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Autore Discussione: Poi il compromesso proposto dalla Merkel  (Letto 5852 volte)
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« inserito:: Giugno 23, 2007, 08:02:47 pm »

Il premier Blair: «Non sara necessario il referendum»

Polonia: sì all'intesa.

Riserve degli europeisti

Notte di negoziati.

Poi il compromesso proposto dalla Merkel

Italia e Spagna scontente: troppe concessioni.
E Londra esulta
 
DAL NOSTRO INVIATO

BRUXELLES — Lo scontro tra Paesi euroscettici ed europeisti è esploso nel Consiglio dei capi di Stato e di governo dell'Unione europea, riunito a Bruxelles per cercare di recuperare in un Trattato le parti sostanziali della Costituzione comune: ratificata da 18 Paesi, bocciata nei referendum in Francia e in Olanda, ma soprattutto contestata dai governi di Londra e Varsavia. Il premier Romano Prodi e il ministro degli Esteri Massimo D'Alema hanno guidato la contestazione di Italia, Spagna, Belgio, Austria, Lussemburgo, Ungheria, Slovenia, Malta e Cipro contro le eccessive concessioni offerte dalla presidenza di turno del Consiglio ai leader più euroscettici di Regno Unito e Polonia.

LA SVOLTA — Arriva a tarda notte. La cancelliera tedesca Angela Merkel, presidente della riunione, non ce l'ha fatta più a trattare coi polacchi un accordo sul sistema di voto dell'Ue. Ha minacciato di escludere dal procedimento di modifica dell'ex Trattato costituzionale il governo dei gemelli Jaroslaw e Lech Kaczynski. La Conferenza intergovernativa (Cig), necessaria per le modifiche dei Trattati, rischiava di partire in luglio sotto la nuova presidenza portoghese dell'Ue con solo 26 Paesi membri su 27. Alla Polonia restava la facoltà di entrare successivamente.

La Merkel non vedeva più la disponibilità a un compromesso sul sistema di voto a doppia maggioranza nel suo interlocutore polacco a Bruxelles, il presidente Lech, teleguidato da Varsavia dal più potente gemello e premier Jaroslaw, che intanto alla tv locale annunciava di poter far saltare il vertice con il diritto di veto. L'ultima offerta manteneva i parametri accettati da 26 Paesi (55% degli Stati e 65% delle popolazioni) e contestati solo dalla Polonia come troppo favorevoli alla Germania e alle altre grandi nazioni. La Merkel offriva in più di rimandarne l'applicazione al 2014 e di introdurre il «compromesso di Joannina», che consente ai Paesi vicini a costituire una minoranza di blocco di ottenere la sospensione della decisione per poterla ridiscutere. Queste concessioni rischiavano di spiazzare i Paesi europeisti, che esortavano ad approvare il nuovo Trattato proprio per superare la difficoltà di prendere decisioni rapide con le attuali regole da quando l'Ue è passata da 15 a 27 Paesi membri.

RADICE QUADRATA — Ai gemelli Kaczynski comunque non è bastato. Hanno replicato chiedendo il sistema di voto basato sulla radice quadrata delle popolazioni o qualcosa di equivalente. La Merkel, già irritata da mesi di proclami anti-Germania dei Kaczynski (culminati con il richiamo ai milioni di polacchi uccisi a causa del nazismo), ha minacciato la Cig a 26, come già avvenne nell'85 con la Gran Bretagna sotto la presidenza italiana. Il premier portoghese Josè Socrates però si è trovato in imbarazzo perché, senza un accordo chiuso del Consiglio, avrebbe difficoltà a concludere la Cig nel suo semestre. Il presidente francese Sarkozy, il premier britannico Blair e il premier lussemburghese Juncker hanno telefonato al Jaroslaw riaprendo la strada per un accordo nella notte. La proposta accolta era di far entrare in vigore la doppia maggioranza di fatto dal 2017 dopo un periodo con condizioni particolari per Varsavia.

