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« inserito:: Gennaio 07, 2008, 06:49:20 pm » |
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Venezuela, salvate il bambino Emanuel Maurizio Chierici Storia di un bambino all’onore della cronaca, ma il bambino non lo sa. Ha tre anni e mezzo, si chiama Emanuel, «Dio è con noi». Dietro la grazia del nome la vita resta un inferno. È nato dall’amore «proibito» tra Clara Rojas e un carceriere che ne vegliava la prigionia. Proibito, perché il dogmatismo marxista delle bande armate condanna ogni rapporto personale «col nemico». Da sei anni nella foresta colombiana, la madre è prigioniera delle Farc assieme a Ingrid Betancourt. Volevano sfidare il presidente liberista Uribe per smontare le cosche politiche, militari e mafiose che schiacciano la società civile. Elezioni 2002. Come tutti sanno, l’idiozia delle bande armate legate ai narcos le trasforma in merce di scambio. Il massimalismo finisce sempre per dare una mano al potere. Emanuel è venuto al mondo con un taglio cesareo improvvisato nelle frasche di una capanna: per bisturi, il coltello da cucina. Nasce col braccio destro anchilosato. Bianco, piccolissimo, pesava niente, racconta in Tv nell’aprile 2006 il giornalista Jorge Enrique Botero presentando il suo libro «Ultime notizie dalla guerra». La madre era rimasta sola. Guerrigliero-padre allontanato appena il comando Farc viene a sapere che Clara Rojas aspetta un bambino. Ivan Rojas, fratello di Clara, non sopporta l’insinuazione: si rivolge al tribunale per far sequestrare il volume. Ma arrivano altre informazioni: il 28 aprile 2007, John Frank Pinchao, poliziotto-ostaggio sfugge alle Farc e conferma la maternità di Clara. Emanuel tira avanti per qualche mese nell’umidità della malaria, divorato dalla verminosi e dagli insetti. Fin qui una storia come tante nella Colombia dove tre milioni di profughi interni vagano come i fantasmi del Darfur. Per Emanuel, o per i ragazzi soldato, o per i tre bambini che ogni minuto chiudono gli occhi sfiniti, ancora nessuna speranza, anime morte nel tritasassi del potere. Potere delle Farc: tenerezza verso il bambino pensando al ricatto d’oro che può procurare. Potere del presidente Chavez: vede nella sua liberazione la cometa che può illuminarlo mettendo in ombra le amarezze del referendum perduto; potere del presidente Uribe deciso a non permettere il ritorno alla vita di Ingrid Betancourt, di Clara Rojas e di ogni intellettuale in grado di smascherare i suoi appetiti. Dove Chavez ha fallito lui potrebbe farcela: sta cambiando la Costituzione per la rielezione eterna. Emanuel diventa il giocattolo conteso da queste ambizioni. Senza contare l’impazienza dei professionisti della violenza. Nel racconto di Pinchao, tre mercenari californiani, prigionieri assieme agli altri, protestano per i lamenti del neonato. L’essere ostaggio fa parte del loro contratto di lavoro, contractors della Microwawe System ingaggiata dal Pentagono per dare una mano all’antiguerriglia di Uribe. Ma l’aereo cade nella foresta, eccoli in catene. Emanuel ne disturba il sonno. E i pianti durante le fughe improvvise lasciano tracce che mettono in pericolo la loro incolumità. O ve ne liberate voi, o ce ne liberiamo noi: i signori della guerra non amano le sfumature. Piaghe per bruciature di sigaretta strappano il cuore della madre. Per giorni invoca la restituzione del piccolo appena lo portano via per metterlo al sicuro. Le Farc consegnano Emanuel «ad una persona onesta» nella speranza che la vita normale lo aiuti a sopravvivere in previsione di chissà quale ricatto. Josè Crisanto Gomez fa il muratore ed ha cinque figli: abita a El Retorno, dipartimento di San Josè di Guaviare, regione Farc. Emanuel arriva su una lancia a motore. Ha bisogno di cure, ma il muratore e la moglie non sanno come alleviare lo strazio del braccio anchilosato. Due mesi dopo si arrendono: nel luglio 2005 José consegna il bambino all’ospedale. Detta il nome all’impiegato che tiene in ordine i registri d’accoglienza: Juan David Gomez Tapiro, «pronipote». Povero Emanuel, sembra agli sgoccioli e l’ospedale avverte l’Istituto Colombiano per la Tutela della Famiglia. Diventa uno dei 15.853 piccoli che in anno la guerra civile disperde senza identità controllate, ecco perché i registri della Tutela Famiglia vengono passati al microscopio dai servizi segreti: dietro ogni minore abbandonato c’è forse un guerrigliero. Quali sospetti può aver suscitato David-Emanuel resta un segreto, ma sei mesi fa qualcosa si muove. Sarkozy riaccende la diplomazia: accogliendo le preghiere dei figli, madre e marito di Ingrid Betancourt, comincia un pressing diplomatico su Uribe spingendolo ad allargare la speranza alla «mediazione del presidente Chavez», come suggerisce Piedad Cordoba, senatrice dell’opposizione colombiana. Appaiono due notizie che solo adesso è possibile mettere in relazione. Mentre la mediazione Piedad-Chavez è ancora sotterranea, anche se già annusata dai servizi dell’altra America, la giornalista venezuelana Patricia Poleo pubblica sul foglio di famiglia Nuevo Diario, la rivelazione bomba: Ingrid è custodita da Chavez in territorio venezuelano. La famiglia Poleo vive tra Washington e Miami. Il giornale si stampa a Caracas nutrito dai capitali di una misteriosa fondazione Usa. Patricia non può tornare in Venezuela. La insegue un mandato di cattura per l’assassinio del giudice Anderson: stava indagando sui mandati del colpo di stato anti Chavez, 2002 e un commando l’ha fatto fuori. Nessun quotidiano delle Americhe abbocca alla storia di Ingrid: tutti sanno chi sono gli amici della Poleo, ma l’Europa è lontana e scioglie l’emozione. A questo punto Chavez viene a galla: riunisce una conferenza stampa dichiarandosi disposto a contattare Marulanda, vecchio capo Farc. Succede mentre John Frank Pinchao, poliziotto sfuggito alla prigionia, inonda ogni prima pagina colombiana con il racconto di Emanuel, figlio di Clara. I fogli popolari ne sollecitano con impazienza la liberazione: ogni sera titoli da copertina. Ed ecco il secondo avvenimento: Alberto Cuta, funzionario che tutela i diritti della famiglia ed ha maneggiato i documenti di David-Emanuel, a fine agosto sale a Bogotà dalla regione Farc del Guaviare. Fa precedere il viaggio da lettere nelle quali spiega d’essere in possesso di informazioni importanti. Quali? Ne porterà le prove. Alberto Cuta non arriva a destinazione con le notizie: sgozzato appena mette piede a Bogotà. Sono i giorni dell’idillio improvviso Uribe-Chavez. Il presidente venezuelano dà piena fiducia al presidente colombiano: deve dimostrare che Ingrid e i 45 ostaggi che le Farc mettono a disposizione per lo scambio, sono vivi. Da quattro anni familiari e autorità non hanno notizie. Chavez vola a Parigi ad incontrare Sarkozy, populismo del socialismo o muerte, in sintonia col populismo country club. Questione di ore, lettere e immagini stanno per arrivare. Ma il giornale argentino Pagina 12 sospetta qualcosa: Uribe non ha convenienza che una mediazione internazionale lo metta da parte, eppure ne sembra sollevato. Perché? Poche ore e tutto diventa chiaro: subito dopo la telefonata di un emissario Farc che annuncia a Chavez l’arrivo di lettere e foto, l’angolo della foresta dalla quale il messaggero chiamava viene bruciato da un bombardamento selvaggio e gli emissari in viaggio verso il Venezuela con lettere e immagini, arrestati e fatti sparire dalla polizia colombiana. Chavez è servito come allodola. Con una scusa Uribe subito se ne libera, mediazione finita: torna a decidere da solo. Di Emanuel non si parla più. Per poco: sono le Farc a rimettere il bambino in primo piano. Lo libereranno assieme alla madre e ad un’altra signora ex deputato da sette anni in catene. A Chavez il compito di garantire il ritorno di Emanuel e delle donne. Sarkozy, e i democratici di Washington sono d’accordo: si respira aria da prova generale per la liberazione Betancourt. Kirchner accetta di guidare la commissione di garanzia assieme a Marco Aurelio Garcia, numero due del Lula brasiliano. Svizzera, Francia, Cuba, Ecuador, e Bolivia li accompagneranno nella foresta con ministri e ambasciatori. Né Graham Greene, né Le Carré avevano immaginato qualcosa del genere nei loro romanzi. La Colombia apre le porte con generosità, stessa generosità del Chavez che organizza la carovana di aerei ed elicotteri parcheggiati nell’aeroporto colombiano di Villavincencio, città agricola, capitale delle rose: ogni mattina, un po’ congelate, le rose prendono il volo verso le vetrine di Miami e New York. Per Emanuel, la madre e l’altra signora sembra fatta. «L’abbiamo battezzata “operazione Emanuel” in onore del piccolo prigioniero». L’ex presidente argentino e gli altri si sistemano in una fattoria bunker pronti a saltare sugli elicotteri per raccogliere gli ostaggi in cammino. Aspettano le coordinate del posto segreto; aspettano, ma le coordinate non arrivano. La signora Fernandez, moglie di Kirchner e presidente a Buenos Aires, telefona preoccupata al marito: ha parlato con Uribe, l’ha trovato scettico. È convinto sia una messa in scena che finirà in niente. «Montatura mediatica». Kirchner marito si arrabbia: «C’è di mezzo un bambino, nessuna montatura...». Trecentocinquanta giornalisti ammucchiati a Villavincencio stanno aspettando. Aspetta il regista Oliver Stone, documenterà il momento storico della presa in consegna degli ostaggi. Ma le Farc tardano e un Chavez da qualche giorno stranamente diplomatico rompe la bonaccia: qualcuno sta cercando di frenare i passi dei prigionieri. Gli risponde Uribe: la regione segnalata dalle Farc è libera da ogni forza armata. Nessuna operazione in corso. Il ritardo dipende da chissà quali problemi interni della guerriglia. Lascia capire: fanno sempre così. Luis Carlos Restrepo, commissario per la pace del governo colombiano, va a trovare Kirchner e gli altri volontari, confermando le parole del presidente: da tre settimane non un solo militare pattuglia la foresta. Ma Miami Herald e Nuevo Herald, hanno altre informazioni. Il giornalista Guillem parla col generale comandante della quarta divisione, Freddy Padilla de Leon e scopre che dal 19 dicembre è in corso l’operazione Emanuel. Stesso nome dell’impresa che libera i prigionieri: non si fa confusione? Il significato è diverso, spiega il generale. Il nostro Emanuel vuol dire buon Natale. Natale sicuro nelle foreste della regione. Sicurezza armata fino ai denti: i comandanti dei battaglioni 19, 22, 44, documentano morti e prigionieri fra le «le bande criminali Farc». Ogni giorno scontri duri nel verde che doveva essere disarmato. «Gruppi intercettati, agganciati, distrutti...». E le notizie che il commissario di Uribe porta alla delegazione Kirchner cominciano a cambiare: le Farc hanno attaccato un aereo militare con 30 uomini a bordo. Per fortuna il razzo si è perduto, ma è allarme. Il 28 dicembre l’informazione pesante: Restrepo avverte che la Colombia non è in grado di garantire l’incolumità di Kirchner e Marco Aurelio Garcia nel momento del faccia a faccia con le Farc. «Siete bianchi ed importanti. Sospettiamo vogliano prendervi prigionieri». Kirchner si lascia andare coi giornalisti argentini: «Ho l’impressione che ci invitino a tornare a casa». E a Villavincencio all’improvviso appare il presidente Uribe. Conferenza in una base militare: non è vero che le truppe colombiane frenino l’incontro. La Farc non può venire all’appuntamento perché Emanuel è nelle nostre mani. Non prigioniero; ospite segreto in un istituto di assistenza. Ma perché dirlo solo adesso? vogliono sapere i commissari arrivati da sette paesi. «Anch’io lo so da poche ore...». Missione interrotta. Nel racconto presidenziale, il muratore al quale le guerriglia aveva consegnato Emanuel due anni prima, avrebbe tentato di riprendersi il bambino come gli era stato ordinato dalle Farc. Non ce l’ha fatta ed ha confessato la verità. Con la moglie e i cinque figli viene trasferito a Bogotà sotto protezione di stato. Esiste un’altra versione: il muratore è sotto protezione da più di un mese. Messo alle strette dopo l’assassinio di Alberto Cuta, difensore dei diritti della famiglia, avrebbe conservato il segreto lasciando che il presidente facesse finta di aspettare l’Emanuel in marcia nella foresta. La prova dna conferma: il bambino è proprio Emanuel. Uribe se ne proclama protettore, la nonna e lo zio lo vorrebbero per loro, Chavez ne festeggia «l’identificazione»: merito nostro se oggi sappiamo che non è prigioniero. E la madre, e l’altra signora deputato? «Abbiate pazienza, le riporteremo a casa». Fino a sei mesi fa Emanuel era un fantasma. Adesso è solo un bambino, ma non sa con quale nome e in quale famiglia gli strateghi dell’intrigo internazionale gli permetteranno di giocare lontano dagli occhi di nuovi e vecchi carcerieri. mchierici2@libero.itPubblicato il: 07.01.08 Modificato il: 07.01.08 alle ore 13.44 © l'Unità.
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 11, 2008, 07:16:08 pm » |
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Ma i veri vincitori sono i familiari degli ostaggi
Maurizio Chierici
Adesso che Clara Rojas e Consuelo Gonzales Perdomo sono tornate a casa dopo anni di prigionia nella foresta, si fanno i conti su chi giura d’aver vinto e chi non ammette d’aver perso. La previsione è facile: Uribe, presidente della Colombia, ribadirà la sua intransigenza verso le Farc; la concessione che ha permesso a Chavez il salvataggio (non si sa fino a che punto clandestino) verrà considerata episodio «umanitario e irripetibile». Emanuel, il bambino di tre anni, ha legato le mani ai falchi di Bogotà. Li ha costretti ad accettare la mediazione internazionale: dall’ex presidente argentino Kirchner, al numero due brasiliano, Svizzera, Francia, ecc. Mezzo mondo che fa capire: adesso basta. Il primo round è finito nell’intrigo che sappiamo: Emanuel era già nelle mani del governo colombiano e l’episodio sembrava chiuso, ma Chavez ha insistito e Uribe si è arreso «per l’ultima volta». Da domani ricomincia lo scontro.
