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Autore Discussione: CARLO BASTASIN -  (Letto 3740 volte)
Admin
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« inserito:: Gennaio 10, 2008, 10:56:57 am »

9/1/2008 - DEFICIT/ PIL MAI COSI' BASSO
 
Buon risultato non sprecatelo
 
CARLO BASTASIN

 
Sembrano due Paesi diversi quello delle discariche che imputridiscono a cielo aperto e quello dei conti pubblici che tornano sotto controllo. Al contrario sono la dimostrazione di comportamenti perfettamente speculari che sono incisi nella storia italiana degli ultimi decenni: la qualità dell’amministrazione pubblica è decisiva per il funzionamento di un paese in cui il rapporto tra Stato e cittadino non si è mai nutrito della linfa della credibilità. Il recupero di efficienza dell’amministrazione pubblica in materia fiscale, di cui è stato riconosciuto merito al ministero dell'Economia, sta producendo risultati migliori del previsto e apre margini teorici per futuri risparmi fiscali, cioè per minori tasse. La sciagurata amministrazione delle risorse pubbliche in Campania produce disastri sociali, malversazione e ulteriore necessità di spendere denaro pubblico.

Prima di festeggiare il miglioramento dei conti bisognerebbe tuttavia averne certezza. L’Istat ha comunicato ieri che l’indebitamento netto è sceso nei primi nove mesi del 2007 all’1,3% del pil, contro il 4% del 2006. Le entrate correnti, in particolare le imposte dirette (+13%), corrono, ma anche le uscite correnti continuano ad aumentare a ritmi tendenziali che da anni rimangono inalterati, prossimi al 4%. Con questa struttura del bilancio, bisognerebbe concludere che nonostante tutto, il risanamento non è sostenibile: prima o poi il continuo aumento della spesa soffocherà la capacità di produzione del reddito che alimenta le entrate fiscali.

La crescita è una conferma positiva della resistenza delle imprese italiane al declino, pur avvenuta con ritardo. Il processo di distruzione creativa, attraverso cui si seleziona chi è in grado di sostenere la concorrenza globale, è tuttora in corso. Nuove organizzazioni della produzione e nuove tecnologie stanno filtrando nelle medie imprese. Ne risulta una discreta crescita dell’economia e dell’occupazione, che sono all’origine del buon gettito fiscale. Ma la strada è lunga, la produttività totale italiana rimane bassa, la qualità dei servizi pubblici è imbarazzante e i contenuti tecnologici sono insufficienti. Gli incentivi a spostarsi su lavori più produttivi sono modesti anche a causa dei meccanismi centralizzati di contrattazione salariale nei quali il governo interviene con l’obiettivo di ammorbidire il dissenso sociale.

In tali condizioni non c’è sufficiente stimolo alla sostituzione di lavori di cattiva qualità con lavori migliori, più ricchi di conoscenza e anche meglio pagati.

La coincidenza tra i buoni dati di bilancio, il negoziato sui salari a Palazzo Chigi e la minaccia di sciopero generale dei sindacati non è infatti incoraggiante. L’aumento della spesa pubblica lungo tutto il 2007, di pari passo con il miglioramento delle entrate, insegna che il ricorso alle casse pubbliche scatta non appena si allenta l’emergenza.

Ieri più di un membro del governo ha parlato infatti di «nuove condizioni» che consentono di destinare risorse importanti al grande obiettivo di salari più giusti e alla crescita. È possibile che sia così, ma all’economista dovrebbe rizzarsi un orecchio: per cogliere insieme due obiettivi diversi (salari e crescita) bisogna disporre di uno strumento non generico, per esempio di un incentivo salariale solo per chi produce più crescita. Non si ottengono entrambi gli obiettivi aumentando i redditi indiscriminatamente, per esempio con una generica riduzione dell’Irpef. Sul medio termine, senza sviluppo, l’aumento del deficit pubblico è garanzia di tasse più alte e di ulteriore erosione del potere d’acquisto delle famiglie. Sono in grado sindacati e un governo di sinistra di rinunciare a politiche collettiviste e a negoziati centralizzati pur di favorire la crescita dell’economia? Se lo sono, lo devono dimostrare adesso. Una prova del fuoco per la sinistra al governo.

La tattica dell’esecutivo sembra essere quella di rinviare la disponibilità di risorse pubbliche per i salari a quando la trimestrale di cassa accerterà la natura strutturale delle maggiori entrate. È una linea difendibile, ma non ambiziosa. L’incontro con i sindacati è un’occasione per rafforzare i tentativi di revisione del sistema contrattuale e per rilanciare le politiche di incentivo alla produttività. Il recupero della crescita economica, dell’export e dell’equilibrio di bilancio dimostra che risolvere i problemi d’Italia è possibile, sia quelli di depressione economica, sia quelli di civile convivenza. La retorica del declino è, in questo senso, una vera trappola logica: anziché giustificare gli stimoli allo sviluppo dà sfogo alle rivendicazioni compensative e cattura la politica nella logica della sopravvivenza anziché della costruzione. C’è dunque un intrigante punto di contatto tra squilibri fiscali e l’immondizia napoletana: c’è poca inclinazione in Italia a considerare lo Stato come un’agenzia efficiente al servizio del cittadino, anziché con rassegnazione come un sovrano volubile, un po’ poliziotto e un po’ consolatore, in parte esattore e in parte corruttore. Ma è ora di abbandonare i secoli passati.
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Febbraio 27, 2012, 05:46:28 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 12, 2008, 11:10:17 am »

