palma, perché’ cosi’ ostacoliamo il disboscamento delle grandi foreste che ci danno l’ossigeno che ci serve per trasformare energia chimica in lavoro, e assorbono l’anidride carbonica che il processo produce. E di grazia, perche’ mai queste sante considerazioni non sono state fatte quando un quarto del pianeta, ed in particolare lo spicco di emisfero nord-occidentale è stato completamente disboscato? Come mai le nostre pianure e le nostre colline non hanno, non solo alberi, ma nemmeno fiori (ci avete mai fatto caso? Un giorno parleremo degli impollinatori…)? Beh, ma abbiamo erba medica, mais, soia, pomodoro, e poi fabbriche, urbanizzazione, vita… e perché’ gli altri tre spicchi di pianeta non possono avere le stesse cose? Per garantire a noi ossigeno?
Cosa voglio dire con queste provocazioni un po’ semplicistiche? Che probabilmente ancora siamo in una fase di equilibrio apparente, alimentato da fortissime disparità economiche e sociali. Queste disparità non sono piu’ sostenibili, neppure tanto da un punto di vista etica o di volontà, ma proprio per traiettoria irreversibile di sviluppo.
Se prendiamo ad esempio 4 tra gli Stati più poveri e meno sviluppati del mondo, tutti situati nella Africa centro-orientale (Rwanda, Repubblica Democratica del Congo, Tanzania e Uganda), negli ultimi 30 anni hanno visto un aumento di popolazione che va dal 158% (come se l’Italia tra 30 anni avesse 150 milioni di abitanti) del Congo o della Tanzania al 77% del Rwanda (nel 1994 il genocidio e il successivo displacement ne avevano quasi dimezzato la popolazione). Il PIL è cresciuto di valori che vanno dal 215% della Tanzania al 320% dell’Uganda. L’aspettativa di vita è passata -ad esempio in Rwanda – dai 47 anni del periodo 1985/90 ai 69 del periodo 2015-18. (Aumento del 40%). In compenso, il numero di figli per donna sta diminuendo, passando -attenzione- in Rwanda dai 7.8 ai 4.1 oppure, in Congo, dai 7 ai 6.
Come scrissi in un post di qualche settimana fa, questi numeri manifestano in maniera incontrovertibile la transizione epidemiologica in atto. Quello che chiamavamo terzo mondo sta largamente diventando secondo/primo mondo, con tutti i pro e i contro del caso. I contro, per il pianeta, sono che ci sono miliardi di persone -letteralmente- in rampa di lancio per aumentare a dismisura l’impiego di suolo, la sua decarbonizzazione, l’emissione di gas e il riscaldamento.
E questi miliardi, o consumano il ‘loro’ suolo e producono la ‘loro’ CO2, oppure verranno a prendersi la ‘nostra’. Tertium datur: possono succedere entrambe le cose….
Eppure, nel nostro spicchio di occidente ricco, sprecone e consumista, i temi del climate change e dell’antropizzazione del pianeta continuano a vedere percentuali elevate di negazionisti. Un negazionismo che, se consapevole, è giustificabile logicamente solo con l’egoismo, con la parafrasi -quanto mai appropriata- del ‘dopo di me, del mio condizionatore, del mio SUV 3000 cc, il diluvio’.
C’è da chiedersi davvero cosa ci sia di sbagliato, anche se ho il sospetto sempre piu’ forte -alimentato anche da quello che è successo in questi due anni di pandemia- che il negazionismo sia una sorta di rito religioso scaramantico e propiziatorio, che serve da collante per società eterogenee e conflittuali. Ma in ogni caso, forse bisognerebbe cambiare anche il registro di comunicazione. Il termine ‘cambiamenti climatici’ -anche nel cittadino mediamente istruito- suggerisce immediatamente riferimenti anedottici, esempi e controesempi, misure e contromisure, che fanno fare al problema la stessa fine del CON o PER Covid. Beato chi ha soluzioni, ma non avere soluzioni non significa che non esista il problema, significa solo che il problema e’ complicato.




Antonio Dalessandri
il prof. Carlo Barbante della Ca’ Foscari ha un’idea molto precisa e circostanziata di quanto e da quando le attività antropiche abbiano contribuito e stiano contribuendo al cambiamento climatico. Il progetto Ice Memory fornisce dati preziosi al riguardo anche se l’ambito temporale è ridotto rispetto alla scala del tempo in cui avvengono o dovrebbero avvenire le mutazioni climatiche.
Qualche giorno fa ho sommariamente fatto due conti - dalle fonti disponibili - per misurare l’immissione di CO2 anche dai Paesi che per “tradizione” si vorrebbe fossero più attenti all’ambiente con scoperte interessanti al riguardo.
Ed in generale è assolutamente sensato il
principio secondo cui noi
non abbiamo autorità alcuna per dire agli altri cosa devono o non devono fare.
Sta di fatto che se USA e Europa sono aree flat sempre più vecchie e sempre più borghesi, ci sono aree con popolazione in crescita esponenziale,
con cultura e storia differente, che giustamente ambiscono a vivere di più e con più agio. Quando Yeman dall’Etiopia si farà arrivare la mozzarella di bufala de Il Granato (Paestum-Capaccio) per poterla assaporare seduto sul divano di casa mentre guaderà il Festival di Addis Abeba non ho la certezza che il Mondo, così come lo conosciamo oggi, esisterà ancora.
Roma cadde nel 476 d.C. e da quella storia non mi pare si sia imparato poi molto.
E con la Meloni (scusa la digressione) che dice di “prenderci i venezuelani” non credo che andremo molto lontano avendo una politica che guarda a ieri perché già oggi è difficile e del doman non v’è certezza.

da Fb del 26 agosto 2022
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