Chavez annuncerà la vittoria. La sua iniziativa gli ha ridato fiato mettendo provvisoriamente in ombra la sconfitta elettorale che ne ha impedito la rielezione indefinita. Grazie al suo correre da Parigi a Buenos Aires, dopo un silenzio che sembrava mortale, si sa che Ingrid Betancourt è viva sia pure nello strazio di una prigionia medioevale. Clara, la sua spalla nella lotta elettorale contro l’Uribe 2002, ritrova la libertà assieme ad una vecchia congressista in catene da otto anni. Con questa acrobatica «vittoria» il presidente venezuelano immagina di poter riprendere i fili dell’ambizione che lo vorrebbe protagonista (petrodollari e alleanze interessate) del cambiamento dell’America Latina. Ma i veri vincitori sono i familiari degli ostaggi. La loro mobilitazione ha scardinato l’intransigenza di Uribe e sollecitato la vanità positiva di Chavez. I giornali fedeli al presidente colombiano parlano stamattina di «atteggiamenti schizofrenici della madre di Ingrid Betancourt». Perché è la Betancourt la bestia nera di Uribe. La sua lettera dall’inferno ne conferma il disprezzo. E Uribe e chi gli fa da corte non la vogliono tra i piedi. Per sei anni hanno impedito ogni trattativa ma Chavez inarrestabile e quel bambino galeotto li hanno messi al tappeto. Solo ieri Bogotà annunciava di ricominciare con la lotta dura contro i criminali del narcotraffico nascosti dietro un sogno politico che non c’è più. «Mai più mediazioni internazionali. La Colombia farà da sola», invece la rabbia dei familiari e l’impopolarità che li assediava, li hanno costretti a rimangiare la decisione. Uribe aveva sbattuto la porta in faccia ai governi argentino e brasiliano, offesi dal disprezzo che respingeva il loro intervento umanitario. Adesso sta preparando il dopo. Clara Rojas e Consuelo Gonzales Perdomo vengono annunciate come testimoni «non credibili». I loro racconti inquinati «dalla debolezza mentale conseguenza della lunga prigionia». Comincia il tam tam per evitare che lo strumento della mediazione possa restituire alla vita Ingrid Betancourt. Anche le Farc escono a pezzi. I racconti di Clara e Consuelo si annunciano devastanti. Come spiegare l’accanimento verso due donne che avevano cercato di dialogare con la buona volontà di chi insegue la pacificazione?
Il ritorno dei primi ostaggi appesantisce il bilancio di cinquant’anni di lotta armata. Trasforma le reciproche strategie nella bizzarria crudele di un evo che il secolo scorso ha superato. Né le Farc né i vari governi sono riusciti ad imporsi sparando. Migliaia di morti, due milioni e mezzo di profughi, malavita e narcotraffico alle stelle. Hanno perso ogni credibilità. Trattare diventa il solo modo per concludere la tragedia. Farc e Uribe devono arrendersi e discutere come è successo trent’anni fa in Venezuela: Theodoro Petkoff, leader della clandestinità, è tornato alla vita civile. Ha scelto il confronto politico diventando ministro del socialcristiano Caldera. Oggi è la sola testa pensante dell’opposizione a Chavez. I guerriglieri del Farabundo Marti hanno appena vinto le elezioni amministrative e governano la capitale. Addio alle armi, il mondo è cambiato. Anche la Colombia divisa deve prenderne atto per evitare le acrobazie di Chavez: scuotano equilibri economici che Mercosur, la Banca del Sud e altre reti finanziarie tessute dallo stesso Chavez, vengano paralizzate da dissapori che rallentano un futuro di normalità. Schizofrenica la madre della Betancourt quando pretende il dialogo? O è schizofrenico chi cavalca le vendette pensando alle fortune elettorale degli interessi che rappresenta? Resta il dubbio se le furbizie di una parte e dell’altra siano disposte ad arrendersi. L’esempio paradossale riguarda ancora il destino del bambino sballottato tra un egoismo e l’altro. Potrebbe essere restituito ai familiari (nonni e zii) prima ancora dell’arrivo della madre, ma la burocrazia non ha fretta. I magistrati incaricati di sciogliere la lontananza dagli affetti continuano le vacanze fino al 18 gennaio. Emanuel può aspettare.
Pubblicato il: 11.01.08 Modificato il: 11.01.08 alle ore 8.21 © l'Unità.
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 12, 2008, 10:24:49 pm » |
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Un vescovo sarà presidente? «Il Paraguay ai contadini»
Maurizio Chierici
Grande più dell'Italia, sei milioni e mezzo di abitanti, quasi tre vivono fuori - emigranti - il Paraguay è un' isola medioevale nell'America che cambia. Isola verde soia. In pochi anni è diventato il quarto esportatore del mondo. 4 milioni di ettari che hanno soppiantato l'agricoltura di sopravvivenza, cotone e frutta nella prospettiva del biodisel. Il 2% dei grandi proprietari ha in mano il 77% della produzione. Per metà stranieri, soprattutto brasiliani. Con diserbanti avvelenano i terreni di chi non vuol vendere e la gente lascia i campi rifugiandosi nelle bidonville improvvisate attorno alle città. Fernando Lugo ha voluto che la sede del suo movimento - Alleanza Patriottica per il Cambiamento - fosse sistemata in una casa con piccolo giardino a due passi dalla stazione delle corriere di Asuncion: «Chi mi vota non ha l'automobile». Lui ce l'ha e la guida da un comizio all'altro. Rincorre le amicizie di sempre: oratori, contadini, piccole chiese di campagna.
Le tasche del suo movimento sono vuote mentre nelle tasche dei concorrenti c'è ogni ben di dio. Il generale Ovideo offre impanadas e manioca ad un'intera tribuna che allo stadio batte le mani alla nazionale paraguayana. I notabili colorados festeggiano i compleanni invitando il popolo a brindare nelle belle proprietà: e siamo solo all'inizio della campagna. Fernando Lugo può solo distribuire buone parole e calmare la rabbia delle pance vuote. Parla con la cautela elegante di chi è cresciuto fra tante prudenze eppure alle orecchie europee le sue parole suonano populiste: « Perché la situazione è questa: pane, casa e un lavoro giusto. La gente lo pretende, provo a rispondere. Non so se è populismo».
Credo sia la prima volta che in America Latina un vescovo cattolico abbandoni la Chiesa per proporsi agli elettori come presidente del paese. Può essere il segno che invita all'ottimismo chi vuole un cambiamento profondo nella politica del Paraguay, oppure sintomo di disperazione delle masse contadine ed operaie incapaci di raccogliersi attorno ad un leader progressista ?
Direi tutte e due le cose. Nel 1930 un vescovo brasiliano è diventato governatore dello stato dove viveva mantenendo la dignità pastorale. Le ragioni della mia decisione sono tante. Prima di tutto la politica che ha un funzione molto importante, come diceva Pio XII. Serve a cercare il bene delle grandi maggioranze dimenticate. Il vescovo che passa alla politica sposa una candidatura atipica. Ecco perché non mi sono proposto; ho solo risposto a migliaia e migliaia di firme raccolte in ogni angolo del paese. Gente che ormai non si fida delle solite promesse. Non ho fondato un partito, sono stato aggregato all'esistente nella speranza di una trasformazione reale. I politici del Paraguay non godono buona fama. Si servono della politica per esercitare il potere: raccomandare, influenzare, arricchire gli amici. La gente non ne può più. La Chiesa resta l'istituzione più credibile per trasparenza ed impegno in favore dei deboli in una realtà dove il partito dominante si identifica con lo stato e mantiene le cose come le sue cupole pretendono».
Visto dall'Europa il Paraguay sembra alla fine del mondo. Non esiste un vero catasto delle proprietà; da 60 anni al potere, il partito Colorado mescola la lunga dittatura del generale Stroessner a corporazioni di grandi proprietari, multinazionali e notabili. La gente non esiste. L'espressione «riforma agraria» viene considerata blasfema. Sto osservando la sua campagna elettorale: va in giro al volante dell'auto, poche risorse ma grande entusiasmo. Non è che inseguendo l'utopia ?
«Sto inseguendo la speranza di chi mi ha chiesto di stare con chi non ha ormai niente. Il Paraguay è il cuore dell'America del Sud, tra Argentina e Brasile, ma è un Paese stravolto da corruzione, mafia, illegalità. Deve ritrovare la dignità che coinvolga nelle istituzioni ogni persona. È la sfida del prossimo governo. È vero: dire "riforma agraria" è come bestemmiare. La distribuzione della terra resta uno scandalo. A questo punto la riforma agraria integrale è la sfida che nessun nuovo presidente può ignorare. Il problema resta strutturale: lo scandalo delle enormi proprietà. Mio primo impegno sarà raccogliere in un catasto nazionale tutte le proprietà. So che fa sorridere i paesi civili i quali si chiedono: come fa il Paraguay a tirare avanti senza catasto? Purtroppo noi dobbiamo ricominciare da questo baratro. Nel 1990-1992 abbiamo ricevuto 40 milioni di dollari dalla comunità internazionale proprio per mettere assieme un catasto indispensabile ad uno stato normale. Si è censito solo il 15% e non le proprietà importanti. Chissà dove è finito il denaro».
Ascolto le sue promesse e la gente le ascolta contenta. Davvero pensa di riuscire a difendere l'immenso bacino di acqua dolce Guaranì, frenare la deforestazione, l'avanzata delle colture transgeniche ( soia, soprattutto ) e agrochimiche che stanno avvelenando la gente ?
Ne parliamo ogni giorno. Le risorse naturali sono una ricchezza fondamentale e di tutti. L'avidità ha distrutto buona parte dell'habitat. Le riserve di acqua dolce sono una benedizione di Dio: Argentina, Uruguay, Brasile e Paraguay potrebbero disporne come pochi posti al mondo. Invece sono oggetto di traffici. È urgente difendere queste risorse e battersi contro distruzione e sfruttamento selvaggio. La maggior parte delle persone vengono espulse dalle nuove coltivazioni, soprattutto soia transgenica. E lo sfruttamento selvaggio di allarga. Latifondi sempre più immensi ed in mano a proprietari stranieri, a volte identificati, a volte misteriosi: proprietari assenti drammatizzano la vita delle persone con nome e cognome che non sanno come andare avanti. La nostra lotta è questa: permettere a chi possiede un fazzoletto di terra di coltivarlo e poterci vivere senza arrendersi alle pressioni che diventano minacce».
Si continua a parlare di masse sempre più povere: quale tipo di povertà umilia la gente ? Mancanza di lavoro, case che non sono case? Emigrazione che fa scappare le nuove generazioni nelle bidonville straniere? Come recuperare queste folle disperate?
«Due milioni di paraguyani vivono nelle villas miserias di Buenos Aires, 70 mila negli Usa, 6 mila in Spagna. Difficile portarli a casa tutti, ma la riforma agraria e iniziative industriali possono far tornare chi ha perduto la terra. Servono opportunità per tutti e non solo privilegi per la cerchia dei fedeli all'eterno governo. Oggi in Paraguay non siamo uguali di fronte alla legge e non abbiamo le stesse opportunità di sopravvivenza. Ecco perché i monopoli statali e privati devono essere controllati o sparire per garantire credibilità ad un'economia che bisogna aprire ai giovani, professionisti ed intellettuali, ma anche alla gente semplice, insomma alle forze che domani governeranno il paese».
Il Vaticano non è d'accordo sulla sua decisione di spogliarsi della missione di vescovo per entrare in politica. E Nicastro Duarte, presidente paraguayano, ha incontrato il Papa per rappresentare il disagio nel quale la sua scelta lo sta costringendo. La costituzione paraguayana è di tradizione massonica. Formalmente non esistono né Natale, né Pasqua, ma festa della famiglia e festa dei fiori, anche se il 93% della popolazione é cattolica. I colorados vorrebbero impedire la sua partecipazione alla corsa presidenziale sostenendo che lei non ha rinunciato al suo ruolo nella Chiesa. Sospeso a divinis, vescovo dimissionario, ma non completamente slegato dalle gerarchie. Come risolverà il problema ? E perché Chiesa e Stato sembrano aver paura di un sacerdote che non fa più il sacerdote, e di un vescovo che non è più vescovo ?
«Se la volontà della gente sarà rispettata, dopo 60 anni il Paraguay potrà cambiare la propria storia. Vaticano e Chiesa vedranno realizzata la volontà di Dio nel miglioramento della vita dei "senza niente". Capisco che il potere possa essere spaventato da speranze diverse che si ricompongono in un unico movimento. Ecco perché l'ufficialismo utilizza cavilli inesistenti per impedire la mia candidatura».
E la Chiesa ?
«La Chiesa latino-americana è divisa in settori. Tendenze conservatrici ma ovunque rami - laici, sacerdoti, seminaristi, missionari - che stanno cercando di mettere fine alle sofferenze di un continente saccheggiato da 500 anni: vecchie e nuove forme di colonialismo. Dal congresso di Medellin, trent' anni fa, una certa Chiesa ha scelto riforme strutturali e culturali per influire su una realtà i cui peccati gridano vendetta al cielo. Non è mai stato un progetto determinato perché la Chiesa intende mantenere la propria neutralità critica. Anch'io voglio conservare la distanza dalla politica, così come è intesa oggi, votata solo alla logica del potere. In Paraguay molti sacerdoti sono impegnati in progetti popolari nelle campagne e nelle periferie delle città. Lavorano per ridare dignità di cittadinanza a tutti. Mi sono avvicinato alla Teologia della Liberazione tra il 1977 e il 1982. In Ecuador ho avuto l'opportunità di approfondire la teologia pastorale con teoria e pratiche che analizzavano l'intera situazione del continente. L'esperienza mi ha aiutato a guardare la gente in modo diverso. Lavorare assieme ai poveri per seguirne la strada della speranza. Testimonianze che mi hanno aiutato ad incarnarmi nella fede perché la fede non è solo osservazione contemplativa, ma il rapporto con la realtà. Lo ha detto Giovanni Paolo II in Brasile: la teologia della liberazione è parte del patrimonio della Chiesa universale. Aiuta una nostra azione più cosciente e liberatrice».
Contro di lei il partito Colorado ha candidato Blanca Overiar, ex ministro dell'istruzione. Non cambia niente: è una controfigura politica del presidente Duarte, ma giovane, soprattutto donna come Cristina Kirchner e Michele Bachelet. Il Paraguay diventa rosa per garantire vecchi interessi...
«È evidente che i colorados vogliono continuare allo stesso modo rallentando ogni proposta di cambiamento: insistono col carnevale amministrativo che immiserisce la società. Il programma della nostra Alleanza pretende di cambiare e subito. Ecco lo scontro. Ogni cavillo e nuove candidature servono solo ad andare avanti indisturbati».