A questo punto è emerso che anche la Gran Bretagna aveva guadagnato molto terreno a danno degli europeisti. Blair aveva ottenuto di ridimensionare e di non far più chiamare «ministro degli Esteri» il nuovo responsabile della politica estera dei governi, che assumerà contemporaneamente la vicepresidenza della Commissione europea. Ha spuntato vari opt-out, che consentono al Regno Unito di chiamarsi fuori da decisioni a maggioranza soprattutto nel settore giustizia. Avrebbe perfino depotenziato l'inserimento nel Trattato della Carta dei diritti fondamentali, respinta da Blair perché introduce maggiori protezioni sociali ai cittadini britannici anche sul lavoro e nel diritto di sciopero. Londra avrebbe ceduto in parte solo su richiesta della Francia di limitare il principio politico della libera concorrenza come obiettivo Ue. Sarkozy, conscio che la vittoria del «no» al referendum sulla Costituzione Ue scaturiva anche dall'ostilità francese verso gli eccessi di liberismo, ha voluto mostrare di tenerne conto. Ma a Prodi e agli altri europeisti le concessioni complessive della Merkel agli euroscettici sono apparse eccessive. E hanno fatto blocco in nome dei valori comuni dell'Europa: riaprendo la trattativa nella notte.

Ivo Caizzi
23 giugno 2007
 
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 24, 2007, 04:20:06 pm »

ESTERI

Intervista al premier: amareggiato soprattutto da Blair e dai polacchi

"Ma con altri nove paesi siamo pronti a ripartire"

Prodi: "Un'Europa senza cuore abbiamo fatto un passo indietro"

