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Autore Discussione: FABIO MARTINI.  (Letto 125190 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Ottobre 09, 2014, 05:06:03 pm »

“Spodestati i gruppi di potere”. Renzi esulta sulla scena europea
Al vertice di Milano incassa il plauso della Merkel: passo importante

09/10/2014
Fabio Martini
Milano

Angela Merkel, con la sua giacchetta bluette, è meno spigolosa del solito; la Conferenza europea sulla occupazione alla vecchia Fiera di Milano si conferma priva di incognite e così, dalle due del pomeriggio alle otto della sera, Matteo Renzi si tiene continuamente sintonizzato con Roma, per aggiornarsi sul faticoso avanzamento in Senato del suo Jobs Act. E quando la legge delega è a un passo dalla approvazione, il presidente del Consiglio ha potuto ragionare, in privato a voce alta. 

Ragionare sul senso di quel che sta accadendo in questi giorni, sulla profondità della svolta in atto. 

In particolare non garba al premier la rappresentazione che viene data della svolta: «Abbiamo compiuto uno strappo, abbiamo una legge che innova fortemente le regole del mercato del lavoro, io rivendico la svolta, ma paradossalmente tutto questo viene presentato come una marcia indietro da alcuni poteri forti, da alcuni giornali, da alcuni ambienti economico-finanziari. E invece si sbagliano: la svolta c’è ed è profonda». Con una conseguenza politica di prima grandezza: «Dopo la riforma del Senato e dopo il Jobs Act, ora la strada è in discesa. Molti capiranno presto che tutto questo è destinato a cambiare lo scenario dei prossimi mesi...». E anche se Renzi non lo dice, probabilmente ci pensa: ora diventa meno complicata anche la madre di tutte le battaglie, quella per l’elezione del nuovo Capo dello Stato, probabilmente nei primi mesi del 2015.

E ripercorrendo il cammino percorso in queste settimane, Renzi ragiona: «Abbiamo attraversato passaggi politici duri, complicati, a cominciare dalla riunione della direzione del Pd, dove è stato detto senza equivoci che si superava completamente la disciplina dell’articolo 18. Il Pd sapeva dove si stava andando e mi ha votato la fiducia. Poi il confronto con i sindacati, poi Poletti è andato in Senato...». Una battaglia dura disconosciuta, secondo Renzi, da quelli che chiama «gli spodestati», «quei gruppi di potere che io non rincorro ogni giorno, come loro vorrebbero, che non mi perdonano perché non li consulto, non concordo nulla con loro...».

E mentre a Roma, il Jobs Act si faceva faticosamente strada, a Milano la Conferenza sull’occupazione si è consumata in un clima senza tensioni.

Naturalmente c’è sempre qualcosa di stereotipato nella familiarità che in pubblico i leader ostentano tra di loro, chiamandosi per nome e scambiandosi complimenti, ma alla fine della Conferenza Matteo Renzi, Angela Merkel e Francois Hollande appaiono davvero rilassati, disposti al reciproco sorriso, come quando il premier italiano commenta così la domanda di un giornalista italiano: «Questo è consueto in Italia, un giornalista, tre domande...», sussurra alla cancelliera tedesca, che ride, assieme ad Hollande. I due leader latini sono di buon umore anche perché la Merkel è apparsa a tutti meno severa del solito, con quella apertura inattesa sul cofinanziamento dei fondi europei, roba da legulei bruxellesi ma che qualcosa vuol dire.

Ma il presidente del Consiglio sapeva in anticipo che la Conferenza milanese sull’occupazione più di tanto non avrebbe portato e alla vigilia l’aveva immaginata soprattutto come una passerella: per questo aveva fatto di tutto, pur di far approvare il Jobs Act a metà pomeriggio, in tempo utile per farsi applaudire pubblicamente dagli altri leader europei durante la Conferenza, la cui conclusione era prevista per la fine del pomeriggio. Ecco perché ieri a fine mattinata Renzi era irritatissimo, quando lo hanno informato che il presidente del Senato Grasso stava gestendo l’aula senza l’autorità necessaria a garantire i tempi previsti e invece facendo slittare l’approvazione della legge delega sul lavoro nella notte.

Nella conferenza stampa finale Renzi ha confermato che «il rispetto del vincolo del 3% nel rapporto tra deficit e Pil è una questione di “reputation”, di credibilità», «io ho le mie idee sul 3%, ritengo che sia un parametro pensato e immaginato e ideato più di 20 anni fa, in un altro mondo, ma lo rispetto». E ha confermato quel che era ritenuto molto probabile; nella Legge di Stabilità che sarà presentata a Bruxelles il 15 ottobre, il rapporto deficit-Pil per il 2015 sarà al 2,9%. E, dulcis in fundo, la gratificazione della Merkel, che prima di ripartire per Berlino ha definito il Jobs Act «un passo importante».

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/09/italia/politica/spodestati-i-gruppi-di-potere-renzi-esulta-sulla-scena-europea-tn8T4VbNBtmAxD7Z2TaDkM/pagina.html
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« Risposta #121 inserito:: Novembre 09, 2014, 11:30:15 am »

E Renzi prepara il piano B: maggioranza alternativa
Il presidente del Consiglio ha chiesto una risposta “entro domenica”. I suoi sondano i fuoriusciti dai Cinque Stelle per un nuovo gruppo
Matteo Renzi, presidente del Consiglio e segretario del Pd
06/11/2014

Fabio Martini
Roma

L’incontro a Palazzo Chigi, per una volta, non è stato idilliaco, ma i due si stanno simpatici e così, quando Matteo Renzi si è congedato da Silvio Berlusconi, non è stato scortese: «Su tutto quello di cui abbiamo discusso e sul quale oggi non abbiamo trovato un accordo, mi dai una risposta diciamo entro domenica?». Parole non taglienti ma chiare. È come se Renzi, senza dirlo papale papale, avesse detto: sulla riforma elettorale non tiriamola per le lunghe, anche perché se Forza Italia dovesse tirarsi indietro, a quel punto il governo saprà come regolarsi. E qui c’è la novità, il piano riservato di Palazzo Chigi: allargare la base parlamentare della maggioranza al Senato (dove i numeri sono «ballerini»), aprendo a destra e a sinistra, con la formazione di un nuovo gruppo, nel quale potrebbero trovare ospitalità sia i parlamentari già usciti dal Cinque Stelle, sia quei senatori eletti in liste diverse dal centrosinistra e che nelle settimane scorse si sono avvicinati alla maggioranza. Finora Matteo Renzi non ha spinto su questo acceleratore, gli garba molto di più lo scenario delle larghe intese, ma certo, se Berlusconi non riuscisse a «tenere» nel patto, a quel punto il presidente del Consiglio è pronto ad aprire uno scenario del tutto nuovo: svincolarsi dal regime della doppia maggioranza con Forza Italia e consolidarne una tutta sua.

Della «pratica» si sono già occupati, con la massima riservatezza, il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini e il presidente dei senatori Luigi Zanda. Impresa non semplice, sinora, federare tutti e 15 i senatori «grillini» finora usciti - e quelli che potrebbero uscire - dal gruppo del Cinque Stelle, che tra di loro non si amano e attualmente sono divisi in quattro diverse aree, i 3 di Italia lavori in corso, i 4 di Movimento X, i 6 battitori liberi e i 2 nel Gruppo misto. Con una complicazione in più: che oltre a federare gli ex grillini, poi bisognerebbe trovare un amalgama per tenerli assieme agli altri senatori di diverse provenienze. Uno scenario che Renzi preferisce riservarsi più come deterrente che come prima scelta. 

