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« inserito:: Aprile 03, 2022, 05:52:45 pm » |
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EVTUŠENKO e ŠOSTAKOVIČ Estratto
Babin Jar è un profondo e ampio burrone vicino a Kiev, dove le truppe tedesche massacrarono 33.771 civili ebrei il 29 e 30 settembre 1941. Si tratta del peggior massacro avvenuto durante la Seconda guerra mondiale. Di fronte alla cancellazione del luogo, l'intelligencija ebbe un ruolo centrale nel processo di trasmissione della memoria di eventi tragici, a partire dalla fine degli anni Quaranta. Si tratta di un contributo molto diversificato (prosa, poesia, musica, architettura, arti visive), che ha sempre affrontato l'opposizione delle autorità centrali, con la censura e la repressione che mostrano talvolta chiare origini antisemite. L'articolo si propone di analizzare le opere interconnesse del poeta Evgenij A. Evtušenko e del compositore Dmitrij D. Šostakovič. Parole chiave Babin Jar, Evgenij A. Evtušenko, Dmitrij D. Šostakovič, *Seconda Guerra Mondiale, Letteratura ebraica.
Parole e suoni per Babij Jar. Evtušenko e Šostakovič «NON C’È UN MONUMENTO A BABIJ JAR » recita il primo verso del poema che, nell’autunno del 1961, Evgenij A. Evtušenko consacrò al massacro di 33.771 ebrei di Kiev compiuto tra il 29 e il 30 settembre 1941 da formazioni militari tedesche. Da tempo Evtušenko s’era proposto di comporre dei versi sull’antisemitismo, ma solo dopo essere stato a Kiev ed aver visto con i propri occhi « quel luogo terribile » l’intenzione trovò una « soluzione poetica ». L’autore ha ricordato, in interviste o memorie, le circostanze della visita. Giunto nella capitale ucraina per una serata di lettura, aveva pregato lo scrittore Anatolij Kuznecov di accompagnarlo sul posto. Quando vi arrivammo rimasi sconvolto da ciò che vidi. Sapevo che non c’era nessun monumento, ma mi aspettavo di trovare un qualche segno commemorativo o un qualche luogo ben curato. Quello che vidi, invece, era una comune discarica di puzzolente spazzatura pressata. E questo nel luogo in cui giacevano, sottoterra, decine di migliaia di persone innocenti, bambini, vecchi, donne. « La vergogna come coautore » Evtušenko, mosso dal «sentimento della vergogna », compose il poema Babij Jar in poche ore, lo sottopose ad alcuni ascoltatori privilegiati e lo lesse per telefono ad uno dei suoi mentori, Aleksandr P. Mežirov. Dopo una prima lettura pubblica a Kiev, il 16 settembre 1961 si esibì̀ in un famoso luogo della tradizione lirica, l’auditorio del Museo politecnico di Mosca. La sala non era riuscita a contenere tutti coloro che volevano partecipare alla serata. Ogni passaggio era stipato, così come il palco, dove era stato lasciato uno spazio di non più di un metro quadrato per il poeta, che giunse con un forte ritardo perché́ non riusciva a farsi strada tra la folla. Evtušenko aveva costume di recitare i suoi versi «memoria », ma quella volta si ritrovò « talmente emozionato » da dover tenere sotto gli occhi il testo: Quando finii di leggere le ultime righe, in sala calò un silenzio di tomba, e io me ne stavo ritto sulla pedana, stringendo fra le mani convulsamente il foglietto, timoroso di alzare gli occhi. E finalmente alzai gli occhi e vidi l’intera assemblea levata in piedi. Poi rintronarono gli applausi, che durarono una decina di minuti. Alcuni correvano sul palcoscenico ad abbracciarmi, a baciarmi. Avevo le lacrime agli occhi. I versi furono pubblicati tre giorni dopo, quasi in coincidenza con il ventesimo anniversario del massacro. Accolti come il « grido » di « un giovane russo in collera», sollevarono una delle bufere più violente nella storia della letteratura sovietica. Evtušenko non solo