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Autore Discussione: I problemi irrisolti del Pd sul terreno della politica e del coinvolgimento ...  (Letto 2171 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Luglio 27, 2022, 08:07:03 pm »

I problemi irrisolti del Pd sul terreno della politica del lavoro e del coinvolgimento della base nella elaborazione delle scelte politiche –
La mia esperienza e la mia battaglia all’interno del Pd nel corso delle legislature XVI e XVII: due partiti in uno? –
L’attuale assenza di un responsabile e di una politica del lavoro del Pd


Introduzione, a mia firma, al libro curato da Giuseppe Ardizzone, Storia di un’esperienza di partecipazione politica: il Circolo PD online “ Libertà è Partecipazione”, appena uscito, che può essere acquistato (per il prezzo di € 27,65) utilizzando questo link – Sul tema degli equilibri interni del partito v. anche il mio editoriale telegrafico del 22 marzo 2021,  Il vero significato della chiamata di Irene Tinagli al vertice del PD
.
1. Perché ho accettato di scrivere questa introduzione al libro. – Quando Giuseppe Ardizzone mi propose di scrivere una prefazione per questo libro, gli risposi declinando l’invito; motivai il diniego con il numero eccessivo di richieste analoghe che ricevo e con l’inopportunità, prima ancora che personale impossibilità, di soddisfarne anche soltanto una piccola parte. Poi però ho letto il dattiloscritto; e ho cambiato idea. Perché ci ho trovato dentro molti echi di un’intera stagione della mia vita: il decennio tra il 2008 e il 2018 nel quale, lasciato il lavoro di professore universitario e di avvocato, mi sono dedicato a tempo pieno al lavoro politico.
Nell’autunno del 2007, essendo stato coinvolto da Walter Veltroni nella elaborazione del programma di politica del lavoro del neonato Partito Democratico, gli avevo esposto la preoccupazione – oggetto dei miei libri Il lavoro e il mercato e A che cosa serve il sindacato – per una sinistra, quale mi appariva allora quella italiana, sostanzialmente indifferente al grave malfunzionamento del nostro mercato del lavoro e dunque incapace di mobilitarsi per correggerne i difetti, perché non disposta a far propria l’idea stessa di “mercato del lavoro”; indifferente alla stagnazione ormai quindicennale della produttività e delle retribuzioni; non in sintonia con i principi e i valori della società aperta, ancora attardata in un atteggiamento ostile nei confronti della globalizzazione e delle imprese multinazionali in quanto tali, dunque incapace di riconoscerne il possibile contributo all’aumento della produttività del lavoro degli italiani. A dicembre, nel propormi la candidatura al Senato per le ormai prossime elezioni, lo stesso Veltroni mi aveva invitato a cercar di costruire un accordo con gli altri candidati più impegnati sui temi del lavoro, di parte sindacale come di parte imprenditoriale, su un manifesto che delineasse una strategia decisamente nuova su questo terreno, coerente con l’idea che la protezione del lavoro nel XXI secolo richiede una visione e tecniche diverse rispetto a quelle del secolo precedente, coerenti con la nuova struttura assunta dal mercato del lavoro.

Walter Veltroni
Ne nacque il manifesto Per dare valore al lavoro, sintesi di idee per nulla scontate nella sinistra di allora, che venne firmato, insieme a me e a Tiziano Treu, da diversi esponenti del sistema delle relazioni industriali impegnati con il P.D. nella campagna per le elezioni del 2008, tra i quali Pierpaolo Baretta e Sergio D’Antoni (Cisl), Massimo Calearo e Matteo Colaninno (Confindustria), Cesare Damiano Paolo Nerozzi e Achille Passoni (Cgil) e Giancarlo Sangalli (Confederazione Nazionale dell’Artigianato). Il testo, breve e incisivo, era dedicato a individuare le gravi disfunzioni del nostro mercato del lavoro sostanzialmente ignorate fino ad allora dal movimento sindacale, l’interesse comune di lavoratori e imprenditori a un allineamento delle performances del mercato del lavoro e delle amministrazioni pubbliche rispetto al panorama offerto dai maggiori Paesi europei, la necessità di spostare il fuoco del sistema di protezione dal contrasto alle distorsioni di un monopsonio strutturale (qual era il mercato del lavoro all’indomani della prima rivoluzione industriale) al contrasto alle distorsioni di un monopsonio dinamico (qual è il mercato del lavoro in un paese sviluppato come è l’Italia, nell’era della quarta rivoluzione industriale).