Andare avanti, ma qualche volta tornando indietro. Con una certa fretta, la Corte suprema (controllata dal partito al governo) ha mitigato la sentenza che condannava il generale Lino Ovideo a dieci anni di prigione e all'interdizione ad ogni pubblico incarico: era stato condannato per aver tentato un colpo di stato nel 1996. Lo si era anche accusato dell'assassinio di un candidato alla presidenza. Arrestato in Brasile, aveva chiesto di scontare la pena in Paraguay dove è rientrato nel 1998. La Corte suprema lo ha rimesso in libertà per «buona condotta» e un tribunale militare ha cancellato l'imputazione dichiarandolo non colpevole. Assieme ad altri movimenti, il partito di Ovidedo - Unione Nazionale dei Cittadini Etici - aveva insistito affinché lei scendesse in politica contro i colorado. Tre mesi fa le previsioni la davano in vantaggio su ogni candidato, ma la liberazione del generale ha sconvolto i sondaggi. Con la sua alleanza divisa e Oviedo che si candida in concorrenza, la scelta del governo di rimetterlo in gioco per dividere l'opposizione sta funzionando. Si rassegna a perdere ?
«È un'alleanza di settori popolari e progressisti in contrapposizione ai poteri collaudati di chi vuole conservare questa situazione. Rappresento contadini ed operai riuniti con obiettivi non ancora definiti sul profilo che dovrà assumere il paese. I colorado sono bravi nei giochi, hanno alle spalle i capitali per farli, ma resta la nostra speranza».
Gli Usa hanno riarmato una base al confine di Argentina, Bolivia e Brasile. Dal Brasile arrivano le imprese che stravolgono l'economia e la vita dei paraguayani. Se diventerà presidente ridiscuterà le concessioni di questi governi ?
«È fondamentale il diritto alla sovranità. Il mio annuncio non cambia. Non accetteremo alcuna ingerenza economica e militare che metta in discussione la vita dei cittadini. Il Paraguay deve essere dei paraguayani».
Lei è prete da una vita. Qualche nostalgia mentre ascolta la messa mescolato ai fedeli?
«Certo che ho nostalgia. Tante volte mi vien voglia di tornare al ministero sacerdotale, ma in questo momento specifico della vita è urgente stare assieme alla gente e la gente capisce quanto mi costa la rinuncia. Credo che la fede nel messaggio della Chiesa e l'impegno politico possano convivere serenamente. Il giorno in cui Dio mi chiamerà potrò dire di aver compiuto la sua volontà indipendentemente da chi considera questa mia scelta una scelta di potere». E ride.
Pubblicato il: 12.01.08 Modificato il: 12.01.08 alle ore 12.00 © l'Unità.
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« Ultima modifica: Gennaio 28, 2008, 05:26:03 pm da Admin »
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« Risposta #3 inserito:: Gennaio 28, 2008, 05:25:19 pm » |
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Fidel & Calderoli Maurizio Chierici Così lontane eppure legate da leggi elettorali che trascurano la gente: Cuba e l'Italia dovrebbero riscriverle, ma non è facile finché i signori del potere sono impegnati a blindare il potere. Calderoli, Berlusconi, Fini e Fidel si affidano alle cupole personali; segreterie di partiti che stabiliscono chi deve andare in Parlamento. I dibattiti diventano coreografie di contorno; scelte già prese e il popolo deve adattarsi. Con qualche differenza speriamo non provvisoria: all'Avana il partito è unico; nella destra italiana unificato dalla voglia delle poltrone che contano. Tv, radio e giornali in poche mani. Del sistema perverso italiano si parla tanto, mentre la Cuba del Fidel malato è sparita dalle nostre cronache agitate mentre sta per decidere come cambiare il futuro senza tradire il passato. Bella scommessa. Anche perché il risultato delle elezioni di sette giorni fa non aiuta a capire cosa succederà il 5 marzo quando il grande assente, più che mai presente nelle pieghe della convalescenza senza fine, dovrà decidere se restare presidente del consiglio dei ministri e del consiglio di stato, riunendo ogni potere come negli ultimi trent'anni, oppure lasciare le redini per interpretare il ruolo di suggeritore ombra. Può essere la decisione probabile ma le elezioni appena finite non hanno permesso di capire cosa succede. Perché la macchina elettorale è pietrificata nel passato. Ha votato il 96 per cento degli elettori, affluenza travolgente anche se il voto non è obbligatorio. Proprio Fidel aveva insistito: «Chi non vuole scegliere è nel suo pieno diritto». Lo ripete dal 1976 quando gli occhiali di Mosca vigilavano sulle scelte personali, eppure, svaniti i russi, oggi il risultato dà gli stessi numeri. Con un futuro ancora misterioso nessuno se l'è sentita di voltare le spalle. Non si sa mai. Il 91 per cento degli elettori ha confermato «l'unità nel partito unico». Maggioranza che impressiona le democrazie così dette mature. Neppure una scheda contraria: bianche, nulle, errori veniali. Con quali prospettive le regole di una costituzione disegnata sulla Costituzione della Bulgaria comunista potrà aprire il paese al cambiamento che Raul Castro annuncia, e che Fidel ritiene necessario? Impedire la presenza di un secondo partito continua ad essere il tormentone nascosto dietro le paure che l'oppressione del grande vicino impone da mezzo secolo. Ma l'opposizione interna è ormai diversa dall'ambiguità degli Elisardo Sanchez, difensore dei diritti umani e informatore della polizia segreta di Castro; diversa dall'arroganza degli ultras di Miami sotto tutela Cia. Sulla scena sono apparsi intellettuali determinati a respingere «ogni influenza straniera». Solo i cubani di Cuba - ripetono - possono arricchire la convivenza civile. Morùa, socialdemocratico (nero come Obama ) e Payà, socialcristiano, hanno avuto la libertà di trasmettere queste idee, di dibatterle (sia pure vigilati), di discorrerne con gli stranieri di passaggio. Il piano Varela di Payà è stato firmato alle luce del sole da 14 mila cittadini e presentato all'università dell'Avana da Jimmy Carter, Fidel in prima fila. Ma non è successo niente. Via Carter, la proposta dell'opposizione democratica è affogata nell'imbuto dell'ufficialità. Morùa ha 40 anni. Ha vissuto a Roma, ospite dei Ds; ha viaggiato in Europa accolto dai partiti socialisti francesi e spagnoli. Si sente figlio della cultura del partito unico nel quale è cresciuto, ma per salvare le idee che sostengono uguaglianza e diritti, ritiene necessario allargare le voci. Una sola voce non basta, ormai. Nel passaggio delle generazioni, un secondo partito farebbe comodo al governo di Raul e Fidel. Il dibattito pubblico libererebbe Cuba dai sospetti avvelenati, rafforzando la scelta di novità che ridicolizzerebbero l'oltranzismo autistico dei falchi di Bush. La Casa Bianca sta per cambiare inquilino. Per una Cuba appena, appena pluralistica sarebbe meno complicato affrontare il dialogo per difendere i risultati sociali della sua rivoluzione. Anni fa hanno fatto sognare la folla delle americhe di Nixon, Kissinger, Reagan, squadre della morte, generali alla Videla e Pinochet. Disperazione del non futuro. Mentre a Cuba si aprivano scuole, ospedali, case, sanità per tutti. Fata morgana. Purtroppo anche le fate perdono i lustrini se non capiscono i tempi. Adesso Raul annuncia che i dogmi del centralismo ossessivo dello stato sono superati. Vuole liberare la voglia di fare; combattere la corruzione e la burocrazia dimenticate dai russi, liquame nel quale affoga il paese. E allora, terra ai contadini, mercato quasi libero, artigiani e piccole imprese autorizzate a competere in un mercato che nel disordine della clandestinità più o meno tollerata, sopravvive come può... Aprire la mani, si dice, e privatizzare con giudizio: modello cinese. I politici cinesi di passaggio all'Avana continuano a raccomandarlo. Resistono i conservatori invecchiati nel dogma dell'assedio Usa. Anche Pechino - fanno notare - non rinuncia al partito unico. Ma Cuba è immersa nel mondo latino senza le risorse di uno stato-continente. Col suo miliardo di clienti, la Cina incanta ogni economia in affanno. E le democrazie europee vedono ciò che è conveniente vedere; la vita attorno resta sfuocata. Meglio girare la testa e far girare gli affari. Nell'America del Sud, l'Avana è stata il simbolo di una dignità impossibile nei feudi delle transnazionali. Ha stimolato gli entusiasmi con riforme sociali che cancellavano le disuguaglianze terrificanti ancora non risolte dal Brasile e dalle altre nazioni del continente. Ma il tempo ha congelato gli entusiasmi lasciandoli ingrigire nella non informazione che pretende di imporre il limbo della non conoscenza. Il continente latino sta cambiando le bandiere. L'epopea armata è solo il ricordo di Guevara o il medioevo delle Farc. L'esempio di Cuba ha nutrito generazioni di politici oggi al potere: Brasile, Nicaragua, Equador, Venezuela di Chavez. Il quale Chavez, figlio spirituale di Fidel, si è misurato con le opposizioni affidando libera scelta agli elettori. Tante vittorie, ma ha perso il referendum che non convinceva una parte della folla in marcia nel suo nome. Nessun dramma malgrado il batti e ribatti dell'amministrazione Bush: la forza della democrazia gli garantisce il governo fino al 2013. Poi il suo partito dovrà rimeritarlo. La democrazia pluralista ha permesso il ritorno pasticciato di Ortega alla presidenza del Nicaragua, acrobazie mastelliane tra chiesa e stato, e gli Usa sparano a zero. Il Nicaragua è un paese carta velina: fragilissimo, basta un soffio, i partiti sono tanti eppure Ortega ce l'ha fatta. Correa ha vinto le elezioni in Ecuador senza imporre niente. La gente lo ha ascoltato e lo ha votato. Per non parlare di Lula, Evo Morales, Bachelet, Kirchner, fino a ieri democrazie mascherate nel feudo dei grandi capitali, oggi libere di giocarsi il consenso malgrado trappole e preoccupazioni. Ombre americane manovrano per impedirlo scontrandosi con la determinazione delle folle che insistono per una giustizia sociale non rimandabile. Nessuno torna indietro. Cuba non è ormai importante nella strategia dei paesi attorno. Niente missili, esercito impegnato a gestire il turismo, vecchi armi che Putin non usa più. Resta l'icona di un passato; anima lontana degli ex senza speranza. Ne raccontano il mito con la passione dei reduci del '68. Milioni di lettori-spettatori conservano l'emozione mediatica che trasforma l'Avana in un posto surreale. Rosso o nero. A favore o contro. Nessuna sfumatura. Quasi impossibile discuterne: dogma contro dogma ieri come oggi, mentre la stupidità dell'embargo sta diventando una scatola vuota. Ogni anno l'Avana importa direttamente dagli Stati Uniti 600 milioni di dollari di alimenti e medicinali, tanto zucchero perché la zuccheriera del mondo ha cambiato vocazione: preferisce comprarlo dai produttori Mid West. Se Castro lascerà il potere, chi ne prenderà il posto non è facile capire. Nessuna ipotesi alla luce del sole. Le catacombe mantengono i segreti. Dopo il 5 marzo e un periodo di decompressione con Raul sulla poltrona di supplente, potrebbe affacciarsi la generazione dei cinquantenni: Carlos Lage, pediatra e ministro dell'economia, oggi vice presidente; o Felipe Perez Roque, cancelliere e per vent'anni segretario di Fidel. Ricardo Alarcon, già ambasciatore all'Onu, guida l'Assemblea del Popolo: riavrà la sua poltrona. Sta compiendo 70 anni e fa sapere che darà subito le dimissioni. Come sempre, solo la voce di una voce perché dalle segrete dell'Avana non esce niente. La sola novità visibile sono le donne. Quasi la metà dei 614 deputati. Non era mai successo. Chissà se saranno le donne o i cinquantenni ad affrontare la scommessa di normalizzare il paese con un socialismo normale riscrivendo le regole di una democrazia condivisa che contempli l' opposizione. Chissà se l'Avana del 96 per cento e la Roma imbavagliata dalle furbizie della carta bulgara di Calderoli, vorranno ascoltare i problemi della gente, tutta la gente, allargando lo sguardo oltre le famiglie naturali e politiche che devotamente non mollano il potere. mchierici2@libero.itPubblicato il: 28.01.08 Modificato il: 28.01.08 alle ore 7.04 © l'Unità.
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« Risposta #4 inserito:: Febbraio 20, 2008, 06:05:00 pm » |
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Fidel, tra odio e amore, l’ultimo lider maximo
Maurizio Chierici
L’uscita di scena di Castro suscita malinconia e speranze politiche. I sentimenti non sono fuori luogo. Il 70% dei cubani è nato sotto il regno di Fidel, icona che accompagna la loro vita. Amore, odio, mai indifferenza: un rapporto passionale. Cuba è sempre stata raccontata in un certo modo, nessun distacco, e chi la osserva riflette emotivamente la separazione mediatica che trasforma l’Avana in un posto surreale. Anche l’uscita di scena si è trasformata in un reality show di grande emozione. Un vecchio come gli altri, più umano di come si immaginava da lontano. Eppure, lontano dalle piazze e dai palazzi, continuava a far sognare chi sognava anche se le illusioni erano impallidite. Nel 2003 tornano le condanne a morte dopo anni di ruvida tolleranza. Il viaggio di Giovanni Paolo II non ha sciolto gli incubi della guerra di bassissima entità con l’altra America. E Castro li aiuta nella polemica. Dissidenti in carcere, poeti alla sbarra.
Se ne rattrista Eduardo Galeano: «Cuba me duele: le prigioni e le fucilazione all’Avana sono delle gran belle notizie per il superpotere universale che ha una voglia matta di togliersi una volta per sempre questa spina ostinata». Per capire come è stata lunga la battaglia del mito (positivo e negativo) che ha accompagnato la seconda metà del novecento, basta ricordare che nel 1953 mentre l’avvocato Castro dava l’assalto alla caserma Moncada nell’illusione di rovesciare il dittatore Batista, re Faruk scappava dall’Egitto travolto dal colpo di stato del generale Nasser. Charles De Gaulle, umiliato alle elezioni da chi non gli aveva mostrato la riconoscenza dovuta al salvatore della patria, masticava cattivi pensieri fra i prati della sua campagna di pensionato dell’onore. E preparava il ritorno.
Uno alla volta sono passati i presidenti americani infastiditi da Fidel: Eishenower, Kennedy, Johnson, Nixon, Ford, Carter, due volte Reagan, Bush padre, due volte Clinton. La sua uscita di scena è la sola medaglia conquistata senza gloria dal Bush che ha pacificato l’Iraq. Per mezzo secolo gli avversari si dileguano mentre Castro osservava impassibile: «Hasta la victoria siempre», poster e bandiere nel ’68 di ogni paese. Otto milioni di cubani sono nati sotto il suo ritratto; due milioni lo hanno visto entrare all’Avana quando erano ragazzi. L’icona sempre lì: scomoda, ossessionante, esaltante. Per 48 anni ha suscitato apprensioni nelle due Americhe. Cuba è un’isola ma nessun altro paese del continente ha avuto il permesso di ripeterne l’avventura. La forza di Castro è cresciuta e si è mantenuta anche sulla stupidità di chi lontano-vicino ne ha insidiato l’egemonia. Rafforzandola, mitizzandola mentre il comandante riannodava lo stesso filo nazionalista senza mai cambiare la regola del primo momento: ogni decisione doveva restare nelle sue mani e a nessuno era concesso dubitare.