denunciava la persistenza dell’antisemitismo nel paese (« Gli ubriachi arroganti dell’osteria / sanno di vodka e cipolla / e io, impotente, gettato a terra da uno stivale, / supplico invano quelli del pogrom. / Urlando: “Ammazza l’ebreo, salva la Russia” / un bottegaio bastona mia madre »), ma si riconosceva di volta in volta in un antico israelita, in Dreyfus, in un bambino di Białystok, in Anna Frank. Il ripido burrone è una rozza lapide. E io ho paura. Ho tanti anni, oggi. Quanti ne ha lo stesso popolo ebraico. Mi sembra, oggi, di essere ebreo. [...] A Babij Jar c’è un fruscio di erbe selvatiche. Gli alberi guardano minacciosi, come giudici. È tutto un grido muto, e io, a capo scoperto, sento che i miei capelli sbiancano pian piano. Sono io stesso un grido muto sulle molte migliaia di sepolti. Sono io ogni vecchio, ogni bambino fucilato qui. E non potrò dimenticare tutto questo. [...] Non scorre nel mio sangue sangue ebraico, ma sono odiato di un odio ostinato da tutti gli antisemiti, come fossi ebreo. E per questo io sono un vero russo. Il poema risuonò come una sfida in un periodo in cui erano frequenti gli atti di vandalismo e le profanazioni. Nel 1958, alla vigilia di yom kippur, proprio a Kiev c’era stato il saccheggio del settore ebraico del cimitero Bajkove. Numerose tombe erano andate distrutte, su molte altre erano state lasciate scritte minacciose. Ancora più viva fu l’impressione prodotta dagli attentati verificatisi nell’autunno del 1959 a Malachovka, un sobborgo ad una trentina di chilometri da Mosca, dove risiedevano circa 3.000 ebrei su di una popolazione di 30.000 abitanti. All’alba del 4 ottobre, secondo giorno di rosh ha-shana, una misteriosa organizzazione aveva dato il via a violenze che procurarono l’incendio della sinagoga e la distruzione dell’edificio, contiguo al cimitero, dove si preparavano i corpi per le sepolture, causando anche una vittima. Tutto fu ricondotto dalle autorità «ad un caso di teppismo per opera di un gruppo isolato d’individui, e non ad un’azione organizzata ». In realtà, si trattava dell’apice di una serie di attacchi antisemiti, accompagnati dall’affissione sulle porte di caseggiati e uffici pubblici di centinaia di volantini siglati BŽSP – abbreviazione di Bej židov, spasaj Rossiju [Picchia gli ebrei, salva la Russia], uno dei più diffusi slogan durante i progromy dell’epoca zarista. Quando Evtušenko, consapevole della difficoltà, si recò alla redazione di Literaturnaja Gazeta per proporne la pubblicazione, i versi suscitarono grande emozione tra i lavoratori del giornale. Dopo un paio d’ore d’attesa l’autore fu chiamato dal responsabile editoriale – Valerij A. Kosolapov. « Bei versi », disse il caporedattore scandendo una per una le parole e fissandomi con aria inquisitoria, come per mettermi alla prova. Sapevo per esperienza che quando cominciano a dir così, i versi poi non te li pubblicano. « E versi giusti », continuò il caporedattore, facendo anche stavolta una pausa ad ogni parola. E in quel momento ebbi proprio la certezza che non sarebbero passati. «Li pubblicheremo», disse invece il caporedattore. E dagli occhi adesso gli era scomparsa la solita aria maliziosa: ora il suo sguardo era pieno di serietà̀. « Io sono comunista », mi disse: « Capisci? Come potrei non pubblicarli? Certo, può succedere di tutto, tienine conto. I detrattori non tardarono a manifestarsi. Due giorni dopo la stampa, il poeta Aleksej Ja. Markov preso spunto dagli ultimi versi del componimento accusò Evtušenko di aver tradito la patria con l’inno in memoria di una singola comunità trucidata e introdusse una relativizzazione del massacro: « Il mondo ha rabbrividito per Babij Jar, / ma questo era solo il primo burrone » di una catena di massacri. Sarebbe stato necessario incidere sulla pietra, « uno a uno », i nomi dei milioni di giovani russi caduti in guerra, perché́ non fossero « spazzati via dal vento » o « profanati dallo sputo di un pigmeo » che scriveva versi. La richiesta era perentoria: bisognava smettere di «rivoltare le tombe ». Ciò procurava infatti non solo dolore insopportabile, ma anche sdegno in chi restava fedele allo spirito autentico della nazione: «Finché anche un solo cosmopolita / calpesterà i camposanti / io dirò: “Sono russo, gente!” / E la cenere mi pulsa nel cuore». Anche il critico letterario Dmitrij V. Starikov senza negare le atrocità subite dagli ebrei per mano dei nazisti ricordò la grande quantità di luoghi che erano stati teatro di eccidi simili a quello di Babij Jar e il numero sconfinato di fosse comuni in cui « la terra si agitava » per il movimento dei moribondi, appena coperti da un sottile strato di sabbia. I nazisti avevano offeso tutte le nazionalità e non solo quella ebraica. Per tale motivo, evocare l’antisemitismo non era altro che una «provocazione » alla quale occorreva rispondere con le armi della dottrina. Evtušenko era ritenuto responsabile, con le sue «comparazioni e “rimembranze” », di fomentare un « razzismo alla rovescia », di screditare la « solida e monolitica amicizia » dei popoli sovietici. Malgrado il clima di ostilità e i sentimenti di avversione che si cercò di risvegliare (Evtušenko trovò incisa sulla macchina la parola « giudeo »; per contro, un’organizzazione del Komsomol gli offrì delle guardie del corpo per difesa personale, i versi ebbero un’enorme risonanza civile e diedero vita ad un ampio movimento di solidarietà. Le letture pubbliche erano seguite in modo appassionato, con i presenti che declamavano i versi insieme al poeta. La giornalista Patricia Blake, testimone di una serata al Museo politecnico di Mosca nell’estate del 1962, ne ricavò l’idea che la popolarità di Evtušenko si fosse formata « al di fuori dell’ambito letterario ». Per quanto dotato egli fosse, era l’«audacia occasionale degli argomenti» (in particolar modo, «la protesta contro l’antisemitismo») che aveva costruito la sua «reputazione nazionale ed internazionale». « Rappresentare in musica la coscienza » I versi di Evtušenko non avrebbero però ottenuto una risonanza così ampia se non fossero stati inclusi nella Sinfonia n. 13 in si bemolle minore (op. 113, sottotitolata Babij Jar) per basso solista, coro di voci maschili e orchestra, di Dmitrij D. Šostakovič. Fu Isaak D. Glikman, tra il 20 e il 21 settembre del 1961, a far conoscere il testo a Šostakovič, che rimase talmente turbato da decidere di scrivere subito un poema sinfonico vocale. Era convinto che la combinazione di «musica e parole » facilitasse la comprensione di ciò che il compositore può dire con la sola arte dei suoni e impedisse il «fraintendimento» del messaggio. La tematica ebraica, dettata da motivazioni che all’inizio non erano propriamente musicali, ha un ruolo di rilievo nell’opera di Šostakovič. Il musicista aveva compreso, ancora prima del secondo conflitto mondiale, che gli ebrei erano diventati «il gruppo più perseguitato e indifeso d’Europa ». Per questo li aveva tramutati in un « simbolo » di « tutta l’umana debolezza e impotenza ». A guerra finita, tentò di « riversare questo sentimento nella musica ». I versi di Evtušenko gli offrirono l’opportunità di richiamare alla collettività il pericolo dell’antisemitismo, che avvertiva come qualcosa di ancora molto attuale, « un morbo tutt’altro che scomparso ». Molti avevano udito parlare di Babij Jar, ma c’è voluto il poema di Evtušenko perché si rendessero davvero conto di che cos’era accaduto in quella