Il manifesto sintetizzava così il programma di politica del lavoro del Partito Democratico:
Siamo ben consapevoli che tra lavoratori e imprenditori è fisiologico il contrasto di interessi sulla spartizione del frutto del loro comune lavoro nell’impresa: comporre questo contrasto, anche attraverso nuove forme di democrazia economica e partecipazione, spetta esclusivamente al sistema di relazioni sindacali, in piena autonomia dalla politica. Compito della politica, del Governo del Paese, su di un piano diverso e autonomo da quello delle relazioni sindacali, è invece di interpretare e tradurre in misure efficaci un interesse comune di lavoratori e imprenditori: quello al migliore possibile funzionamento complessivo del sistema economico nazionale, in particolare del mercato del lavoro, per consentire la massima crescita dell’occupazione e della ricchezza prodotta. E garantire che nessuno ne sia escluso.
Per questo ci impegniamo a:
•   far sì che aumentino almeno del 10% le persone che lavorano; il problema è soprattutto quello di incrementare l’occupazione delle donne, con i servizi alle famiglie e gli sgravi fiscali;
•   aprire l’Italia agli investimenti stranieri, che portano maggiore domanda di lavoro e innovazione, entrambe indispensabili per far aumentare stabilmente le retribuzioni;
•   sostenere le imprese che scelgono l’innovazione e la qualitàcome strumenti essenziali per competere nell’economia globale;
•   combattere la precarietà del lavoro in tutte le sue forme, contrastare l’ingiustizia dell’esclusione di milioni di lavoratori dalla protezione della sicurezza del lavoro e del reddito, assumendo come modello quello della migliore flexsecurityeuropea; questo significa coniugare il massimo possibile di flessibilità e adattabilità delle strutture produttive con la libertà delle scelte di vita e con il massimo possibile di eguaglianza di opportunità, di sicurezza e benessere per tutti i lavoratori, nessuno escluso;
•   favorire lo sviluppo della contrattazione collettiva nelle aziendeche dà valore al lavoro, aumenta la produttività e la partecipazione dei lavoratori ai suoi frutti;
•   ridare orgoglio e prestigio al lavoro pubblico, anche voltando pagina rispetto alle inefficienze del settore; per questo occorre introdurre un sistema di trasparenza totale delle amministrazioni; promuovere, incominciando dai vertici, la cultura della valutazionee della misurazione; applicare incentivi efficaci per premiare il merito e costringere al riallineamento le strutture più inefficienti;
•   migliorare incisivamente il sistema scolastico e della formazione permanente, grande leva strategica per costruire l’uguaglianza di opportunità, combattere la disuguaglianza crescente tra le persone, consentire una risposta positiva agli shock tecnologici;
•   promuovere con ogni mezzo e in ogni luogo la cultura della sicurezza e igiene del lavoroe della prevenzione degli infortuni, con la formazione, il potenziamento dei controlli ispettivi contro il lavoro irregolare; e il sostegno alle imprese che investono nella sicurezza
•   promuovere gli investimenti nell’innovazioneche salvaguardano e valorizzano l’ambiente e il territorio.
Nella scelta delle misure specifiche da adottare per il perseguimento di questi obiettivi ci impegniamo a prestare pragmaticamente la massima attenzione alle esperienze che ci si offrono nel panorama internazionale, a tutte le idee e proposte coerenti con i principi di civiltà e progresso che ci accomunano.
La campagna elettorale della primavera del 2008 fu per me l’occasione per presentare e discutere le idee nuove contenute in questo manifesto nei circoli del partito, nelle Feste dell’Unità, anche in alcuni incontri della Cgil. E già allora incominciai a percepire qualche malumore nelle file del partito. Ma su questa linea avevo un sostegno forte da parte del leader del partito e dei suoi consiglieri e più stretti collaboratori, tra i quali Enrico Morando e Giorgio Tonini.