dal nostro corrispondente ANDREA BONANNI

 
BRUXELLES - "In tanti anni non avevo mai visto con così dolorosa chiarezza l'esistenza di due Europe: una, maggioritaria, che ci crede e che vuole andare avanti; l'altra che persegue una riduzione del ruolo dell'Unione come obiettivo politico nazionale. È un bene che queste due Europe, nonostante tutto, siano rimaste insieme. Ma il fatto che esistano mi rattrista profondamente".
Dalla sua casa di Bologna, dopo una pedalata in bicicletta, Romano Prodi al telefono tira il bilancio del vertice europeo che si è appena concluso, e che ha consentito di salvare con un nuovo Trattato la sostanza della Costituzione europea bocciata dai referendum francese e tedesco.
Presidente, tra tante dichiarazioni trionfali degli altri leader europei, lei sembra di gran lunga il meno entusiasta. Come mai? Possibile che abbiano vinto tutti, meno l'Italia?
"Al contrario. L'Italia ha portato a casa tutti gli obiettivi che si era prefissa. E le ore supplementari nella notte ci hanno permesso di strappare a favore dell'Europa qualche piccola ma significativa concessione in più. Come politico, dunque, non posso che essere soddisfatto. Ma, come europeista, consentitemi di essere amareggiato per lo spettacolo che mi sono trovato davanti".
Quale spettacolo?
"Lo spettacolo di alcuni Paesi tutti protesi a togliere l'aspetto più caloroso dell'Europa: l'aspetto del cuore. La pervicacia della Gran Bretagna che non voleva avere iscritto nei trattati l'inno, che non voleva la bandiera. E' chiaro che tutto questo non ha efficacia giuridica diretta e che un Paese dietro l'altro si è affrettato a precisare che, comunque, da loro la bandiera resterà in uso, e che si continuerà a suonare l'Inno alla Gioia. Ma l'accanimento di alcuni governi a negare ogni aspetto emozionale dell'Europa mi ha fatto male. Io l'Inno alla Gioia ce l'ho come suoneria del telefonino".
Quali Paesi, oltre alla Gran Bretagna?
"Forse non li ricordo tutti. Ma certo la Polonia, la Repubblica Ceca, anche l'Olanda. E poi sono proprio quegli stessi governi che rimproverano all'Europa di essere lontana dai cittadini. Ma come si fa a coinvolgere i cittadini senza coinvolgere le loro emozioni? Come si fa a dare loro l'orgoglio di essere europei se si negano loro i simboli di questo orgoglio? Tutto questo vertice che, lo ripeto, sul piano politico, concreto, è stato un successo indiscutibile, mi è apparso attraverso da una corrente profondamente incongrua".
Per esempio?
"Per esempio Tony Blair che conduce una battaglia contro la Carta dei diritti fondamentali, quando è proprio dalla Gran Bretagna che l'Europa ha ricevuto per prima in dono questi diritti, a cominciare dalla Magna Charta. Per esempio Kaczynski che mi spiega come non possa condividere le posizioni italiane perché, dice, i nostri paesi hanno "demos" diversi. Ma come? Se ci sono due popoli uniti da profondi sentimenti cristiani, dal lungo regno di un papa polacco, da una comune storia di sofferenza e di oppressione, e che non si sono mai fatti la guerra sono proprio i polacchi e gli italiani. E ora, in nome dell'Europa, scopriamo di essere diversi? Ma scherziamo? La storia sembra pesare in modo inesorabile su questi Paesi, che non riescono a capire come la grandezza dell'Europa sia proprio nell'essere stata concepita come una sfida alla storia. Una sfida che deve continuare".
Sì, presidente, ma non ci dirà che scopre adesso gli euroscettici. Non è sempre stato così?
"No. Non in modo così esplicito. Non in modo così programmatico. Poteva succedere, e succedeva, su fatti specifici, su questioni circostanziate. Invece al vertice ogni presa di posizione sembrava una proclamazione di dottrina. Tutto molto triste".
Ma un'Europa così, un'Europa sdoppiata può ancora stare insieme?
"Può farlo. E deve farlo. Come si è visto a questo vertice, nonostante tutto le ragioni dell'Europa, della solidarietà, spingono ad un accordo. E questo lo dobbiamo tenere, a tutti i costi. Perché è un bene inestimabile. Io sono europeista anche nell'amarezza. Però, allo stesso tempo, bisogna andare avanti. E questo nuovo Trattato ci offre la possibilità di farlo".
Lei ha insistito, anche ieri mattina al termine dei lavori, sulla necessità di lanciare cooperazioni rafforzate. Ha già qualche idea concreta?
"Sì. Questo trattato fornisce all'Europa gli strumenti che finora le mancavano. Ma non c'è più lo spirito condiviso per andare avanti. E allora come si fa a far avanzare le politiche in un quadro simile? Io penso che adesso occorra un momento di pausa, diciamo una decina di mesi, perché prima di tutto bisogna chiudere il Trattato. Ma poi bisognerà cominciare a muoversi".
Può fare qualche esempio concreto?
"Di due temi ho già discusso sia con Sarkozy sia con Zapatero. Il primo è una cooperazione rafforzata tra i Paesi dell'euro per un più stretto coordinamento delle politiche economiche. L'altro è un'azione congiunta per una politica del Mediterraneo. Oltre che con francesi e spagnoli, abbiamo già contatti con i greci, i maltesi, i ciprioti, gli sloveni".
Presidente, veniamo alle questioni concrete. Che Europa esce da questo trattato? Ed è proprio convinto di aver ottenuto tutto quello che voleva?
"Il nuovo Trattato è certo un passo indietro rispetto alla Costituzione. E lo sapevamo. Ma indubbiamente è un passo in avanti in ogni settore rispetto ai trattati esistenti. Quanto alle nostre condizioni, nel mio intervento davanti al Parlamento europeo avevo tracciato quattro linee rosse rispetto al testo costituzionale: mantenere una presidenza stabile dell'Ue; mantenere un responsabile della politica estera e un servizio diplomatico comune; mantenere l'estensione del voto a maggioranza; mantenere una unica personalità giuridica dell'Unione. Tutto questo è rimasto. In più, la battaglia che con altri nove governi abbiamo condotto nella notte ci ha consentito di migliorare ulteriormente alcuni dettagli"
Quali?
"Per esempio ci ha consentito di salvare il servizio diplomatico europeo, che i britannici volevano abolire. Ci ha consentito di rendere ancora più agevoli le cooperazioni rafforzate. Ci ha permesso di riequilibrare il ruolo dei parlamenti nazionali preservando l'autonomia della Commissione. Abbiamo fatto un duro braccio di ferro per salvare il concetto del primato del diritto comunitario rispetto a quello nazionale".
E l'avete vinto?
"Solo in parte. Perché questo principio che era iscritto nella Costituzione ora è contenuto in una dichiarazione allegata e non in un protocollo, come avremmo voluto. Comunque nei Trattati attuali non è neppure contemplato. Fino ad ora la supremazia del diritto comunitario era solo il frutto della giurisprudenza della Corte di Lussemburgo".
Però, nel momento cruciale del vertice, durante il lungo negoziato telefonico con il governo polacco riunito a Varsavia, nella stanza c'erano la Merkel, Blair, Sarkozy, Zapatero, e Juncker. Lei non c'era. Non si è sentito emarginato?
"Per niente. Intanto perché a quel punto era tutto già deciso. Si trattava solo di fare un po' di teatro e trovavo che stare lì a farsi passare il telefono per scambiare due parole di circostanza con Kaczynski fosse, a dire il vero, un po' umiliante. E poi perché mi sembrava molto più utile presiedere la riunione nella sala italiana con le altre otto o nove delegazioni che poi avrebbero condotto la battaglia nella notte per strappare le ultime concessioni possibili. E' quello che ho fatto. E, con il senno di poi, credo di aver fatto bene".

