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Autore Discussione: FABIO MARTINI.  (Letto 125300 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Agosto 25, 2012, 05:33:08 pm »

24/8/2012

Se si vota non vince nessuno

FABIO MARTINI

I leader politici già lo sanno e gli italiani lo sapranno presto: con la riforma elettorale in gestazione e oramai vicina al traguardo, tutto è stato calibrato per garantire due obiettivi minimali. Comunque vadano le elezioni, nessuno dei tre partiti di maggioranza avrà molto da perdere in termini di rappresentanza, mentre al più forte di loro sarà garantito un premio, ma non è affatto detto che l’additivo sia sufficiente per conquistare la maggioranza dei seggi in Parlamento. Nella notte delle elezioni, agli italiani potrebbe essere negata l’istantanea ormai rituale in tutte le democrazie del mondo: la consacrazione del leader vittorioso.

Per sapere chi governerà il Paese occorrerà attendere che le forze politiche trovino in Parlamento l’equilibrio «giusto». Un esito da «no contest» che i leader dei partiti già conoscono, per effetto delle simulazioni riservate che hanno condotto in queste ultime settimane e che ora è confermato anche da uno studio indipendente, realizzato dall’Istituto Cattaneo. Dunque, se alla fine si dovesse andare a votare oggi col sistema sul quale si è trovato un compromesso, nessun partito vincerebbe. E diventerebbe obbligatoria una qualche coalizione, anche se in campagna elettorale se ne fosse negata l’opportunità. In vista del traguardo, in queste ore, si stanno moltiplicando i segnali di fumo, le indiscrezioni pilotate, le polpette avariate. E si capisce perché: nelle prossime quattro settimane si deciderà il destino di questa legislatura e anche della prossima.

E indirettamente si determinerà anche la platea che sarà chiamata ad eleggere il nuovo Capo dello Stato. Tutto è intimamente intrecciato: la trattativa sulla legge elettorale, il destino del governo, il possibile scioglimento anticipato della legislatura. Ogni segmento tiene l’altro. Questa mattina, nella convinzione che la legislatura si concluda in modo naturale, il governo si riunisce per lanciare il rush finale, avviando e implementando dossier che vanno ben oltre l’ordito dei «compiti a casa», imposti nove mesi fa dall’Europa e dalla signora Merkel. Anche i partiti, nei giorni della formazione del governo Monti, ebbero subito chiaro quali sarebbero stati i loro compiti a casa. Compiti da ripetenti: scongelare quel pacchetto minimo di riforme istituzionali di cui si chiacchiera da decenni e scardinare finalmente il Porcellum.

Nella storia delle democrazie, le leggi elettorali sono quasi sempre l’espressione di un assetto sociale, di un’idea di Paese. Così è stato nell’Inghilterra dei collegi uninominali, nella Francia della Quinta Repubblica e anche nell’Italia del 1993, quando la prima riforma elettorale dopo 47 anni, il Mattarellum, fu chiamata a fronteggiare il crollo della Prima Repubblica. E’ nel 2005 che cambia l’approccio: Berlusconi fa una riforma, il Porcellum, finalizzata ad un calcolo preciso, sgonfiare il più possibile il probabile successo dell’Unione di Prodi. In sette anni quella legge, intimamente anti-democratica per via del sistema dei nominati, è diventata indigeribile per tutti. Il Capo dello Stato si è incaricato di ricordarlo spesso, pungolando i partiti, fino a costringerli ad agire. Pd, Pdl e Udc - lasciate cadere le suggestioni maggioritarie dell’ispano-tedesco del «Vassallum» e quella del semipresidenzialismo - stanno per partorire un marchingegno che, in prospettiva, possa consentire di liberarsi delle coalizioni eterogenee e rissose di questi anni e costruire un nuovo bipolarismo attorno a due grandi partiti.

Con un inconveniente: sul breve periodo, Pd e Pdl sono diventate due forze «bonsai», politicamente incapaci di essere i partiti-guida del sistema. Nei prossimi giorni si capirà se il minimo comune denominatore raggiunto tra i partiti corrisponderà anche al miglior compromesso possibile. Se avremo cioè una legge da più legislature, oppure, come ha riconosciuto un professore in politica come Gaetano Quagliariello, si andrà verso «una legge di transizione». In questi anni si è molto sorriso sugli esotici modelli elettorali via via proposti dai partiti - l’ungherese, l’israeliano, l’australiano - e forse proprio per effetto di questi precedenti nessuno ha avuto ancora il coraggio di battezzare il sistema in arrivo.

Eppure, gli impianti che lo ispirano sono chiari: il proporzionale «personalizzato» nei collegi è mutuato dalla legge tedesca; il premio al primo partito è lo stesso in vigore in Grecia. Se non interverranno significativi ripensamenti, l’Italia sta per adottare un sistema «greco-tedesco»: originale mix ispirato al Paese più solido e a quello più sofferente d’Europa.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10455
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« Risposta #76 inserito:: Agosto 29, 2012, 04:59:34 pm »

Economia

29/08/2012 - retroscena

La confidenza di Hollande: Berlino vuole che l'Italia chieda aiuto

Così i tedeschi puntavano a mettere Roma sotto tutela . Oggi a Berlino il faccia faccia tra Monti e Merkel

Fabio Martini
inviato a Berlino

Oramai i due si conoscono bene, Angela Merkel e Mario Monti hanno imparato l’uno dell’altro le disponibilità e gli espedienti, se non altro perché, quello che si svolgerà questo pomeriggio alla Cancelleria tedesca, sarà il quinto vis-à-vis tra i due capi di governo. Pranzo di lavoro davvero importante, perché per i due capi di governo e i loro Paesi sta per aprirsi un settembre decisivo: entro la fine del mese Monti potrà finalmente capire se l’Unione europea sarà riuscita a dispiegare i famosi “firewalls” contro la speculazione sul debito italiano. Quanto alla Merkel, una volta che Bce e Corte Costituzionale tedesca avranno assunto le loro dirimenti decisioni, la Cancelliera potrà dispiegare i temi della sua campagna elettorale in vista del rinnovo del Parlamento, fissato esattamente fra un anno.

A dispetto dei grandi sorrisi che i due si dispensano e della reciproca stima, non sempre Merkel e Monti coltivano interessi convergenti.
Il presidente del Consiglio, tra l’altro, ha interiorizzato quel che gli aveva confidato il presidente francese François Hollande, nel corso dell’incontro all’Eliseo l’ultimo giorno di luglio. Anche se nulla se ne seppe nelle ore e nei giorni seguenti, in quel vertice il presidente Hollande raccontò a Monti: «Noi siamo contrari ma è bene che tu sappia che i tedeschi mi dicono che vorrebbero che anche l’Italia, oltre alla Spagna, chieda formalmente aiuti».

Nei giorni successivi, anche se non è apparsa come una risposta ai tedeschi, il governo - attraverso il presidente Monti e il ministro dell’Economia Vittorio Grilli - ha ripetuto che l’Italia non intende chiedere aiuti, lasciando intuire che una cosa è la Spagna, altra cosa l’Italia. I tedeschi ovviamente non hanno mai spinto su questo acceleratore per evitare interferenze esplicite nella sovranità italiana.
Ma un’Italia sotto protezione non dispiacerebbe alla leadership politica tedesca per due motivi: nella Germania che conta nessuno si fida del dopo-Monti e in ogni caso, per la Merkel, un altro Paese mediterraneo sottoposto alla “griglia” comunitaria e alle condizioni tedesche, sarebbe un ottimo viatico per la sua campagna elettorale.