Un po’ di amici si sono rivelati deboli nell’utopia che, da solo, sempre solo, disegnava per tutti al quarto piano del palazzo della Rivoluzione. Accendeva la luce alle sei di sera, la spegneva alle sei del mattino. Amava lavorare nella notte per leggere i giornali d’Europa e degli Stati Uniti. Capire cosa stavano capendo restando al di sopra di ogni indiscrezione. Attorno alla sua malattia, che l’ha allontanato dal potere, slogan e contro slogan continuano ad incrociarsi tra l’Avana e Miami con la stessa inutilità.
Castro si è ritirato. Cosa sopravvivrà del castrismo senza il fascino della sua regia? Riepilogarne l’avventura diventa esercizio imbarazzante in chi ha una certa età ed è cresciuto nella convinzione che tutti ne conoscano la storia. Il mistero comincia con la nascita: 13 agosto 1926 come raccontano le biografie cubane o 13 agosto 1927 come assicura il fratello Raul al giornalista americano Lione Martin, data ufficializzata dalle biografie di Mosca? Nasce fuori dal matrimonio del padre che ha già due figli. È un ex militare galiziano tornato a Cuba dopo la fine della colonia: piccolo proprietario, canna da zucchero in una fattoria sperduta nella provincia orientale. La prima moglie muore e Castro padre si sposa, arriva Raul, erede della presidenza. Il posto è isolato, non c’è una chiesa: lo battezzano quando compie due anni. Va a studiare dai salesiani nella città dove abitano le zie. Maturità all’Avana coi gesuiti. La nota che ne elogia la promozione gli riconosce talento e disposizione allo spettacolo.
Roberto Fernandez Retamar, saggista e presidente de La Casa de las Americas, uno dei centri culturali importanti del continente latino, ricorda gli anni dell’università: Fidel è lo studente più ammirato dagli studenti. Fa politica nel partito radicale ortodosso e per sgualcire il potere del generale Batista tornato presidente con un colpo di stato, 1955, dà l’assalto alla caserma Moncada a Santiago de Cuba. Immagina di risalire il paese fino all’Avana raccogliendo la folla degli scontenti. Ma viene arrestato assieme agli altri ragazzi, in galera anche Raul. In tribunale si difende con l’arringa che ha attraversato il tempo: «La storia mi assolverà». È sposato con la sorella del vice ministro agli interni del dittatore. Dopo 22 mesi di carcere torna in libertà, 15 maggio 1955, subito espulso dal paese. A Città del Messico disegna la rivincita: sbarcare a Cuba con un gruppo di rivoluzionari sempre nell’idea di marciare sull’Avana. Novembre 1956: comincia il viaggio del Granma, piccolo yacht, 82 compagni di coraggio.
C’è anche il medico argentino incontrato nell’esilio: Ernesto Guevara, l’altro mito della rivoluzione. La lunga marcia parte male. I militari del dittatore sembrano più forti, ma Castro aveva visto giusto: la gente è stanca e i contadini lo accompagnano. L’avvocato Castro comincia ad incuriosire radio e giornali degli Stati Uniti. Diventa un protagonista ammirato per la giovinezza e le barbe dei compagni senza paura e un po’ matti, il Che, soprattutto. Entrano all’Avana la mezzanotte dei 31 dicembre 1958. Batista e la sua corte sono scappati provvisoriamente -si illudono- nel buen retiro della Florida. Ma la provvisorietà si allunga. Castro e Guevara trasformano il paese. Nazionalizzano, aprono scuole, riconoscono agli afrocubani senza nome la dignità di cittadini col diritto di abitare nelle belle case lasciate vuote dai notabili che a Miami aspettano di tornare. Provano a sbarcare nella Baia dei Porci (16 aprile 1961): la gente li respinge e Cuba diventa il paese col quale gli Stati Uniti cominciano a fare i conti in un certo senso tranquillizzati, nel mezzo della guerra fredda, dalle dichiarazioni di Castro al settimanale Bohemia: «Perché non diventerò mai comunista».
Embargo, crisi dei missili e manovre assurde della Cia, lo gettano nelle braccia di Mosca. Sopravvive agli attentati nella solitudine di un governo dalle tasche vuote e senza protettori. La protezione arriva con Krusciov: fra le righe degli accordi firmati assieme a Kennedy per il ritiro dei missili, i russi avrebbero chiesto di rispettare la vita di Fidel. Da quel momento solo le schegge segrete dei servizi paralleli provano colpi di mano, ma al di là di polemiche e parole, la protezione avrebbe resistito ancora oggi. Forse solo dopo la sua morte sapremo se le indiscrezioni sono leggende o le contemplano carte ufficiali. Nel 1965 nasce a Cuba il partito comunista. Castro raccoglie ogni movimento rivoluzionario che lo ha accompagnato: comincia la stagione del partito unico, ancora continua. Mosca e i paesi dell’Est aiutano l’Avana nella conquista di una civiltà sconosciuta all’altra America Latina, scuole e università per tutti. Sanità, case, trasporti che lo stato garantisce ad ogni cittadino.
La monocoltura dello zucchero che Castro e Guevara respingevano nella marcia verso l’Avana, resta indispensabile per importare il petrolio necessario alle trasformazioni. Nel 1967 la morte del Che in Bolivia lascia Fidel nella solitudine del potere. Guevara non piaceva ai russi, per anni cercano di mitigarne il mito. La visita all’Avana di Gorbaciov (1989) incrina i rapporti nel nome della trasparenza. E la caduta del Muro li dissolve. Fidel resta solo, senza petrolio, senza amici, imbrigliato dall’embargo sempre più ermetico. Gli Stati Uniti cadono nello stesso errore di trent’anni prima: si convincono che per Cuba è finita.
Invece Castro mobilita la gente confusa nell’oscurità dei black out, ne risveglia orgoglio e nazionalismo: inizia il periodo speciale, ultima disperazione della sua interminabile presidenza. Cominciano le fughe dei balseros su barchette improvvisate. Il governo le favorisce. Non sa più come andare avanti. Apre al turismo, si riconcilia con la Chiesa cattolica cancellando l’ateismo di stato previsto dalla costituzione ispirata dai sovietici alla magna carta della Bulgaria. La visita di Giovanni Paolo II apre speranze in piccola parte realizzate perché l’informazione resta nelle mani dello stato e ogni altro partito continua ad essere proibito. L’elezione di Bush riaccende il confronto mitigato negli anni di Clinton. Ancora una volta Fidel sembra in difficoltà ma la fortuna non lo abbandona: a Caracas diventa presidente Chavez. Con una certa furbizia lo aveva invitato all’Avana appena uscito di prigione dopo il colpo di stato fallito nel ’92. Lo accoglie con gli onori riservati a un capo di stato quando è solo un ex galeotto: tappeto rosso e schieramento dei picchetti d’onore. Inventa un’amicizia che salva Cuba dalla crisi energetica e rilancia la dottrina di Fidel nel continente. Finita la stagione delle guerriglie cominciano gli anni dei petrodollari. Ma l’età si fa sentire. Sempre più solo e rigido nella gestione del potere, prepara in segreto la successione. Chi prenderà il suo posto al di là della forma che vuole il fratello e il partito eredi disegnati? È il mistero che resta ancora aperto.
Pubblicato il: 20.02.08 Modificato il: 20.02.08 alle ore 10.02 © l'Unità.
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« Risposta #5 inserito:: Aprile 21, 2008, 11:41:40 pm » |
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Il vescovo rosso che dà dignità a un Paese di diseredati Maurizio Chierici Gli exit poll confermano i pronostici: Fernando Lugo è in testa, e il Paraguay archivia 61 anni di autocrazia del partito Colorado. Paraguay che è un paese dimenticato alla fine al mondo, ma è successo qualcosa: ora tutti sanno dov´è con un presidente protagonista insolito. I padri della Chiesa di Roma hanno attraversato i cinquecento anni di storia del continente latino con impegni diversi. Dai vescovi obbedienti al potere delle conquiste a predicatori bastonati, umiliati, massacrati, oscurati per aver scelto la difesa dei popoli sfiniti dalla violenza economica dell´occidente illuminato. Bastonate a Montesinos e a Cristobal de Las Casas, gesuiti di Mission sacrificati alla real politik vaticana, monsignor Romero ucciso in Salvador perché sgradito all´amministrazione Reagan. Nell´ombra imposta alla teologia della liberazione è cresciuto un altro vescovo e se la violenza non pasticcia il voto, Fernando Lugo é il primo pastore capo di stato nell´America del Sud, forse nel mondo. Ex vescovo perché il 22 dicembre 2006 ha presentato la rinuncia al ministero. Ma essere vescovo è come essere battezzato: possibile sciogliere l´impegno con le gerarchie ma il sacramento resta. Incancellabile come il sacerdozio. Quando lo scorso novembre il giornalista arriva ad Assuncion per capire chi è, Lugo sospira: «Lei viene dall´Italia, da Roma». Non nasconde la malinconia per l´orizzonte perduto. Fra pochi giorni compie 57 anni. Risponde aggrappato al volante del fuoristrada che lo aiuta a sopravvivere nelle piste terra e fango della campagna elettorale. Piccole città, villaggi dimenticati dall´asfalto: tre quarti del paese è così. Camicia tagliata nel lino bianco, sandali francescani, giubbetto nero. Se il pubblico che lo applaude sono indios guaranì, monta sul palco con una sciarpa colorata attorno alle spalle. Quasi una divisa da quando ha lasciato la dignità vescovile. Dietro gli occhiali, sguardo da intellettuale impegnato nell´utopia: sono tanti in America Latina. «Non è utopia», la voce quieta si increspa nella protesta che resta un sussurro. Sceglie le parole con la prudenza del pastore che per trent´anni ha distribuito omelie dall´altare. L´altare di un prete sospettato dalle polizie per quel mescolarsi ai problemi dei contadini schiacciati dal notabilato del latifondo: cento ore di lavoro la settimana, un dollaro al giorno. «Impossibile sopportarlo», ripete rallentando. Sta attraversando un paesino e la gente si sbraccia. Corre nella polvere dell´auto che lo precede: angeli custodi del ministero degli interni. Sorride: «Per proteggermi, ma anche spiarmi. Ogni sera fanno rapporto sulle persone che incontro». Sotto la tenda delle bancarelle del mercato incontra un vecchio sacerdote. Che lo avvicina e lo benedice imponendo le mani sulla fronte. Per un minuto pregano assieme, poi l´abbraccio rispettoso. «Auguri», il prete se ne va. È la più strana campagna elettorale alla quale un giornalista si sia mai mescolato. Lugo scuote la testa. «Nell´ombra qualcuno prepara sempre qualcosa. Non vogliono perdere gli affari. La corruzione è il cancro che divora da mezzo secolo il Paraguay. I colorados della dittatura del generale Stroessner sono diventati i colorados del partito unico: 61 anni di potere, affari e polizie nelle stesse mani». Viene da una famiglia perseguitata dalla dittatura e dagli autocrati che ne hanno preso il posto. Il padre era un militare: non si rassegnava alla degenerazione del partito Colorado nel quale aveva riposto ogni speranza. Venti volte in prigione: «Lo venivano a prendere con l´aria degli impiegati che portano una multa. La sua valigia era sempre pronta. Non protestava e li seguiva incoraggiandoci con un filo di voce. È il prezzo da pagare alla dignità». Tre fratelli costretti all´esilio dopo galera e tortura. Uno è morto in Svezia, l´altro sopravvive in Francia, l´ultimo lo accompagna nella campagna elettorale. Nel 1977 Fernando diventa prete, congregazione del Verbo Divino: subito missionario in Ecuador. «Per cinque anni ho avuto l´opportunità di approfondire la teologia pastorale con teoria e pratica quotidiana. Gli studi mi hanno permesso di capire la condizione sociale del continente. Ho imparato a guardare la gente in modo diverso e mi sono reso conto come fosse inutile disperarsi: dovevo fare qualcosa per aiutare la speranza. Capire il lavoro dei poveri che erano quasi tutti: Ecuador, Paraguay, Brasile, Centro America. La loro testimonianza mi ha aiutato ad incarnarmi nella fede perché la fede non è solo osservazione contemplativa, ma rapporto con la realtà». Si affida alla teologia della liberazione quando Roma la soffoca con prudenza e belle parole. Nel 1982 la missione finisce, torna a casa. Coordina cooperative e associazioni di braccianti. Arrestato ed espulso «per attentato alla pace sociale»: arroganza che conferma la microstoria di migliaia di famiglie dalla dignità avvilita nelle crudeltà quotidiane. «Roma…», immalinconiva al primo incontro. Roma è stato il rifugio del suo esilio, quattro anni che gli hanno insegnato la moderazione delle democrazie moderate. Ma moderazione non vuol dire rinuncia. Appena diventa vescovo di San Pedro Apostol, diocesi poverissima del Paraguay povero, organizza attorno alla sua cattedra magazzini di consumo diretto: dal piccolo produttore al piccolo consumatore, dimezzando i prezzi. Orti comunitari, cooperative per distribuire il raccolto al di fuori delle reti della commercializzazione nelle mani delle solite mani. Intanto il paese cambia pelle, non le gerarchie. L´arroganza dei militari si è trasformata nella furbizia di chi coltiva privilegi attorno alla politica. Ma il 90% della gente continua a vivere senza diritti, solo doveri e la paura dei passi nella notte. Al «vescovo rosso» si avvicinano sindacalisti contadini, arrivano intellettuali, studenti, altri preti. Nasce un collettivo che nel 2005 diventa Movimento Poopolare Tekojoja: assieme ed uguali in lingua guarani. «Raccolgono adesioni per convincermi a candidarmi, centomila firme in pochi mesi. Un tormento decidere ma capisco che non posso scappare ed accetto». Alla vigilia del Natale 2006 rinuncia al ministero sacerdotale e all´episcopato. Il nunzio lo sconsiglia, il Vaticano lo invita a ripensarci, la conferenza episcopale paraguyana condanna la scelta con parole di circostanza ma consapevole che gran parte dei preti di base è d´accordo e continua a dare una mano alla sua Alleanza per il Cambiamento. Dalla residenza di San Pedro, si trasferisce in una villetta alla periferia di Assuncion «accanto alla stazione delle corriere. Chi mi vota non ha l´automobile e viaggia così». L´Alleanza riunisce movimenti e partiti attorno alla parola «cambiamento», ideologie ed etica a volte lontane. Una parte consistente è favorevole al divorzio e all´aborto. Una volta presidente come affronterà la cointraddizione? «Resto contrario ad ogni provvedimento che minacci la vita umana. Come cattolico e come cristiano devo difenderla. Il tema divide il movimento. Sarà necessario elaborare una carta etica e scientifica non solo per il Paraguay ma per l´intera America Latina». Lugo presidente avrà nostalgia del Lugo vescovo e sacerdote? «Alla nostalgia non si comanda. A volte mi vien voglia di tornare. Ma l´urgenza è un´altra: stare assieme alla gente per restituire quella dignità che mio padre si ostinava a difendere andando in galera. Impegno politico e fede nel messaggio della Chiesa credo possano convivere: la folla degli elettori lo trova naturale. Chi mi circonda a volte intuisce il dolore della rinuncia. Ma sono convinto che quando Dio mi chiamerà potrò rispondere di aver compiuto la sua volontà e il suo desiderio di giustizia». Ormai le parole sono finite. Lugo deve smontare il medioevo per traghettare milioni di diseredati nel ventunesimo secolo. Salto nella storia che notabili ed affari continueranno a contrastare con ogni violenza ed imbrogli sui quali provano a vegliare 500 osservatori stranieri. Chissà se l´incubo Paraguay si è sciolto davvero nella notte. mchierici2@libero.it2-fine. L´articolo precedente è stato pubblicato il 20 aprile Pubblicato il: 21.04.08 Modificato il: 21.04.08 alle ore 14.58 © l'Unità.