(24 giugno 2007) 

da repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Giugno 24, 2007, 04:31:17 pm »

Europa mezza piena

Sergio Sergi


Ah! quante «linee rosse» c’erano al vertice di Bruxelles. Tra i leader Ue non v’era uno che non avesse tracciato le proprie. Linee invalicabili, oltre le quali il mandato per negoziare il nuovo Trattato non avrebbe mai avuto il consenso. Dopo la notte più lunga dell’estate, il sorgere dell’alba ha sbianchettato molte di quelle linee. E, detto con franchezza, si sono viste tante linee europeiste uscire calpestate, travolte senza eccessiva resistenza dal solito realismo dell’ultima ora che, si diceva e si prometteva sarebbe stato schivato.

Fortini espugnati, bandiere ammainate, guarda un po’ a cominciare da quella dell’Ue, con le dodici stelline. E che non sarà più un obbligo alzare ed esporre, nel silenzio dell’inno alla Gioia ricacciato in gola, anche questo, in omaggio alla «common law». No, l’Europa, quella che è cresciuta in questi cinquant’anni che ci separano dalla firma dei Trattati di Roma, sembra voler abbandonare sul campo il suo spirito, rinunciare, nel nome di piccole soddisfazioni, la sua forza vitale dell’integrazionismo.

Esagerazione? Forse, ma i sentimenti oggi sono questi. E non tanto per la sostanza dell’accordo – su cui pesano forti rinunce rispetto al testo del trattato costituzionale consegnato definitivamente ai corsi universitari – ma per la certificazione ufficiale, nell’Unione fatta di 27 Paesi, di un diritto e di un potere del pensiero euroscettico. Non si tratta, per carità, di un delitto orrendo. Il diritto d’essere euroscettici è indiscusso. Ma, vivaiddio, varrà anche il diritto di essere euroentusiasti?

Ora si proverà, già è stato fatto nelle dichiarazioni della scorsa notte, a valorizzare quel che è stato salvato del «pacchetto istituzionale». Il presidente stabile dell’Ue per due anni e mezzo rinnovabili, almeno per dare un numero di telefono alla Casa Bianca che lamenta di non sapere mai chi chiamare in caso di bisogno. L’allargamento del sistema di voto a maggioranza in 45 settori. Una certa estensione del diritto di codecisione del Parlamento europeo. Si badi: si tratta di intese politiche, tutte al vaglio della prossima Conferenza intergovernativa. Dalla quale si sa come si entra ma mai come si esce. Ma ci sono tre questioni cruciali che non convincono e che, del resto, hanno costituito il nerbo del negoziato notturno. Non convincono perché si tratta di un cedimento sostanziale del fronte europeista al cospetto delle truppe d’assalto britanniche e polacche, accompagnato da un agitato attivismo del neofita presidente francese Sarkozy che si è infilato nella contesa strappando, nel segno del gollismo chiracchiano, il vestito buono delle regole di concorrenza, in omaggio al «no» del referendum.

Le tre questioni riguardano il sistema di voto, il ministro degli esteri e la Carta dei diritti fondamentali. Il sistema di voto è stato piazzato in testa alle barricate dei gemelli Kaczynski ai quali, tenendo già in ostaggio la Polonia, non è parso vero di poterlo fare anche con l’Unione europea. Di conseguenza, alla fine, le decisioni a maggioranza saranno prese non più a partire dal 2009 bensì dopo il 2017. Ci hanno spiegato, sino alla nausea, che con l’attuale Trattato di Nizza, l’Europa e 27 non è in grado di funzionare: dunque, rassegniamoci ad attendere altri nove anni. E, nel frattempo, l’Ue sarà, probabilmente, composta da almeno 28 Paesi, con l’arrivo della Croazia. L’Europa non avrà un «ministro degli esteri» perché non piace a Tony Blair e al suo successore Gordon Brown. Blair avrebbe potuto dirlo tre anni fa prima di mettere la sua firma sotto il progetto di trattato costituzionale che prevedeva, appunto, il ministro europeo. Si vede che è entrato in un’intensa fase di conversione. Ci sarà l’ «Alto rappresentante per la politica estera e di difesa», com’è oggi Javier Solana. Si promette che presiederà le riunioni dei ministri degli esteri, senza essere ministro, capite già la credibilità, e che ci sarà il servizio diplomatico esterno. Tutto bene. Tranne la precisazione, imposta da Londra, che l’innovazione non scalfirà di un millimetro le prerogative e le politiche estere di ciascun Paese. Ricordate l’Europa che parla con una «voce sola»? La cercano ancora.