Anche perché l’ennesimo incontro a Palazzo Chigi tra Renzi e Berlusconi non è andato bene, ma neppure male. Il premier si è presentato col progetto di riforma elettorale che prevede un premio alla lista (e non più alla coalizione) che Berlusconi conosceva benissimo, visto che era stato lui stesso, nell’ultimo incontro con Renzi, a dargli l’ok. Salvo poi ripensarci. Non tanto perché il premio alla lista è ritagliato su misura sul Pd di Renzi: di questo «dettaglio» finora Berlusconi non sembra essersi preoccupato. Il Cavaliere lo ha spiegato al premier: «Capisci che se io dovessi fare una lista unica, nella quale far confluire quelli di Alfano e della Meloni, avrei difficoltà con i miei...». In altre parole ci sarebbero meno posti al «sole» per i fedelissimi di Berlusconi, quelli che non hanno seguito il Ncd e neppure la fronda di Raffaele Fitto dentro Forza Italia.

Ma la vera delusione che Renzi ha riservato a Berlusconi è stata sul calendario. Al premier che chiedeva di «incardinare la riforma elettorale già nelle prossime ore», Berlusconi ha chiesto: ma per andare a votare quando? «Mi devi dare una risposta…». Domanda interessata: Berlusconi non vuole elezioni nel 2015, le vuole più avanti possibile e Renzi ha risposto con abilità: «Al voto non ci penso, ma con la legge elettorale approvata, mi trovo un’arma di pressione per domare la minoranza del mio partito.». Ma il Cavaliere non ha avuto certezze da Renzi neppure sulla questione che più gli sta a cuore: Napolitano lascerà il Quirinale nel prossimo gennaio? Berlusconi ci spera perché in quel caso sarà determinante nella elezione del nuovo Capo dello Stato. Ma se Renzi puntasse ad elezioni anticipate e Napolitano restasse fino a giugno, teme Berlusconi, a quel punto Renzi si eleggerebbe il Presidente con i «suoi» parlamentari.

Da - http://www.lastampa.it/2014/11/06/italia/cronache/e-renzi-prepara-il-piano-b-maggioranza-alternativa-UHWZCRlr4ItQgOLW6DsVCO/pagina.html
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« Risposta #122 inserito:: Novembre 11, 2014, 05:57:32 pm »

Renzi rilancia con Berlusconi: “Italicum rinviato a primavera”
Ritirato l’aut aut del premier. Questa sera vertice di maggioranza
10/11/2014

Fabio Martini
ROMA

A dispetto delle ultime turbolenze Matteo Renzi non ha cambiato idea: Silvio Berlusconi resta l’alleato “giusto” per fare le riforme istituzionali e per questo motivo, pur ripetendo ai suoi che «non si può perdere tempo, siamo all’ultimo sprint, entro Natale dobbiamo portare la riforma elettorale in aula», proprio dagli sherpa di Forza Italia trapela una possibile novità: nelle prossime ore il presidente del Consiglio potrebbe prendere atto che serve ancora un po’ di tempo per confezionare la riforma elettorale. Un messaggio che servirebbe a tranquillizzare alleati e avversari. 

 In altre parole Renzi, dicendolo stasera al vertice di maggioranza o accettando un’agenda parlamentare meno serrata, prenderebbe atto che la legge elettorale può prendere la luce nelle prime settimane della primavera 2015. Se così fosse, maturerebbe una grossa novità, destinata a stemperare tante tensioni. Ma intanto, per tenere alta la temperatura, Renzi ieri sera ha fatto trapelare: «Io voglio lavorare insieme, ma se Forza Italia si tirasse fuori, in Parlamento i numeri ci sono». 

Da quando, 9 mesi fa, si è “preso” Palazzo Chigi, convincendo il Pd e il Capo dello Stato, Matteo Renzi sa di essere arrivato al primo tornante decisivo: riuscire a portare a casa la chiave che può schiudergli il futuro: la riforma elettorale. Se per davvero, nei primi mesi del 2015, il governo dovesse riuscire ad approvarla, a quel punto Renzi sarebbe politicamente molto più forte, perché dotato della più forte delle armi deterrenti: la minaccia, in qualsiasi momento, per poter sciogliere le Camere. 

Certo, l’Italicum, nella sua veste attuale e futura, vale soltanto per la Camera e dunque per il Senato si voterebbe con una legge proporzionale, che renderebbe monca una eventuale vittoria elettorale di Renzi, o anche di uno schieramento alternativo. Nei giorni scorsi si era sentito parlare di una (eventualissima) leggina ad hoc, da approvare prima delle elezioni e valida soltanto per il Senato, ma si tratta di un escamotage “acrobatico” e prematuro rispetto ad un quadro che resta complesso. 

Come confermato dai concetti espressi da Silvio Berlusconi alla “Stampa”: è Renzi ad aver cambiato le carte in tavola, passando dal premio alla coalizione a quello alla lista e comunque il Cavaliere non crede alle promesse del premier di non volere elezioni anticipate. Una messa a punto che non deve aver lasciato insensibile Renzi. Questa sera alle 21 il premier se la vedrà, nel vertice di maggioranza, con il suo principale alleato, il Nuovo Centro Destra di Alfano, che si gioca la sua sopravvivenza futura sulla soglia di accesso al Parlamento per le forze politiche che decidessero di non entrare in uno dei “listoni” dei partiti principali.

Questa sera l’Ncd di Alfano e l’Udc di Cesa e Casini (alla vigilia di una fusione tra i due partiti) si batteranno per tenere la soglia la più bassa possibile rispetto all’8 per cento dell’Italicum originario, quelle delle coalizioni.

Ma in queste ore tiene banco la questione delle possibili dimissioni a fine anno del Capo dello Stato. Una prospettiva che ha ovviamente incoraggiato i mass media ad imbastire improbabili toto-Presidente. Graziano Delrio, durante “L’intervista” a Maria Latella su Skytg24, ha spiegato che il patto del Nazareno riguarda le riforme e non il Colle, concetto ribadito da Maria Elena Boschi. Quale sia l’accordo segreto sul Quirinale, lo sanno soltanto Renzi e Berlusconi, intanto il presidente del Consiglio tiene a ribadire «la massima riconoscenza per Napolitano» del quale si apprezza la nota di ieri, che ha «stoppato illazioni e scenari». 

Sul Jobs Act l’obiettivo di Renzi è quello di chiudere entro l’anno e anche l’atteggiamento verso la Cgil resta immutato: «Opposizione a prescindere». Anche se a Palazzo Chigi non è sfuggito che negli ultimi giorni il fronte sindacale, con Cisl e Uil in piazza, non è più presidiato soltanto da Susanna Camusso.

Da - http://www.lastampa.it/2014/11/10/italia/politica/renzi-rilancia-con-berlusconi-italicum-rinviato-a-primavera-vhDc21cV4r6cMPBtHidJgL/pagina.html
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« Risposta #123 inserito:: Dicembre 06, 2014, 05:20:04 pm »

Gli anni della grande bruttezza
03/12/2014

Fabio Martini

Sembra il plot di un romanzo criminale, la versione casareccia delle storie oblique che negli Anni Venti segnarono l’amministrazione di alcune città americane. Ma Roma si era persa ben prima dell’indagine della procura: già da anni la Capitale è una città senza una guida pensante.

Non è un modello per il resto del Paese. Sempre pronta a tamponare, o ad inseguire, l’ultimo spontaneismo. Dei «tassinari». Dei vigili urbani. Degli occupanti abusivi, quelli di necessità, ma anche quelli di «professione». Persino degli automobilisti: Roma è la città con più macchine e più motorini d’Europa: non è una colpa, ma qualcosa vorrà dire. 

Una capitale con una classe dirigente incapace di badare a se stessa: ormai da diversi anni la dissennata gestione clientelare, a piè di lista, delle casse comunali, ha indotto il Campidoglio a batter cassa a getto continuo, chiedendo aiuto agli altri italiani: negli ultimi cinque anni quattro miliardi hanno tamponato antiche falle, senza poter offrire servizi più efficienti. Per i romani. Ma anche all’altezza del suo ruolo di capitale di tutti gli italiani.