località. Un ricordo che dapprima i tedeschi, poi il governo ucraino hanno tentato di cancellare. Ma, in seguito alla pubblicazione dell’opera di Evtušenko, è apparso chiaro che quell’episodio non sarebbe stato mai più dimenticato. Ecco la forza dell’arte. La gente sapeva di Babij Jar anche prima che il poeta ne scrivesse, ma [tutti] stavano zitti. E quando hanno letto il poema, il silenzio è stato infranto. L’arte dissolve il silenzio. Šostakovič era consapevole che assegnare all’arte il compito di far affiorare il rimosso avrebbe trovato dei critici pronti ad invocare « altri e più nobili fini » della creatività: « la bellezza, la grazia, il sublime ». Ma voleva una musica che richiamasse « le tragedie, le vittime, i morti». Le cosiddette sinfonie di guerra erano state interpretate come una reazione all’attacco nazista. Occorreva però allargare il « tema dell’invasione» e, coinvolgendo l’universale, colpire anche gli altri « nemici dell’umanità ». Ecco perché al dolore per le vittime di Hitler egli affiancava quello per le vittime di Stalin: La maggior parte delle mie sinfonie sono pietre tombali. Troppi nostri concittadini sono morti e sono stati sepolti in luoghi ignoti a tutti, compresi i parenti. È quanto è accaduto a tanti miei amici. Dove erigere una lapide mortuaria a Mejerchol’d o a Tuchačevskij? Soltanto la musica può assolvere a questo compito. Vorrei scrivere una sinfonia per ciascuna delle vittime, ma è impossibile, ed è per questo che dedico a tutte loro la mia musica. Šostakovič concepì il lavoro come una cantata. A differenza di quanto era solito fare, cominciò col vergare lo spartito per pianoforte, poi, il 21 aprile 1962, portò a termine la partitura per orchestra. Verso la fine di maggio decise però di inserirla in una più ampia sinfonia. Completata l’orchestrazione (ancora una cantata in un solo movimento), egli chiese al poeta il permesso di musicare la sua Babij Jar. Ricevuta una risposta affermativa, ammise di averlo già fatto e lo invitò a casa sua per un’audizione. L’ascolto fece capire a Evtušenko a cosa potesse portare l’irruzione della musica nella parola. Che peccato che l’interpretazione [di Šostakovič] non sia stata registrata. Fu veramente straordinario. Cantava con la sua voce roca. Quando arrivò al verso « Mi sembra di essere Anna Frank », scoppiò in lacrime. La musica qui passava da un requiem epico ad un lirismo tipico della primavera. Fui sopraffatto. Non ho competenze musicali. Alcuni dei miei poemi erano già stati messi in musica, ma la musica quasi mai coincideva con la melodia che avevo sentito col mio orecchio interiore mentre scrivevo la poesia. Spero che ciò non suoni immodesto, ma se sapessi scrivere musica, l’avrei scritta esattamente come la scrisse Šostakovič. Sembrava che avesse tratto fuori la melodia dal mio intimo, come per magica telepatia, per fissarla con le note. Questa era la mia sensazione. Mi sorprese con la sua profonda interpretazione del poema. La sua musica rese il poema più grande, più significativo e potente. In una parola, diventò un poema di gran lunga migliore. La sinfonia fu completata il 20 luglio. Vi erano stati inseriti altri tre componimenti di Evtušenko tratti dal volume Vzmach ruki [Un gesto della mano]: Jumor [L’umorismo] (1960), V magazine [Al negozio] (1956) e Kar’era [La carriera] (1957), che diventarono rispettivamente il secondo, terzo e quinto movimento. Il musicista, attirato dalla « presenza di pensiero e umanità » nell’opera del poeta, gli propose anche di scrivere appositamente dei nuovi versi sul tema del terrore staliniano. Tra i testi che gli furono inviati, come più rispondente alle sue aspettative malgrado « la lunghezza e un po’ di verbosità », scelse per