Resta da dire della sorte subita dalla Carta dei diritti fondamentali che stava nella parte II del progetto di Costituzione. Un documento importante, di grande spessore istituzionale e politico, oltre che giuridico. La Carta non starà, queste le intenzioni, nel Trattato, ma il suo valore vincolante dovrebbe essere definito in una sorta di protocollo. Sulla Carta si è combattuta una dura battaglia con il premier britannico. Il quale ha avuto partita vinta. La Carta non riguarderà la Gran Bretagna grazie al meccanismo del cosiddetto «opt-out», cioè dell’autoesclusione. Una macchia nera. Una concessione francamente mortificante. E dolorosa. Accompagnata dalla pretesa specificazione che la Carta «non estende il campo d’applicazione oltre i poteri dell’Unione e non stabilisce nessun nuovo potere o compito per l’Unione». E si tratta della stessa Carta che Blair aveva accettato con la firma del progetto di Costituzione.

Si dice: queste concessioni non oscurano il passo in avanti compiuto. Può anche darsi. Ma si ha la netta sensazione che gli europeisti più convinti – Italia compresa – abbiano ceduto alla spinta del compromesso a tutti i costi, abbiano rinunciato a lottare con più determinazione contro il tentativo di un accordo «al ribasso» o che l’abbiano fatto solo quando i giochi con Londra e Varsavia erano già chiusi. Viene da pensare che, visto come sono andate le cose, sarebbe stato meglio, e più coerente, non spingersi in alto con certi discorsi se non si fosse stati sicuri di poterli onorare sino in fondo. Se a un gemello primo ministro è stato consentito di telecomandare il fratello da Varsavia, quali prudenze hanno frenato le sacrosante pulsioni degli europeisti? Il bicchiere, oggi, viene segnalato mezzo pieno. Qualcuno, però, senza farsene accorgere, ha bevuto l’altra metà.

Pubblicato il: 24.06.07
Modificato il: 24.06.07 alle ore 8.11   
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« Risposta #3 inserito:: Giugno 02, 2008, 05:13:37 pm »

2008-06-02 13:51

IRAN, BERLINO CONTRO INGRESSO ITALIA IN 5+1


 BERLINO - Il governo tedesco non appoggia il desiderio del nuovo governo italiano di partecipare direttamente alle trattative nucleari con l'Iran, ha detto a Berlino un portavoce del ministero degli Esteri. Una modifica del formato attuale delle trattive ('5+1', ovvero i cinque Paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu più la Germania) non sarà presa in considerazione, ha detto il portavoce.

Secondo il portavoce del governo, Ulrich Wilhelm, le trattative con Teheran avvengono in stretta sintonia con gli altri Stati dell'Unione Europea. Queste trattative da mesi cercano di arrivare al blocco dell'arricchimento dell'uranio in corso in Iran e sono condotte dai cinque Paesi con diritto permanente di veto alle Nazioni Unite (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia) più la Germania. In questo momento stanno preparando una proposta che favorisca la rinuncia da parte dell'Iran, come chiede da tempo la comunità internazionale.

Sulla questione del nucleare iraniano il nuovo ministro degli Esteri, Franco Frattini, ed il collega della Difesa, Ignazio La Russa, anche nel loro primo incontro a Bruxelles la scorsa settimana avevano esplicitato nuovi orientamenti, e l'intenzione italiana di mantenere una linea "più ferma" rispetto alpassato. Frattini aveva sottolineato la volontà di Roma di entrare nel gruppo dei paesi 5+1 (gli stati membri del consiglio di sicurezza Onu, più la Germania) che gestisce le trattative con Teheran. Pochi giorni fa, a Stoccolma, il segretario di Stato Usa Condoleezza Rice aveva espresso il convinto sostegno di Washington ad un ingresso di Roma nel 5+1.