Ma se l’Italia per il momento non chiede interventi dei fondi salva-Stati, potrebbe invocarli in futuro, nel caso in cui lo spread tornasse ad impennarsi. E proprio sulle condizioni per accedervi, ancora circondate da un alone di intederminatezza, si concentrerà una parte degli argomenti di Monti nel pranzo con la Merkel. Il bivio si può riassumere così: un Paese che abbia fatto i suoi “compiti a casa”, quando dovesse sottoscrivere il relativo Memorandum, dovrà assumere nuovi impegni (come vorrebbero alcuni Paesi del Nord Europa) o basterà (come sostiene l’Italia) la solenne promessa di mantenersi virtuosi?

Fonti governative italiane fanno sapere che lo scudo sarà soltanto uno degli argomenti e non quello prevalente e dunque nel corso del loro pranzo, Monti e Merkel non potranno non parlare della nuova frontiera aperta dai tedeschi, quella che potrebbe portare verso nuovi Trattati politicamente più vincolanti. E ovviamente si parlerà anche di unione bancaria.

Ieri sera, intanto, in vista dell’incontro di oggi a Berlino, Monti si è visto col presidente della Commissione europea José Manuel Barroso. Incontro fissato all’ultimo momento - la richiesta è partita da Roma attorno alle 10,15 di ieri mattina - e Barroso, preso in contropiede per via di una cena già fissata con alcuni capogruppo dell’Europarlamento, ha dato la sua disponibilità per un caffè nel dopo-cena. Da parte di Monti non soltanto un atto formale: il presidente del Consiglio, che ha lavorato a Bruxelles per quasi 10 anni, sa che nella “capitale europea” esiste un bon ton comunitario, ma sa pure che per far avanzare qualsiasi dossier, se è necessario non aver contro la Commissione, è ancora meglio averla a favore e in ogni caso, per l’Italia, i bilaterali affiancano e non sostituiscono il metodo comunitario.

da - http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/466723/
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« Risposta #77 inserito:: Settembre 23, 2012, 04:52:32 pm »

Economia

23/09/2012 - RETROSCENA

In busta paga sgravi per spingere la produttività

Allo studio per tutte le imprese che esportano. L’esecutivo: apprezziamo gli sforzi della Fiat

Fabio Martini
Roma

Dopo cinque ore, anziché due comunicati finali, si decide di farne uno solo, congiunto. E’ il segno che John Elkann e Sergio Marchionne sono soddisfatti per l’esito dell’incontro, la Fiat non ha mai fatto comunicati congiunti negli ultimi anni. Ma è Mario Monti a volere quel sigillo comune su un incontro che si è svolto in un clima positivo, di reciproco rispetto: anche nelle richieste di chiarimento le due “parti” hanno cercato di capirsi e di trovare le soluzioni più indolori per uscire da una situazione di difficoltà. E così, proprio in coda, nel momento di limare il testo finale, si è consumato questo scambio tra il presidente del Consiglio e l’amministratore delegato della Fiat: Marchionne aveva scritto in inglese il testo di un passaggio del comunicato e a quel punto Mario Monti, scherzando, gli ha detto: «Allora lo traduco io?».

Un approccio positivo che è emerso subito, sin dalle prime battute e soprattutto nei primi due interventi, quelli decisivi, quelli che hanno dato un tono al resto dell’incontro. Nell’aprire il tavolo, è stato Monti che, dopo aver segnalato la necessità di approfondire «comunicazioni non chiare» sul futuro della più grande azienda italiana, ha fatto un primo significativo riconoscimento ai vertici della Fiat: «Voi siete una multinazionale, ma vi sentite italiani e anche torinesi» e dunque è grande l’interesse in tutto il Paese per capire quali siano le intenzioni della Fiat. A quel punto Sergio Marchionne non soltanto ha spiegato lungamente tutte le variabili produttive, ma ha illustrato qual è il fondamentale bivio davanti al quale si trova la Fiat, con la scelta di puntare per il momento sul mercato extraeuropeo da alimentare negli impianti italiani e ha riconosciuto a Monti e al suo governo di «aver ridato l’onore all’Italia», di «aver fatto la differenza», di aver ricreato le condizioni perché le imprese possano lavorare con maggiore tranquillità e con prospettive diverse.

E al termine di un incontro nel corso del quale non si è parlato di stabilimenti da chiudere o di cassa integrazione in deroga, la Fiat ha chiesto un intervento del governo per incentivi fiscali alle esportazioni e sgravi degli oneri sociali degli straordinari dei dipendenti che lavorano in questo campo. Il ministro per lo Sviluppo economico Corrado Passera ha raccolto la palla, ha proposto l’apertura immediata di un tavolo con la Fiat che affronti il problema dell’export e cha possa supportare questo progetto; il ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca ha spiegato tutto ciò che è possibile fare con i fondi europei, il ministro del Lavoro Elsa Fornero ha posto alcune domande ai vertici della Fiat. Ma è stato Monti a chiudere la discussione, dimostrando di aver compreso la filosofia dell’azienda, lo sforzo di restare in Italia pensando soprattutto all’export.

All’incontro si era arrivati con margini di manovra molto stretti per entrambe le parti: da una parte il governo con le casse semivuote e un presidente del Consiglio da sempre, da quando era commissario europeo, molto attento a rispettare e far rispettare la normativa europea sugli aiuti di Stato; dall’altra la Fiat, alle prese con un mercato che in Italia è davvero ai minimi storici. Un contesto che rendeva difficoltoso il consueto scambio che si determina in casi come questo: l’aumento della quota degli investimenti da parte dell’azienda in cambio di un ventaglio di incentivi. Oltretutto l’incontro era stato preceduto da un clima nervoso, dopo l’esternazione del ministro per lo Sviluppo economico Corrado Passera e la replica successiva di Sergio Marchionne.

da - http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/469636/
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« Risposta #78 inserito:: Ottobre 07, 2012, 03:42:40 pm »

Editoriali

07/10/2012

Il tramonto politico dei big ex dc

Fabio Martini

Oramai sembrava finita, l’ultima votazione si era tranquillamente consumata e invece Rosy Bindi, presidente dell’Assemblea del Pd, ha voluto aggiungere la sua chiosa finale: «Chi aveva previsto uno psicodramma democratico può andare a dormire tranquillo. Ora ci attende un grande impegno per le Primarie e - consentitemi questa conclusione forse politicamente poco corretta - per la vittoria di Pier Luigi Bersani!».

 

Da una platea, che per cinque ore si era dimostrata ultrabersaniana, si alza un applauso tiepido a quella così esplicita dichiarazione di voto da parte di chi, la presidente del partito, dovrebbe garantire equidistanza da tutti. Ma per la Bindi e per gli ex democristiani del Pd - Franco Marini, Beppe Fioroni, Dario Franceschini, Enrico Letta - è stata una giornata nera, l’ultima di un mese nel corso del quale quasi tutti i big di quella tradizione hanno provato a far saltare il banco delle Primarie con argomenti sempre trasparenti, ma tutti finalizzati ad evitare uno spettro: quello che nella boxe si chiama «fuori i secondi». E cioè un Pd che, chiunque vinca le Primarie, sia incardinato tutto attorno alla coppia Bersani-Renzi.