il quarto movimento Strachi [Paure] (1962), che rivide insieme all’autore. Il poema denunciava l’effetto del terrore sul carattere umano e auspicava che si potesse superare l’esperienza vissuta dalla società sovietica negli anni dello stalinismo (« stanno morendo in Russia le paure... »). Šostakovič ne rievocò il clima con queste parole potenti: La guerra portò grandi dolori e rese la vita assai difficile. Molti dolori, molte lacrime. Ma prima della guerra la situazione era stata persino peggiore, perché allora ognuno era solo con la propria pena. Prima del conflitto probabilmente non c’era famiglia di Leningrado che non avesse perso qualcuno, un padre, un fratello, o se non un parente per lo meno un amico caro. Non c’era chi non avesse qualcuno da piangere, ma bisognava farlo in silenzio, sotto le coperte, in modo che nessuno se ne accorgesse. Tutti si temevano l’un l’altro, e il dolore ci opprimeva e soffocava. Anch’io ne ero soffocato. Dovevo scriverne, sentivo che era il mio obbligo, il mio compito. Dovevo scrivere un requiem per tutti quelli che erano morti, che avevano patito. Dovevo descrivere l’orrenda macchina di sterminio e levare la mia protesta contro di essa. Ma come potevo farlo? Allora ero continuamente sospettato e i critici tenevano il conto di quante delle mie sinfonie erano in chiave maggiore e quante in chiave minore. Tutto questo mi angustiava e mi faceva passare la voglia di comporre. Poi scoppiò la guerra e il dolore non risparmiò più nessuno. Potevamo parlarne, potevamo piangere apertamente, piangere per i nostri cari scomparsi. La gente non ebbe più paura delle lacrime. In una lettera inviata a Evtušenko, Šostakovič spiegava di avere scelto Strachi per ristabilire il primato della ragione: Mi pare che sia il caso di dedicare qualche parola alla coscienza. Di lei ci siamo dimenticati, ma ricordarcene è indispensabile. Bisogna riabilitare la coscienza, ridarle i diritti civili, offrirle una decorosa superficie abitativa nell’anima umana. Quando avrò terminato la Tredicesima sinfonia, mi inchinerò ai suoi piedi perché lei mi ha aiutato a “rappresentare” in musica il problema della coscienza. La reazione di Evtušenko quando ascoltò l’insieme della Tredicesima sinfonia, interpretata appositamente per lui dal compositore in forma solista, fu di grande sorpresa. Lo colpì in particolare la scelta di testi « apparentemente del tutto disparati ». Nel volume in cui erano stati pubblicati si trattava di unità a sé stanti. Mai egli avrebbe potuto immaginare fusi insieme la forma-requiem di Babij Jar, con la sua conclusione retorica, e la struttura grafica delle malinconiche stanze di V magazine, sulle affaticate donne russe in coda; il richiamo doloroso al sentimento della paura e le intonazioni scherzose e antiburocratiche di Jumor o Kar’era. Inatteso fu soprattutto l’effetto che gli produsse Strachi, visto che Šostakovič lo aveva interpretato « a modo suo, dandogli una profondità e una penetrazione di cui prima il poema mancava ». In sostanza, « nel collegare così tutti quei versi », il musicista era riuscito a dargli prova di «una grande scuola di composizione », perché dimostrava che « nell’arte non ci sono elementi che non possono essere messi insieme: occorre essere coraggiosi e cercare di unire ciò che sembra essere incompatibile». Dall’ascolto dell’opera integrale, Evtušenko trasse dunque la conferma che se « ignorante totale dal punto di vista musicale» quale egli era avesse « improvvisamente acquistato l’udito », allora avrebbe scritto « assolutamente la stessa musica ». La lettura dei versi da parte di Šostakovič era stata « così precisa per intonazione e senso » da risultare che il compositore, « in modo invisibile, fosse