Certo, Roma non è mai stata amatissima dal resto del Paese e ora, se l’impianto accusatorio della procura dovesse trovare ulteriori conferme, potrebbero riprender fiato afflati antipatizzanti sempre pronti a risorgere. L’invettiva, a inizio Novecento, di una personalità come Giovanni Papini («Roma è sempre stata una mantenuta», «città brigantesca e saccheggiatrice») aveva fatto strada, era stata rilanciata sessanta anni dopo da un intellettuale di sinistra come Alberto Moravia: «Come si fa a voler bene a Roma, città socialmente spregevole, culturalmente nulla, storicamente sopravvissuta a furia di retorica e di turismo?». Un umore di fondo che negli ultimi anni, persino nella propaganda leghista della «Roma ladrona», si era un po’ spento. Anche perché lo spettro dell’indignazione, a Torino come a Siracusa, si è allargato, comprendendo tutta la casta, senza distinzioni geografiche.

A prescindere dagli sviluppi dell’indagine giudiziaria, la capitale è chiamata ora a fare i conti con se stessa. Col suo ruolo. Con la sua missione. Persino nelle stagioni meno felici della storia italiana, Roma ha emanato un richiamo, un fascino, seppur controverso. Qualche anno fa il comunista Roberto Bentivegna, uno degli autori dell’attentato di via Rasella, ammise: «Il richiamo ai colli fatali non poteva non colpire la fantasia di un ragazzo». 

 Naturalmente ogni stagione coltiva retoriche e missioni diverse. La destra, che ha guidato Roma 65 anni dopo la caduta del fascismo, ha già dimostrato di non essere all’altezza neppure della «sua» tradizione: la dissipazione dei soldi pubblici e la colonizzazione della aziende partecipate da parte della amministrazione Alemanno sono diventati proverbiali e prematuramente appartengono già al giudizio storico. 

Il sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha dimostrato di essere uomo di forti principii, ma privo di quella «cattiveria» e di quel «tocco» politico indispensabili quando si sfidano poteri forti e radicati nella cultura cittadina. Un sindaco debole nella trasmissione dalla teoria alla pratica: quando ha fatto la scelta «rivoluzionaria» di affidare il comando dei vigili ad un esterno, ha scelto un candidato che non aveva i requisiti e che si è dovuto dimettere. Milano e Torino, a dispetto della crisi, continuano a identificarsi con una cultura imprenditoriale e di efficienza, mentre Roma – come scrisse 40 anni fa Alberto Arbasino – è rimasta una città nella quale dominano «una quantità di piccoli ambienti, minuscoli clan». Nelle prossime settimane si capirà se il più grande scandalo della sua storia, sarà l’occasione del riscatto per una classe dirigente che non abita soltanto in Campidoglio.

Da - http://www.lastampa.it/2014/12/03/cultura/opinioni/editoriali/gli-anni-della-grande-bruttezza-381unpwGOWnzzwi3emSTWK/pagina.html?ult=1
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« Risposta #124 inserito:: Dicembre 14, 2014, 05:27:03 pm »

A sinistra di Renzi mancano progetto e leader
Il malessere sociale aumenta, ma lo spazio politico è angusto.
L’analisi di Fabio Martini

13/12/2014
Fabio Martini

Alla sinistra del Pd aumenta il malessere sociale, ma lo spazio politico è ancora angusto: continuano a mancare un progetto e un leader. 

Il successo, non scontato, dello sciopero generale indetto dalla Cgil e dalla Uil dimostra che si sta consolidando un diffuso malessere sociale e anche politico nei confronti di una leadership stentorea e “antagonista” come quella di Matteo Renzi. Una potenzialità inespressa: sul piano politico nessuno ne trae le conseguenze. 

Più esplicitamente del solito Pippo Civati ha evocato una scissione dal Pd e la nascita di un unico soggetto alla sinistra del partito guidato da Matteo Renzi, ma si tratta di un replay, di un pen-ultimatum che in assenza di conseguenze rischia di non far più notizia. 

D’altra parte la sincera pulsione separatista di Civati, oltre a non essere condivisa dalle altre frazioni della minoranza interna, soprattutto lascia freddi anche gli altri possibili interlocutori degli scissionisti Pd: Sel e la sinistra Cgil. Per due ragioni: Nichi Vendola e Pippo Civati faticano a riconoscersi l’un l’altro come leader di una nuova Cosa. E il capo della Fiom Maurizio Landini, l’unico personaggio capace di mettere tutti d’accordo (come dimostra l’altissimo gradimento nei sondaggi), da parte sua è totalmente disinteressato a questo progetto. L’unica mission che lo attrae è prendere il comando della Cgil.

Da - http://www.lastampa.it/2014/12/13/italia/politica/a-sinistra-di-renzi-mancano-progetto-e-leader-bgjXTvUz3vYqLPhMJPn9yK/pagina.html
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« Risposta #125 inserito:: Dicembre 14, 2014, 11:07:07 pm »

Da Renzi mano tesa alla minoranza Pd
Il premier all’assemblea sceglie toni soft ed evita strappi. Ecco perché

14/12/2014
Fabio Martini

Matteo Renzi pizzica ma non strappa. Lancia ponti e non granate verso la minoranza interna, da mesi critica su tutte le principali riforme adottate dal governo. Nel confronto a distanza che divide le due anime del Pd e che periodicamente ripropone (a parole) la questione della scissione, il presidente-segretario non ha risparmiato punzecchiature ironiche ed anche velenose a tutti coloro che non sono d’accordo con lui, ma guardandosi bene dall’invocare misure disciplinari. 

Sui principali dossier, Renzi ha tenuto una “postura” più di sinistra del solito, mentre nel confronto con le minoranze ha tenuto un atteggiamento soft, irrituale per un personaggio che non ha mai disdegnato il confronto aspro. Un atteggiamento prudente dettato da due motivi, entrambi molto significativi. 

Il successo dello sciopero generale del 12 dicembre dimostra che il malessere sociale cresce e oramai si sovrappone ad un malessere verso una leadership vissuta come “grintosa” e divisiva come quella di Renzi. Il secondo motivo è che in vista della difficile elezione del Capo dello Stato, il presidente-segretario ha bisogno di truppe parlamentari il più possibile compatte, nelle quali la legittima area dei franchi tiratori sia circoscritta in proporzioni fisiologiche.

Da - http://www.lastampa.it/2014/12/14/italia/politica/da-renzi-mano-tesa-alla-minoranza-pd-dz76ABD3shRGqji9RGGUEK/pagina.html
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« Risposta #126 inserito:: Maggio 01, 2015, 11:42:29 am »

Italicum “blindato”, l’ultimo strappo di Renzi
Il premier supera il primo scoglio con ottimi numeri, ma mette la fiducia: una forzatura
La discussione alla Camera sulla riforma della legge elettorale

28/04/2015
Fabio Martini
Roma

C’è una gran voglia di Italicum e soprattutto c’è una gran voglia di continuare la legislatura. È inequivocabile il risultato dell’attesissimo voto (a scrutinio segreto) sulle pregiudiziali di costituzionalità e di merito sulla legge elettorale: erano attesi franchi tiratori a decine e invece la maggioranza di governo ha quasi raggiunto la quota massima dei suoi voti potenziali: i 385 voti che hanno respinto le pregiudiziali delle opposizioni, aggiunti ai 12 onorevoli di maggioranza assenti, portano il totale della maggioranza a 396, poco al di sotto dei 403 di cui dispone il governo. La maggioranza ha prevalso con un distacco abissale sulle opposizioni: 177 voti.

Certo, “dentro” i 385 no che hanno respinto le pregiudiziali si può immaginare che ci sia anche una decina di deputati che fanno capo a Denis Verdini, forzista pentito. Per Matteo Renzi un evidente successo, persino superiore alle aspettative, ma con una piccola complicazione politica. Subito dopo le votazioni alla Camera è stato convocato il Consiglio dei ministri, chiamato a porre la questione di fiducia sugli articoli della legge. Alla fine il Cdm ha deliberato la richiesta, che nei giorni scorsi era stata giustificata con la necessità di piegare l’ostruzionismo. Ma dopo la chiara espressione di volontà da parte della grande maggioranza dei deputati, la richiesta di fiducia si configura come una forzatura politica. 