Pierluigi Bersani
2. La XVI legislatura. – Appena eletto, nell’aprile 2008, mi butto a capofitto nel lavoro necessario per tradurre le idee del manifesto in due iniziative legislative organiche, una sul versante della disciplina generale del lavoro e una su quello della riforma delle amministrazioni pubbliche. La prima delle due si concreta nel progetto del Codice semplificato del lavoro, la cui presentazione in Senato, nel novembre 2009, coincide felicemente con la presentazione del Decalogue for Smart Regulation da parte dello High Level Group incaricato dalla Commissione della UE (Stoccolma, 12 novembre 2009). La formulazione del mio Codice semplificato è direttamente ispirata ai principi del Decalogue, la cui elaborazione ho seguito passo per passo nei mesi precedenti. Sui due disegni di legge nei quali il progetto si concreta – uno dedicato ai rapporti sindacali, il d.d.l. n. S-1872, uno al rapporto individuale di lavoro, il d.d.l. n. S-1873 – raccolgo le firme di 52 senatori democratici, più della metà del gruppo, oltre a quelle di Emma Bonino e di alcuni senatori radicali e dell’UDC. Subito dopo, nella primavera 2010 Enrico Morando elabora e presenta insieme a me e a Paolo Nerozzi il disegno di legge n. S-2102 sulla detassazione selettiva dei redditi di lavoro femminile, ispirato al libro di Alberto Alesina e Andrea Ichino appena uscito. Nel frattempo, però, proprio nel novembre 2009 Pierluigi Bersani ha assunto la carica di segretario nazionale del partito e subito si è avvertito un cambio di atmosfera, almeno per quel che riguarda la politica del lavoro. Quando incomincio a presentare il progetto sui giornali, alla tv e negli incontri pubblici, non tardo a percepire che non sto più parlando a nome del partito come prima, ma solo a nome di una metà di esso. L’altra metà, che ora sta prevalendo al suo interno, non accetta l’idea di fondo che è alla base del progetto: l’idea, cioè, di passare dalla difesa della persona che lavora dal mercato alla sua protezione nel mercato, che significa insegnarle a (e fornirle gli strumenti indispensabili per) usare il mercato stesso a proprio vantaggio; passare dalla protezione consistente nella privazione dell’autonomia negoziale individuale a quella consistente nel rafforzamento della capacità di negoziare mediante servizi più efficaci di informazione, di formazione mirata a ciò che le imprese cercano e di sostegno alla mobilità professionale e se necessario anche geografica.
Proprio nel mio girare per l’Italia, invitato da federazioni o circoli del P.D., oppure Feste dell’Unità, per spiegare e discutere quello che sto facendo in Senato, nel 2010 mi imbatto nel neonato circolo online Libertà e Partecipazione, la cui esperienza è raccontata e documentata in questo libro, che mi inviterà più volte alle sue iniziative. Questo circolo come diversi altri, a varie latitudini e longitudini, ha fatto propria la bandiera del Codice semplificato, della flexsecurity, del contratto di ricollocazione come strumento strategico di raccordo fra servizi pubblici e operatori privati accreditati nel mercato del lavoro, e ha avviato una riflessione collettiva che è per me fonte di incoraggiamento e al tempo stesso occasione di verifica e di continua messa a punto dei contenuti del progetto. Ma proprio in quel mio “giro d’Italia” mi accorgo che, ogni volta che partecipo a un incontro pubblico sui problemi del lavoro in una città – che sia Lecce o Trieste, Palermo o Torino, Bologna o Ancona – viene organizzato subito prima o subito dopo un incontro mirato a… “rafforzare gli anticorpi” contro il mio progetto ispirato al manifesto del 2008 e contro gli argomenti con cui lo sostengo. Ora il responsabile nazionale per l’economia e il lavoro è Stefano Fassina, che dissente in modo piuttosto radicale dall’impianto logico dell’intero progetto. Con gli “occhi del poi” vedo un difetto di fondo del nuovo partito nella sua incapacità di mettere a fuoco questa contrapposizione, esplicitarla e superarla in modo dialettico, proprio attraverso una pratica di partecipazione diffusa quale quella predicata e praticata dal circolo Libertà e Partecipazione: sarà proprio la mancata sintesi fra le due “anime lavoristiche” del partito a determinare – come vedremo – una sorta di loro vicendevole dannosissima elisione.