AHMADINEJAD RIBADISCE, CANCELLARE ISRAELE

Israele "é alla fine e verrà presto eliminato dalle carte geografiche". Lo ha ribadito oggi il presidente iraniano, Mahmud Ahamadinejad, alla vigilia della sua partenza per Roma, dove parteciperà al vertice della Fao. "Il regime sionista criminale e terrorista, che ha una storia di 60 anni di saccheggi, aggressioni e crimini - ha affermato Ahmadinejad, citato dall'agenzia Irna - è alla fine e verrà presto cancellato dalle carte geografiche". Ahmadinejad parlava agli ospiti stranieri arrivati a Teheran per assistere, domani, alle cerimonie per il 19/o anniversario della morte del fondatore della Repubblica islamica, ayatollah Khomeini. Il presidente iraniano nello stesso discorso ha profetizzato anche la fine della potenza americana. "Il tempo delle potenze tiranniche è finito - ha detto Ahmadinejad - e con la vigilanza e la solidarietà tra i popoli, gli Usa e tutte le potenze sataniche se ne andranno e la giustizia arriverà". 


da ansa.it
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« Risposta #4 inserito:: Giugno 02, 2008, 05:14:21 pm »

ESTERI

Il presidente iraniano alla vigilia della partenza per il vertice Fao di Roma

"Il regime sionista è ormani alla fine. E lo stesso accadrà agli Stati Uniti"

Ahmadinejad: "Israele criminale sparirà dalle carte georgrafiche"

Berlino contraria all'ingresso dell'Italia nel gruppo dei 5+1


 TEHERAN - Domani sarà a Roma, dove lo attendono il vertice Fao e le polemiche sulla condotta internazionale del suo Paese. Ma il leader iraniano Mahmoud Ahmadinejad non placa la sua furia oratoria e torna all'attacco di Israele: "E' alla fine e verrà presto eliminato dalle carte geografiche".

"Il regime sionista criminale e terrorista - continua Ahmadinejad - ha una storia di 60 anni di saccheggi, aggressioni e crimini". Poi, nello stesso discorso, profetizza la fine della potenza americana: "Il tempo delle potenze tiranniche è finito e con la vigilanza e la solidarietà tra i popoli, gli Usa e tutte le potenze sataniche se ne andranno e la giustizia arriverà".

Il presidente parlava agli ospiti stranieri arrivati a Teheran per assistere, domani, alle cerimonie per il 19/o anniversario della morte del fondatore della Repubblica islamica, ayatollah Ruollah Khomeini.

Intanto, sul fronte delle complesse trattative sul nucleare, arriva uno stop al desiderio dell'Italia di entrare a far parte del gruppo dei 5+1 (ovvero i cinque paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu più la Germania). Il governo tedesco non appoggia la proposta di Roma di partecipare direttamente.

(2 giugno 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #5 inserito:: Giugno 05, 2008, 10:29:42 am »

Iran, l’Italia all’ombra di Bush

Giuseppe Cassini


Mahmud Ahmadinejad è sbarcato nella Città Santa. Grazie a Dio non si è portato dietro i pasdaran, altrimenti Benedetto XVI non avrebbe avuto altro scampo che rifugiarsi in Castel Sant’Angelo. Ancora vivido, infatti, è in lui il ricordo di come la Città Santa fu trattata dai suoi concittadini lanzichenecchi molte primavere fa.

«A dì 6 di maggio 1527 fu la presa di Roma - si legge ancora in un graffito sul muro della Villa Lante al Granicolo - Uccisi 6000 uomini, saccheggiate case e chiese, incendiata buona parte della città. Il Papa è fuggito in Castel Sant’Angelo con la sua guardia del corpo, i cardinali e i membri della Curia scampati al massacro».

A differenza dello spietato Conestabile di Borbone, che nel 1527 portò a Roma migliaia di lanzichenecchi, l’iraniano è sbarcato senza i pasdaran, armato solo delle usuali invettive contro il "regime sionista" e altre "potenze sataniche". Perciò il Papa, invece di correre al Castello, si è limitato a rinchiudersi in Vaticano: dove avrà modo di leggere in tutta tranquillità i documenti che Ahmadinejad voleva, forse, sottomettergli di persona su questioni attinenti alla democrazia, alla sicurezza e al dialogo fra le tre religioni del Libro (Bibbia, Vangelo e Corano).