Da - http://www.lastampa.it/2015/04/28/italia/politica/italicum-renzi-vince-ma-non-si-fida-ZEWJE9zldI9Q9YtXuqin3M/pagina.html
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« Risposta #127 inserito:: Luglio 12, 2015, 05:55:09 pm »

“Gli italiani non temano la Grecia”. Renzi prepara il dopo-referendum
Pronte le contromisure per gestire l’ondata anti-euro in caso di vittoria del “no”

Fabio Martini
Roma

A poche ore dall’attesissimo risultato del referendum greco Matteo Renzi sta già calibrando le diverse risposte in caso di vittoria del Sì o del No, ma nel frattempo replica una volta ancora il messaggio rassicurante dei giorni scorsi, oramai un refrain: «Gli italiani non devono avere paura» della crisi greca, dice il premier al Tg5, «l’Italia non teme le conseguenze specifiche sul nostro Paese» e se, negli anni scorsi, assieme alla Grecia eravamo «compagni di sventura, ora non è più così», «noi siamo quelli che risolvono i problemi, non siamo il problema». Nella sua intervista al Tg di Mediaset, Renzi stempera un po’ certe esternazioni dei giorni scorsi sullo stesso tema, nelle quali aveva evidenziato il ruolo decisivo del suo governo nel fare uscire l’Italia dalla crisi del 2011, un approccio da «anno zero» riferito a sé stesso che gli era costata una affilatissima messa a punto del senatore a vita Mario Monti, che intervenendo a palazzo Madama, aveva ricordato il ruolo decisivo del suo esecutivo, con tanto di veto al Consiglio europeo, nel favorire la svolta della Bce, quella sì decisiva.

Ma Renzi lo sa bene: il referendum di Atene coinvolge anche Roma. In caso di vittoria del No al piano europeo e dunque con Tsipras sugli scudi, il premier si è già immaginato i due scenari possibili. Quello interno, per lui, è da brivido: euforia da parte delle forze anti-europeiste - Lega di Salvini e Cinque Stelle di Grillo - ed esaltazione della sinistra radicale (Sel) non anti-euro, ma da più di un anno apparentata con Tsipras. Un fronte composito destinato ad accerchiare il governo (come già accade da settimane nei talk-show), rinfacciando a Renzi una sudditanza alla Merkel. 

Ecco perché - in caso di vittoria del No - Renzi, già da giorni si sta attrezzando ad un rapido contropiede, ad un rilancio fortissimo, interno ed europeo. Provando a cavalcare la tigre del drastico cambio di paradigma, indicando il referendum come prova provata degli effetti nefasti della politica dell’austerity. Un rilancio che Renzi si prepara a fare, anche se paradossalmente con minori «argomenti», anche in caso di vittoria del Sì. 

Ma, qualunque sia il risultato del referendum di Atene, il presidente del Consiglio ha deciso di tamponare la crisi di consenso in atto con una controffensiva all’insegna della «parola ai fatti». Da raggiungersi a qualsiasi costo. Anche di significativi compromessi con la minoranza? Al Senato Renzi ha preso atto che, senza l’appoggio dei 25 senatori che fanno riferimento all’opposizione interna, non ci sono i numeri per far passare il ddl di riforma costituzionale e dunque, già da domani, deciderà come muoversi. 

Nella intervista al Tg5 Renzi ha risposto anche a temi diversi dalla Grecia. Le critiche subite da Diego Della Valle? «Alcuni imprenditori hanno un po’ di mal di pancia, ed hanno espresso delle critiche, tutto è utile. Ma il loro mal di pancia non mi fa venire il mal di testa». Il terrorismo dell’Isis? Renzi ha riferito di aver ricevuto una «telefonata di complimenti» da Obama per l’operazione italiana della settimana scorsa, anche se poi, «guardo i talk show e scopro che si fa polemica anche su quello».

Da - http://www.lastampa.it/2015/07/05/italia/politica/gli-italiani-non-temano-la-grecia-renzi-prepara-il-doporeferendum-mXAPcTyJEswTu39v5pleEP/pagina.html
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« Risposta #128 inserito:: Dicembre 09, 2015, 07:34:31 pm »

Il Censis e l’Italia di Renzi: “Un Paese che vive alla giornata”
La fotografia del Paese nel rapporto annuale: un Paese in cui vincono fenomeni come la «pura cronaca», l’approccio di corto respiro, «il virus della disarticolazione dei pensieri» e del corpo sociale, la povertà di progettazione del futuro

04/12/2015
Fabio Martini

Sostiene il Censis nel suo quarantonovesimo Rapporto annuale: l’Italia contemporanea, l’Italia di Matteo Renzi, è un Paese in «letargo esistenziale» in attesa di una ripresa continuamente annunciata sui mass media, una “tensione” che per ora non si è tramutata in un nuovo investimento collettivo. Perché l’Italia dell’era renziana è un Paese nel quale vincono fenomeni come la «pura cronaca», l’approccio di corto respiro, «il virus della disarticolazione dei pensieri» e del corpo sociale. Una disarticolazione, certo di lungo corso, nella quale convivono interessi particolari, egoismo individuale, una solitudine «di cui si scorge traccia anche nell’ossessiva simbiosi dei giovani con il proprio telefono cellulare», una povertà di progettazione del futuro. Un’Italia guidata da un governo impegnato ad innescare, attraverso il consenso alla sua azione, una mobilitazione collettiva per ora assente, anche per “colpa” dell’altro tipo di pulsione prodotta dall’attuale esecutivo: un decisionismo incardinato su una leadership «troppo accentrata», che premia più le fedeltà che le competenze e che si fida troppo del «puro comando».

Oramai da 49 anni, il Censis e il suo animatore Giuseppe De Rita puntualmente ripropongono un affresco acuto, fuori dal coro, talora profetico sul mutare del costume, delle dinamiche sociali, politiche ed economiche di un Paese del quale sono state sempre sottolineate le potenzialità e le virtù nascoste. Nel Rapporto presentato quest’anno lo sguardo è più perplesso e preoccupato del solito. Segnato da un’analisi puntuale e spesso severa dell’attuale modello di governo. 

Nell’analisi del Censis, la «sconnessione» sociale e un generale pessimismo collettivo sono contrastati «spesso emotivamente» da un «generoso impegno» nel «rilancio del primato della politica», da un «folto insieme di riforme» e tutto questo sforzo, prodotto dal governo Renzi è finalizzato a creare consenso di opinione sulle politiche avviate, scommettendo sul fatto che si possa «innescare nella collettività una mobilitante tensione al cambiamento sociale». Ma questa pulsione positiva attribuita all’attuale governo cade nel vuoto perché mancano una «reazione chimica collettiva e quella osmosi tra politica e mondi vitali sociali che hanno caratterizzato i migliori periodi della nostra storia recente». Una osmosi indirettamente contrastata dal governo dell’uomo solo al comando, che spegne «la centralità del conflitto», per il Censis da sempre fattore

di sviluppo. Ma se l’Italia «non precipita nell’abisso» è per l’effetto di una doppia risorsa, che è anche l’unico spiraglio di ottimismo sul futuro. 

La prima risorsa è la forza del passato, «l’intima sicurezza di non avanzare alla cieca, ma avendo alla base il decoroso modello di sviluppo creato a partire dagli anni ‘70» e «la fedeltà continuata nel primato della diversità dei comportamenti dei pensieri e delle opinioni». Seconda risorsa, la capacità della società di «esprimere una certa dose di invenzione», una capacità che si sviluppa «nell’indifferenza del dibattito socio-politico» e nel disinteresse dei media, assorbiti nella pura cronaca. Esempi positivi di questa capacità, i principali «modelli vincenti»: la naturalezza dei giovani a trasferirsi all’estero o nel tentare le start up; «la naturalezza delle famiglie a mettere a reddito il proprio livello patrimoniale ad esempio con i bad and breakfast; il nuovo made in Italy; l’integrazione crescente tra agroalimentare e turismo; la silenziosa integrazione degli stranieri nella nostra quotidianità. In altre parole, conclude il Censis, riprendendo il filo di tante analisi del passato, il ponte sul futuro è determinato dal “resto” della società, quello che sfugge al potere della politica e all’influenza superficiale dei mass-media.