 

In queste settimane gli ex dc - in particolare Bindi, Marini e Fioroni - si sono battuti come leoni, ma ieri mattina all’Ergife, Pier Luigi Bersani li ha spiazzati: azzerando tutti gli espedienti finalizzati a riaccendere la conflittualità con Renzi e di fatto costringendo gli amici della Bindi a ritirare un emendamento che esplicitamente vietava di votare al secondo turno delle Primarie a chi non lo aveva fatto al primo. Una ritirata che ad un politologo in politica come Arturo Parisi, che ha sempre osservato gli ex Dc con occhio critico, fa dire: «Per quella tradizione siamo alla fine di una stagione e non solo perchè il dopo-Primarie riguarderà comunque altri: il perimetro della coalizione è circoscritto a Pd e Sel; ci si definisce progressisti, esplicitamente ammettendo che i moderati anziché dentro il Pd, sono fuori; la competizione si annuncia polarizzata tra due soggetti non democristiani, perché nessuno definisce Renzi né cattolico né moderato, le sue assemblee sono politicamente trasversali e la sua postura assertiva è lontana da quella dei vecchi notabili Dc».

 

In Assemblea la resistenza degli ex Dc ex Ppi è stata tenace. L’ex presidente del Senato Franco Marini: «Se al primo turno il distacco tra il primo e il secondo sarà di pochi punti», «la destra che si agita molto» potrebbe votare Renzi. Un escamotage un tempo comunista, quello di affibbiare allo sfidante interno la patente del nemico, lo stesso adottato dalla Bindi: «Il cuore della campagna di Renzi è un attacco permamente al partito, lo slogan della rottamazione è un grande contributo alla demagogia della destra berlusconiana». Dice l’ultimo segretario del Ppi, Pierluigi Castagnetti: «Mentre Bersani ha dimostrato di capire che il mondo sta cambiando, molti miei amici non hanno la lucidità di capire che bisogna passare ad una nuova fase: nelle idee e nelle persone».

da - http://www.lastampa.it/2012/10/07/cultura/opinioni/editoriali/il-tramonto-politico-dei-big-ex-dc-sOXIknsFIyM2hZRsDKEkaM/index.html
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« Risposta #79 inserito:: Ottobre 27, 2012, 05:15:34 pm »

Editoriali

26/10/2012

Le primarie che invecchiano il centro


Fabio Martini

Per non essere travolte da un comune destino, destra e sinistra provano a rimettersi in carreggiata con un escamotage senza precedenti nella storia delle democrazie europee. 

 

Affidare a milioni di elettori la scelta dei nuovi capi. Il primo effetto è stato quello di spiazzare i leader posizionati al centro: Pier Ferdinando Casini e la sua Udc, Gianfranco Fini e il suo Fli. I centristi non sentono il bisogno di un rigeneratore bagno popolare e d’altra parte anche se lo volessero, non saprebbero dove attingere. Perché Udc e Fli vivono in queste ore una curiosa nemesi: efficaci nell’imputare a Berlusconi un eccesso di personalismo, in realtà sono diventati due piccoli partiti personali, impermeabili al tema del ricambio e per loro sarebbe difficile immaginare una platea di concorrenti ad eventuali Primarie del centro. 

 

E d’altra parte i due partiti centristi sembrano indifferenti anche all’altra ricetta che destra e sinistra stanno applicando per mettersi in sintonia con lo spirito del tempo: il ricambio delle classi dirigenti. Nel 2013, anno delle elezioni politiche, Casini e Fini festeggeranno entrambi un importante compleanno politico: i trenta anni di Parlamento. Per la prima volta furono eletti deputati nel 1983, quando alla Casa Bianca c’era Ronald Reagan, al Cremlino Jurij Andropov e la Cina era guidata da Deng Xiaoping. 

 

Certo, Casini e Fini anagraficamente sono ancora giovani, ma politicamente sono diventati maturi già da qualche anno.

 

Negli ultimi anni i due sono stati protagonisti, con tempi e protagonismi diversi, di importanti posizionamenti: lo smarcamento da Berlusconi, l’appoggio a Mario Monti. Ma come dimostrano i sondaggi - stagnanti da anni - non hanno investito efficacemente su quelle intuizioni. L’ex leader di An ha rinunciato all’ambizione di costruire una moderna destra di governo, quella destra liberale e liberista di massa che in Italia non c’è mai stata. E anche Casini, pur perseguendo un progetto importante, il Partito della Nazione, non è stato capace di mettere in campo un’idea di Paese convincente e avvincente. Soprattutto non è riuscito a dar corpo ad una credibile alternativa al berlusconismo, mentre il suo capo era in crisi. E quanto al progetto del Terzo polo, nessuno ci ha creduto più di tanto, trasformandosi troppo presto in quel che non era nelle intenzioni iniziali: un taxi verso la rielezione per i leader e per i loro amici.

 

Dopo diciotto anni di repliche affidate sempre agli stessi primattori, il centrodestra e il centrosinistra hanno deciso di presentarsi alla prossima stagione con due leader diversi, legittimati dal voto preliminare di milioni di elettori. Con il suo ritiro, Silvio Berlusconi è andato a raggiungere dietro le quinte l’altro principale protagonista del ventennio, Romano Prodi, che nel 2008 aveva preferito allontanarsi con le sue gambe. Ma non è soltanto l’eclisse dei numeri uno: nel breve volgere di poche settimane nei due schieramenti si stanno defilando anche i numeri due: nel centrodestra ha mollato Umberto Bossi, mentre sul versante di centrosinistra, hanno annunciato che non torneranno più in Parlamento Massimo D’Alema (il primo iscritto al Pci a guidare l’Italia), ma anche l’ultimo sfidante sconfitto dal Cavaliere, Walter Veltroni. 

 

Gli unici che non si muovono sono i centristi. Si può ritenere irragionevole il giovanilismo imperante, perché è troppo facile dimostrare che l’incapacità o la disonestà non hanno età. Ma in questi ultimi 20 anni, l’Italia non ha avuto una autentica classe dirigente, semmai un coacervo di élites che, pur di durare, hanno preferito rinviare le scelte. Istintivamente l’opinione pubblica si accende più per la longevità dei politici che per il loro indecisionismo. Ma la questione morale è sempre una questione politica: se nell’opinione pubblica la «costituzione etica» cambia, prima o poi è destinata a produrre effetti elettorali.

da - http://lastampa.it/2012/10/26/cultura/opinioni/editoriali/le-primarie-che-invecchiano-il-centro-K26w3dsaU6n0GuDb5f587K/pagina.html
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« Risposta #80 inserito:: Novembre 19, 2012, 09:03:22 pm »

retroscena
19/11/2012

E il premier medita la mossa per gennaio: far usare il suo nome

Un’area di Centro molto in movimento spinge per far restare a Palazzo Chigi Mario Monti

Potrebbe lasciare che la coalizione Montezemolo-Casini lo indichi come leader

Fabio Martini
Roma


E’ precipitato tutto (o quasi) nelle ultime 48 ore. Dopo la Convention degli Studios la chimera del Monti protagonista alle elezioni si è improvvisamente fatta più concreta: i segnali di disponibilità del Professore, privati e pubblici, si sono intensificati, tanto è vero che negli ultimi due giorni i maggiori leader politici, tra di loro, non parlano d’altro. 

 

L’ingresso diretto del presidente del Consiglio nel ring politico ha preso la forma di uno scenario ben preciso: una volta approvata la Legge di Stabilità ed (auspicabilmente) la riforma elettorale e dunque ai primi di gennaio a cavallo con lo scioglimento delle Camere, il presidente del Consiglio - preso atto delle «chiamate» - potrebbe dare la sua disponibilità alla Coalizione che lo indicasse per palazzo Chigi. 

 

Con parole di questo tipo: se vincete voi, continuerò a guidare il governo. E dunque, una coalizione incardinata su due liste (una Montezemolo-Riccardi-Bonanni e una del Terzo polo capitanata da Casini) e destinata a denominarsi «Monti per l’Italia», potrebbe determinare nel giro di pochi giorni clamorosi riposizionamenti e una corsa centripeta, attirando verso il nuovo soggetto spezzoni dei due partiti più forti. Ennesima scenario fantapolitico, oppure ai primi di gennaio la politica si prepara ad un fragoroso big bang?