Nel frattempo, nel 2009 il contratto nazionale dei metalmeccanici è stato rinnovato con la sola firma di Cisl e Uil, senza la Cgil. E nel 2010 lo scontro interno al movimento sindacale si è acuito quando Sergio Marchionne, nuovo A.D. del Gruppo Fiat (che versa in condizioni gravissime), ha presentato un piano industriale profondamente innovativo per gli stabilimenti di Pomigliano, di Mirafiori e di Grugliasco, implicante – oltre che un salto qualitativo nell’organizzazione del lavoro, con largo ricorso all’automazione – anche una altrettanto profonda riforma dei rapporti sindacali in azienda, che va nel senso di un netto rafforzamento e autonomizzazione della contrattazione aziendale rispetto al contratto collettivo nazionale: il piano ricalca molto da vicino la riforma del sistema delle relazioni industriali delineata nel mio libro di cinque anni prima, A che cosa serve il sindacato. Ma l’establishment della sinistra politica italiana appare impreparato a questa sollecitazione, incapace di capirne il significato; reagisce dunque respingendo il nuovo piano industriale, mostrando di preferire semmai la prospettiva della nazionalizzazione del Gruppo industriale. Massimo Giannini su la Repubblica scrive che l’accordo aziendale proposto da Marchionne “è scritto intingendo la penna nella carne e nel sangue dei lavoratori”. Il dibattito in proposito, in seno al P.D., si infiamma, ma fin dalle prime battute il vertice si è schierato apertamente contro il piano Marchionne, a sostegno della posizione della Cgil che lo rifiuta. Ciononostante, nei referendum aziendali prevale – sia pur di misura – il “sì” al nuovo piano sostenuto da Cisl e Uil; e questo esito determina uno scossone nell’intero sistema delle relazioni industriali, costringendo l’anno dopo anche la Cgil a sottoscrivere con Cisl e Uil un importante accordo interconfederale, che recepisce sostanzialmente la riforma anticipata dall’accordo Fiat, legittimando il contratto aziendale a derogare ampiamente al contratto nazionale. Di fronte a questa rapida e rilevantissima trasformazione del sistema delle relazioni industriali il P.D. resta alla finestra spiazzato, afono, sensibile soprattutto alle ragioni della Cgil che a quella trasformazione partecipa obtorto collo, costretta dalle circostanze ma sostanzialmente renitente e in attesa che cambi il vento per poter porre mano a un’inversione della tendenza.
Nel giugno 2011 si svolge a Genova l’Assemblea nazionale del P.D. sui temi del lavoro. Un ampio gruppo di parlamentari e amministratori locali, tra i quali anche Walter Veltroni e il sindaco di Torino Sergio Chiamparino, presentano all’Assemblea un documento intitolato ancora, significativamente, Per dare valore al lavoro, nel quale i contenuti del manifesto di tre anni prima vengono aggiornati e arricchiti. Ma l’assise si svolge senza che in essa si realizzi un vero dialogo tra le due posizioni contrapposte, soprattutto senza che il vertice del partito si faccia carico di elaborarne e proporne una sintesi; e si conclude con l’approvazione di un documento nel quale, altrettanto significativamente, di quei contenuti si ritrova poco o nulla.

Mario Draghi
Fin qui, nel corso della XVI legislatura, il P.D. è sempre stato all’opposizione. Nel 2011, però, la crisi economico-finanziaria del sistema-Italia incomincia ad avvitarsi su sé stessa: impariamo a ragionare dello spread tra buoni del tesoro e bund tedeschi e assistiamo col fiato sospeso alla sua crescita apparentemente inarrestabile, che arriva a superare quota 500 (ciò che significa interessi passivi, sui 2.000 miliardi di euro del debito italiano, cinque volte superiori rispetto a quelli pagati sul proprio debito dalla Germania). Nella primavera 2011 il Governo Berlusconi è già gravemente in crisi, del tutto isolato dai Governi degli altri maggiori Paesi europei, con un Presidente del Consiglio che litiga pubblicamente con il proprio ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Il 5 agosto il Governatore uscente della BCE Trichet e il Governatore entrante Draghi inviano al Governo italiano una lettera che gli indica misure incisive indispensabili per rimettere il sistema economico-finanziario in sesto (e per ottenere l’indispensabile sostegno della stessa BCE, consistente nell’acquisto massiccio di titoli del debito pubblico italiano): tra queste misure, oltre a una incisiva riforma pensionistica, le linee essenziali di una riforma del diritto del lavoro e del diritto sindacale che sembra modellata sul progetto del Codice semplificato.  E due mesi dopo, ai primi di ottobre, Berlusconi dichiara in un’intervista che il suo Governo è pronto a far proprio il disegno di legge S-1873, contenente quel progetto.
In realtà, il suo Governo è ormai agli sgoccioli; ma questa uscita del Premier suscita molto nervosismo nell’ala sinistra del P.D.: alcuni suoi esponenti si affrettano a dichiarare alla stampa che quello non è un progetto del partito. Del quale partito, peraltro, non è chiara la posizione sui punti essenziali contenuti nell’agenda proposta dalla BCE come condizione per dare sostegno all’Italia in quel momento drammatico.
Di lì a poco Silvio Berlusconi è costretto a dimettersi; il Capo dello Stato dà l’incarico di costituire un Governo di salvezza nazionale a Mario Monti. Ai primi di novembre circolano le prime liste dei possibili ministri del nuovo Gabinetto, nella quale compare il mio nome per il Lavoro: Monti conosce bene il mio progetto, che un anno prima ha commentato favorevolmente in un editoriale del Corriere della Sera. Il nervosismo al vertice del partito a questo proposito si esprime in una presa di posizione esplicita: Matteo Orfini, membro della segreteria nazionale del P.D., dichiara pubblicamente che “Se Ichino è il ministro del lavoro, questo governo muore prima di nascere”.