Da - http://www.lastampa.it/2015/12/04/italia/il-censis-e-litalia-di-renzi-un-paese-che-vive-alla-giornata-Bo4pFHi3RI6unPyadbkBCP/pagina.html
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« Risposta #129 inserito:: Febbraio 04, 2016, 05:04:51 pm »

Letta: “Italia sempre più isolata in Europa, c’è il rischio di diventare una seconda Grecia”
L’ex premier: le polemiche contro la Ue alimentano l’anti-italianismo
Secondo Letta all’Italia serve un’Europa capace di gestire sicurezza e migrazioni, «un’Europa nella quale torni la parola solidarietà»


03/02/2016
Fabio Martini
Roma

Nel suo studio a Sciences Po, l’Istituto di studi politici, una delle Grandes Ecoles di Parigi, Enrico Letta scruta la carrellata delle notizie del giorno e si ferma sul documento di apertura alla Gran Bretagna del presidente del Consiglio europeo Donald Tusk. E commenta: «Col prossimo referendum, perdere la Gran Bretagna sarebbe, per davvero e non retoricamente, una spinta verso la dissoluzione dell’Europa. Immaginiamo la Gran Bretagna che lascia l’Unione vista con gli occhi degli asiatici o dei brasiliani: dopo tanti allargamenti sarebbero autorizzati a pensare, e non solo loro, ad un fatale arretramento. Dobbiamo saper cogliere l’occasione del referendum inglese per riformare l’Europa: così non va. Ma non la si riforma con l’anti-europeismo facile».

Oramai nell’opinione pubblica cominciano ad insinuarsi domande di fondo, semplici: questa Europa serve all’Italia? Quale Europa serve all’Italia? 
«All’Italia serve stare in Europa anzitutto perché la geografia e la storia ci hanno immerso in un mare instabile. Per decenni abbiamo appaltato la politica di sicurezza agli americani e dunque se non stiamo dentro una rete di alleanze, dentro un sistema di difesa e di sicurezza, rischiamo di affondare. All’Italia serve un’Europa capace di gestire sicurezza e migrazioni, perché soluzioni nazionali non esistono. Non dobbiamo assolutamente staccarci, isolarci». 

Il «Financial Times» torna ad evocare per l’Italia un destino greco: drammatizzazioni senza fondamento? 
«Quando leggo cose come quelle che scrive il “Financial Times” mi preoccupo. Questo tipo di politica italiana verso l’Europa, molto aggressiva e incattivita, finisce per isolarci e rischia di farci diventare una seconda Grecia, piuttosto che il centro dell’Europa. Ma il nostro destino è sempre stato e deve restare lo stesso: Francia e Germania. Sì, devo esprimere una preoccupazione: ci stiamo isolando in modo preoccupante».

In questi giorni si è chiarito una volta per tutte il vero nervo scoperto di Berlino e Bruxelles: i conti italiani non tornano e metterebbero di nuovo a rischio il resto dell’Unione. Ma non è legittima la via italiana: meno tasse, un po’ di deficit per alimentare la domanda? 

«È evidente che non è facile chiedere flessibilità con una legge di stabilità in deficit e priva di spending review. Se la flessibilità diventa uno strumento per fare deficit, ci sono problemi. Il governo sta alzando la voce per coprire questa legge di Stabilità».

Ora è facile negarlo, ma nel periodo nel quale ha governato il Paese le è venuta la tentazione di una scorciatoia, magari nel tentativo di far slittare uno dei termini di «rientro»? 
«Nel breve periodo nel quale sono stato presidente del Consiglio la mia preoccupazione era quella di far uscire l’Italia dalla procedura di infrazione e in quella fase non era possibile immaginare altro. L’obiettivo lo abbiamo raggiunto, sono soddisfatto: è bene ricordarsi dove eravamo. Per evitare di tornarci».

La politica europea sull’immigrazione è entrata in una crisi inimmaginabile ancora qualche mese fa: un’Europa così non serve all’Italia... 
«All’Italia serve un’Europa capace di gestire sicurezza e migrazioni, un’Europa nella quale torni la parola solidarietà, parola che fino a qualche tempo era considerata impronunciabile perché erano altri i termini che contavano, a cominciare da competitività. Solidarietà è una parola che oggi pronuncia la Germania, dopo la decisione di accogliere un milione di rifugiati. La pronuncia l’Italia che ha bisogno di solidarietà nella gestione dei flussi migratori».

Italia che sembra al centro di un ricatto: se c’è una seconda frontiera dietro le Alpi, noi non siamo dentro una tenaglia? 
«Per noi il più grande pericolo è una mini-Schengen che escluda i mediterranei: un pericolo mortale. Vorrebbe dire che l’Italia esce dal cuore dell’Europa. E il cuore dell’Europa è passare le frontiere senza passaporto. Ma noi dobbiamo essere paladini di una vera battaglia, che non può essere quella per i 281 milioni sui fondi per i rifugiati. Dobbiamo batterci per realizzare un corpo di polizia frontaliero: cinquemila uomini, capaci di gestire, e bene, la frontiera esterna dell’Unione. Un vero corpo europeo. Con agenti italiani all’aeroporto di Berlino e tedeschi a quello di Atene. Non sarebbe una spesa in più ma una spesa in meno rispetto alla prospettiva di nuove frontiere interne. Se non si fa così, muore Schengen. Si fa una mini-Schengen che ci escluderà, perché la geografia ci penalizza».

Ma complessivamente non resta un forte pregiudizio anti-italiano a Bruxelles, retaggio di vecchie politiche e di vecchie leadership? 
«Se il debito resta enorme, quelle sono cifre, non pregiudizi. Dell’Italia ci si può fidare ma in un tempo nel quale la comunicazione pesa, i giornali si leggono e si traducono, prendere a male parole o fare la politica del capro espiatorio con Bruxelles non funziona. Lo so che far polemica è un gioco per prendere voti in Italia. Ma attenzione all’effetto-paradosso: una polemica anti-europea per contendere voti a Grillo e Salvini, finisce per alimentare l’anti-italianismo all’estero e l’anti-europeismo in Italia. Soffiare su quel fuoco lì è un gioco a perdere. Non è con l’anti-europeismo che si cambia l’Europa, che invece va riformata. E non è con il nazionalismo che si salva l’Italia».

Regolamentazioni come il bail in servono all’Italia? 
«In questo campo la battaglia italiana, anche nei confronti della Germania, non può essere quella dallo zero virgola col cappello in mano, ma invece quella di completare l’Unione bancaria, che è rimasta a metà, assieme al fondo di garanzia europeo. La strada la sta indicando Draghi: occorre completare l’Unione economica e sociale».

Da - http://www.lastampa.it/2016/02/03/esteri/letta-ma-se-litalia-continua-cos-rischia-un-pericoloso-isolamento-rGdgdh8yojGBiesBGYpAxO/pagina.html
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« Risposta #130 inserito:: Febbraio 18, 2016, 12:04:44 pm »

Si teme il complotto estero per un nuovo governo
I sospetti dei renziani: il senatore ha mandanti per aprire ad altri le porte del governo


18/02/2016
Fabio Martini
Roma

Tra le pareti di mogano e i velluti vermigli di Palazzo Madama, sul far della sera è andato in scena il più plateale duello mai visto da molti anni a questa parte tra la «vecchia» Italia europeista e trattativista di Mario Monti (ma anche di Giorgio Napolitano, Romano Prodi, Enrico Letta, Mario Draghi) e l’Italia delle «spallate» di Matteo Renzi, l’Italia che febbrilmente percepisce la crisi di una Europa sull’orlo dell’infarto politico, monetario ed istituzionale. E reagisce. Puntando i piedi, reclamando il proprio spazio. Tra un’Italia che ammette di essere fonte di rischio per tutti e un’Italia che lo nega. Tra un’Italia sempre e comunque alleata di Berlino e Bruxelles e un’Italia che non dà più nulla per scontato.

