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Autore Discussione: EVELINA SANTANGELO - PALERMO CAPACI, NOI CHE FUMMO VINTI!  (Letto 1372 volte)
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« inserito:: Giugno 11, 2022, 10:54:14 am »

ARTICOLO N. 38 / 2022
DI EVELINA SANTANGELO

PALERMO CAPACI, NOI CHE FUMMO VINTI

LA PALERMO DEI GIOVANI, DI FALCONE E DI BORSELLINO

«Nel racconto del Bene c’è spesso più imbarazzo che nella narrazione del Male», scrive Wlodek Goldkorn evocando la reticenza e la vergogna di chi, durante la Shoah, aveva fatto del bene in un mondo dove il male la faceva da padrone.
Forse per questo quanti di noi in quegli anni Ottanta e Novanta si trovarono a scegliere, senza mezzi termini ma in un terreno minato di veleni e trappole, da che parte stare, dopo una fiammata di insurrezione, di lenzuoli bianchi, di comitati seguita alle stragi del ’92, scelsero un silenzio dolente. Memorie ripiegate su se stesse. «È finito tutto» furono le parole di Caponnetto all’uscita dall’obitorio dove si trovava il corpo di Borsellino. Ancora oggi questa fetta trasversale di generazioni, la cosiddetta «società civile» (come fu genericamente chiamata allora), fatica a pronunciare discorsi o evocare memorie non senza un senso di pudore. Tanto più che tra gli anni Ottanta e Novanta, nella Palermo infuocata tra la preparazione del Maxi processo e poi le Stragi, prevalsero spesso verità lacunose, frammentarie, equivoci e conflitti (anche interiori) destinati a suscitare piuttosto sentimenti contrastanti e una paura sempre in agguato: da spaesamento. Credo che serpeggiasse proprio una paura simile, tra le altre, durante l’incontro alla biblioteca Comunale del 25 giugno 1992, a poco più di un mese dalla strage di Capaci. L’ultimo incontro pubblico del giudice Borsellino. Eravamo tutti lì, una massa silenziosa, plumbea, consapevole di poter saltare in aria da un momento all’altro insieme all’unica istituzione in cui ormai credevamo, il corpo e il sangue di Paolo Borsellino. Stavamo pietrificati in ascolto di atti d’accusa che erano pietre tombali. Contro il Consiglio superiore della magistratura, il disegno di distruggere Falcone e, con Falcone, il pool antimafia. E in quel discorso amaro e durissimo il giudice, per il quale eravamo pronti a dare la vita, giunse a pronunciare parole che chiamavano in causa tutti noi, disse che nella caldissima estate del 1988, quando si stava facendo morire il pool, l’«opinione pubblica fece il miracolo»: mobilitandosi e costringendo il Csm a rimangiarsi la decisione. Così «seppur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi», concluse.
Noi che facciamo miracoli… Noi che respiriamo un’aria mortifera in quella biblioteca, ma abbiamo il potere di fare miracoli… Quelle parole ci galvanizzarono. Toccava a noi, dunque, una qualche salvezza in quei giorni estremi e squinternati… Per questo l’epilogo fu ancora più amaro, infelice, disperato. Non ne fummo capaci.
Noi non avevamo potuto fare nulla perché Borsellino non soccombesse trascinando con sé quel che era rimasto dei nostri ideali. Falcone stesso non aveva potuto fare nulla per salvarsi nonostante, o forse proprio a causa del suo senso altissimo delle istituzioni. Nemmeno Borsellino aveva potuto fare nulla, nonostante noi fossimo lì, accanto a lui, e lui aveva chiesto urgentemente di essere ascoltato come persona informata dei fatti. Avevano vinto loro, dove quel «loro» suonava come un atto d’accusa contro tutte le istituzioni colluse, conniventi, impastate di mafia o più semplicemente di quieto vivere, e quieto convivere. Rifletteteci! Quanti scrittori siciliani hanno scritto memorie di quegli anni? Memorie, ripeto, non rappresentazioni o ricostruzioni più o meno storicamente fondate. Nessuno o quasi.