12/4/2008
 
I rischi delle grandi coalizioni
 
CARLO BASTASIN

 
Un governo di Grande coalizione farebbe crescere i partiti all’estrema destra e all’estrema sinistra? Preparerebbe cioè la strada a decenni d’instabilità e di ideologie radicali? Tra i molti motivi per studiare con attenzione modi e natura di un eventuale governo di Grande coalizione, quello forse più controverso è appunto l’accusa di essere un incubatore di opposizioni fasciste e comuniste che la storia avrebbe messo altrimenti ai margini della vita pubblica. Il timore di un rischio estremista deriva dalle più note esperienze tedesche di Grande coalizione, quella di Weimar ovviamente, ma anche quella del 1966-1969 guidata da Kurt G. Kiesinger (Cdu) e Willy Brandt (Spd), durante la quale crebbe il consenso elettorale per l’estrema destra. Anche l’attuale Grande coalizione a Berlino vede crescere dall’opposizione la forza radicale di ispirazione comunista dei Linke. I Linke sembrano addirittura una formazione non più transitoria che ha modificato per sempre il panorama politico tedesco ed europeo. Forze centrifughe, sia radicali sia localiste, sono vivaci anche in altre democrazie europee governate da larghe intese.

Succederebbe quindi anche in Italia, se tra due giorni un pareggio elettorale costringesse Pd e Pdl a coalizzarsi? Santanchè e Ferrando, Bertinotti e Storace si troverebbero nella posizione ideale per attrarre l’inevitabile malcontento suscitato da un governo riformatore e per imprigionarlo nelle gabbie ideologiche del Novecento con cui la cultura italiana ha fatto i conti distrattamente? Lo sviluppo di nuove opposizioni in Europa non appare collegato storicamente a governi di grande coalizione ma alla delusione degli elettori tradizionali nei confronti dei grandi partiti. Restando all’esperienza tedesca, quasi tutti i nuovi partiti si sono sviluppati non nelle legislature governate dalle grandi coalizioni, ma come espressione di dissenso nei confronti di governi di parte, sia di destra sia di sinistra, costretti a compromettere la propria tradizione ideologica nella pratica quotidiana di governo.

La fine della coalizione tra socialdemocratici e liberali nell'82 in Germania fu l’occasione per la nascita dei Verdi, il partito ecologista che raccoglieva la sinistra delusa dalla politica non pacifista del cancelliere Helmut Schmidt. La forza altalenante dei liberali è un termometro fedele delle oscillazioni politiche dei cristiano democratici. Il catalizzatore dei Linke non è stato l’attuale governo di grande coalizione, bensì la conversione al centro dell’Spd di Gerhard Schroeder durante la prima legislatura governata dai socialdemocratici con i Verdi. Non sembra esserci dunque un rapporto «matematico», tra grandi coalizioni e radicalizzazione della politica. Più banalmente, sembra essere piuttosto l’offerta di riforme e la sua cosiddetta «narrazione» da parte di chi governa a determinare la domanda di politica, cioè il consenso o il dissenso, dell’opinione pubblica e quindi il radicalizzarsi dell’opposizione.

Berlusconi e Veltroni sono molto esposti al rischio di un’opposizione radicale. Il Popolo della Libertà è nato infatti da un compromesso politico piuttosto sbrigativo nei confronti dell’elettorato di destra, mentre il Partito democratico è frutto di un traumatico allontanamento dalla sinistra meno pragmatica. In caso di Grande coalizione il rischio di essere accusati di tradimento ideologico aumenterebbe certamente. La retorica dei due poli sarebbe fortemente frenata dalla coabitazione con alleati tanto divergenti. Oppure finirebbe per svilupparsi una forma di opposizione interna in entrambi i poli, come avviene attualmente proprio nella socialdemocrazia tedesca, per ammortizzare l'opposizione esterna. Le conseguenze sarebbero di rendere instabile il governo e quindi di ridurne la portata riformatrice, come infatti sta avvenendo in Germania. Per queste ragioni, in caso di Grande coalizione, entrambi i maggiori partiti potrebbero preferire un compromesso a favore di un governo tecnico con sostegno bipartisan sul quale scaricare almeno in parte il dissenso che l’opinione pubblica potrebbe maturare di fronte a riforme dolorose della società italiana. Ma sarebbe necessario uscire dalla logica del «potere per il potere» e di assumere una prospettiva di lungo termine. Un esercizio di illuminismo forse fuori dalla portata del Paese.

 
da lastampa.it
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