Un affilatissimo duello, quello tra Mario Monti e Matteo Renzi, che è stato preceduto da una sequenza silenziosa ma eloquente: il presidente del Consiglio stava illustrando la posizione dell’Italia rispetto al vertice europeo di oggi e domani e proprio a metà intervento è arrivato in aula l’ex Capo dello Stato Giorgio Napolitano, che si è seduto a una poltrona di distanza da Mario Monti. Appena Renzi ha concluso il suo intervento, i due Presidenti sono restati a braccia conserte, neppure un timido battimani. Subito dopo il presidente del Senato Pietro Grasso ha salutato una scuola presente in aula, parole che Napolitano e Monti hanno mostrato di gradire di più: hanno applaudito tutti e due.

 Anche se oggi i rapporti tra i due non sono più quelli di una volta, Giorgio Napolitano e Mario Monti sono stati i protagonisti di una delle operazioni politiche più controverse degli ultimi anni: il «dimissionamento» forzato di Silvio Berlusconi nel novembre del 2011. In quella occasione in tanti ipotizzarono un «concorso» internazionale (da Obama alla Merkel) nella rimozione della «mina» Berlusconi, sta di fatto che ieri sera, quando si era concluso lo scontro in aula tra Renzi e Monti, un senatore renziano ha sussurrato: «Se il professor Monti ha mandanti internazionali per aprire la strada a qualcun altro, stavolta gli andrà male». A palazzo Chigi qualche sospetto comincia a serpeggiare su possibili movimenti ostili dalle parti di Berlino, Bruxelles, Londra e Washington, un sospetto avvalorato degli editoriali decisamente critici con Renzi, usciti negli ultimi venti giorni su testate come Financial Times, Frankfurter Allgemeine, New York Times. 

 E d’altra parte nel duello di ieri al Senato sono affiorate due visioni opposte dell’Italia in Europa. L’Italia di Renzi è quella che preannuncia con largo anticipo un possibile veto al Consiglio europeo e lo fa in «Eurovisione». Ad un certo punto, intervenendo in Parlamento, Matteo Renzi ha fatto cenno alla possibilità che l’Italia possa porre il veto al tentativo di mettere un tetto alla presenza di titoli di Stato nel portafoglio delle banche europee, con allusione a Deutsche Bank, chiamata in causa dal capo del governo, quando ha detto che «nella pancia di alcune banche europee c’è un eccessivo numeri di derivati e titoli tossici». Attacco esplicito, pesante, anche sprezzante del pericolo. 

L’altra Italia, quella della trattativa, nel passato ha usato altri metodi. Opposti. Esemplare il caso del Consiglio europeo del giugno 2012, dove si sommarono trattative felpate e un veto calato al momento decisivo. Erano le settimane nelle quali il sistema dell’euro era sull’orlo della rottura, la cura da cavallo imposta dal governo Monti non riusciva a debellare lo spread e in quella occasione il presidente del Consiglio, per forzare le resistenze della Merkel, preparò riservatamente una rete di alleanze, in particolare con Obama, col neo-presidente francese François Hollande e col primo ministro spagnolo Rajoy. E così, durante un Consiglio durato ininterrottamente 15 ore, prima la Spagna e poi l’Italia minacciarono di porre il veto e alla fine, con la Germania sulla difensiva, si posero le premesse politiche per la successiva dichiarazione di Mario Draghi: il famoso «whatever it takes», che pose fine all’assedio a Roma e Madrid sui mercati finanziari.

Da - http://www.lastampa.it/2016/02/18/italia/politica/i-sospetti-a-palazzo-mandante-estero-per-un-nuovo-governo-xTVAz7X1j760PmHslk0cPI/pagina.html
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« Risposta #131 inserito:: Marzo 04, 2016, 11:40:17 pm »

Renzi sceglie la prudenza: “In Libia niente fughe in avanti”
Il presidente del Consiglio comprende le richieste degli alleati di un intervento, ma vuole rinviare la decisione: nessuna accelerazione

04/03/2016
Fabio Martini
Roma

Nel salone dei ministri, il Consiglio era iniziato da 35 minuti. la riunione stava scorrendo senza asperità, ma alle 10,55 è arrivato il primo dispaccio di agenzia: «Forse uccisi due ostaggi su quattro in Libia». Nelle ore precedenti Matteo Renzi era stato preavvisato che erano in corso le dolorose verifiche, tipiche di questi casi, ma l’ufficializzazione (o quasi) della morte de due italiani ha contrariato il presidente del Consiglio. La morte violenta di connazionali in operazioni belliche è considerata da sempre una vera iattura per tutti i capi di governo, anche per quelli meno condizionati dai mutamenti quotidiani dell’opinione pubblica e anche per questo motivo Renzi ha cercato subito di capire la dinamica nella quale erano morti i due italiani. Tragica casualità o «avvertimento» in vista di un possibile ruolo protagonista dell’Italia nella guerra all’Isis in Libia? 

Domande e risposte decisamente importanti. Assieme ai ministri del «ramo» (Gentiloni, Pinotti, Alfano) Renzi ha incontrato i vertici dei Servizi e alla fine, in mancanza di una versione definitiva, per tutta la giornata il presidente del Consiglio ha preferito non esporsi pubblicamente. E dunque fa testo quel che Renzi ha detto in sedi informali. Il primo concetto espresso dal capo del governo a Palazzo Chigi è chiaro: «Io non mi faccio dettare la linea dai giornali», alludendo alle ennesime fughe di notizie, comparse ieri mattina, circa un impegno dei militari italiani in operazioni di guerra in Libia. Un fastidio dettato non soltanto dall’insofferenza che Renzi prova verso tutti coloro che, pensa lui, provano a forzarlo in una determinata direzione. In realtà il presidente del Consiglio è interiormente diviso. Da una parte comprende le ragioni di chi - Usa in testa - è pronto a legittimare una leadership italiana, in cambio però di un intervento armato, con tanto di scarponi sul deserto. Ma a contrastare questo «imperativo categorico» della Realpolitik, in Renzi gioca l’istinto, che continua a consigliargli di rinviare il più possibile il momento della scelta: o dentro o fuori. E infatti anche le esternazioni riservate di queste ore da parte di Renzi risentono di questa divisione interiore: da una parte Palazzo Chigi cerca di non farsi imporre la linea dai mass media, dall’altra il presidente del Consiglio non nega che, prima o poi, i nostri militari possano entrare in azione. Ma colloca quel momento in una fase non immediata. Ecco le sue parole informali nella giornata di ieri: «Su questo terreno ci vuole prudenza. Nessuna fuga in avanti. La situazione è troppo delicata perché ci si lasci prendere da accelerazioni». 

E quanto alla morte dei due italiani, Renzi è stato ancora più prudente: in casi come questi, dice, occorre agire «con prudenza, silenzio, serietà, affidabilità». Una linea sulla quale trova il consenso di uno, come Romano Prodi, che conosce bene la realtà libica. Al punto che diverse fazioni locali avevano chiesto a Palazzo Chigi un suo ruolo di mediazione. Dice Prodi: «Il nostro presidente del Consiglio ha detto che l’intervento militare può arrivare solo dopo la richiesta di un governo libico unitario, dal quale siamo lontanissimi. Non c’è una situazione per cui si possa in questo momento intervenire». Esattamente la linea di Renzi, anche se poi Prodi avvalora una interpretazione - poco incoraggiante per il governo - sulla morte dei due tecnici: «Avere quattro ostaggi italiani per l’Isis è un formidabile strumento di pressione. Perciò sono propenso a credere a qualcosa di deliberato, più che a un incidente». 