Comunque, la ritirata è stata più agevole per la somma Autorità cattolica che per le massime Autorità civili della capitale, costrette ad accogliere in qualche modo l’empio sciita. La scelta più conveniente per il Primo Ministro italiano sarebbe stata quella di andare incontro al suo pari grado iraniano, sedersi attorno al tavolo e srotolare tutti i cahiers de doléances che abbiamo accumulati in questi anni: nucleare pulito e sporco, negazione di Israele e dell’Olocausto, ingerenze in Iraq e Afghanistan, armi a Hezbollah e Hamas, sanzioni economiche, petrolio e sue contropartite.

Nossignore. Invece di confrontarsi Berlusconi ha scelto di defilarsi; e lo ha fatto per pura coerenza con la sua memorabile dichiarazione di fedeltà alla bandiera a stelle e strisce: "Io sto sempre dalla parte degli Stati Uniti ancor prima di sapere come la pensano". Una dichiarazione che risale all’inizio del suo passato quinquennio di governo e che ogni buon diplomatico - in qualsiasi parte del mondo - non vorrebbe mai sentir dire dal proprio capo: quale potere negoziale rimarrebbe nelle mani di un diplomatico il cui governo concedesse alla controparte tutto a scatola chiusa prima di iniziare il negoziato? E in effetti non si ricorda alcun precedente del genere negli annali della diplomazia.

A proposito della questione se trattare o meno con l’Iran, è proprio di questi giorni una illuminante diatriba tra Obama e McCain. Nell’infuocata campagna elettorale in corso è stato chiesto a Obama: saresti disposto ad incontrare senza condizioni i leader di Paesi come l’Iran, la Siria, Cuba o la Corea del Nord? La risposta è stata affermativa. Al ché McCain ha lanciato una strana frecciata: "Come mai il senatore Obama accetterebbe di sedersi al tavolo con il presidente iraniano, ma non si è ancora seduto al tavolo con il generale Petraeus, che è a capo delle nostre truppe?" Replica di Obama: "Questa è la classica battuta sarcastica ma priva di sostanza, a parte il fatto che ho incontrato il gen. Patraeus alla sua recente audizione in Senato". E mercoledì scorso ha aggiunto: "Ecco un bell’esempio di come si è inaridito il dibattito sulla nostra politica estera negli ultimi otto anni…". La vera novità è che oggi - di fronte ai fallimenti diplomatici di Bush - persino "falchi" storici come Kissinger e Brzezinski esortano il futuro presidente, chiunque sia, a confrontarsi faccia a faccia con il "nemico".

E l’Italia? L’attuale governo resta fedele alla sua nuova linea di fermezza nei riguardi dell’Iran. Il motivo? L’ha spiegato bene il Ministro degli Esteri Frattini: l’Italia è determinata ad inserirsi a pieno titolo nel Gruppo di Contatto che da quattro anni lavora a disinnescare la mina nucleare iraniana (il cosiddetto Gruppo 5 + 1 è composto dalle cinque Potenze con diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU più la Germania). E’ un motivo molto lodevole, peccato che sia stato proprio il ministro Frattini a snobbare il Gruppo alla sua nascita, quando la porta era aperta per noi. Una storia che non va dimenticata.

* * *

Il 21 ottobre 2003 i Ministri degli Esteri francese, tedesco e britannico sbarcarono a Teheran in missione straordinaria per firmare una dichiarazione d’intenti col governo Khatami sulla questione nucleare. In pieno semestre di presidenza italiana della UE, tutti si domandarono come mai si era costituita una "troika" europea senza la presidenza di turno: tanto più che l’Italia era stata all’avanguardia nella riapertura del dialogo con l’Iran sotto i governi Prodi e D’Alema, tra il 1996 e il 2000. Dalla Farnesina uscì una risposta surreale: "L’Italia appoggia questa iniziativa ma non ha ritenuto di associarsi, alla luce della propria funzione di presidenza del Consiglio europeo". Dai banchi dell’opposizione l’on. Fassino stigmatizzò l’episodio come una penosa ammissione di "irrilevanza" del nostro Paese sui dossier che contano.