Una cosa è certa: in queste ore l’ipotesi che col nuovo anno Monti passi il Rubicone è uno dei «refrain» più gettonati. Soprattutto dopo la Convention «Verso la Terza Repubblica», evento troppo impegnativo - si calcola nel Palazzo - per non preludere a qualcosa di grosso. A chi gli ipotizza un Monti in campo a fianco dei centristi, Pier Luigi Bersani confida di «non crederci». 

 

Angelino Alfano sa che il giorno in cui Monti ri-scendesse in campo, per lui potrebbe diventare dirimente la scelta della vita: col professore o con Berlusconi?

E così, dopo che, per mesi e mesi, il circo politico-mediatico si era arrovellato su cosa potesse fare «da grande» il professor Monti, il primo a suggerire una possibile svolta è stato proprio lui. Per mesi e mesi il presidente del Consiglio aveva ripetuto che il suo incarico - guai a dubitarne - era a tempo. Poi, due mesi fa a New York e dopo averne parlato a tu per tu il giorno prima con Obama, per la prima volta Monti ha «ceduto» («Se dovesse servire, sono pronto»). Due giorni fa, in un intervento alla «Bocconi» di cui probabilmente è stata sottovalutata l’importanza, alla solita domanda il professore ha risposto con ambivalenza: «Nessuno mi domanda impegni oggi, e oggi non ne do». 

 

Un’esternazione tutta centrata sull’avverbio «oggi», con una forte assonanza, guarda caso, con una affermazione che nelle stesse ore faceva Luca Cordero di Montezemolo: «Non chiediamo al presidente del Consiglio di prendere oggi la leadership di questo movimento politico. Ciò pregiudicherebbe il suo lavoro, e davvero non ce lo possiamo permettere». Ieri, da Kuwait City, proprio dopo aver speso opere e parole per favorire gli investimenti in Italia, Monti ha pronunciato quelle parole («Non posso garantire per il futuro») che non soltanto i malevoli hanno interpretato come una autopromozione.

 

Ma se davvero Monti desse la sua disponibilità nei giorni che precedono lo scioglimento delle Camere, a quel punto si determinerebbe un big bang nella politica italiana? Pd e Pdl si sfalderebbero? Sostiene Osvaldo Napoli, vicepresidente dei deputati del Pdl, da sempre un buon fiuto politico: «Certo, il rischio che personalità dei due partiti più importanti possano avvertire la sirena di un Monti in campo ci sarebbe e proprio per questo noi dobbiamo rompere gli indugi: da qui a marzo c’è tempo per mettere in piedi uno schieramento di moderati alternativo alla sinistra, guidato da Monti nel ruolo di federatore». E dall’altra parte anche un altro personaggio attento ai movimenti in corso come l’ex ministro del Pd Beppe Fioroni, consiglia di non perdere il treno Monti: «Il Pd riorganizzi l’area riformista, in accordo con Vendola, annunci che dopo le elezioni è pronto ad allearsi con la Coalizione centrista che fosse guidata da Monti, ma con l’intesa che a Palazzo Chigi andrà il leader dell’area che ha preso un voto più degli altri». La giostra attorno al Professore è appena cominciata. 

da - http://lastampa.it/2012/11/19/italia/politica/e-il-premier-medita-la-mossa-per-gennaio-far-usare-il-suo-nome-kklGbrALNc1PATW06p83ZL/pagina.html
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« Risposta #81 inserito:: Novembre 23, 2012, 09:39:45 pm »

Editoriali
23/11/2012

Clinton, Blair come si vince l’antipolitica

Fabio Martini


Nell’arco stretto di ventuno giorni, tanti italiani - di sinistra e di destra - si metteranno in fila davanti ai gazebo, eppure il rito democraticissimo delle Primarie difficilmente ridarà ai cittadini piena fiducia nei professionisti della politica. La distanza - come raccontano tutti i sondaggi e tutti i crocchi tra persone normali - si è allungata come prima mai nella storia della Repubblica. Con una complicazione in più. 

 

Governare le democrazie diventa sempre più difficile. Vincere le elezioni non basta più. In un mondo diventato così veloce, il consenso è una scommessa quotidiana, da conquistare sotto la pressione di sondaggi, mass-media vecchi e nuovi, piazze mediatiche, piazze vere, Piazze Affari. In Italia, in Grecia si continuano a celebrare elezioni, ma i governi che non sono riusciti a domare lo spread - o il buco nero del debito - sono stati costretti a mollare prima del tempo.

 

Ma è pur vero che i grandi politici sono quelli che non si curano del consenso immediato. Mario Monti ci ha provato, mentre i leader dei partiti, ricevuto il compito di riformare la legge elettorale, da un anno si tormentano con la calcolatrice in mano. Misurando vantaggi e svantaggi delle varie soluzioni. E nel difficilissimo rapporto tra politica e società civile, nel suo piccolo, diventa esemplare anche la vicenda del «piro», il pirogassificatore della Val d’Aosta. In Consiglio regionale i principali partiti, a suo tempo, avevano votato tutti a favore, dall’Union Valdotaine al Pdl, fino al Pd. Poi, sotto l’incalzare dei movimenti, il partito democratico ha ribaltato la sua posizione ed ha appoggiato un referendum anti-piro che alla fine si è rivelato vincente. Una vicenda che racconta di un nuovo collateralismo. Di un rapporto non paritario tra partiti e movimenti, con i primi che inseguono i secondi, rapporto lontano dalla fisiologica sussidarietà tra chi impone con freschezza ed energia l’urgenza di un problema e chi, la politica, si fa carico della questione, ma tenendo conto anche della complessità. 

 

Una risposta forte proprio a questi temi, una risposta spiazzante è venuta nei giorni scorsi da un grande leader politico americano, l’ex presidente Bill Clinton. In un convegno a porte chiuse, promosso a Londra dalla sua fondazione, Global Progress e da Policy Network di Tony Blair e di cui nulla è trapelato sui mass-media, l’ex presidente ha tenuto una autentica lezione ad alcuni dei trenta-quarantenni più promettenti della sinistra europea. Una lezione culminata in un aneddoto che si potrebbe ribattezzare l’«apologo del piccione». Per tornare ad avere credibilità - ecco il messaggio di un ex presidente di successo come Clinton - le forze politiche non possono avere soltanto un approccio verticale, tipico delle strutture di partito di sinistra, ma sviluppare un rapporto orizzontale con i movimenti che non sono politici ma fanno politica e sono attivi nella società su «issues» specifici (la tutela del quartiere, la vita dei giovani nelle città) e più generali (ambiente, donne, minoranze). Clinton lo ha spiegato in modo efficace: «Non si tratta di fare alleanze di vecchio stampo tra partiti e società civile, cioè tra apparati di partito e apparati di Ong o di associazioni, ma di fare una nuova politica, per rendere la società più civile».