Quanti hanno scelto di lasciare la Sicilia dopo le Stragi o di ripiegarsi nel disincanto, in una sorta di esilio interiore? Moltissimi. Quasi tutti quelli della mia generazione che, insieme al resto della società civile siciliana, ha scontato il più disperato disincanto dinanzi alle stragi del ’92: stragi di Stato e di mafia. Bastava trovarsi sull’autostrada Palermo-Mazara del Vallo (ed io ero lì) quel 23 maggio appena subito dopo l’esplosione per avere una visione lucida su come stavano veramente le cose.
Eravamo asserragliati dentro una frenesia spasmodica, forze dell’ordine, esercito appostati ovunque, lungo l’autostrada, agli svincoli, sui ponti. C’erano elicotteri che giravano vorticosi. Tutti i collegamenti saltati. Non si riusciva a capire niente, ad ascoltare una radio, a telefonare, a tirarsi fuori dalle macchine imbottigliate in un traffico in cui non ricordo qualcuno che suonasse il clacson. Un colpo di Stato. Questo fu il pensiero che passò nella testa di molti, quando ancora non si sapeva nulla. Ce n’erano tutti i segni. Una sospensione radicale del Paese legale. E proprio contro «la strage di Stato» avremmo urlato durante i funerali di Falcone, della moglie e della scorta spingendo contro le transenne, «Adesso basta!», con la furia di chi vuole assaltare il Palazzo, i rappresentati delle istituzioni, nessuno escluso. Non fu una contestazione. Fu una rivolta, che soltanto il senso di fraternità con i poliziotti che ci trattenevano piangendo non trasformò in qualcosa di devastante. È terribile non credere più nello Stato. Confidare solo in due o tre figure solitarie minacciate proprio dalle istituzioni che intendono servire. È un nonsenso. Questa era la follia disperante di quei giorni, in cui fummo vinti, dopo aver pensato di poter farcela, anche a costo di grandissimi sacrifici.
Ci sono pezzi di memoria che, chissà perché, sono andati perduti. Risalgono agli anni Ottanta e, senza di essi, risulta quasi incomprensibile capire quali fermenti si agitavano nella città allora, quali speranze o illusioni, quali lacerazioni, quali ragioni potevano persino animare la fiducia del giudice Falcone, quando diceva la «gente è con noi».
Protagonisti di quegli anni drammatici in cui tutto non era ancora finito, anzi, tutto era ancora possibile, furono soprattutto i giovani.
Basta ricordare, tra i tanti, alcuni avvenimenti accaduti tra 1982 e il 1985.
Così rispondeva a un’intervista il giudice Rocco Chinnici prima che venisse ucciso il 23 luglio 1983: «Parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi… fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai».
Ecco, questa idea di una nuova coscienza da trasmettere e condividere con i giovani Chinnici la mise in atto facendo uscire i magistrati impegnati nella lotta alla mafia dalla separatezza delle Procure. Mio padre fu tra i presidi che compresero l’importanza di quella collaborazione tra Procure e Scuole con cui si inaugurava un nuovo tempo contro la sottocultura mafiosa.
Il coinvolgimento dei ragazzi fu determinante, ad esempio, nel sostegno a Pio La Torre che, da un lato, in quei primissimi anni Ottanta riusciva a raccogliere un milione di firme in calce a una petizione al governo italiano contro la costruzione della base missilistica Nato a Comiso (me li ricordo ancora i viaggi in pullman pullulanti di studenti, l’allegria di chi si sente di fare la Storia), dall’altro portava avanti la lotta contro la speculazione edilizia, presentava il disegno di legge che introduceva il reato di associazione di tipo mafioso e il sequestro dei patrimoni.