Due anni dopo, nel marzo 2005 l’ambasciatore iraniano alle Nazioni Unite di Vienna (e quindi presso l’AIEA) se ne uscì con queste parole: "Da 28 mesi c’è una poltrona vuota nella trattativa sul nucleare iraniano ed è quella dell’Italia. Roma manca all’appello in un momento cruciale per i destini geopolitici dell’Iran, quando la sua presenza sarebbe stata utilissima, perché c’è una storia comune che lega i due Paesi da anni con reciproca soddisfazione…L’Italia ha una conoscenza e una sensibilità diplomatica che avrebbe evitato certi errori con Teheran, ma bisogna avere più iniziativa diplomatica e non appiattirsi sulle posizioni degli altri Paesi".

Incredibile ma vero, nel 2003 il governo Khatami aveva avvicinato quello italiano, in quanto Paese amico e in quanto titolare della presidenza UE, affinché prendesse l’iniziativa. Ma Roma non se l’era sentita di mettersi alla testa di un negoziato che poteva - chissà - irritare gli americani. Peggio: alla Farnesina la Direzione Generale competente aveva sconsigliato il ministro Frattini dall’avventurarsi a Teheran con la "troika"; e lui si era rimesso fiduciosamente al parere dei suoi "esperti" diplomatici. Si perse così una delle rarissime occasioni in cui l’Italia avrebbe potuto svolgere un ruolo non tanto "per esserci" quanto "per contare". Quando Fini diventò Ministro degli Esteri, nel 2005 si lasciò sfuggire una frase di comprensibile irritazione: "L’Italia non fa parte del gruppo con Francia, Germania e Gran Bretagna semplicemente perché non lo chiese; secondo me è stata una scelta sbagliata perché noi, come interlocutori credibili dell’Iran, avremmo avuto un ruolo da svolgere".

* * *

Con molto pragmatismo, l’ultimo governo Prodi si è applicato a difendere le ragioni del dialogo politico con l’Iran, proteggendo con la stessa logica i propri interessi economici ed energetici: interessi enormi, in soldoni un volume di scambi pari a 6 miliardi di euro. Uno degli ultimi atti del ministro degli esteri D’Alema è stato quello di porre, in aprile, una riserva a Bruxelles sulla "lista aggiuntiva" di sanzioni comunitarie adottate contro Teheran, per rivendicare il diritto del nostro Paese - quale primo partner commerciale dell’Iran - ad "alzare la voce" in quel contesto, dal momento che siamo esclusi dal Gruppo di Contatto.

Ora è tornato il ministro Frattini. Il 15 maggio scorso ha rilasciato al Financial Times alcune dichiarazioni che parevano improntate a pari pragmatismo: la linea con l’Iran sarà di "fermezza quando occorre, cooperazione quando serve". Si è spinto perfino a proporre l’Italia come "facilitatore" in grado di aprire nuovi canali di dialogo fra Washington e Teheran. Ed ecco arrivare il momento della verità.

Ahmadinejad è qui a Roma, disponibilissimo a discutere con noi senza pre-condizioni. La sua presenza è un dono inaspettato per chi vuol assumere il ruolo di "facilitatore": lui ce lo facilita, ma noi rifiutiamo di incontrarlo per timore di dare un dispiacere agli Stati Uniti e a Israele. Eppure anche loro sanno che le invettive millenaristiche di Ahmadinejad suonano come un cembalo squillante di nessun effetto pratico.

"Ora abbiamo chiesto agli Stati Uniti di essere invitati nel Gruppo di Contatto - ha rivelato Frattini - e gli Stati Uniti ci hanno molto incoraggiato. Spero che anche i partner europei comprendano questo obiettivo". Davvero ci spera? Non sa che per meritare questa promozione occorre conferire in dote al Gruppo qualcosa di concreto, come ad esempio un qualche risultato nel nostro ruolo di "facilitatori"? E come facciamo ad ottenere qualche risultato se neppure ci proviamo?

Mentre noi ci lasciamo sfuggire l’ennesima occasione la Germania, non potendo entrare nel Consiglio di Sicurezza dalla porta grande, vi entra dalla finestra col suo assiduo lavoro, impermeabile alle critiche che spesso le giungono da Washington. Il 27 maggio Javier Solana, responsabile della diplomazia comunitaria, ha annunciato un’altra missione a Teheran con un nuovo pacchetto di proposte concordate in seno al Gruppo: alla missione non parteciperanno gli Stati Uniti, perché rifiutano ogni contatto con l’Iran, ma sarà ben presente ed attiva la Germania.

Pubblicato il: 04.06.08
Modificato il: 04.06.08 alle ore 13.00   
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