 

E per spiegarsi meglio, Clinton ha raccontato la storia del tunnel di Briton, nella periferia di Londra, un vecchio sottopassaggio abbandonato, nel quale il proliferare dei piccioni e dei loro escrementi ha fatto ammalare i ragazzini che erano costretti a passarci. Davanti alla indifferenza del Consiglio comunale, del problema si è fatto carico un movimento spontaneo di cittadini, spalleggiato da una associazione e alla fine anche dal partito laburista che è riuscito a risolvere la questione. Con l’effetto che tanti di quei cittadini si sono poi iscritti al Labour. Clinton ha tenuto la sua «lezione» davanti ad alcuni dei quarantenni più aggiornati della sinistra europea (c’erano tra gli altri Najat Valland Belkacem, portavoce del presidente francese Hollande; Chuka Umunna, ministro ombra inglese del «Business»; per il Pd Sandro Gozi) e le riflessioni dell’ex presidente effettivamente finivano per «parlare» a tutti i partiti progressisti. Dunque, anche al Pd, che in questi anni ha oscillato: accodandosi ai movimenti (dall’acqua all’anti-piro), oppure stringendo un rapporto verticistico con le associazioni. Gli «opposti estremismi» che Bill Clinton ha caldamente sconsigliato.

da - http://lastampa.it/2012/11/23/cultura/opinioni/editoriali/clinton-blair-come-si-vince-l-antipolitica-54PJHjBW7emPSGgKsXmKYL/pagina.html
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« Risposta #82 inserito:: Novembre 23, 2012, 09:41:07 pm »

Politica
23/11/2012 - retroscena

Dietro il silenzio diplomatico l’irritazione del Professore

L’uscita del Colle avvenuta senza preavvisi istituzionali

Fabio Martini
INVIATO A BRUXELLES


Quella esternazione così affilata del Capo dello Stato, Mario Monti non se l’ aspettava proprio. Tanto è vero che due giorni fa, riferendosi alla “nomination” ricevuta sabato scorso dalla Convention Montezemolo-Riccardi, il premier si era chiesto, assieme ai suoi collaboratori più stretti: «Chissà come l’ha presa il Presidente...». Giorgio Napolitano non l’ha presa bene. E Mario Monti ha potuto apprenderlo in “diretta”, alle 13,30, dentro l’aula di Montecitorio, mentre si discuteva di legge di stabilità. L’esternazione del Capo dello Stato si era conclusa pochi minuti prima e via telefonino, Monti è stato informato.

 

In quel momento, nell’aula di Montecitorio, nessuno sapeva chi fosse all’altro capo del telefono e dunque nessuno ha cercato di “leggere” dentro lo sguardo del Professore. Ma chi ci ha parlato subito dopo, ha tratto l’impressione che stavolta in Mario Monti ci fosse una punta di irritazione. Anche una certa sorpresa verso una personalità come Napolitano, che Monti ha sempre rispettato, verso il quale continua ad avere riconoscenza, ma che era difficile immaginare protagonista di una esternazione così “interna” al gioco politico, così ricca di giudizi di merito su cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. 

 

Quella punta di irritazione è affiorata nel modo più diplomatico possibile: col silenzio. Certo, per la seconda metà della giornata, Monti si è trasferito a Bruxelles per il vertice europeo sul bilancio comunitario e si è rinchiuso in una serie di incontri bilaterali e in serata, in una cena con gli altri leader. 

 

Ma nulla impediva a Monti di dettare un a nota di commento su una questione che lo riguardava così direttamente. Al professore non mancano le doti semantiche per esprimere concetti e sfumature. Avrebbe potuto diffondere una nota formale o informale per sottolineare la condivisione della esternazione di Napolitano. E invece Monti ha voluto marcare la sua distanza e la sua sorpresa proprio col silenzio. 

 

E dire che quando è arrivato a Bruxelles, Monti è apparso assai più loquace del solito. E’ sceso dall’autoblu della Presidenza con le consuete movenze, come sempre ha affettato un leggerissimo sorriso verso le telecamere, ma stavolta - a differenza di tante altre - Monti si è fermato sul tappetino rosso che segna l’ingresso al palazzone Justus Lipsius e ha scandito: «Non accetteremo soluzioni inaccettabili», perché le attuali proposte sul bilancio dell’Unione «sono sproporzionatamente penalizzanti per l’Italia». Un Monti che ci tiene ad apparire “tosto”, quello che si è avviato alla prima giornata del vertice europeo. 

 

D’altra parte non è sfuggito al Presidente del Consiglio quanto di personale ci fosse nella esternazione del Capo dello Stato. Per non parlare del consiglio di accomodarsi a Palazzo Giustiniani ad aspettare gli eventi. Quel palazzo dove lo stesso Napolitano, da senatore a vita, aveva “abitato” fino al giorno in cui lo avevano chiamato al Quirinale. Eppure Monti - ecco la novità - ci ha preso “gusto” a far politica, tra il Quirinale e palazzo Chigi preferisce la seconda ipotesi e per questo nelle settimane scorse aveva lasciato che si facesse il suo nome, non solo per un bis ma anche per una qualche forma di partecipazione alle elezioni. Anche se lui stesso sa bene che, dal punto di vista della convenienza personale, nulla sarebbe meglio che aspettare gli eventi. Chiosava ieri pomeriggio un ministro vicino a Monti: «Se non si richiude subito, la tensione col Quirinale è destinata a crescere nei prossimi mesi». 

da - http://lastampa.it/2012/11/23/italia/politica/dietro-il-silenzio-diplomatico-l-irritazione-del-professore-n940o7Bjwl6BXoh7kwl4fM/pagina.html
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« Risposta #83 inserito:: Novembre 24, 2012, 05:44:05 pm »

retroscena
24/11/2012

Tra Quirinale e Palazzo Chigi spunta anche l’ombra di Prodi

A Bruxelles il presidente del Consiglio non replica alle parole di Napolitano

Fabio Martini
INVIATO A BRUXELLES


Giù, nei sotterranei del «Justus Lipsius», il massiccio palazzone in vetro-granito dei vertici europei, Mario Monti inizia la conferenza stampa finale e poco dopo si ferma: «Mi sono dimenticato di presentare i ministri al mio fianco...». Veniale omissione, inusuale in Monti, ma si capisce subito che da non è da collegare a stress «domestici», perché il Presidente del Consiglio continua, dispiegando con la consueta ricchezza di eloquio concetti e dati sul bilancio europeo. Poi arrivano le domande dei giornalisti, Monti sa che, prima o poi capiterà quella sulla esternazione di Napolitano e, richiesto di una opinione, il Professore risponde così: «Non ho commenti». 

 

Non una parola di più. È la conferma di una irritazione che Monti ha deciso di esprimere, l’altroieri a caldo col silenzio e ieri con un gelido no comment. Anche perché, tra le tante risposte possibili, la più pronosticata ieri prevedeva, da parte di Monti, la reiterazione di una «indisponibilità» già dichiarata infinite volte. E invece no, il premier non ha voluto esprimere neppure una replica del suo tradizionale «non possumus». E d’altra parte la vera novità nella esternazione di Napolitano consisteva nel dare per scontata una disponibilità di Monti a scendere in campo, disponibilità che il premier in realtà non ha mai affermato. Processo alle intenzioni? Equivoco? Oppure tensione destinata a sgonfiarsi? Per il momento la freddezza lungo l’asse Quirinale-palazzo Chigi è confermata dal fatto che, almeno fino a ieri sera, i due Presidenti non si erano ancora riparlati. 

 

Certo, negli ultimi 15 giorni, i rapporti tra i due si erano incrinati, sia per effetto di esternazioni pubbliche di Napolitano («Dubai è lontana....»), sia per effetto dell’ attività informale di Monti. Il Professore, per la prima volta, ha lasciato che si spendesse il suo nome per una eventuale, futura corsa a Palazzo Chigi e ha fatto trapelare il suo incoraggiamento per la Convention «Verso la Terza Repubblica». Segnali, messaggi in codice, ma nessuna promessa, neppure alla coalizione Montezemolo-Casini-Riccardi. All’equidistanza, Monti ci tiene, come ha confermato anche ieri: per due volte ha voluto ricordare che le condizioni sfavorevoli all’Italia del bilancio europeo che è in scadenza, erano state trattate «nel 2005». Dunque, da Silvio Berlusconi. E se la trattativa sul nuovo bilancio si fosse chiusa ieri? «Il risultato per l’Italia sarebbe considerevolmente migliore del 2005». 