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« Risposta #6 inserito:: Maggio 27, 2008, 10:16:07 am » |
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Vita e morte di «Tirofijo» capo delle Farc Maurizio Chierici Addio a Tirofijo, comandante delle Farc, ultima leggenda che impauriva l’America Latina. Nei 44 anni di lotta clandestina era morto e resuscitato 31 volte. Il paradosso della grande notizia, sempre inventata, aveva ispirato un libro al giornalista Arturo Alape: «Le morti di Tirofijio», appunto. Ma questa volta l’annuncio è vero. La Farc ha confermato la scomparsa già sussurrata ieri dal ministro della difesa Juan Manuel Santos ad una giornalista che voleva sapere con quale amarezza Tirofijo stava sopportando il disfacimento della Farc. Mese infausto, un colpo dopo l’altro. Reyes, mediatore impegnato con Francia, Svizzera e Venezuela nella liberazione della Betancourt, ucciso in Ecuador da un bombardamento dell’aviazione colombiana guidata da satelliti Usa. Assassinato un altro notabile della cupola: gli ha sparato l’autista guardaspalle che si è subito consegnato ai ranger. Ma la defezione che qualche giorno fa ha devastato il morale dei guerriglieri è la resa di Karina, comandante Nelly Avila Moreno, 45 anni, da venti in armi con la fama di chi spara e sparisce. Nella versione del ministro Santos, Karina avrebbe organizzato l’assassinio di Alberto Uribe, padre del presidente. Si è consegnata al battaglione Medellin. Altri 1600 guerriglieri sembra vogliano trattare la resa in cambio di qualcosa. Insomma, annunci di catastrofe. «E Tirofijio?». «Tirofijio è all’inferno dove vanno i criminali quando muoiono». «Morto?», meraviglia della giornalista. «Morto alle sei della sera del 26 marzo in una zona sotto bombardamento, ma le cause sembrano naturali». Cancro alla prostata, infarto: chissà. Non ha saputo spiegare come mai il governo di Bogotà ha taciuto un avvenimento che sconvolge da quarant’anni di storia del Paese. Il presidente Uribe non l’ha presa bene. Da settimane stava preparando l’annuncio solenne da usare in una occasione. Santos glielo ha bruciato. E Uribe non nasconde il fastidio perché Santos non è solo ministro della difesa e uno dei pilastri del partito uribista: assieme al cugino vice presidente della repubblica, è proprietario del Tiempo, grande giornale e di radio e di Tv, impero formalmente condiviso con editori Usa negli ultimi mesi azionisti di maggioranza, ma non è chiaro quali soci compongano la nuova maggioranza. Si parla di un trucco che consentirebbe a Santos di candidarsi alla presidenza 2010 senza venir frenato dai divieti che nell’altra sponda dell’Atlantico impediscono senza pietà questo conflitto d’interessi: potere politico, giornali e Tv. Uribe non perdona a Santos d'avergli rubato la scena proprio mentre studia un ritocco alla costituzione che gli permetta una terza ed eterna candidatura. Per riprendere il primo piano si aggrappa alla Betancourt, gadget che portano le sue parole ovunque: lei e altri ostaggi verranno forse liberati dalle Farc allo sbando. «Stiamo trattando». Può essere vero, può essere una fata morgana inventata per tornare protagonista. Yolanda, madre di Ingrid, non gli crede. «Non vuole che Ingrid ritorni. È un momento di grande pericolo. Uribe non ha nessuna intenzione di liberarla, noi continuiamo ad aver fede. È nelle mani di Dio». Cano, successore di Tirofijio, viene considerato «un politico. Forse Chavez, Correa e Sarkozy possono trattare. Sono solo loro la nostra speranza». Insomma, Tirofijo continua a dividere il Paese anche da morto. Non si chiamava Manuel Marulanda Velez. Era la prima maschera di battaglia dietro la quale si era nascosto per onorare un sindacalista ucciso dalle solite mani. Voleva far capire: prendo il suo posto. Si chiamava Pedro Antonio Marin, 78 anni, nato a Genova, villaggio al centro della Colombia con un monumentino sistemato al centro di un’aiuola davanti alla muncipalità: lastra di ferro che riproduce il “passaporto rosso” degli emigranti italiani fine Ottocento, nome e cognome del genovese arrivato fin lì. Il passaporto rosso era il documento che vietava a chi partiva dalle nostre sponde in cerca di fortuna non solo il ritorno a casa “per sempre”, ma di mantenere la cittadinanza italiana.. L'inferno della nostra emigrazione cominciava così. Le leghe che oggi imperversano contro gli stranieri non vogliono ricordare. Martin non è stato solo «mungitore, pastore, tagliatore di legna e contadino». Famiglia contadina, ma il ragazzo aveva un po’ studiato tanto da diventare ispettore delle opere pubbliche ed iscriversi al partito liberale. Speranza del partito meno conservatore e di milioni di diseredati schiacciati dal latifondo. Quando Pedro compie 18 anni domina la scena politica Jorge Eliécer Galtan, «liberale di sinistra», definizione che Marin pretende di indossare anche quando spara, sequestra o si associa al traffico di droga; Galtan era un intellettuale lontano dagli affari e dal denaro. Retorica o verità, dedicava ogni impegno «al benessere del popolo». Amato da folle di braccianti, baraccati, studenti e piccola borghesia, diventa il grande favorito alla presidenza ma viene ucciso. Tre colpi, 9 aprile 1948 mentre delegati di ogni paese delle due americhe stanno per sottoscrivere la nascita della Oea con la protezione del generale Marshall. Galtan si oppone nel nome di un continente che non sopporta la colonizzazione dell’altra America. Dalla quale arrivano delegazioni di studenti per dargli man forte: fra loro anche cubani guidati da un leader spiritato che si chiama Fidel Castro. L’Organizzazione degli Stati Americani nasce proprio quel giorno in un garage di Bogotà dove capi di stato e ministri si nascondono mentre i carri armati del presidente Ospina Perez: sparano sulla folla infuriata: un massacro. Ecco che Pedro Marin imbraccia il fucile e diventa Tirofijio, mira precisa. Il partito liberale non condivide la lotta armata e Tirofijio si appoggia a movimenti comunisti. La prima battaglia sul campo risale al 1949: vuole liberare Genova (dove è nato) dai miliziani del latifondo, ma arriva l’esercito e deve scappare. Il governo capisce che l’inquietudine di bandoleros al momento disuniti possa cementarsi in una forza organizzata nei gruppi di autodifesa contadina. Raunberg, generale in pensione Usa, addestra truppe di autodifesa: degli agrari e dei notabili. Nascono quarant’anni fa quei paramilitari che irrobustiscono nel tempo addestrati attorno a Boyacà da ufficiali in pensione del Mossad israeliano. Comincia la guerra civile che ancora continua. Tirofijio è un’ombra imprendibile, sparisce riaffiora in una foresta cento chilometri lontana. Le sue Farc nascono nel 1966. Organizzazione verticale militarizzata. Quindici mila, ventimila uomini. Pur presentandosi da liberale di sinistra, riceve aiuti da Cina, Vietnam, impero sovietico. Girano il mondo e arrivano da Panama dove regna il generale Noriega, presidente amico. In realtà anche Noriega è un’anguilla con tante facce: vende armi in cambio di droga obbediente alla strategia della Cia di Bush padre: gli riconosce perfino uno stipendio. È un modo per controllare gli arsenali Farc e il mercato della droga e chiudere e aprire i rubinetti quando la real politic lo richiede. Tutti giocano con lui e lui gioca con tutti. Diffidente dietro il faccione contadino che ricorda l’attore Fernadel. Solo due presidenti colombiani riescono a guardarlo in faccia in colloqui di pace finiti in niente: Belisario Betancourt e Andrés Pastrana, entrambi conservatori. Del suo vecchio partito liberale Tirofijio non si fida. Ma non si fida neanche di loro. Con la mediazione di Garcia Marquez, Pastrama gli concede un territorio smilitarizzato dove aprire tende della pace senza l’incubo delle imboscate. Dal 1998 al 2004 funzionano a singhiozzo, ma nel momento di firmare qualsiasi accordo la poltrona di Tirofijio è sempre vuota. Anche perché la Farc coltiva altre amicizie. Governa regioni dominate dai narcos. Da principio surroga l’autorità statale facendo pagare dazio alla droga che esce. Poi partecipa al traffico e quando la droga diventa pericolosa per l’intervento della Dea americana, si autofinanzia con sequestri e ritorsioni. Se i paramilitari appoggiano chi gli dà la caccia con gli squadroni della morte, le Farc ne imitano violenza e crudeltà. Spaventare per dominare. Era l’ultimo rivoluzionario di un continente che sta dimenticando le rivoluzioni per riguadagnare una faticosa normalità. Ma il fascino che la ribellione può suscitare negli emarginati alla deriva in ogni Paese latino, non ha accompagnato gli ultimi vent’anni di un protagonista furbissimo e spietato. Nessun idealista riusciva a fidarsi di un uomo così. Quattro milioni di profughi interni è una delle eredità lasciate da Tirofijio, dai paramilitari e dai governi come il governo Uribe che hanno affidato le battaglie politiche alle armi e alla repressione. Bisogna dire che quando si è aperta la speranza della pacificazione tentata da Pastrana, intellettuali e giornali borghesi hanno cercato di sdemonizzare e smitizzarne il profilo per rimpicciolire il più arcaico guerrigliero del mondo in un uomo che poteva essere come gli altri. Quando ha compiuto 70 anni, Cambio, settimanale di proprietà di Garcia Marquez, racconta brindisi e auguri nelle pagine dedicate al jet set. Era solo un’illusione alla quale ha creduto anche Ingrid Betancourt quando parte per incontrarlo nella speranza di fargli capire come i rapimenti rinforzassero solo la destra di Uribe e dei ponderosos che lo sostengono. Sappiamo cosa è successo: non è ancora tornata. Ignoranza? Mancanza di umanità? «Era un uomo complesso. L’aria molle del contadino inconsapevole nascondeva una determinazione coltivata nel lunghissimo autoesilio, nello scappare per tornare e colpire, e nel maschilismo diventata dottrina nella quale i suoi uomini venivano cresciuti». Me lo ha raccontato Pastrana quand’era presidente e si disperava per l’utopia tragica di Ingrid Betancourt. Ha avuto sette figli, «tutti maschi», ma non è vero. C’è anche una ragazza sposata a Reyes, mediatore ucciso dal bombardamento in Ecuador. Il cognome «Marin» non diceva niente ai giornalisti che incontravano lontano dalla Colombia la signora portavoce Farc. Puntuale, riservata. Mai rispondeva alla domanda frivola del curioso che voleva sapere «Lei conosce Tirofijio?». mchierici2@libero.itPubblicato il: 26.05.08 Modificato il: 26.05.08 alle ore 8.35 © l'Unità.
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« Ultima modifica: Novembre 05, 2008, 08:45:16 am da Admin »
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« Risposta #7 inserito:: Settembre 11, 2008, 05:50:54 pm » |
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Nel Cile del dopo Pinochet i registi ombra pesano ancora
Maurizio Chierici
Forse nessun giornale e nessuna tv ricorderanno l’altro 11 settembre: 35 anni fa a Santiago, dove moriva Salvador Allende travolto dal colpo di stato di Pinochet. Tremilatrecento persone sono state uccise dopo lo sfinimento della tortura. Quasi un milione di cileni hanno preso la strada dell’esilio. Per anni hanno rimpianto da lontano il sogno della democrazia che il piccolo presidente stava costruendo «dalla parte della gente non con la dittatura del popolo». Era un riformista, ecco perché veniva considerato pericoloso. La ragione resiste al tempo; la violenza degli scontri armati alla fine si esaurisce nella sconfitta. L’esempio di Allende poteva diventare devastante. E la Casa Bianca anni 70 si spaventava. Ha risolto con 12 milioni di dollari versati dall’amministrazione Nixon e distribuiti a rivoltosi e killer dal premio Nobel per la pace Henry Kissinger il quale ha preparato con cura colpo di stato e delitti eccellenti per eliminare i generali fedeli alla costituzione. I documenti segreti resi trasparenti da Bill Clinton prima di lasciare Washington, raccontano la storia esemplare di un grande Paese terrorizzato non dal «comunismo» che a parte le marce cubane ha animato guerriglie perdenti ed élites latino americane, ma dall’idea di perdere potere nel sub continente dove gli Usa regnavano da quasi un secolo. È il timore che ha sconvolto il Cile, paese meno latino delle nazioni latine. Serviva una morte preventiva per raffreddare gli entusiasmi degli altri nazionalismi. Quasi un avviso mafioso. «I bastardi finiscono così»: Nixon batteva un pugno sul palmo dell’altra mano con la soddisfazione di chi ha strappato il dente malato. Lo ricorda l’ex ambasciatore americano a Santiago nel film-documentario di Patricio Guzmann proiettato nei circuiti alternativi. La tranquillità quasi mondana del dottor Kony, bella casa di campagna di un’amica, spiega tutte le storie dell’America inquieta. Nella real politik non c’è posto per i sentimenti. E Kony riferisce dell’incontro che ha deciso la decapitazione di Allende nello studio ovale. Era seduto tra Kissinger e il presidente. Ascoltava e riferisce come un contabile devoto. Non una piega di pietà nella sua voce. I sorrisi di un gentiluomo in pensione accompagnano parole educate ma terribili.