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Da - http://www.lastampa.it/2016/03/04/italia/politica/renzi-sceglie-la-prudenza-in-libia-niente-fughe-in-avanti-yz4nLVtxDSmrIuGy9Xue0H/pagina.html?wtrk=nl.breakingnews.20160304.
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« Risposta #132 inserito:: Maggio 30, 2016, 06:11:43 pm »

Il silenzio di Renzi sui migranti morti in mare e il timore per il caos in Libia
Forze ostili ad Al Sarraj dietro l’esodo di massa
Il premier Matteo Renzi ha ribadito il sostegno al governo di unità nazionale libico

30/05/2016
Fabio Martini
Roma

Parlare, non parla. Sull’angoscioso infittirsi negli ultimi giorni degli sbarchi e dei morti, il loquacissimo presidente del Consiglio per una volta preferisce non aggiungere altre parole in pubblico. Ma in sede più riservata Matteo Renzi riconosce che è stata «una settimana terribile». Anche perché da ieri sera non è più vero quel che Renzi, numeri alla mano, ripeteva da settimane: «Non siamo all’emergenza», perché - sosteneva il capo del governo - la quantità di migranti approdati in Italia dal primo gennaio è inferiore a quelli arrivati nello stesso periodo del 2015. 

Vero sino a sabato mattina, mentre da ieri sera quella constatazione del capo del governo è meno vera: secondo i dati dell’Unhcr, la quantità di migranti approdati in Italia dall’inizio del 2016 è salito a quota 46mila. A questo punto in sostanziale equilibrio con i numeri dello scorso anno. 

Ma di questi 46mila, ben 15mila sono arrivati nell’ultima settimana: un terzo del totale in sette giorni. È del tutto evidente che se il trend proseguisse con questa intensità per tutta l’estate, allora scatterebbe davvero l’emergenza. A palazzo Chigi fanno gli scongiuri. E per il momento glissano, e comprensibilmente, su due dati molto seri. Al momento non declinabili pubblicamente. 

Il primo dato riguarda i centri di accoglienza: oramai scoppiano. Davanti ad un infittirsi degli arrivi, la prima, autentica emergenza scatterebbe proprio nei centri, “tarati” sulle quantità degli ultimi anni. Il secondo elemento allarmistico è un sospetto: una parte dei barconi (in arrivo quasi tutti dalla Libia), potrebbe essere “indirizzata” da forze ostili al governo libico guidato da Al Sarraj, forze interessate a destabilizzare con tutti gli strumenti possibili il nuovo esecutivo, che fatica a consolidarsi. E c’è una terza considerazione che circola in queste ore: è vero che i migranti che si stanno indirizzando non sono “deviati” dalla Siria. Ma cosa accadrà se dovesse riaccendersi anche quel flusso?

Ma nella giornata di ieri a palazzo Chigi hanno dovuto fare i conti anche con la diffusione pubblica di una lettera che il governo italiano conosceva già da quattro giorni. Il 25 maggio il direttore generale del Dipartimento immigrazione a Affari interni della Ue, Matthias Ruete, ha scritto al capo della polizia italiana Franco Gabrielli e al capo del Dipartimento per l’Immigrazione, Mario Morcone. Una lettera nella quale, dopo aver riconosciuto alcuni meriti alla amministrazione italiana, si introduce un nuovo elemento di accusa: la maggior parte degli sbarchi in Italia avverrebbe al di fuori degli hotspot. Ruete chiede conto del ritardo col quale si starebbe provvedendo alla creazione di team “mobili”, capaci di trasferirsi da un porto all’altro allo scopo di identificare i migranti. 

Ma soprattutto nella lettera si chiede come mai i Cie, i centri di identificazione ed espulsione, continuino ad avere una così bassa capienza. Ruete è un funzionario, non un’autorità politica e non è a lui che il governo italiano deve una replica. Davanti all’infittirsi dell’emergenza ieri Renzi ha preferito non esporsi e riflettere. Le ultime considerazioni le ha affidate sabato sera al quotidiano “Avvenire”: «L’Italia è un modello nel mondo e ci è stato riconosciuto dal G7» ma a questo punto, “o l’Europa adotta il Migration compact”», oppure «l’Italia dovrà fare da sola». Lo scatto strategico operato da Renzi col piano per l’Africa effettivamente è stato apprezzato da diversi leader, ma ha bisogno di tempo, molto tempo.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/05/30/cultura/opinioni/editoriali/il-silenzio-di-renzi-sui-morti-e-il-timore-per-il-caos-in-libia-Ds6Mg37P7DOMVq9bwUreqI/pagina.html
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« Risposta #133 inserito:: Giugno 29, 2016, 06:23:30 pm »

La sponda di Renzi allo Zar sulle sanzioni: pronto a chiedere un chiarimento a Bruxelles
Il premier cerca di rompere l’isolamento russo e bacchetta l’Ucraina
Il Presidente russo Vladimir Putin accoglie Matteo Renzi: «Il premier italiano è un grande oratore» ha detto il presidente russo

18/06/2016
Fabio Martini
Inviato a San Pietroburgo

Nell’avveniristico Centro congressi voluto dal presidente Putin, cinquemila «nuovi ricchi» russi stipati in un’enorme platea stanno ascoltando Matteo Renzi, impegnato in un dibattito con «zar» Vladimir e con il presidente kazako Nursultan Nazarbayev e alla fine gli applausi per il presidente del Consiglio italiano sono decisamente più numerosi di quelli tributati poco prima al padrone di casa. Passa qualche minuto e Putin chiosa: «Matteo è un grande oratore, lo dico sinceramente…» , sorride lui e sorridono anche in platea. Difficile leggere negli occhi di Putin e capire se nella sua espressione ci sia più ironia o ammirazione. O addirittura gratitudine per l’amico italiano, l’ultimo di una triade russofila, avviata da Berlusconi e Prodi. Renzi è venuto qui, nella città natale del presidente russo e ha pronunciato parole mai sentite da parte di un leader occidentale, da quando la Russia è sotto sanzioni. E lo ha fatto nel giorno dello schiaffo alla Russia sulla questione del doping.

Col pragmatismo che da sempre connota la sua posizione, Renzi sulla vicenda delle sanzioni alla Russia ha detto: «Pacta sunt servanda: abbiamo fatto sforzi per arrivare al protocollo di Minsk e tutti, dico tutti, devono rispettare gli accordi». E per chi non avesse capito, Renzi specifica meglio chi siano tutti: «Tutte le parti, non una sola» e quindi non soltanto «i separatisti» filo-russi, da tempo sotto accusa da parte degli Stati Uniti e della Ue, ma anche il governo ucraino, che - fa capire Renzi - sinora non sta rispettando parti dirimenti di quel protocollo. Uno su tutti: l’attuazione della nuova Costituzione federalista, che attribuendo poteri alle realtà locali, è osteggiata dal governo di Kiev. 

Come dire: anche i nemici di Putin stanno violando gli accordi. Una posizione pragmatica, che spariglia quella «politicamente corretta» e prevalente in Europa e rispetto alla quale Renzi anticipa una novità: «Nella riunione degli ambasciatori che precede ogni riunione del Consiglio europeo, chiederemo che di sanzioni si discuta in sede di Consiglio e si possa sentire quale è stato dell’arte sull’ attuazione di Minsk». Conclude Renzi: «Le sanzioni non si rinnovano in modo automatico ma il punto chiave è che, o c’è un dibattito politico dentro il Consiglio su quello che sta avvenendo, o le sanzioni e le contro sanzioni diventano ordinaria amministrazione». 