Ministra del lavoro del Governo Monti sarà dunque Elsa Fornero, che, dopo la riforma delle pensioni del dicembre 2011, nel giugno successivo recepirà alcune parti abbastanza rilevanti del mio progetto di riforma nella sua legge sul lavoro: il meccanismo per l’individuazione della condizione di “dipendenza economica” per l’estensione ai collaboratori continuativi della disciplina del lavoro subordinato, l’esclusione della reintegrazione nel posto di lavoro nei casi in cui il vizio del licenziamento è oggetto di una valutazione discrezionale del giudice, una norma-quadro sulla partecipazione dei lavoratori nell’impresa. Mentre la metà dei senatori P.D. che hanno firmato il progetto del Codice semplificato appoggiano convintamente la legge Fornero sul lavoro, l’altra metà soffre le pene dell’inferno. Osservo la stessa spaccatura tra i circoli e talvolta al loro stesso interno, dove sulla materia dei licenziamenti, come su quella delle pensioni, si assiste spesso a un dibattito molto teso, come fra due partiti contrapposti. Ancora una volta, il P.D. si mostra incapace di portare a sintesi queste sue due anime.

Mario Monti
3. La XVII legislatura. – Alla fine della legislatura, in vista delle nuove elezioni indette per il febbraio 2013 Mario Monti fonda Scelta Civica, ponendo il progetto del Codice semplificato del lavoro tra i suoi punti programmatici più rilevanti: ciò che mi convince ad aderire al nuovo partito e a candidarmi al Senato come suo capolista in Lombardia e in Toscana. L’esito delle elezioni è sostanzialmente un pareggio tra Centrosinistra e Centrodestra. Si ricostituisce una maggioranza simile a quella che ha sorretto il Governo Monti, ora però a sostegno di un Governo guidato da Enrico Letta. Poco dopo, nell’autunno del 2013, alle primarie del P.D. Matteo Renzi viene eletto segretario con una valanga di voti; passano pochi mesi e Renzi diventa anche il capo del nuovo Governo, appoggiato da P.D., S.C. e la parte di Forza Italia che non è uscita con Berlusconi dalla maggioranza.
Sulla politica del lavoro, all’inizio – inverno e primavera 2014 – il nuovo ministro del Lavoro Giuliano Poletti cincischia; a maggio viene presentato un disegno di legge-delega sul lavoro dai contenuti assai fumosi, cui viene assegnato un nome echeggiante una legge voluta da Barak Obama negli USA: Jobs Act . Verso metà maggio però il Premier – anche a seguito di una sollecitazione esplicita rivoltagli dal Governatore della BCE nel corso di un incontro presso la sua abitazione a Città della Pieve – si rende conto che non è tempo di mezze misure e decide di inserire nel disegno di legge gran parte dei contenuti qualificanti del Codice semplificato. Nel corso dell’estate la legge-delega, integrata con tre miei emendamenti molto incisivi, viene discussa e approvata al Senato, poi anche alla Camera nonostante una decisa resistenza di Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro di Montecitorio; e ai primi di marzo vengono emanati i primi due degli otto decreti attuativi della delega (n. 22 e n. 23/2015), contenenti rispettivamente un forte potenziamento del trattamento di disoccupazione e la nuova disciplina dei licenziamenti, che porta a compimento la riforma avviata con la legge Fornero del 2012; a giugno, poi ne verrà emanato un terzo (n. 81/2015), che realizza in parte il disegno del Codice semplificato, riordinando e semplificando – tra l’altro – la disciplina delle collaborazioni continuative, del lavoro a termine, interinale e a part-time, dell’apprendistato, del lavoro a chiamata, con abrogazione di tutte le norme che nei decenni precedenti erano andate stratificandosi sulle stesse materie.  Ancora una volta, però, la scelta viene compiuta dal vertice senza che sia maturata una sua condivisione diffusa attraverso un processo di partecipazione e discussione nella base del partito.
Fatto sta che, per quel che riguarda la disciplina sia del licenziamento, sia del contratto a termine, l’ordinamento italiano ora può dirsi finalmente armonizzato rispetto a quello degli altri maggiori Paesi europei. Per tutti i nuovi assunti dal 7 marzo in poi la sanzione contro il licenziamento il cui motivo economico o disciplinare è ritenuto dal giudice insufficiente non è più la reintegrazione, ma un indennizzo proporzionato all’anzianità del lavoratore, con un plafond di 24 mensilità dell’ultima retribuzione; l’anomalia italiana è così archiviata: la regola fondamentale in questa materia – secondo la classificazione fondamentale proposta da uno dei padri dell’analisi economica del diritto Guido Calabresi – in Italia come nel resto del mondo non è più una property rule ma una liability rule.