La fine di Allende è la ferita di una generazione che non ha smesso di celebrarlo; adesso comincia a stancarsi. Quanti quarantenni sono cresciuti nelle scuole che ne portano il nome? Sui banchi hanno saputo, ma la memoria svanisce e Allende non c’è quasi più. Tanti libri ad ogni anniversario ma per i 35 anni di nuove memorie ne è uscito appena uno. Bellissimo. «Luis», di Luis Munoz, editore Baldini Castoldi Dalai. Diario di un uomo costretto all’esilio dopo aver visto uccidere la compagna ed aver controllato umiliazioni e dolore sotto tortura. Non parlava, non si arrendeva. Ma davanti alla figlia piccola, ammanettata e stesa nuda su tavolaccio gli è mancato il coraggio. «Se tu resisti cominciamo con lei». Ed ha tradito. Si è rifatto una vita a Londra senza rivedere per 30 anni le due bambine diventate donne con bambini. Ma si è imposto di tornare a casa per accusare in tribunale gli assassini dell’amore perduto e chi lo aveva inchiodato col terribile ricatto. Faccia a faccia davanti colonnello che dava ordini e agli altri che sparavano. Rabbia e dolore e quel tormento per aver lasciato morire i compagni coi quali divideva le speranze.
Questo è il Cile di un passato non proprio finito. Se gli eredi dei fascisti in Italia difendono il fascismo, nel Cile dove nessuno alza la voce e la malinconia accompagna la discrezione delle forme, il voto a volte non basta. Quel voto che ha mandato sulla poltrona di Allende Michelle Bachelet quando l’America Latina è cambiata per la distrazione dell’amministrazione Bush. Bandiere rosa e bandiere rosse annunciano democrazie a volte complicate, e un controllo delle risorse in grado di resistere alle pressioni delle multinazionali. Almeno, per il momento. Michelle torturata perché figlia di un generale d’aviazione fedele ad Allende. Il suo cuore si è arreso ai ferri dei carcerieri. Michelle che per ricominciare la vita ha girato il mondo. Torna appena Pinochet declina. Fa politica coi socialisti, diventa ministra della difesa nel continente dei generali. Un po’ delle alte uniformi che l’avevano perseguitata sono costrette a giurarle fedeltà: fedeltà al ministro, fedeltà al capo dello stato. Insomma, il Cile volta pagina ma senza ripulire gli angoli sporchi dell’alta borghesia. Tre anni dopo il trionfo, chi ha votato Bachelet si chiede se davvero è cambiato qualcosa o se le tragiche disuguaglianze sociali formalizzate dalla dittatura per conto degli impresari che continuano a far ballare i politici, sono solo un brutto ricordo. Se davvero la fatica del vivere della gente qualsiasi è addolcita dalle nuove regole per le quali la Bachelet sta lottando in un paese dai bilanci prosperi, management che incanta Wall Street e la borsa di Tokyo. Purtroppo la Bachelet, come ogni altro presidente della democrazia ritrovata, è prigioniera di interessi che non le consentono di trasformare l’infelicità nella speranza. La vecchia rete lega le mani di una transizione ormai più lunga della dittatura. Patricia Verdugo, giornalista e scrittrice che ha sfidato i militari ed è stata emarginata fino all’ultimo respiro (morta dieci mesi fa) da un establishment che non intende ridiscutere un solo privilegio; la Verdugo, raccontava nei libri e nelle chiacchiere con noi amici quando andavamo a trovarla per capire l’immobilità della società più moderna del continente; raccontava che ogni legge o progetto deve essere approvato dalla grande economia prima di arrivare sui banchi del parlamento. Tutto è deciso prima che la politica metta il naso. Ammorbidita la volgarità di Pinochet, la sostanza non cambia. Scuole sempre più private. Prosperano le università Cattoliche, di gran moda l’università delle Ande, Opus Dei, e poi laiche e massoniche ( portacenere e t-shirts con triangoli e compassi ). La classe dirigente che coltiva ambizioni può studiare solo lì. Difficile far carriera se la laurea è pubblica. E dalla laurea si scende ai licei: il privato garantisce il futuro negato alle scuole di stato. Ma bisogna pagare e col 36% della popolazione che tira la cinghia malgrado il trionfo di esportazioni e affari, e il 20% che suda la fine del mese, gli emarginati sono sempre gli stessi. E le poltrone e i privilegi passano di padre in figlio. Ecco le rivolte dei «pinguini», bianco e nero delle divise degli studenti. Cariche di polizia, ragazzi in galera o bastonati. Sindacati in allarme perché i conti non tornano.
Spariscono i letti dagli ospedali pubblici; si allungano i letti nelle cliniche private. E la povera Bachelet che con la laurea in medicina aveva provato a trasformare la sanità, rincorre promesse che non può esaudire. Ogni sera radio e Tv dalle proprietà cresciute con Pinochet, e ogni mattina tutti i giornali (meno La Nacion la cui distribuzione non raggiunge la periferia di Santiago) la tengono d’occhio, buone maniere cilene subito dimenticate appena la signora presidente si avvicina troppo alla gente. E la popolarità si assottiglia. E la perplessità si allarga. Bachelet che sostituisce 9 ministri; Bachelet alla cui spalle si affaccia chi ne prenderà il posto a fine mandato: Soledad Alvear, sinistra della democrazia cristiana, l’altra donna della Concertazione socialisti-Dc. Con un passato da ministro degli esteri viene annunciata da un partito i cui contorni si sono spesso confusi con i soliti interessi. Il carattere di una signora che non si arrende dovrà fare gli stessi conti della Bachelet perché i registi ombra del paese non hanno cambiato nome.
Non ci sta Gonzalo Meza Allende, figlio di Isabel (presidente della Camera dei deputati), nipote di Salvador Allende. Alla vigilia del voto che a ottobre sceglierà il sindaco di Santiago e tutti i sindaci del paese, annuncia un libro nel quale critica il modello cileno. Racconta la delusione davanti al governi di prima e ai governi che verranno: «Bisogna dar forza a questo tipo di democrazia altrimenti non cambia niente». Jaqueline, figlia minore di Pinochet, si candida a sindaco della capitale dove vive quasi metà della popolazione cilena. Non si illude di vincere, ma di contare i voti di chi non ha cambiato idea. Anche lei vuole ricominciare. 35 anni dopo il Cile riparte così.
Pubblicato il: 11.09.08 Modificato il: 11.09.08 alle ore 11.15 © l'Unità.
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« Risposta #8 inserito:: Settembre 15, 2008, 09:42:51 pm » |
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Il nodo Bolivia Maurizio Chierici Difficile risolvere i nuovi problemi quando i vecchi problemi sono ancora lì. Oggi a Santiago del Cile i presidenti dei paesi latino americani si incontrano per affrontare la crisi che fa tremare Evo Morales. Proposta di Chavez; convocazione urgente di Michelle Bachelet. Tutti d´accordo nel difendere l´integrità della Bolivia con imbarazzo per lo show di Chavez: insulti e parolacce contro gli Stati Uniti i quali hanno delegato Brasile e Cile a far da pompieri. Diplomaticamente troppo lontani, ormai, dall´ex giardino di casa. Se Europa e America difendono la Georgia dalle autonomie organizzate da Mosca, automaticamente si mettono contro alle autonomie delle province petrolifere e prospere che aprono la crisi di La Paz. Tropici lontani che gas e petrolio riuniscono nello stesso teorema. Il timore è che le violenze accendano altre violenze e nuove reazioni. Tentazione proclamata dall´opposizione a Maracaibo e in ogni città con petrolio del Venezuela. Il 28 settembre il presidente dell´Ecuador, Correa, affronta il referendum che cambia la costituzione. E Quayaquil, capitale degli affari e dell´elaborazione politica, metropoli prospera da sempre in competizione con la capitale burocratica, Quito, annuncia che si opporrà al referendum. Nel caso il «no» dovesse localmente prevalere, Quayquill si considererà regione autonoma. Il presidente Correa va a Santiago per prevenire i guai. Anche chi cerca di spegnere il fuoco ha strategie diverse. Lula appoggia Morales con la cautela di chi governa il paese guida dell´America Latina. Ormai potenza petrolifera (nuovi giganteschi giacimenti sono stati scoperti davanti a Rio dopo quelli nel mare di Santos), il Brasile non aderirà all´Opep. Lula vuole avere mani libere per controllare la rete energetica del continente, ma non solo. È una delle diversità che vuole segnare con Chavez. La divisione da approfondire è ancora più larga: quale tipo di sinistra conviene alla regione per resistere alle pressioni economiche degli Stati Uniti? Rossa Chavez, o rosa Lula? Cile, Perù, Uruguay, Honduras d´accordo con la dottrina soft di Lula: arrivare al risultato senza proclami. Bolivia, Cuba, Nicaragua e un Ecuador più sfumato, dalla parte di Chavez. Il Paraguay dell´ex vescovo Lugo e Argentina della signora Kirchner, a mezza strada. La Colombia, ultimo caposaldo della dottrina Bush in America Latina, si allineerà e anche il Messico non può fare diversamente. Insomma, tutti impegnati ad evitare lo smembramento della Bolivia. Ridiscutere i confini distruggerebbe economie che faticosamente si rialzano, ma 250 milioni di persone sono ancora sotto o sul filo della fame. L´impressione è che scontri, violenza, resistenza e ambasciatori mandati a casa, siano assaggi provvisori in attesa del nuovo signore della Casa Bianca. Chavez si è affrettato ad annunciarlo: senza ambasciatori ma i commerci non cambiano. Gli Usa sono il grande cliente e il grande venditore che riempie le vetrine di Caracas. L´uno non può fare a meno dell´altro. Come il rame in Cile, e il petrolio in Venezuela, il gas è il tesoro che fa gola in in Bolivia. E il passato non risolto si riaffaccia più o meno con le stesse figure. Sanchez Losada presidente deposto cinque anni fa dalla rivolta popolare guidata da Evo Morales, lo stava svendendo al consorzio dei soliti nomi. Riserve immense, seconde nelle americhe solo al Venezuela ed un consumo nazionale che il sottosviluppo mantiene talmente basso da programmare l´inutile indipendenza energetica per 1253 anni. Meglio esportarlo per far cassa e tentare una restaurazione sociale al momento disperata. Sanchez Losada godeva di doppia cittadinanza: Stati Uniti e Bolivia. Aveva scelto per portare fuori il gas transnazionali i cui nomi brillano nella Washington di Bush: Ray Hunt proprietario di Hunt Oil e Kellog Brown Root, amministratore della Halliburton, grande finanziatore delle due campagne repubblicane, oggi ombra di MacCain. Le spese per far arrivare il gasdotto al Pacifico dovevano pesare sul governo boliviano. Prevedevano retribuzioni diverse per le braccia che scavavano: trenta per cento in meno agli indios, cinquanta per cento in meno se erano donne. Cinque anni fa, come oggi alla conferenza di Santiago del Cile, Lula e i Kirchner dell´Argentina, avevano fermato gli Stati Uniti che annunciavano un intervento armato per sostenere «la legittimità del governo minacciato». Non conviene, situazione esplosiva. Fame e disuguaglianze medioevali. La disperazione degli otto milioni di persone riguarda la spoliazione sistematica di ogni risorsa (perfino l´acqua del lago Titicaca, quasi prosciugato dallo sfruttamento di un´impresa americana) mentre attorno l´emarginazione non cambia e le rivolte finiscono nei massacri. L´ultimo massacro alla vigilia della fuga di Sanchez Losada. Il ministro della difesa ordina di sparare sui contadini in marcia verso La Paz: 83 morti. Tre mesi fa è stato rinviato a giudizio per genocidio. L´ambasciatore Usa, Phillip Goldberg, lo avverte in tempo raccomandando a Washigton di concedergli lo stato di «profugo politico per ragioni di umanità». Come in Venezuela, Amazzonia, Perù, Colombia, le oligarchie hanno moltiplicato le proprietà inglobando enormi terreni demaniali, scacciando quetchua e aymara scesi dell´altipiano per sopravvivere alla carestia. Fino all´arrivo di Morales nessuno aveva considerato questa disperazione. Ecco perché all´ultimo referendum il presidente ha raccolto il 67 per cento di consensi. Ed è il paradosso: più Morales è popolare, più le minacce di secessione crescono. Una spiegazione c´è. La pianura d´Oriente dove sgorga il gas è culla dei generali e dittatori da sempre al governo del paese. Nel 1980 Santa Cruz ha finanziato con 4 milioni di dollari il coca-generale golpista Garcia Mesa. Alla riunione che ha deciso di rovesciare il presidente di La Paz, era presente Edwin Gasser, grande zuccheriere, famiglia di profughi di Hitler e dirigente della Lega Anticomunista Mondiale. Portavoce delle rivendicazioni autonomiste delle province della mezza luna, è stato nominato un anno fa Branko Marinkovic, famiglia profughi ustascia. È una cultura radicata nel passato prossimo quella che nutre la bande armate dei nostri giorni. Klaus Barbie, gestapo francese e specialista nella tortura, ha vissuto da tecnico ben retribuito dai servizi boliviani. Abitava una villa sopranominata «la casa di Klaus». Se la polizia di Santa Cruz doveva far parlare qualcuno che non parlava - sindacalisti o maestri o agitatori di popolo - chi interrogava si arrendeva: «Portalo a prendere un caffè da Klaus». Considerandone esperienza negli intrighi, dopo il golpe che lo ha reso presidente, il generale Banzer Suarez (di Santa Cruz) lo vuole consigliere per le operazioni speciali. Santa Cruz è anche la città dove ha imperato Stefano Delle Chiaie, pendolare tra Pinochet e le oligarchie boliviane bisognose di milizie disposte a tutto. Quando i carabinieri italiani lo cercavano per le stragi di casa nostra e gli si sono stretti attorno, Delle Chiaie è riuscito a scappare: nella sparatoria ( ottobre ´80 ) muore un altro neofascista italiano, Pier Luigi Pagliai. Bar e caffè di Santa Cruz, dove cresce la gioventù bianca che parla inglese, accendono insegne che dicono qualcosa: Bavaria, Boemia, Croce di Ferro. Pareti coperte da svastiche o Mussolini con l´elmetto, oppure i nomi insulsi di ogni sabato sera che dura sette giorni o le luci blu del night Marmelada dove la dose coca cristallo costa un dollaro e cinquanta centesimi. I ragazzi neri italiani sono stati pescati lì. In quegli anni ´80 sono andato a Santa Cruz per incontrare il trafficante più ricercato del mondo: Alvaro Gomez Suarez, cugino del generale presidente Banzer Suarez. Mi viene a prendere un giovanotto, scarpe italiane, piccola Beretta alla cintura. Avvocato con laurea a New York. Ha passato qualche mese a Roma, addetto culturale nell´ambasciata della Santa Sede. Anche il nome fa capire qualcosa sulla cappa che schiaccia città, politica, giornali, radio, televisioni. Si chiama Alfonso Antelo. È cugino del capitano Antelo che mi ha convocato al comando di polizia per un interrogatorio surreale. Ed è fratello di Tito Antelo, pilota personale di don Roberto Gomez Suarez, e nipote di Salvador Antelo, senatore a La Paz. Quando finalmente incontro il signore dell´intervista, incontro un signore giacca e cravatta come l´Al Pacino del Padrino. Per essere lasciato in pace aveva proposto al presidente cugino di saldare l´intero debito estero del paese (8 milioni e mezzo di dollari) ma l´ordine di cattura doveva essere dimenticato. Questa la ragnatela sempre più potente: protegge dalla legalità di Evo Morales le province in rivolta. Il 50 per cento dell´energia necessaria alle grandi industrie di San Paolo viene da queste regioni. Senza il gas boliviano l´Argentina batte i denti e li batte anche il Cile. La grande macchina è nelle mani di tecnici brasiliani e del nostro mondo o ladinos dal sangue mescolato. Gli indigeni sono ombre che non contano. Emigranti interni scesi dall´altipiano dopo la chiusura delle miniere. Braccia per l´agricoltura. Emarginati come è impossibile immaginare. La prima strada asfaltata ha rallegrato la città un po´ prima degli anni quaranta e gli abitanti si moltiplicavano perché arrivavano dall´Europa schiacciata dagli stivali di Hitler. Appena la guerra finisce nuove facce bionde invadono Santa Cruz. Sono le facce degli «altri»: perseguitavano gli ebrei e li ritrovano qui. Si sfiorano, non si parlano. Paura e silenzio. Divisi per sempre. Vengono sepolti in due cimiteri diversi. Un angolo del cimitero di tutti è riservato agli israeliti. Dall´altra parte del muro, nell´altro camposanto, lapidi dalle epigrafi gotiche ricordano «l´onore, il coraggio, l´abnegazione di chi si è sacrificato per il grande Reich». Dirimpetto a dove dormono gli ebrei, i nomi cambiano ancora. Nomi croati. Anche la fuga degli ustascia alleati di Hitler e Mussolini si è fermata qui. Santa Cruz ha un milione e 500 mila automobili, metà girano senza targa. Attraversano la frontiera del Brasile in un contrabbando illuminato dai riflettori delle polizie che fanno finta di niente. Babele di lingue. Portoghese dei brasiliani, spagnolo argentino, inglese, francese, tedesco. Folle trincerate nelle roccaforti delle multinazionali, colletti blu stranieri che danno una mano ai signori decisi ad inventare uno stato indipendente e a vendere gas e petrolio agli amici. Nascoste nei gironi di sigle ermetiche e imprese dai nomi esotici, le famiglie restano le stesse. E gli indigeni che si aggrappano a Morales continuano ad avere la stessa paura. mchierici2@libero.itPubblicato il: 15.09.08 Modificato il: 15.09.08 alle ore 10.44 © l'Unità.