L’Italia ha iniziato a far da apripista un anno e mezzo fa, nel tentativo di rompere l’isolamento russo: nel marzo 2015 Renzi è stato il primo leader occidentale a far visita a Putin, fresco di sanzioni. E ora, da apripista diventa battistrada, annuncia pubblicamente di voler trasformare la vicenda-sanzioni in una questione politica di prima grandezza per tutta la Ue. Nella seconda giornata del Forum economico di San Pietroburgo, una sorta di «Leopolda» putiniana, visto che nacque 20 anni fa su iniziativa di un Vladimir ancora agli albori politici, si sono intrecciati diversi piani: l’Italia e Renzi ospiti d’onore, il bilaterale tra i due leader. E il format originale deciso da Putin per il pubblico dibattito: Fareed Zakaria, una delle star della Cnn, ha intervistato il presidente russo, Renzi e Nazarbayev. Putin, dopo aver letto (nella noia generale) il testo iniziale, ha risposto a braccio ed è stato protagonista di uno show, nel corso del quale ha aperto alla proposta americana di un governo in Siria comprensivo di tutte le fazioni in campo, salvo poi sfumare sul destino di Assad. Gelida anche la sua ironia. A Renzi, che poco prima aveva detto che entro il 2017 l’Europa o cambia «o muore», Putin ha replicato: «Renzi mi ha fatto paura quando ha detto che l’Europa può morire... È terribile... L’Europa è l’Europa, non finirà mai».

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Da - http://www.lastampa.it/2016/06/18/esteri/la-sponda-di-renzi-allo-zar-sulle-sanzioni-pronto-a-chiedere-un-chiarimento-a-bruxelles-suaYTHC4kkiW9Itz3DineP/pagina.html
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« Risposta #134 inserito:: Luglio 08, 2016, 04:16:56 pm »

D’Alema: “Se Renzi perde non ci sarà il vuoto. La Carta si può cambiare in 3 punti”
In Parlamento possibili altri governi per riforme chiare, rapide e condivise
Il Senato italiano è destinato a cambiare profondamente se passerà il Si al referendum

06/07/2016
Fabio Martini
ROMA

Il vento politico sta girando, radio, tv e giornali sono tornati a cercarlo e in questo improvviso revival Massimo D’Alema si ancora ad una certa materialità della politica: «Mi chiedo come faranno i cittadini ad orientarsi in vista del referendum sulla Costituzione. Devono votare a favore o contro un libro...». Un libro? D’Alema - seduto alla scrivania della Fondazione ItalianiEuropei - mostra un opuscolo: «Questo è il volumetto di parecchie pagine, che la Camera dei deputati ha pubblicato con tutte le modifiche alla Costituzione. Un testo farraginoso e confuso, di difficile comprensione persino per i tecnici, figurarsi per un cittadino. Sarebbe stato corretto formulare diversi ddl per i punti della riforma e consentire ai cittadini di rispondere ai quesiti, con un si o con un no, ma evidentemente si è preferito impostare il referendum come un plebiscito».

Quasi inevitabile che Renzi enfatizzi un atteggiamento del tipo: dopo di me il diluvio. Sta nel gioco? 

«No. Si vota sulla Costituzione e si dovrebbe farlo con un confronto sereno anziché in un clima di paura, dominato dal preteso rischio di ingovernabilità e addirittura di recessione di cui Confindustria si sta facendo portavoce. Ma attenzione: in questa fase l’opinione pubblica, se si sente ricattata da una campagna palesemente menzognera, si irrita. Se vincerà il No e Renzi insisterà nel volersi dimettere, dopo di lui non ci sarà il diluvio, semmai il buonsenso». 

Ma oggi un governo c’è e invece la vittoria del No cancellerebbe esecutivo e riforma istituzionale. Non è troppo? 

«Anzitutto io non chiedo le dimissioni di questo governo. Se cade questa pasticciata e confusa riforma, il Parlamento non soltanto potrà non essere sciolto - e da questo punto di vista confido nella saggezza del Capo dello Stato - ma io credo che ci saranno anche un governo, se necessario, e una nuova legge elettorale»

 
Chiedere a Renzi di restare dopo tutto quello che ha detto, non somiglia ad una provocazione? 

«Le dimissioni sono qualcosa che lui ha gettato nella mischia per ragioni politiche, legittime, ma tutte sue. Per la verità nessuno chiede le dimissioni di Renzi. Se non Renzi. E in ogni caso a quel punto si potrebbe fare una riforma, condivisa, chiara e rapida»

Facile a dirsi... 

«Penso a una riforma che preveda tre articoli. Scritti in italiano, non in politichese. Primo: è ridotto il numero complessivo dei parlamentari. Duecento deputati e cento senatori in meno. Avremmo una riduzione di trecento parlamentari, con il vantaggio che non ci sarebbero “dopolavoristi”, destino che invece attende consiglieri regionali e sindaci secondo quanto previsto dalla riforma».

Articolo 2 e articolo 3? 

«Articolo secondo: il rapporto fiduciario del governo è solo con la Camera dei deputati. Dunque, fine del bicameralismo perfetto. Articolo terzo: nel caso in cui il Senato o la Camera apportino delle modifiche ad un testo di legge, tali modifiche vengono esaminate entro un tempo limitato da una apposita commissione, costituita dai parlamentari dei due rami. Se l’intesa non c’è, passa il testo prevalente, che viene sottoposto al voto delle due Camere, con sbarramento ad ulteriori emendamenti. Fine della navetta, del bicameralismo perfetto e delle perdite di tempo. Un meccanismo di questo tipo esiste in altri Parlamenti: per esempio in quello americano. Una riforma approvabile dai due terzi dei parlamentari, che si può fare in sei mesi. Nel frattempo si discute una nuova, seria legge elettorale, che non preveda più la nomina dei parlamentari da parte dei capipartito e non abbia una impostazione rischiosamente iper-maggioritaria. Non ho mai condiviso l’Italicum e non penso che sia pienamente rispettosa della sentenza con cui la Consulta ha cancellato il Porcellum».

Ma perché tutto questo “ambaradan” se una riforma costituzionale già c’è? Nessuno dice che siamo alla Terza Repubblica, ma non è meglio che niente? 

«Ho avanzato una proposta alternativa. E chiedo un No al referendum per fare seriamente le riforme e non impedirle. Le riforme serie sono quelle condivise e non imposte a maggioranza. Ricordo un bellissimo intervento dell’onorevole Sergio Mattarella, che contrappose lo spirito della Costituente alla pretesa arrogante, allora di Berlusconi, di riforme a maggioranza. E noi le respingemmo».

Se la riforma interpreta bene l’urgenza di un cambiamento, il bon ton può non essere essenziale. O no? 

«Non è solo questione di bon ton. Ridurre la Costituzione a legge ordinaria non va bene per il Paese perché diventa una riforma di incerta durata. La Costituzione deve essere un testo stabile, di regole scritte da tutti. I grandi Paesi hanno costituzioni che durano molti anni, ma se noi ad ogni mutare di maggioranza politica, cambiamo la Costituzione, il sistema vive nel massimo di incertezza. E comunque, almeno, la maggioranza di Berlusconi era espressione forte di un voto popolare».

Ma nel merito? 

«Ci sono disposizioni demagogiche e altre foriere di conflitti istituzionali. Due soli esempi: sindaci e consiglieri regionali possono trascorre cinque giorni a Roma nelle commissioni parlamentari? Pura demagogia. Per potere dire: non gli pagheremo lo stipendio. Poiché non vi è una chiara distinzione delle leggi delle quali si deve occupare il Senato, noi rischiamo di aprire un contenzioso tra le due Camere, di volta in volta risolto dalla Corte costituzionale. Per tutte queste ragioni chiedo di votare no per una vera svolta riformatrice».

A Torino l’importante consuntivo portato dal sindaco è stato una sorta di variabile indipendente rispetto alla generica esigenza di cambiare: si sente almeno un po’ solidale con Renzi, considerato da alcuni già «vecchio»? 

«Il Paese vuole novità, sperava che la novità fosse Renzi ed è rimasto deluso e infatti sul voto ha pesato un sentimento anti-Renzi. A Milano abbiamo vinto grazie all'impegno di Pisapia, che ha fatto una campagna all'insegna: qui non si vota su Renzi».

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