Da sinistra si paventa un’ondata di licenziamenti favorita dalla nuova disciplina. Ma nulla di questo accade: a tre anni di distanza le prime rilevazioni indicheranno che la probabilità di essere licenziati nell’arco di un anno, per i rapporti di lavoro cui la nuova disciplina si applica, continua ad aggirarsi intorno all’1,5 per cento, esattamente come per quelli cui continua ad applicarsi la legge Fornero, la quale a sua volta non ha determinato un aumento del tasso dei licenziamenti rispetto alla disciplina contenuta nell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori vigente fino al giugno 2012. Ciononostante la riforma è vissuta dall’ala sinistra come un inammissibile attentato ai diritti dei lavoratori: alla legge Fornero e al Jobs Act si imputa di avere “smantellato lo Statuto dei Lavoratori” e di aver generato una “liberalizzazione selvaggia del mercato del lavoro”, esattamente come lo si era imputato negli anni precedenti alla legge Biagi del 2003. E quando l’esito del referendum costituzionale del dicembre 2016 segna la fine del Governo Renzi, questa visione prende nettamente il sopravvento rispetto a quella che ha ispirato la riforma.
Come era accaduto nei confronti della legge Biagi, il compito principale che la parte della sinistra ora tornata dominante si assume da qui in avanti, in materia di lavoro, diventa lo smantellamento del Jobs Act, come delle leggi Fornero su pensioni e lavoro del 2011 e 2012. Nessuna attenzione viene dedicata alla questione dei servizi al mercato del lavoro, che in Italia soffrono complessivamente di una grave arretratezza e di una altrettanto grave mancanza di investimento in progettualità e risorse: anche il nuovo strumento operativo istituito dal Jobs Act, ovvero l’ANPAL-Agenzia per le Politiche Attive del Lavoro, viene colpito dalla stessa fatwa; e il meccanismo delineato nel quinto decreto attuativo del Jobs Act (n. 150/2015, articoli 13-16) per il monitoraggio permanente della qualità della formazione professionale, mediante l’istituzione della relativa anagrafe nazionale e la rilevazione sistematica del tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi, resta totalmente inattuato. Il P.D., lungi dal difendere la propria riforma, sembra prenderne le distanze come se non fosse opera sua; col risultato di spianare la strada al Movimento 5 Stelle e alla Lega, che indicano nelle leggi Fornero e nel Jobs Act le cause di tutti i mali di cui il Paese soffre. E qui si vedono in tutta la loro portata i danni prodotti dalla mancata metabolizzazione delle scelte compiute nella prima parte della legislatura da parte del corpo del partito.

Nicola Zingaretti
4. La XVIII legislatura. – Dopo le elezioni del 2018 vinte da M5S e Lega, la XVIII legislatura si apre con una sorta di lottizzazione della politica del lavoro e previdenziale fra queste due forze, alleate nel primo Governo Conte. La Lega si intesta l’obiettivo di un inizio di smantellamento della riforma delle pensioni (con l’introduzione temporanea della possibilità di pensionamento a “quota 100” o poco sopra), il M5S si intesta l’obiettivo di un inizio di smantellamento della nuova disciplina del lavoro: questo si concreta nel decreto-legge n. 87/2018, col quale vengono introdotte incisive restrizioni in materia di lavoro a termine e interinale; inoltre il plafond dell’indennità per il licenziamento ritenuto dal giudice non sufficientemente giustificato viene aumentato a 36 mensilità. La battaglia contro la riforma dei licenziamenti del 2012-2015 beneficia anche dell’ostilità nei confronti della nuova disciplina di numerosi giudici del lavoro, che considerano come propria missione darne un’interpretazione fortemente restrittiva e, quando se ne presenta l’occasione, sollevare su di esse censure davanti alla Corte costituzionale. La quale riconosce la legittimità di entrambi gli interventi legislativi – del 2012 e del 2015 – nel loro impianto fondamentale, ma non manca di dare loro in due o tre occasioni qualche picconata, ancorché a ben vedere marginale.