dentro di me quando avevo scritto quei versi e avesse composto la musica nel momento stesso in cui erano nate le strofe». Non furono poche le difficoltà, e soprattutto le defezioni, che accompagnarono la preparazione della prima esecuzione pubblica della sinfonia. Il direttore d’orchestra Evgenij A. Mravinskij declinò l’incarico e il suo posto venne preso da Kirill P. Kondrašin (di padre russo e madre ebrea) Il basso ucraino Borys R. Gmyrja rifiutò ogni coinvolgimento. Anche il solista del Teatro Bol’šoj Aleksandr F. Vedernikov respinse l’invito. Il basso Viktor T. Nečipajlo, che non si era presentato alla prova generale della prima perché precettato per il Teatro Bol’šoj di cui era dipendente, dovette essere sostituito dal giovane Vitalij A. Gromadskij. Infine, lo stesso Kondrašin ricevette forti pressioni dal ministro della cultura della Repubblica russa, ma non si lasciò intimidire, evitando persino di farne menzione a Šostakovič in un contesto così agitato, non deve stupire che quest‘ultimo confidasse all’amico Isaak Glikman poco prima dell’inizio del concerto: « Se dopo la sinfonia il pubblico rumoreggerà e mi sputerà addosso, non difendermi, sopporterò tutto». Nonostante le difficoltà e le intromissioni esterne, la Tredicesima Sinfonia fu eseguita dall’Orchestra filarmonica statale di Mosca il 18 dicembre 1962. La prima cadde all’indomani dell’incontro che Nikita S. Chruščëv ebbe con quattrocento rappresentanti delle arti e delle lettere, tra cui anche Evtušenko e Šostakovič. Fu quella l’occasione per dare risonanza alla campagna contro il « formalismo » e l’ « astrattismo » nell’arte. Il segretario del Comitato centrale del Partito comunista, Leonid F. Il’ičëv, sostenne apertamente la tesi della inopportunità di un’esecuzione della sinfonia. Chruščëv ribadì che a Babij Jar non erano stati uccisi soltanto degli ebrei. Evocare l’antisemitismo, come facevano Evtušenko con i suoi versi e Šostakovič con la sua musica, era a suo avviso un’azione pericolosa e foriera di reazioni popolari difficilmente prevedibili: nel tentativo di «ristabilire la giustizia», si finiva col favorire le spinte « sciovinistiche » e ostacolare l’affermazione di una società realmente priva di barriere tra i popoli49. « Gli applausi candidi gabbiani ... » L’esecuzione della sinfonia suscitò trionfali ovazioni al Conservatorio di Mosca. Kondrašin parlò di « un tripudio che aveva provocato quasi una dimostrazione politica ». Già alla fine del primo movimento, il pubblico aveva cominciato « ad applaudire e acclamare in modo incontrollato». L’atmosfera era così tesa che il direttore fu costretto a far segno agli spettatori di calmarsi e diede subito inizio al secondo movimento per non mettere Šostakovič in una « posizione imbarazzante». Le reminiscenze dello scultore Ernst I. Neizvestnyj si soffermano sui membri della nomenklatura del partito presenti in sala: Erano in tanti, quei coleotteri neri, insieme alle loro dame con la permanente. Sedevo proprio dietro questa compagnia. Le mogli, essendo più emotive e rispettose del successo l’intera sala si era alzata e applaudiva in piedi, si alzarono pure loro. E d’un tratto ho visto: braccia che si slanciavano verso l’alto maniche nere, polsini bianchi e ogni funzionario, posando il braccio sul fianco della propria metà, la rimetteva decisamente a sedere al suo posto. Lo fecero come su segnale. Che scena kafkiana! Il critico letterario Evgenij Ju. Sidorov rimase colpito dal modo in cui le parole rendevano la musica più capace di toccare nel profondo l’animo dell’ascoltatore. Era soprattutto l’intonazione, piuttosto che il ritmo o la melodia, a realizzare la fusione, « come se i versi del poeta fossero stati rigenerati per un’altra