 

Equidistante ma quella sua informalissima disponibilità ad «esserci» racconta la vera novità intervenuta in Monti: il professore ha preso «gusto» alla politica. Da mesi in tanti ripetono che lui, stando fermo, dopo le elezioni si ritroverebbe comunque ricoperto di chances: se gli andasse «male», il Professore potrebbe ascendere al Quirinale, mentre se gli andasse «bene», potrebbero riaprirsi le porte di palazzo Chigi. Eppure, le colonne d’Ercole di quel possibile, doppio scenario si sono incrinate. Non è più certo che cambierà la legge elettorale, perché la resistenza passiva del Pd di Bersani potrebbe consentire la tenuta del Porcellum, una legge che consegna alla coalizione che vince le chiavi di Palazzo Chigi, ma anche i numeri per eleggere il nuovo Capo dello Stato. 

 

E qui si incrocia la seconda novità: Romano Prodi, dopo aver ricevuto Matteo Renzi alcuni mesi fa nel suo ufficio di Bologna e dopo avergli dato qualche consiglio telefonico, ha spento i riflettori sulle sue intenzioni di voto. Di più: non ha avuto nulla da obiettare sul fatto che una delle persone a lui più vicine, la portavoce Sandra Zampa, assumesse il coordinamento dei Comitati Bersani di Bologna. Un messaggio che allude al voto per Bersani? Prodi in queste Primarie ha assunto il ruolo del padre nobile: ha annunciato che si metterà in fila come un qualunque cittadino, ma senza spendersi per nessuno. Al Pd hanno apprezzato questo atteggiamento e negli ultimi giorni, nei pourparler, il nome di Romano Prodi è tornato a circolare come quello del candidato più credibile al Colle per uno schieramento progressista che dovesse vincere le elezioni.

da - http://lastampa.it/2012/11/24/italia/politica/tra-quirinale-e-palazzo-chigi-spunta-anche-l-ombra-di-prodi-EkHYdaZoi9HsVDpd7B3LGK/pagina.html
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« Risposta #84 inserito:: Novembre 29, 2012, 06:41:57 pm »

Politica

29/11/2012 - Centrosinistra, il confronto

Bersani-Renzi, partita al ralenti tra pressing e rilanci

Cravatta rossa a pois su camicia bianca e completo scuro, l’abbigliamento del segretario sembra studiato per piacere al sarto di Palazzo Chigi

Fabio Martini

ROMA

La prima inquadratura coglie Bersani con gli occhi bassi, Renzi col sorriso strafottente: due immagini che si riveleranno simboliche, anticipatrici di un match con schemi di gioco contrapposti: il segretario con un sornione catenaccio-contropiede, lo sfidante con un pressing continuo, senza però essere asfissiante, di chi ha idee diverse ma fa parte della stessa famiglia. 

 

Bersani si presenta col completo blu, le scarpe a punta e la cravatta rossa a pois (allusiva ma non troppo alla tradizione), Renzi senza giacca e con la camicia bianca (con maniche arrotolate, che provano ad alludere a Kennedy) e una di quelle sue cravatte blu-viola che i suoi collaboratori detestano. 

 

Si parte alle 21,12: una patina di emozione avvolge Bersani ma anche un personaggio disinvolto come Renzi, che infatti si fa “infilare” subito dal segretario. 

Dice il sindaco di Firenze, che «sono state abbassate le tasse sul gioco d’azzardo e anche da lì si possono recuperare 20 miliardi per il ceto medio». Replica Bersani, in contropiede: «Io non prometto 20 miliardi l’anno prossimo...» e scatta l’applauso ad una battuta più che efficace, allusiva perché rimanda al sospetto di demagogia e di inconsistenza che circonda Renzi dopo quella promessa di «soli 10 ministri» per la quale fu “accerchiato” dagli altri 4 durante il primo confronto televisivo su Sky. Si parla di evasione fiscale, Renzi dice che «qualche responsabilità ce l’abbiamo anche noi» e più avanti introduce il tema di Equitalia sia pure «con rispetto per Bersani». Ma il segretario, sempre in contropiede bissa la puntura: «All’amico Matteo dico che Equitalia non l’abbiamo inventata noi...».

Renzi capisce l’antifona, capisce che se va avanti così, le ripartenze di Bersani rischiano di aggravare il passivo iniziale. E passa alla tattica che aveva deciso a tavolino, centrata su un messaggio per mesi subliminale da ieri esplicito: Bersani è una brava persona, ma troppi errori hanno fatto lui e tutto il gruppo dirigente del Pd. E infatti, al decimo minuto di match, Renzi passa per la prima volta all’attacco: «Bersani è stato 2547 giorni al governo». E’ la battuta che racchiude tutte le altre : se oggi l’Italia è in ginocchio, un po’ di colpa è anche della sinistra e della sua classe dirigente, Bersani compreso. Insomma, dopo aver predicato una generica rottamazione, Renzi ne spiega le ragioni politiche. Prende quota si dà una postura da leader: «Io voglio mettere a posto il debito». Chiaro il messaggio, o almeno il tentativo: trasmettere al pubblico la sensazione che il trentasettenne sindaco non ha più complessi di inferiorità. Ma non basta azzeccare una battuta per vincere una partita come questa. La storia dei grandi match televisivi, dal Nixon-Kennedy in poi, dimostra che esistono infiniti escamotages per conquistare la vittoria o per perdere rovinosamente in un attimo un patrimonio accumulato in mesi. 

Tutto può aiutare e tutto può esser fatale: il colpo sotto la cintura ma anche quello sopra, un tic troppo insistito, il messaggio subliminale che sul momento nessuno coglie e invece “torna su” l’indomani, il tempismo nell’affondo, il look. Bersani dopo gli attacchi accusa il colpo e riprende il filo di discorsi sentiti: «Servono gli Stati Uniti d’Europa, l’alternativa è il disastro». 

L’altro vive il suo momento migliore e “infila” il segretario, parla delle «ragazze di Teheran» e delle primavere arabe tradite, si capisce che cerca di arrivare agli elettori di Vendola: «Bisogna uscire dalla logica delle raccomandazioni». Domenica scorsa, nel Mezzogiorno ha vinto Bersani, ma Vendola è andato molto bene non solo nella sua Puglia e quel voto di protesta, è recuperabile solo parlando un linguaggio anti-consociativo.

Ma anche Pierluigi Bersani mangia la foglia. Capita la tattica dell’avversario, anche il segretario aggiusta il tiro e ci prova con un refrain: noi siamo di sinistra e ci abbiamo provato: «Nessuno è perfetto», «l’ultima volta che abbiamo voluto fare tutto da soli, ha vinto Silvio Berlusconi». Come dire, Renzi non fare il “fenomeno”. 