Questi tentativi di smantellamento non impediscono che col tempo il nocciolo essenziale della riforma operata tra il 2012 e il 2015 vada consolidandosi, così come era andato consolidandosi in precedenza il nocciolo essenziale della legge Biagi. Nonostante i mali di pancia di una parte della parte della sinistra politica ostile alla riforma e la crisi di rigetto delle nuove norme da parte della cultura di molti giudici del lavoro, pian piano la cultura italiana delle relazioni industriali sta digerendo il passaggio da un regime ispirato al principio della job property a un regime fondato su una liability rule; anche perché la tendenza alla necessaria armonizzazione del nostro ordinamento rispetto a quelli del resto della UE è sempre più largamente percepita come corrispondente a un’esigenza politica ineludibile, quasi una necessità storica. Resta, però, il fatto che la ventennale focalizzazione dello scontro politico interno alla stessa sinistra sulla questione della disciplina dei licenziamenti ha fatto dimenticare del tutto i grandi problemi del nostro mercato del lavoro messi a fuoco nel manifesto del 2008:
– il tasso di partecipazione degli italiani alla forza-lavoro più basso del 10 per cento rispetto alla media UE;
– l’esclusione dalla forza-lavoro stessa di una donna su due;
– il paradosso di un tasso di disoccupazione costantemente al di sopra della media UE, in un mercato del lavoro nel quale le imprese in un caso su tre non trovano le persone di cui hanno bisogno, in tutti i settori e a tutti i livelli professionali;
– il tasso più alto, tra i Paesi UE, di sotto-utilizzazione delle capacità professionali delle persone che lavorano;
– la perdurante enorme prevalenza della spesa pubblica per le politiche passive del lavoro (trattamenti di disoccupazione e Cassa integrazione) rispetto alle politiche attive, sulle quali non si investe e che tutt’oggi non possono dirsi effettivamente decollate.
Colpisce, infine, la constatazione che nel Partito Democratico, e nella sinistra italiana più in generale, prevale ancora la convinzione che i gravi difetti del nostro mercato del lavoro vadano risolti principalmente mediante l’ennesima riscrittura delle norme legislative, nonostante che il confronto con gli altri maggiori Paesi europei mostri con evidenza la necessità di colmare un enorme gap di capacità di implementazione dei servizi alle persone e alle imprese, di loro diffusione capillare, di monitoraggio sistematico della loro efficacia.
5. Qual è oggi la linea del Partito Democratico sulle molte questioni cruciali in materia di lavoro? – In questo libro si esprime la voce di uno fra i tanti circoli di iscritti e militanti che su questi temi hanno lavorato intensamente per più di un decennio; come questa voce ce ne sono molte altre, dentro e fuori del P.D., che su questi temi si impegnano da anni. I circoli che condividono l’orientamento di Libertà e Partecipazione sanno bene che da cinque o sei anni, ormai, questo orientamento non corrisponde più alla “linea” del partito; il problema, però, è che oggi, se non ci si rassegna a considerare come linea politica quella di un ritorno nostalgico al secolo scorso, non si capisce neppure quale sia la nuova linea del partito su questa materia. Anche perché l’equilibrio politico attuale del partito si fonda sulla blindatura della scelta di appoggio al Governo Draghi, con i suoi corollari fondamentali sul terreno della politica di integrazione europea e della politica estera atlantista, di cui è solido garante il segretario Enrico Letta, ma anche al tempo stesso sul protrarsi di una eclissi della politica del lavoro, che era già evidente durante la segreteria di Nicola Zingaretti. Fatto sta che al vertice del P.D. da almeno quattro anni manca un dirigente che di questa materia si occupi in modo effettivo e continuativo: fino a quando segretario nazionale è stato Nicola Zingaretti non era proprio dato conoscere il nome di un responsabile; dal maggio 2021 formalmente questa competenza è stata assegnata al vice-segretario Giuseppe Provenzano, il quale però di fatto non risulta occuparsene, se non occasionalmente. Fatto sta che nell’ultimo quinquennio – per quel che mi risulta – non si è più vista una riunione convocata dalla Direzione del P.D. per discutere con i responsabili regionali e provinciali della politica del lavoro sui temi di maggiore attualità, dal modo in cui viene attuato il capitolo del PNRR sui servizi per l’impiego alla questione del salario minimo orario, dalla questione della rappresentanza e rappresentatività dei sindacati alla struttura della contrattazione collettiva, dalla promozione della parità di genere nei luoghi di lavoro alla questione dei NEET (i ventenni non impegnati né in un lavoro, né in un’attività di studio, né in un corso di formazione o addestramento: un terzo del totale); e così via.