vita, una vita ormai inseparabile dalla musica». A Evtušenko, che pure non aveva del tutto capito il significato del finale (« troppo neutrale, troppo al di fuori dei confini del testo»), l’effetto parve travolgente. Gli applausi, come candidi gabbiani, presero il volo da tutte le braccia, e il genio stava sul palco sotto quel frastuono, inchinandosi goffamente... Improvvisamente si avvicinò al bordo del palco e anche lui cominciò ad applaudire a qualcuno, solo che in quel momento non riuscivo a capire a chi. Le persone nelle prime file si voltarono pure loro ad applaudire. Mi voltai anch’io, cercando con gli occhi la persona a cui erano rivolti gli applausi. Ma qualcuno mi toccò leggermente sulla spalla era il direttore del Conservatorio Mark Borisovič Veksler, raggiante e al tempo stesso irritato: “Beh, allora, non va sul palco? La chiamano...”. Potete crederci, oppure non crederci, ma, ascoltando la sinfonia, avevo quasi dimenticato che le parole erano le mie, per come ero stato conquistato dalla potenza dell’orchestra e del coro. In verità, la cosa principale in quella sinfonia è la musica. E quando fui sul palco accanto al genio, e Šostakovič prese la mia mano nella sua asciutta, bollente, ancora non potevo credere che fosse vero... All’esecuzione, che non venne trasmessa per radio, non fece seguito alcun commento ufficiale sulla stampa, dove ci si limitò a qualche breve segnalazione. L’unica reazione « politica » fu quella contenuta in un editoriale del giornale del Ministero della Cultura, che però non nominava esplicitamente la sinfonia. Sotto le insegne della lotta contro il culto della personalità, alcuni artisti hanno cominciato a rovistare negli immondezzai dei cortili dietro le nostre case e non vogliono vedere ciò che succede in prima linea nello sviluppo della nostra vita [...]. Ciò è tanto più oltraggioso quando avviene in lavori grandi per forma e per concezione, creati da maestri di enorme talento, la cui voce è molto autorevole in ambito professionale e le cui opere sono da tempo amate da un vasto uditorio [...]. Ciò che rappresenta una singola peculiarità in opere di poco conto, acquisisce tratti di tipica generalizzazione in opere musicali importanti e molto complesse. Se, ad esempio, un compositore ha scritto una sinfonia sulla nostra realtà e, alla sua base, ha posto delle immagini di oscurità, incarnazione del male, parodia sarcastica o pessimismo lamentoso, allora, che l’autore lo voglia o non lo voglia, il risultato sarà quello di denigrare la nostra vita, raffigurandola in modo falso e deformato. Il silenzio della critica parve più che eloquente, ma non ebbe conseguenze immediate. Il 20 dicembre una nuova esibizione, sempre sotto la direzione di Kondrašin, fu anch’essa accolta con clamore ed entusiasmo. L’esecuzione della sinfonia rappresentò un evento per il mondo musicale del tempo. La soprano Galina Višnevskaja la definì come « una grande vittoria dell’arte sulla politica e l’ideologia del partito ». La pianista Marija V. Judina scrisse a Šostakovič affiancando al suo ringraziamento quello « di tutti coloro che sono già morti, perché non hanno retto ad un’esistenza segnata da un’infinita sequela di tormenti ». Si faceva così portavoce delle vittime dell’oppressione: Ritengo di poter dire grazie anche da parte dei defunti Pasternak, Zabolockij e d’innumerevoli altri amici; da parte dei Mejerchol’d, Michoels, Karsavin, Mandel’štam, torturati a morte; da parte delle centinaia di migliaia di anonimi “Ivan Denisovič” impossibile contarli tutti di cui Pasternak ha detto: « viviamo torturati a morte » [Duša moja, pečal’nica (1956)]. Le sanzioni però non si fecero attendere. Šostakovič si vide intimare delle modifiche alla