Ma l’elettorato di estrema sinistra è troppo importante, Renzi azzecca la battuta su Casini («Sento profumo di inciuci»). Bersani tenta il recupero, replicando sugli F35, ma l’altro lo pizzica: «Non fare demagogia». Alla fine la quintessenza dei messaggi. Renzi: «Oggi il vero rischio è non cambiare», Bersani: «La ruota deve girare senza prendere a calci l’esperienza».

da - http://lastampa.it/2012/11/29/italia/politica/la-partita-al-ralenti-tra-pressing-e-rilanci-6Jg8st2ujwub283EORSs5L/pagina.html
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« Risposta #85 inserito:: Dicembre 12, 2012, 05:57:21 pm »

Politica
11/12/2012

Lista Monti, si o no? I dieci giorni che decideranno la politica italiana

Il 21 dicembre il premier annuncerà cosa intende fare: cambia lo scenario per Bersani e per le dinamiche interne del Pdl

Fabio Martini
Roma

Il 21 dicembre il professor Mario Monti annuncerà cosa intenda fare “da grande” e in vista di quella decisione-spartiacque, la politica vivrà dieci giorni convulsi, se possibile ancor più ansiosi e ansiogeni di quelli che i partiti sono riusciti a produrre negli ultimi 20 anni. Quasi certamente venerdì 21 sarà definitivamente approvata dal Parlamento la legge di stabilità e a quel punto, come già annunciato, Monti rassegnerà le dimissioni. Da quel momento il Professore sarà anche formalmente svincolato dalle “regole di ingaggio” che portarono alla nascita del suo governo e sarà libero di decidere se affrontare il giudizio degli elettori, presentando una Lista col suo nome.

Certo, Monti potrebbe spiazzare chi dà per scontato un suo impegno diretto e restarsene a palazzo Chigi per i prossimi tre mesi e da lì sbrigare l’ordinaria amministrazione. Ma in caso contrario, ai principali leader politici non sfugge il possibile effetto “big bang” di una partecipazione di Monti alla campagna elettorale. Lui, in queste ore, è una sfinge, non lascia trapelare quale siano le sue intenzioni, ma i due leader che si erano prenotati la scena elettorale - Bersani e Berlusconi - stanno col fiato sospeso. Entrambi fanno finta di niente, ripetono di essere indifferenti alla presenza o meno di Monti. Ma non dicono la verità. 

Prima che Monti si dimettesse prematuramente, Pier Luigi Bersani (forte dei sondaggi e di una legge elettorale che ha contribuito a non cambiare), si sentiva già a palazzo Chigi. Ma con Monti in campo, il leader del Pd avrà un avversario in più, un avversario di prestigio che a palazzo Chigi già ci sta. E d’altra parte Berlusconi sa bene che Monti potrebbe avere sul Pdl quell’effetto deflagrazione che i suoi dirigenti non hanno avuto il coraggio di determinare. Ecco perché i prossimi dieci giorni determineranno, dentro e fuori il Palazzo, una suspence con pochi precedenti negli ultimi 20 anni.

da - http://www.lastampa.it/2012/12/11/italia/politica/lista-monti-si-o-no-i-dieci-giorni-che-decideranno-la-politica-italiana-q5xkJV6X9LTLCBzacnK8nO/pagina.html
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« Risposta #86 inserito:: Dicembre 13, 2012, 06:39:07 pm »

Italia
13/12/2012

È suonata l’ora delle scelte elettorali

Monti fa i conti con le alchimie romane

I segnali ci sono tutti: il premier sta lavorando per costruire intorno a sé un’area Ppe.

Berlusconi ha capito il disegno e ha giocato d’anticipo

Fabio Martini
Roma

Mario Monti approda questo pomeriggio all’ennesimo vertice europeo preceduto da un evento senza precedenti per il capo di governo di un singolo Paese: da tre giorni un coro di applausi si è alzato da tutte le capitali europee al suo indirizzo, applausi accompagnati, idealmente ma non troppo, da altrettanti fischi all’indirizzo di Silvio Berlusconi. Nell’ Europa che via via assorbe le sovranità nazionali, difficile definire queste manifestazioni emotive. Ingerenza? Preoccupazione per il destino comune? Una cosa è certa: per continuare ad essere un protagonista europeo, il professor Monti ha capito che nelle prossime settimane e nei prossimi mesi dovrà misurarsi con le alchimie della politica italiana. Eccolo, il contrappasso che da oggi segnerà le prossime mosse di Mario Monti, ecco la “doppia vita” che attende il Professore: restare punto di riferimento per l’Europa, ma al tempo stesso “sporcarsi le mani” con la politica domestica.

E non basteranno più le dichiarazioni, i discorsi dosati, il lessico chirurgico, le parole che sono tornate ad avere un senso, i provvedimenti incisivi. E’ arrivata l’ora delle scelte elettorali. E infatti, senza darne notizia ufficiale, in questi giorni Monti ha intrecciato dialoghi anche con personalità politiche (il sindaco Alemanno, l’ex ministro Fioroni) non di prima linea ma con solidità territoriale e organizzativa. Ieri Berlusconi, intuendo il disegno in corso (costruire attorno a Monti un’area-Ppe), ha provato a sparigliare, offrendo lui al Professore la leadership del centrodestra. Ha giocato d’anticipo, sapendo che quella stessa offerta erano pronti a farla quasi tutti i notabili del Pdl.
Il sentiero è stretto, le alchimie della politica romana possono logorare anche i professionisti, ma in questi mesi il professor Monti ha dimostrato (anche a chi lo detesta) di avere doti politiche fuori dell’ordinario. Per restare protagonista dovrà dispiegarle tutte nei prossimi, decisivi giorni. 

da - http://lastampa.it/2012/12/13/italia/politica/e-suonata-l-ora-delle-scelte-elettorali-monti-fa-i-conti-con-le-alchimie-romane-MJFCPJ6nInDhQ2KLhc8OeJ/pagina.html
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« Risposta #87 inserito:: Dicembre 17, 2012, 12:05:21 am »

Politica
16/12/2012 - verso il 2013- le mosse dei partiti

Memorandum del premier per “vincolare” i partiti


In preparazione un appello sul futuro dell’Italia

Fabio Martini
ROMA

A cinque giorni dalle sue dimissioni formali, Mario Monti non ha ancora deciso cosa fare «da grande», a dispetto di quel che gli attribuiscono quasi tutti i mass media. Chi ha parlato con lui, racconta di un uomo che - pur granitico e algido - è attraversato dal dubbio e infatti nelle ultime ore il Professore sta continuando a soppesare opzioni diverse tra loro: neutralità, restando a palazzo Chigi; endorsement per la coalizione centrista Montezemolo-Casini-Riccardi, ma senza un suo impegno diretto; partecipazione in prima persona alla campagna elettorale come «federatore» dei moderati. In tutti e tre i casi, il presidente del Consiglio sembra però intenzionato a produrre un sapiente escamotage: lasciare agli atti - nella conferenza stampa di fine anno prevista il 21 - una sorta di «Memorandum Monti», un appello ai partiti della sua maggioranza e agli italiani con un elenco del tanto che resta da fare per rimettere in carreggiata l’Italia e farla tornare a correre. Un programma di legislatura sotto forma di appello, nel quale Monti non dovrebbe limitarsi a parlare di spread, di pareggio di bilancio, delle cose fatte e di quelle che avrebbe voluto fare (le Province e non solo), ma potrebbe affrontare questioni politicamente dirimenti, attendendo nei giorni prima di Natale le risposte dei partiti. Soppesando nei giorni successivi le risposte al suo «Memorandum», Monti potrebbe decidere se sciogliere o meno la riserva

