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Autore Discussione: Mario Calabresi. - Il suo Presente e il suo Passato.  (Letto 3445 volte)
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« inserito:: Giugno 01, 2022, 11:56:14 am »

Emanuele Fiano

 L’ultima cosa che avrei potuto immaginare nella vita era di trovare l’immagine del mio primo ricordo d’infanzia, di scovarlo, quasi per caso, in mezzo a cinque milioni di fotografie. Di tenerla tra le mani, guardarla e avere conferma, cinquant’anni dopo, di quel frammento prezioso di memoria che avevo silenziosamente custodito per molti anni.

Quale fosse l’ho raccontato nel libro “Spingendo la notte più in là”, con queste parole: «L’unico ricordo che ho di mio padre è quello dell’ultima domenica mattina passata insieme. La data l’ho ricostruita grazie all’agenda di mia madre: “14 maggio: Gigi porta Mario a vedere la sfilata degli alpini. Rientra con paste, gelato e rose”. Mia madre conserva ancora una rosa di quel mazzo. È secca, ma si intuisce il colore rosa screziato di rosso. La tiene in un cassettone, insieme alle migliaia di lettere ricevute negli anni».

Io ero sulle sue spalle, ero un po’ spaventato dalla calca e dal rumore, ma ero incredibilmente attratto dalla grande apertura dorata di un trombone. Lui mi chiese se volevo toccarlo, ero timido, e poi nessuno si avvicinava, la gente stava tutta lungo il bordo della strada, ad assistere alla sfilata. Nessuno superava la linea immaginaria. Lui invece scavalcò qualcosa, forse superò delle transenne, io mi attaccavo ai suoi capelli, lui mi stringeva le gambe, io avevo timore, sentivo che stavamo facendo qualcosa fuori dalle regole, ma lui mi dava fiducia. Ci avvicinammo alla banda, lui parlò con qualcuno, chiese qualcosa, si piegò sul trombone e me lo fece toccare, solo per un attimo. Tornando indietro io ero felice, mi sentivo grande, forte, orgoglioso di stare sulle sue spalle, mi sembrava avessimo fatto una cosa coraggiosissima. Non avevo più paura della folla, mi sembrava tutto solare e caldo. Era una sensazione fortissima, che sento ancora oggi, viva, netta, pulita. Una sensazione di pienezza.

A ottobre del 2019 entrai per la prima volta in un luogo meraviglioso: l’Archivio Publifoto. Avevo preso appuntamento per pura curiosità ma da quel primo incontro, seguito da molti altri, sarebbe poi nata una mostra sulla Milano bombardata del 1943.

Venni accolto dalle archiviste, mi fecero fare un giro e mi mostrarono delle vetrinette che contenevano una serie di quaderni, erano agende scritte a penna che contenevano l’elenco dei servizi fotografici che erano stati scattati ogni giorno. Aprirono una vetrinetta e il caso volle che fosse quella del 1972. Io istintivamente afferrai un volumetto che aveva scritto “maggio” sul dorso, spiegai che volevo vedere che servizi erano stati fatti il giorno della morte di mio padre e poi ai funerali. Sfogliammo a partire dal 17 maggio, ma dopo un’istante sentii un’urgenza di tornare indietro, avevo fretta di andare alla domenica prima, il 14 maggio. Sentivo un’urgenza fortissima di aprire quelle scatolette di cartone dei negativi, sentivo che stava per succedere qualcosa di importante.

E qualcosa è successo. Sono partito da una busta piena di provini, mi avevano chiesto di indossare dei guanti bianchi di tessuto per non rovinare quei piccoli pezzi di memoria, e con grande delicatezza avevo tirato fuori un primo mazzo di scatti. Non ho avuto nemmeno bisogno di cercare, quasi subito mi sono trovato tra le mani la fotografia che avevo nella testa fin da bambino: il trombone.
A quel punto ho cominciato a sperare di trovare qualcos’altro, non sapevo nemmeno cosa, almeno razionalmente, ma avevo sempre più fretta. Dopo un attimo ho capito cosa stessi cercando: un bambino sulle spalle del padre. Ne ho trovato uno con una testa e delle orecchie simili alle mie, aveva una maglia chiara e del padre si intuivano solo le spalle e una giacca grigia.

Ho smesso di cercare. Sono rimasto in silenzio. Mi sono improvvisamente calmato. Tutto era andato a posto. Mi sentivo a posto e in pace.
Ho chiesto se fosse possibile stampare la foto in un formato grande, mi hanno risposto che ci sarebbe voluto un po’ di tempo.
Ho sorriso pensando che erano passati 47 anni e mezzo, che qualche settimana in più non avrebbe fatto nessuna differenza. Quando mi è arrivata a casa la busta, l’ho aperta con grande cautela, poi sono andato a trovare mia madre, ho messo la foto sul tavolo, ho indicato il bambino e le ho chiesto: «Ho mai avuto una maglia così? Papà aveva una giacca del genere?». «Direi di sì», fu la risposta.
«Pensi che possa essere io?». «Ti somiglia, ma come possiamo saperlo davvero?».

Siamo stati un po’ a guardare e a fare supposizioni e poi mi ha chiesto: «È importante sapere se eri proprio quello?». No, va bene così.
Il 17 maggio di cinquanta anni fa veniva assassinato il Commissario Luigi Calabresi, mio padre. Quello che avete letto è un estratto del racconto completo che ho inviato questa mattina nella mia newsletter #altrestorie. Lo trovate nella vostra casella di posta e su www.mariocalabresi.com. Buona lettura, e buona giornata.

Mario Calabresi

Da Fb del 13 maggio 2022

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