Può accadere, così, che il P.D. – cui pure appartiene il titolare del dicastero del Lavoro – assista senza muovere un dito a un’attuazione puramente burocratica, che equivale a una sostanziale inattuazione, di quanto previsto nel PNRR in materia di servizi per l’impiego: sull’ambizioso progetto Garanzia di Occupabilità  dei Lavoratori, che sulla carta dovrebbe raggiungere nell’arco dei prossimi tre anni tre milioni di lavoratori in difficoltà nel mercato del lavoro con un più che raddoppio dei presidi territoriali capaci di fornire capillarmente i servizi di orientamento, informazione e formazione mirata necessari, non è in atto alcuna mobilitazione di intelligenze e di idee, ma soltanto un incremento della circolazione di carta (piani regionali di centinaia di pagine ciascuno vengono approvati a Roma senza che nessuno sia in grado di dire quali novità essi portino con sé sul piano dell’effettiva diffusione dei servizi e dell’aumento della loro efficacia). Anche perché – sempre in assenza di qualsiasi discussione politica in proposito in seno al P.D. – l’ANPAL, ovvero l’Agenzia per le Politiche Attive del Lavoro istituita nel 2015, cui dovrebbe essere affidato il compito di attivare energie, intelligenze e competenze professionali per l’implementazione di quell’ambizioso progetto, invece di essere potenziata come ci si sarebbe potuti attendere, viene svuotata di ogni potere di iniziativa, e anche di ogni formale autonomia operativa, con la sua incorporazione nella struttura del ministero, in sconcertante contrasto con tutte le esperienze in questo campo dei maggiori Paesi europei (i quali, per l’attuazione delle politiche attive del lavoro, si sono tutti dotati di agenzie autonome dalla struttura burocratica governativa).
L’assenza di un responsabile del P.D. per la politica del lavoro si fa sentire anche nel dibattito sull’introduzione in Italia di uno standard retributivo minimo universale: questione di grande rilievo teorico e pratico, che è tornata di grande attualità anche in conseguenza del varo imminente di una direttiva UE su questa materia. La questione è molto complessa, non solo per via dell’ostilità di una parte delle confederazioni sindacali e imprenditoriali contro l’introduzione nel nostro sistema di questo istituto, ma anche per l’asperità di alcuni ostacoli da superare: primo fra tutti il forte squilibrio economico tra le regioni italiane, con la conseguente differenza del costo della vita e del potere d’acquisto della moneta fra Sud e Nord. Un problema irrisolto che è, a ben vedere, alla base anche dell’inefficienza del contratto collettivo nazionale di settore come strumento per determinare lo standard retributivo inderogabile: i minimi tabellari stabiliti dai ccnl, essendo sempre espressi in termini nominali e non modulati in relazione al costo della vita regionale o provinciale, sono strutturalmente condannati a essere sempre troppo bassi rispetto al tessuto produttivo del Nord (con un effetto depressivo sulla dinamica salariale rispetto a quella della produttività) e troppo alti per quello del Sud (con l’effetto di un eccesso di diffusione del lavoro irregolare). La questione del minimum wage ne solleva dunque altre per molti aspetti cruciali, tra le quali quella della struttura della contrattazione collettiva e quella dell’opportunità che gli standard retributivi siano o no modulati in relazione alle differenze di costo della vita e di potere d’acquisto della moneta. Per non dire del problema del livello dell’istituendo minimum wage, per il quale, anche a voler prescindere dagli squilibri regionali, si può ragionevolmente prospettare una gamma di valori che va dai 6,5 ai 10 euro e forse anche oltre: un’escursione non da poco, nella quale si esprimono concezioni fra loro molto diverse della stessa funzione economico-sociale di questo istituto. Ebbene, su questo insieme di temi rilevantissimi l’afonia pressoché totale del P.D. è la conseguenza di una pressoché totale assenza di dibattito interno, quindi di elaborazione di idee. Tutto ciò che il partito è in grado di produrre in argomento è una battuta estemporanea del segretario Enrico Letta, che essendo prevalentemente impegnato come è giusto sui grandi temi della politica estera, dell’integrazione europea e della sicurezza del Paese non può supplire all’assenza di un responsabile della politica del lavoro. Così, il segretario si è pronunciato a favore dell’introduzione del minimum wage, ma non ha precisato nulla su come questa misura debba essere declinata in concreto. È inevitabile che sia così, dal momento che, dietro quella battuta del segretario nazionale, di lavoro politico ci sta davvero poco o nulla.
La speranza è che la documentazione di esperienze come quella del circolo online Libertà e Partecipazione contribuiscano a stimolare il P.D. a voltar pagina rispetto a una stagione durata ormai un intero lustro, nel corso della quale la sua cultura in materia di lavoro e relazioni industriali si è ridotta a un puro e semplice ritorno nostalgico al secolo passato; e la sua capacità di stimolare e orientare la partecipazione dei propri iscritti e simpatizzanti, nonché di elaborare linee nuove d’azione politica e organizzazione, su questa materia, si è pressoché azzerata.
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