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« Risposta #9 inserito:: Settembre 29, 2008, 11:58:25 pm » |
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Il segreto di McCain Maurizio Chierici Un segreto imbarazzante è in agguato nella campagne di John McCain. Non proprio scandalo, solo la curiosità malinconica che da trent’anni fa arrabbiare mogli e figli di chi non è tornato dal Vietnam. Non si sa se fucilati, morti per sfinimento o dispersi dopo un’evasione. Millecento, millecinquecento, il Pentagono prende in considerazione 51 prigionieri svaniti chissà come, sepolti chissà dove. Le carte del Pentagono sanno cosa è successo, ma nessuna informazione è arrivata alle famiglie. Documenti secretati, perché? Soprattutto: come mai quando il Congresso ha deciso all’unanimità di declassificare informazioni superate da altre tragedie, il via libera si è impantanato nella commissione del Senato presieduta da McCain il quale con determinazione «a volte violenta» ha imposto il silenzio su una guerra talmente lontana da non provocare nessun danno «alla sicurezza del Paese», come il rivale di Obama ripeteva fino a qualche anno fa. Naturalmente Hanoi non dà una mano. Per i vietnamiti tutti i prigionieri Usa sono tornati a casa. Ma mogli e figli guardano il posto vuoto a tavola. Allora, cosa è successo? Deputati democratici e repubblicani avevano chiesto al Pentagono di rispondere all’invocazione dei familiari con un provvedimento che prevedeva sanzioni pesanti per gli alti funzionari restii a collaborare. Quei famosi seppellitori dei servizi segreti, protagonisti dei racconti di Le Carré. McCain ha bloccato tutto concludendo l’arringa con un discorso patriottico: «guardiamo avanti. Il passato è il passato. Gli Stati Uniti hanno un futuro prospero garantito dalla trasparenza della nostra democrazia». Chiuso il lucchetto. Per timore che qualcuno insistesse nel frugare, ha centellinato una legge sull’accesso ai documenti talmente complicata da permessi incrociati e regolamenti museruola da impedire l’apertura degli archivi. McCain aveva messo in piedi una lobby trasversale dove confluivano senatori dell’ala conservatrice democratica. Ed è riuscito a guadagnare la presidenza della commissione. Commissione che incalzata da familiari e veterani del Vietnam, risponde aprendo un’inchiesta per capire quali «interessi nascosti inspirano la perseveranza dei richiedenti». I quali non si limitavano a voler sapere, ma riscrivevano la biografia del prigioniero McCain con insinuazioni non piacevoli. Il confronto Obama-McCain dell’altra sera ha messo a confronto due secoli: il secolo alle spalle e il secolo appena cominciato. Passato contro futuro. Il futuro può solo rivangare le ambiguità strazianti delle guerre di Bush, ma non gli scheletri della guerra perduta, ferita ancora aperta nell’orgoglio nazionale. L’imbuto del terremoto mutui, banche e finanze ha negato spazio a queste punte di spillo che infastidivano McCain durante le primarie repubblicane. Per rimpicciolire gli avversari di partito, non aveva smesso di sventolare le ventitrè medaglie che lo proclamano eroe. Avendo partecipato a venticinque azioni di guerra, quasi una medaglia ogni volo. E alla contrarietà che agitava Obama sull’operazione Iraq, rispondeva sorridendo: «So com’è terribile la guerra. Ne porto le cicatrici, ma so anche quando è urgente farla. La guerra in Iraq era un’urgenza». Dichiarazione che ha resuscitato la rabbia di chi non ha notizie. E i veterani e le famiglie del Pwo-Mita sono ripartiti con la stessa domanda: di cosa ha paura McCain quando nasconde quel passato? Nipote di un ammiraglio, viceré Usa sul canale di Panama, figlio dell’ammiraglio che in Vietnam comandava in mare le truppe che il generale Westmoreland guidava nella foresta, prima o poi, riscivolerà nelle glorie del medagliere e la polemica potrebbe tornare sui giornali e nelle Tv. McCain viene abbattuto il 26 ottobre 1967 mentre sta bombardando Hanoi. Un missile fa scoppiare l’aereo e McCain ha appena il tempo di proiettarsi fuori ma sviene per l’impatto e quando cade nel lago che abbraccia la capitale comincia ad annegare. Lo salva il soccorso improvvisato da contadini i quali appena riva gli volano addosso con forconi e qualche fucile. Spalla fratturata, gamba spezzata. Linciaggio evitato da militari che lo trascinano in ospedale. Il racconto degli altri prigionieri americani si discosta dall’autobiografia dove McCain spiega come i carcerieri scoprano solo nel giugno ’68 di chi è figlio il pilota dietro i reticolati del campo di concentramento di Hoa, beffardamente definito Hilton Hanoi. John Sidney junior era stato promosso da poco comandate delle forze navali Usa. McCain scrive che un signore in borghese, “il gatto”, gli offre la libertà nella prospettiva di una diplomazia segreta. Figlio che può convincere il padre. Ma John rifiuta «come prevede il regolamento sul quale ogni soldato americano ha giurato fedeltà». Nessun tradimento. La versione dei compagni che ne accompagnano per un tratto la disavventura, ne ritocca la modestia. Appena all’ospedale, McCain avrebbe rivelato nome e grado del padre. E subito sparisce in ospedali meno disadorni dagli ospedali dove giacevano i compagni. I familiari e i reduci del Pow-Mita mettono in dubbio che anche la cella di McCain fosse uguale a quella di tutti perché sulla dislocazione dei prigionieri si sa poco. Solo i documenti invisibili del Pentagono possono ricostruire la storia. È forse il privilegio che vuole tener nascosto? Poi, le interviste. Lo incontra uno eccentrico psicologo di origine spagnola, nazionalità argentina, chiamato all’Avana dal Che, compagno d’infanzia. Le dichiarazione di McCain alla radio vietnamita vengono tradotte in francese e tedesco, e diffuse nel mondo. Più o meno racconta le stesse cose, sintomo di un copione imposto: lo può solo recitare anche se l’acquiescenza sembra eccessiva ai comandi Usa di Saigon, l’altro Vietnam. McCain confessa che le missioni sulla capitale servivano ad individuare e bombardare le difese missilistiche e a distruggere scuole ed ospedali per scatenare il caos. «Se sono vivo - dichiara McCain - lo devo alla perizia dei medici vietnamiti, bravi e preparati come i medici americani». E nelle trasmissioni di propaganda mandate in onda per scoraggiare le truppe Usa, McCain fa sapere di «aver scoperto una nazione militarmente preparata, con probabilità di vittoria anche perché gli Stati Uniti sono sempre più isolati dai Paesi occidentali contrari alle atrocità di questa guerra». Purtroppo i documenti dissecretati negli anni di Clinton confermano che McCain non nascondeva niente rivelando le strategie degli alti comandi, informazioni destinate a inorridire l’opinione pubblica, soprattutto ad agitare le rivolte nelle università americane dove i ragazzi non sopportavano l’invasione in Vietnam. Quando torna a casa spiega perché si è lasciato andare così: non ha resistito alla tortura. Poco lontano dal Centro dell’Avana, municipio Playa, Fernando Barral lo psicologo che nel 1970 intervista McCain, ha aperto due anni fa un paladar, ristorante familiare con dodici tavoli affollati da turisti. Settantanove anni, parla con accento madrileno anche se da mezzo secolo vive in America Latina. Sulle pareti di legno è appeso un ritaglio del Granma, giornale unico del partito unico. Le foto di Barral e di McCain ricordano la “famosa intervista”, 24 giugno ’70. Cuba era vicina al Vietnam in lotta contro gli Stati Uniti e al visitatore Barral è stato permesso di incontrare McCain. Non in un albergo come ricordano le memorie dell’eroe di guerra, ma negli uffici del comitato per le relazioni culturali con gli stranieri. Sul tavolo caffè, arance, sigarette. Barral visita il prigioniero: muove male il braccio, cammina con bastone: «Mi hanno rotto le gambe». Poi un’intervista lunga un’ora e 45 minuti. «Era solo un propagandista che diceva essere medico e faceva le domande di ogni giornalista»: McCain, nel suo libro. «L’ego del prigioniero era insopportabile. Mi ha detto: se non avessero abbattuto l’aereo sarei diventato ammiraglio in un’età più giovane di quando lo è diventato mio padre». E torna il solito racconto al quale una domanda dà un finale diverso: «È pentito di aver bombardato scuole e ospedali?». Secondo Barral, McCain non ha risposto ma non ha negato e, del resto, come poteva con i guardiani attorno. Secondo McCain la risposta è stata: «No, non sono pentito». Insomma un passato che può infastidire la campagna elettorale nella quale l’aspirante presidente prende le distanze dai conflitti armati, anche se promette, in caso di vittoria, di mandare più militari in Iraq «per pacificarlo in fretta». Su queste e altre pacificazioni si allunga l’ombra del consigliere per la sicurezza che ne guida la campagna elettorale: Randy Scheumann. Nel ’98 ha protetto Ahmad Chalabi, uomo d’affari iracheno fuggito in Giordania da dove deve scappare per bancarotta. Con i 98 milioni di dollari che Scheumann gli fa avere dal Pentagono, Chalabi ridiventa presentabile permettendo ai falchi di Bush di proporlo quale capo di governo dopo la caduta di Hussein. Ma viene subito messo da parte per corruzione e le vendette tribali che scatenava. Scheumann è un lobbista d’altro bordo delle industrie di armamenti. In copia col vicepresidente della Lockeed, Martin Bruce Jackson, nel 2002 diventa presidente del Comittee for Nato Expansion, organizzazione che sollecita l’ammissione alla Nato degli ex Paesi comunisti. Facile spiegare la ragione: chi entra nella Nato deve adeguare le risorse militari agli standard dei paesi alleati. Comprare carri armati, aerei ed elicotteri dai fabbricanti Usa. Affari colossali. Nella cartellina che ne raccoglie il profilo professionale, Scheumann elenca i numeri del boom del complesso militare-industriale: nel 2006 ha firmato contratti per 17 miliardi di dollari, 40 per cento delle vendite mondiali, Russia di Putin ferma a metà. E le vendite continuano a gonfie vele. Nel gennaio 2008 il fatturato di un solo mese è di 19,626 miliardi e la campagna di McCain va avanti senza problemi. Se arriva alla Casa Bianca il futuro è disegnato. Un mondo destinato al riarmo e Wall Street potrà respirare e i veterani del Vietnam e le famiglie dei prigionieri scomparsi non avranno mai risposte. mchierici2@libero.itPubblicato il: 29.09.08 Modificato il: 29.09.08 alle ore 8.25 © l'Unità.