Si lottava insieme. Questa era la sensazione. Il suo assassinio il 30 aprile 1982 fu un colpo mortale anche contro quei giovani che si erano battuti al suo fianco, credendo davvero di poter cambiare le sorti della propria terra, e non solo. Pure in quella occasione si temette il peggio. Cronisti dell’«Ora» ricordano la Sezione centrale del Partito Comunista affollata di gente, alcuni con armi in pugno, pronti a farsi giustizia da soli in un’esasperazione e in un caos generali. «Adesso basta!».
«Ci dovevamo incontrare domani», con queste parole amare e laconiche ricordo che mio padre il 3 settembre 1982 commentò l’assassinio del Generale Dalla Chiesa, senza aggiungere altro.
Uno dei primi atti del Prefetto Dalla Chiesa, non appena arrivato in città, era stato infatti convocare alcuni presidi più intraprendenti per trovare sostegno nella lotta alla mafia che anche lui sapeva essere una battaglia non solo investigativa e giudiziaria, ma anche e soprattutto culturale. Non fummo vinti, però, quella volta. Fummo traumatizzati sì, ma ancora più determinati nel non cedere alla violenza mafiosa, al clima di intimidazione che si voleva instaurare colpendo una delle cariche più alte dello Stato a 100 giorni dal suo insediamento a Palermo. «Qui è morta la speranza dei palermitani onesti», diceva un cartello lasciato sul luogo dell’agguato. Invece nessuna speranza fu morta. Proprio i ragazzi (nello specifico gli studenti e le studentesse del liceo scientifico Galileo Galilei, dove era preside mio padre) si diedero da fare per non darla vinta alla disperazione con la combattività di chi è tutt’altro che arreso. Inviarono telegrammi alle scuole di tutta Italia, alle massime cariche dello Stato, con grande scetticismo dell’addetto alle poste, e ricevettero risposta: dal Presidente Pertini, dal nuovo prefetto appena nominato De Francesco. Ogni speranza in quei giorni era riposta nei giovani, nelle «loro onestà», precisò il Presidente della Repubblica. L’esito fu la prima assise nazionale antimafia tenutasi al Teatro Biondo il 9 ottobre 1982. Più di 2000 giovani, arrivati da tutta Italia, per discutere di droga, traffico d’armi, speculazione edilizia e delle lotte di un giovane di cui si era perduta memoria, Peppino Impastato: per la prima volta sottratto all’oblio.
Da lì cominciò tutto quello che venne dopo: la Primavera di Palermo, i comitati antimafia, le associazioni antiracket, le continue manifestazioni gioiose, il movimento la Rete che voleva cambiare la classe dirigente di questo Paese…
«Senza un clima favorevole non è possibile fare certe cose», mi ha detto qualche tempo fa Sergio Lari, ex procuratore di Caltanissetta. Il giudice che ha riaperto le indagini sulle stragi di Capaci e via D’Amelio.
Per questo credo sia molto importante restituire le lotte e le conquiste di quegli anni Ottanta per capire la città in cui viene preparato dal pool antimafia il maxi processo del 1986. Una città che marciava, lottava, credeva nel riscatto da un destino che si viveva come un’ignominia. E lo dico per esperienza personale. Scrivere per il giornale «L’Ora», in un periodo della mia vita giovanile, non era solo collaborare con una testata che vantava una grande tradizione giornalistica, era un modo di rivendicare la propria dignità contro le accuse di omertà, gli stereotipi, i giudizi supponenti di chi non aveva idea di come andavano davvero le cose in una città in cui erano caduti, vittime della mafia, esponenti delle massime cariche giudiziarie, investigative, politiche, istituzionali, per non dire dei giornalisti… Una città in cui i morti carbonizzati si potevano trovare vicino alla propria scuola, in un vicolo.
E questa città il 25 novembre del 1985 si trovò ad attraversare uno dei momenti più laceranti della sua Storia e della lotta alla mafia. Due ragazzi, due studenti del Meli, Giuditta 17 anni e Biagio 14 anni, erano insieme ai loro compagni alla fermata dell’autobus, un giorno come un altro. Una delle macchine di scorta dei giudici Borsellino e Guarnotta nella corsa forsennata a sirene spiegate sbanda e li travolge, uccidendoli sul colpo.
Questa era la Palermo infernale dei tempi che precedono il maxiprocesso…
Una morte collaterale che si è cercato di dimenticare. Una macchia troppo sporca. Solo Borsellino, ogni anniversario, ha portato i suoi fiori a quei ragazzi, sino alla propria morte. Fu allora che successe un nuovo pandemonio, perché la rabbia era tanta, ed era cieca. C’era chi voleva assaltare la Questura, chi voleva mettere a ferro e fuoco la città. C’era chi urlava contro le scorte che uccidono. Ma, alla fine, prevalse la lucidità e il senso delle istituzioni: una marcia muta con un fiore in mano. Era il giorno in cui Feltrinelli coraggiosamente inaugurava la sua prima libreria nel cuore di quella Palermo infernale. Peccato che anche la Feltrinelli, nel timore di un assalto da parte dei giovani, abbassò le saracinesche, tenendo al sicuro gli intellettuali asserragliati dentro…
Ecco, come fai a restituire una memoria condivisa ed esaustiva dinanzi a un passato così, pieno di storie dimenticate, di moti insurrezionali non raccontati o minimizzati, di vite devastate nell’oblio, come quella di Natale Mondo, l’autista del vicequestore Ninni Cassarà (ucciso il 6 agosto 1985) salvatosi per miracolo nell’attentato di via Croce Rossa e poi costretto a scontare accuse infamanti, veleni, fino a trovarsi dinanzi al colpo di grazia della mafia che salda sempre i suoi conti.
Come fai a dare la misura dello sconcerto, dello spaesamento, della tensione vissuti durante quella famosa staffetta tv «Samarcanda-Costanzo show» tenutasi tra il teatro Biondo di Palermo e gli studi Mediaset dove era ospite, tra gli altri, anche Giovanni Falcone quel 26 settembre del 1991 in cui esplose tutto: preoccupazioni, rabbie, incomprensioni, la paura di essere abbandonati, il senso di tradimento sulla scelta di Falcone di lasciare Palermo per trasferirsi a Roma, in mezzo a fraintendimenti, sospetti, veleni, conclusioni azzardate, convinzioni giuste su pericoli che si rivelarono veri (la maggiore vulnerabilità di Falcone a Roma) ma che finirono per accanirsi proprio su chi avrebbero voluto o dovuto difendere, facendo il gioco di chi da sempre non aspetta altro, in quel caso, un allora oscuro politico democristiano di nome Totò Cuffaro che parlò di «giornalismo mafioso».
Non è un caso se quella sera lasciammo quel teatro con l’amaro in bocca e un generale presentimento di catastrofe. Ci eravamo divisi, dilaniati: travolti da sentimenti violenti, dalla paura di essere abbandonati… vittime tutti del caos delle opinioni. Quella trasmissione contribuì ad alimentare non poco il senso di colpa che ci piombò addosso dopo che i presentimenti presero corpo, fisionomia e si fecero realtà il 23 maggio del 1992.
Ci sono voluti dodici anni perché una nuova generazione riprendesse pian piano in mano il proprio destino e il 29 giugno 2004 si rivelasse tappezzando Palermo con piccoli adesivi listati a lutto. «Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità» c’era scritto. Fu così che noi che, in un modo o nell’altro, eravamo andati via in un qualche esilio capimmo che forse non era tutto perduto.

DI EVELINA SANTANGELO
 









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