partitura e, di fronte al suo rifiuto, si moltiplicarono gli interventi repressivi: furono differite e annullate ulteriori esecuzioni; l’intera tiratura dell’incisione destinata al mercato sovietico, condotta negli studi della casa Melodija, risultò perduta, mentre la parte restante venne inviata all’estero. Fu Evtušenko ad accettare una revisione del testo. Durante una riunione della Commissione ideologica del partito egli spiegò che, dopo l’incontro con Chruščëv, aveva ripensato alle osservazioni « profondamente amichevoli » che gli erano state rivolte. Aveva pertanto riletto con attenzione i versi e aveva concluso che, in alcuni casi, erano bisognosi di «una qualche esplicazione ed aggiunta». Le correzioni furono apportate nel gennaio del 1963 malgrado la contrarietà di Šostakovič. Le modifiche non alteravano in modo sostanziale la forma musicale del primo movimento, ma sembravano andare incontro ad alcune delle principali obiezioni rivolte ad Evtušenko. Una prima correzione, per contrastare l’accusa di nazionalismo, introduceva il principio della « fratellanza tra i popoli » e poneva gli ebrei sullo stesso piano delle altre vittime. In luogo di: « Mi sembra, oggi, di essere ebreo. / E vagare per l’antico Egitto / e morire crocifisso: ho ancora le stimmate », doveva leggersi: « Sono qui in piedi, / come accanto ad una sorgente, / da cui attingo fede nella nostra fratellanza. / Perché qui dei russi giacciono e degli ucraini, / giacciono con gli ebrei al loro fianco ». Una seconda correzione importava nel poema il tema del patriottismo, evocando la lotta di milioni di soldati russi contro il fascismo. In luogo di: « Sono io stesso un grido muto / sulle molte migliaia di sepolti. / Sono io ogni vecchio, / ogni bambino fucilato qui », doveva leggersi: « Penso alle gesta della Russia, / che al fascismo sbarrò il cammino. / Fino all’ultima goccia di rugiada / la sento vicina in tutta la sua essenza / e il suo destino ». Con il testo così rivisto, la sinfonia fu replicata il 10 e l’11 febbraio 1963 al Conservatorio di Mosca, ancora una volta sotto la direzione di Kondrašin. In realtà, l’integrazione non era affatto modesta e il poema ne risultava alterato. Šostakovič ne ebbe piena consapevolezza, tanto è vero che nell’esecuzione di Minsk, il 19 e 20 marzo del 1963, fatta in sua presenza, riprese la versione originale. Il direttore artistico dell’orchestra sinfonica, Vitalij V. Kataev, incontrò grandi difficoltà per trovare alcuni degli esecutori (i bassi del coro), ma soprattutto dovette affrontare molti ostacoli per procurarsi e conservare la partitura. Ciò nonostante il concerto si tenne regolarmente e fu accolto trionfalmente. Una recensione pubblicata pochi giorni dopo sul principale quotidiano bielorusso pur attribuendo al compositore le migliori intenzioni di un « artista-patriota » e ammettendo che, ad un primo impatto, la musica « prendeva, emozionava, scuoteva » sottolineava i « difetti sostanziali » della sinfonia, che non aveva « assolto alla sua committenza sociale». In particolare si chiedeva la musicologa Ariadna B. Ladygina l’esordio dell’opera era prova « di coraggio civile o di perdita del senso della discrezione civile »? Il primo movimento cercava « artificiosamente » di riportare in vita la questione ebraica, sollevando problemi creati dalla vecchia società di classe e ormai cancellati nella civiltà sovietica. Nel far questo a Šostakovič era venuta meno una delle sue principali qualità, la « percezione del tempo », intesa come « senso di alta responsabilità » di fronte ai compiti del presente.
[Antonella Salomoni (Università della Calabria)
Da Fb/Meta Maria Farina 2 aprile 2022
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