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« Risposta #10 inserito:: Febbraio 02, 2009, 05:45:03 pm » |
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Davos e Belem: così lontani, così inutili di Maurizio Chierici Certe foto fanno capire più di mille parole. Difficile indovinare quanto sono interessati a una dignità condivisa i manager di Davos che si divertono a fare i profughi per provare (giocando) se è scomodo abitare sotto le tende della miseria. O se i profughi - profughi che arrivano a Belem per denunciare fame e paura, dignità rubate, insomma malattie endemiche delle quali non si guarisce per la maledizione del dormire attorno alle casseforti che nutrono la felicità dei mercati, se almeno loro hanno capito come obbligare i padroni del mondo ad accettare discorsi normali a proposito di petrolio, gas, biodisel. Ma con la crisi che avvilisce le vetrine, la dignità delle pance vuote deve portare pazienza. Impossibile mettere assieme protagonisti così diversi. Ecco l'idea di contrapporre ai sussurri del salotto svizzero, l'incontro ballato di chi spera di uscire dal buio. L'anticamera che divide le due strategie è lunga diecimila chilometri e gli appuntamenti diventano un palcoscenico. Tremonti fa notare che il vecchio capitalismo va cambiato. Geniale: diventa l'economista che il mondo ci invidia. Chavez annuncia che un mondo diverso è possibile. Vecchia speranza che i popoli accorsi in Amazzonia salutano ogni anno come futuro prossimo, ma ogni anno il futuro viene rimandato di un po'. Belem ha riproposto senza grandi spese la giustizia sociale di chi non si arrende. L'entusiasmo dei diseredati non costa niente. Ma mettere in fila a Davos governi coronati e i padroni degli affari costa più dello sfamare i piatti vuoti di Gaza. Il discorso vale per ogni G8 o assemblee Fao a Roma o villa d'Este sul lago di Como. Trionfi babilonesi. Nell'era delle comunicazioni lampo, organizzare le messe cantate dell'economia è utile se le decisioni diventano concrete. Invece rimasticano (censurando) l'intimità delle confidenze che ogni giorno i protagonisti incrociano al telefono e sui tasti internet. Al G8 di Genova Berlusconi aveva promesso di raddoppiare l'aiuto ai popoli della disperazione. Applausi. Spente le luci, dimezza i centesimi che già non bastavano. La novità socialmente eccitante che uscirà dal prossimo G8 della Maddalena proclamerà Berlusconi l'anfitrione più squisito del mondo. Il resto, robetta. Bisogna essere sinceri: è bello ascoltare i propositi di chi condivide un progetto comune. Ma se il forum di Belem occupava le piazze di New York, Tokyo o Parigi, attorno ai palazzi di chi comanda, forse qualcosa poteva cambiare. Invece la disattenzione sociale dei sordi non smetterà di perseguitare i senza nome. Europa, New York, Tokyo e Mosca continueranno a promettere senza fare niente. Belem, Porto Alegre, le afriche e le asie degli stracci continueranno ad invocare ma nessuno cambierà le regole. E la grande informazione si fermerà al colore. Al prossimo meeting, o alla prossima guerra, si vedrà. mchierici2@libero.it02 febbraio 2009 da unita.it
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« Risposta #11 inserito:: Febbraio 09, 2009, 10:52:49 pm » |
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Quel dolore: padre Silvio, padre Beppino di Maurizio Chierici Uno strazio senza parole. Nessuno sa quant’è profondo se non è stato colpito dalla tragedia dei figli che si è costretti a perdere. La comprensione accompagna nel silenzio certi dolori segreti. A volte non succede. Il tornaconto politico del nascondere i disastri calpesta la pietà con accenti sgarbati. Scrivono i giornali che Berlusconi considera il padre di Eluana un pover’uomo stremato dal calvario della ragazza che non c’è più: vorrebbe cancellarne il corpo per ricominciare a vivere. Macabra campagna che distrae l’attenzione dalle miserie quotidiane. Ogni giorno la crisi le allarga, cosa dire alla gente? L’agonia di chi invecchia nel niente diventa il paravento ideale. Meraviglia la crudeltà di un padre che ha vissuto lo stesso dolore. La moglie non lo ha mai nascosto e si emoziona nell’intervista - aprile 2005 - al Corriere della Sera. Veronica Lario racconta a Maria Latella (che ne raccoglie la biografia) di aver rinunciato al primo figlio: lei e il marito lo aspettavano con un amore intristito dalla pena che li ha sconvolti. Anni 80: «Al quinto mese di gravidanza ho saputo che il bambino era malformato e per i due mesi successivi ho cercato di capire, con l’aiuto dei medici, cosa fosse giusto fare. Al settimo mese sono dolorosamente arrivata alla conclusione di dover abortire. Ferita che non si è rimarginata». Del figlio desiderato e perduto perché «malformato», Berlusconi se ne dimentica quando spiega che ciò che resta di Eluana potrebbe avere un bambino. Nessun ricordo del suo assenso di padre a un aborto al settimo mese. Per Casini e gli anti abortisti la parola è «feticidio». In quel 2005 era primo ministro eppure mai gli avversari politici hanno pensato di sfiorare quel lontano dolore con una polemica facile verso chi si proclamava difensore della dottrina cattolica, rigida e categorica con chi pratica l’aborto, figuriamoci al settimo mese, non importa quale creatura possa venire al mondo. Resta sempre creatura di Dio. Anche il Vaticano si è distratto: quel giorno nessuno deve aver letto il Corriere. Il realismo della Chiesa non sdegna la concretezza se i poteri sono forti. Nella Spagna 1975 l’agonia di Franco, avvolto nei tubi che soffiavano la vita, si è allungata in modo così grottesco da far sorridere anche i giornali spagnoli più dipendenti. Prima di staccare le macchine bisognava sistemare tante cose. Stabilire il nuovo governo, poltrone ai ministri Opus Dei fuori dal potere per dissidi con la Falange e accordi col futuro monarca nel progetto di una democrazia inevitabile ma dal freno tirato. Franco non poteva morire da un giorno all’altro. Tubi staccati appena tutto a posto. E non protestano i vescovi spagnoli e non protesta Roma per le macchine che si fermano. Due giorni dopo - 22 novembre 1975 - Juan Carlos sale al trono. Un re è sempre un re; Eluana e Beppino Englaro non sono nessuno. mchierici2@libero.it09 febbraio 2009 da unita.it
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« Ultima modifica: Marzo 02, 2009, 11:15:30 pm da Admin »
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« Risposta #12 inserito:: Febbraio 16, 2009, 11:41:10 pm » |
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Mastella candidato in Perù di Maurizio Chierici Anni fa Roberto Marinho monarca di Rede Globo, grandi giornali e pioniere delle telenovelas, ricordava con rabbia l'avventura italiana della sua Telemontecarlo. Aveva puntato sui democristiani, governo De Mita col quale dialogava attraverso «un portaordini con un solo ordine: mai incontrare Berlusconi. “Se parla con lui, ha chiuso con noi”». Un imprenditore dei media non se la sentiva di chiudere con la corazzata Dc. Il portaordini era Clemente Mastella. In quel 1995 non sapevo come raccontare a Marinho la novità: «Adesso Mastella fa il ministro col Berlusconi… ». Marinho padre guarda con amarezza Marinho figlio, erede dell'impero. «E io ho perso 800 milioni. Neanche in Brasile si cambia bandiera in questo modo. Forse in Peru dove Fujimori fa il disinvolto». Da ieri sappiamo che Berlusconi candida Mastella alle elezioni europee. La carriera continua. Riassumo: deputato per 32 anni e poi senatore. Ministro del Lavoro con Berlusconi, ministro della Giustizia con l'ultimo Prodi, ma anche sindaco di Ceppaloni (dove è nato) grazie alla spallata di Forza Italia. Quando la Dc si scioglie, assieme a Casini fonda il Ccd e ne diventa presidente. Nel '98 (con Prodi al governo) prende le distanze dal Cavaliere. Cossiga suggerisce una formazione flessibile tra un blocco e l'altro. Addio a Pier Ferdinando, nasce il Cdr che preso cambia nome, Cdu, ma arrivano altri profughi, ecco l'Udr: nel '99 finalmente l' Udeur. Facce nuove, talenti interessanti. Nomina segretario nazionale dei giovani Francesco Campanella, presidente del consiglio comunale di Villabate, attorno a Palermo. Mastella ne è testimone alle nozze assieme a Salvatore Cuffaro, presidente della Regione Sicilia, oggi senatore malgrado la condanna a 5 anni per favoreggiamento agli uomini di Provenzano. Campanella era il braccio destro di Mandalà, braccio destro di Provenzano. Tra un braccio e l'altro gli dà una mano a falsificare i documenti perché il ricercato numero uno possa andare in Francia, operazione alla prostata. Consiglio comunale sciolto per interferenze mafiose e Campanella recita il pentito che racconta tante cose. L'ultimo Mastella dà le dimissioni dal governo Prodi e il governo cade e Mastella va a Porta a Porta per confessare a Vespa di voler ripetere il salto mortale: subito nelle liste di Berlusconi. Ma la Lega punta i piedi. Anche per i finanziamenti al giornale Udeur, quel «Campanile» che incassa un milione e 300 mila euro, soldi pubblici in parte usati per spese viaggi famiglia Mastella, e poi «liberalità», pacchi dolci e torroni. Il leader ne è direttore, 40 mila l'anno, stipendio superstite. Ma in giugno arriva l'onorario di Bruxelles e finiscono i pensieri. Con la pensione di 9 legislature la vita non è poi gran che. E le porte quasi tutte chiuse. Fujimori in galera e nessuna certezza che il presidente Alan Garcia voglia in Peru un candidato così. mchierici2@libero.it16 febbraio 2009 da unita.it
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« Risposta #13 inserito:: Marzo 02, 2009, 11:16:28 pm » |
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Chi ha paura di Ingrid di Maurizio Chierici Ingrid Betancourt è una donna scomoda, condivide il dramma degli altri e i politici non la vogliono tra i piedi. Cresciuta nella cultura europea, insegue la speranza di una Colombia meno corrotta. È convinta che ogni dramma si possa affrontare con le parole del buonsenso per aiutare chi è senza futuro a cercare il futuro altrimenti le scorciatoie della droga e il mestiere delle armi continueranno a spogliare ogni dignità. Armi dei paramilitari della destra impegnata a garantire al presidente Uribe l'elezione infinita; armi Farc, armi narcos. Ieri, sette anni fa, Ingrid candidata alla presidenza, si consegna alla guerriglia per invitarla alla ragione. Sappiamo come è finita: prigioniera con la catena al collo. Il governo di Bogotà tremava all'idea di rivederla in politica. Il vulcano Betancourt avrebbe smontato le piramidi militari cancellando 3,6 miliardi di dollari che arrivavano dagli Usa di Bush: strumenti di guerra e braccia di mercenari. Fantasmi che non appaiono nella contabilità del Pentagono; solo numeri sui computer delle grandi compagnie con appalti dall'Iraq alla Colombia. Ecco perché Uribe boicottava i colloqui di liberazione proclamando il «riscatto armato», gioco di prestigio per non farla tornare. Invece è tornata. Otto mesi fa Ingrid e tre mercenari della Northop Grumman respirano fuori dalla foresta. La Betancourt vola a Parigi: presidenti e protagonisti di ogni tipo l'abbracciano per illuminarsi nella sua popolarità. Organizza una fondazione per recuperare i carcerieri adolescenti di guardia alla sua baracca. Progetto Calamar programmato da una ragazza italiana -Azzurra Carpo - con anni di esperienza in Amazzonia. Poi sparisce: sta ricomponendo la memoria in compagnia di uno psicologo che la rasserena appena il ricordo risveglia quel dolore. La storia dei marines è un'altra cosa. La grande compagnia degli appalti li chiude subito in un ospedale militare del Texas: «recupero psicologico». Terapia che fa miracoli: escono con un libro in mano. Marines d'acciaio abbattuti e ripescati in Vietnam, Bosnia, Afghanistan, Iraq, rivelano qualità di scrittura e insospettabili amicizie editoriali. In un lampo «Out of Captivity» è in libreria. Keith Stansell, spazzola grigio bionda, occhi da rambo, se la prende con la Betancourt . «Ho saputo dai guardiani che non ci voleva nell'accampamento perché agenti della Cia. Non si fidava, sbagliando: siamo solo impiegati di una società privata. Ha brigato per farci fuori. Parlava come in campagna elettorale. Rubava la roba da mangiare, non ci prestava la radio». Insomma, Ingrid che perseguita tre armadi piagnucolosi come bambini. I veleni non arrivano dove sta scrivendo; fumogeni per inquinare un racconto che fruga sotto misteri forse scomodi. Dopo le Farc e l'eterna corruzione, Ingrid, sempre sola, fa i conti con i buchi neri delle multinazionali della guerra. Chi ha paura delle sue parole? mchierici2@libero.it02 marzo 2009 da unita.it
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« Risposta #14 inserito:: Marzo 16, 2009, 11:20:41 pm » |
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Stati Uniti, spiate 650 milioni di telefonate di Maurizio Chierici Se la magistratura avesse aspettato due mesi ad incuriosirsi del professor Soria, presidente dello scandalo che fa tremare il premio Grinzane Cavour, il professor non finiva dietro le sbarre: restava fra gli ospiti laureati nel «suo» castello delle Langhe dove un tempo sospirava la contessa Castiglione. Fra due mesi intercettazioni telefoniche col contagocce e solo per le facce da galera. Proibito ascoltare gli insospettabili; ma fra due mesi. Adesso si può, ecco il professore ascoltato mentre insegna alla cameriera come imbrogliare la guardia di finanza. Anche il Cavaliere non sopporta questa inciviltà. E le forbici della riforma Alfano accelerano nell'ombra per imporre ai magistrati di spiare soltanto persone ufficialmente indagate e per poco tempo: costa troppo. Insomma, il Soria senza vecchi peccati, salvo per sempre. Giornali e Tv della famiglia Arcore ripetono all'infinito: negli Usa si intercetta quattro volte meno dell' Italia. E i perbene inorridiscono. Un mattino mi sono incuriosito nella Miami lontana dal mare davanti ad un palazzo senza finestre. Gli imbianchini avevano disegnato imposte giallo-rosa. Sul tetto galleggiavano tre globi bianchi. Non cisterne d'acqua: il palazzo nasconde qualche segreto. Dietro l'allegria degli stucchi, pareti di acciaio che resistono agli uragani forza 5. È la sede dell'agenzia privata Global Crossing, agli ordini dell'Agenzia per la Sicurezza Nazionale. Ogni giorno - ripeto, ogni giorno - registra 650 milioni di telefonate. Dal Sud al Centro America, Europa, soprattutto chi chiacchiera dentro il paese. Voci che i computer imbustano nel bunker elettronico più indiscreto del mondo. Altre orecchie nascoste nei mausolei senza finestre ascoltano in California e attorno a Washington. Orecchie legate da cavi sotterranei: un lampo e si sa tutto. Possono pescare i magistrati che indagano anche se già godono la libertà di non dover contare i giorni per spiare stupratori, banchieri o ministri che non pagano le tasse. «Chi non ha niente da nascondere può dormire tranquillo», risposta dell'addetto stampa della Global alla curiosità dei giornalisti curiosi. L'ultimo libro di James Bamford, «Body of Secrets», raccoglie gli articoli apparsi su New York Times e Washington Post. Racconta i gialli risolti e i pericoli evitati. Nell'Italia 2000 non esistono cattedrali spia, solo spioni dal bric brac personale ma con amici dove serve, amici generosi: li possono trasformare nel senatore Betulla. Intanto giudici e carabinieri scoprono tante cose: dai furbetti di quartiere alle truffe horror dei baroni della clinica Santa Rita di Milano. Persone riverite, al di sopra dei sospetti: con la riforma che chiude le orecchie e imbavaglia i giornali le doppie facce finalmente respireranno. E l'America resta l'America mentre noi levantini secretiamo gli abbandoni dei politici buontemponi. mchierici2@libero.it16 marzo 2009 da unita.it
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