Tra i tanti dubbi che in queste ore attraversano Monti, uno è più forte di altri: se valga la pena lanciarsi in una campagna elettorale contro il Pd, il partito che lo ha sostenuto fino all’ultimo giorno di legislatura. Dopo la sterzata euroscettica e populista di Berlusconi e la possibile diaspora del Pdl, il duello elettorale che si profila è proprio il Monti-Bersani. Al presidente del Consiglio non è sfuggita la «qualità» del duro attacco di Massimo D’Alema («la discesa in campo di Monti sarebbe moralmente discutibile») e non tanto per gli argomenti politici usati, visto che analoga indignazione non fu espressa nel 1996 dal Pds quando Lamberto Dini (già ministro di Berlusconi e da lui indicato come suo successore) organizzò una sua lista e fu decisivo per la sconfitta del Cavaliere. Ma avverbio e aggettivo scelti da D’Alema non sono passati inosservati, rimandando ad una dichiarazione fatta alcuni giorni fa da Enrico Letta, tra i dirigenti Pd uno tra i più favorevoli a Monti: «Vogliamo che resti al riparo da un agone politico che sarà senza esclusione di colpi». Certo, per ora nulla lascia immaginare uno scivolamento di piani, ma è pur vero che proprio nelle ultime ore a Montecitorio è circolata una voce, che quasi certamente appartiene alla sfera della fantapolitica, secondo la quale «mani invisibili» avrebbero cercato di ricostruire la consistenza patrimoniale del premier in relazione ai ruoli da lui via via ricoperti. Voce paradossale per un personaggio come Monti che ha imposto, per primo a sé stesso, la piena trasparenza patrimoniale per i componenti del governo; ma al di là della verosimiglianza, la diceria fa capire che l’avvicinarsi dello scioglimento delle Camere è destinato ad intensificare colpi bassi e invenzioni. Ma non è questo il motivo della indecisione di Monti. La soluzione più impegnativa, entrare in campo per provare a vincere, presenta problemi organizzativi, ma anche di immagine: l’assalto alla «diligenza Monti». Oltre al «tagliafuori» nei confronti di Berlusconi e degli ex An, il premier sa che dovrebbe scansare molti «abbracci» a lui sgraditi. In Parlamento già è iniziata la fila, ma mentre in alcuni casi - come i repubblicani di Francesco Nucara - si tratta di antichi partiti che trasmettono ancora un po’ di blasone, altri casi potrebbero creare imbarazzo. Ieri, intervistato dal «Fatto», Clemente Mastella ha detto: «Monti è un candidato ideale, la nuova rivoluzione dopo il 1994».

da - http://lastampa.it/2012/12/16/italia/politica/memorandum-del-premier-per-vincolare-i-partiti-oh13XaBe0pzvvQPXnIUPRJ/pagina.html
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« Risposta #88 inserito:: Gennaio 07, 2013, 07:34:57 pm »

politica
07/01/2013

Pdl-Lega, massa critica contro Monti

Berlusconi: “Potrei fare il ministro”

“Trovato accordo con la Lega Nord”

Berlusconi convince Maroni a far ritornare in vita il vecchio centrodestra. Indeboliti ma appetibili?


Fabio Martini
Roma

E ora Berlusconi torna in partita. Per lui e per il Pdl l’accordo con la Lega era importante soprattutto per un motivo: tornare a rendere “utile” il voto al centrodestra. Se il Pdl avesse fatto una corsa solitaria, il segnale subliminale ed esplicito per gli elettori sarebbe stato chiaro: non abbiamo alcuna possibilità di vincere, per noi il voto è di pura testimonianza. Un’autostrada verso Monti per gli elettori incerti. 

 

E invece, convincendo Roberto Maroni a far massa critica assieme, Berlusconi può sperare che il vecchio polo di centrodestra, per quanto ammaccato e indebolito, possa tornare ad essere se non competitivo, quantomeno appetibile. E potenzialmente vincente nelle due regioni dove si gioca la partita del Senato: Lombardia e Veneto. Se il centrodestra prende un voto in più in queste due regioni, impedisce al Pd di conquistare la maggioranza assoluta nella “Camera alta”. La partita elettorale si è riaperta e in queste ore sembra potersi giocare (sia pure con pesi che restano diversi) tra le due ali tradizionali, mentre il Polo centrale guidato da Mario Monti sta perdendo progressivamente appeal. Scontando l’improvvisazione e la fretta con le quali è nato. Un affanno che per il momento sembra confinare l’area Monti ad un ruolo comprimario, in una poco gratificante corsa per non arrivare al quarto posto tra le liste in competizione.


DA - http://lastampa.it/2013/01/07/italia/politica/pdl-lega-massa-critica-contro-monti-GpygfHDV7R8bqsXK4nAHSL/pagina.html
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« Risposta #89 inserito:: Gennaio 17, 2013, 05:03:59 pm »

Politica
17/01/2013

Colloquio segreto con Monti per una sfida senza colpi bassi

Il premier Monti sta completando la sua azione al governo. Intanto, fuori da Palazzo Chigi, ieri ha visto il leader del Pd Bersani

Clima disteso tra i due leader, accordo su un patto informale

Vogliono una campagna elettorale franca ma niente polemiche

Fabio Martini
Roma

Per ora i due si erano punzecchiati, punture di spillo in qualche caso dolorose, ma senza mai produrre ferite, lesioni politiche serie. I primi dieci giorni di sfida elettorale tra Mario Monti e Pier Luigi Bersani sono trascorsi così, in un clima sospeso, a studiarsi, a misurarsi la palla fino a quando l’escalation di Silvio Berlusconi, comune nemico, ha indotto i due ad assumere un’iniziativa irrituale in campagna elettorale: prendere un appuntamento per parlarsi. 

 

E’ accaduto ieri, ovviamente con la massima riservatezza. Inutile cercare conferme negli entourage. Ma dal pochissimo che trapela, l’incontro si sarebbe svolto in un clima positivo, senza recriminazioni. Insomma, sarebbero stati posti i presupposti di una campagna elettorale che non potrà non essere franca, ma durante la quale si tenterà di evitare eccessi e contrasti pretestuosi. 

 

E per il dopo-elezioni i due hanno trovato un’intesa? Il “ritorno” di Berlusconi, nelle analisi che si fanno sia al Pd che a palazzo Chigi, rende meno irrealistica l’ipotesi di un pareggio al Senato e dunque questo scenario potrebbe spingere verso un accordo tra la coalizione Pd-Sel-Psi-Tabacci e quella guidata da Monti. Anche di questo si sarebbe parlato durante l’incontro e, pare, che tra il premier e il leader del Pd si sarebbe trovata un’intesa di massima a collaborare. Su quali basi? Non è dato sapere se sia parlato anche di possibili equilibri, di presidenza del Senato o di dicasteri. 

 

Certo, al di là dei dettagli e delle sfumature, resta la sostanza: in piena campagna elettorale si sono parlati due sfidanti del calibro di Monti e di Bersani. Naturalmente il colloquio non va inteso come la premessa di un combine. Come dimostrano le esternazioni dei due durante la giornata di ieri. Mario Monti ha tenuto il punto sulle distanze che lo separano dal Pd: «La sinistra - ha spiegato a Sky - ha fatto grandi passi avanti verso l’accettazione dell’economia di mercato, ma quando fa riforme verso l’apertura della concorrenza va un po’ contro la sua cultura storica». E comunque il Pd è associato «a forze di estrema sinistra che sono a mio avviso conservatrici». Ma verso Vendola, Monti si scopre un tono soft. 

 

Mai al governo con Nichi? «Mi semplifica il compito, lo ha dichiarato lui...». Più netto Monti appare nei confronti di Berlusconi: I conflitti d’interesse del Cavaliere? «Erano chiari fin dall’inizio», se «andrò al governo interverrò innanzitutto con una grande trasparenza». Ieri intanto sono iniziati i primi incontri per mettere a fuoco il programma elettorale, con punti qualificanti da tradurre in “pillole”. Interessante l’approfondimento (con Pietro Ichino, Giuliano Cazzola, Linda Lanzillotta, Irene Tinagli, Marco Simoni) sui temi del Welfare e del lavoro giovanile. È stata accolta la sostanza delle proposte di Ichino sulle assunzioni sia pure in via sperimentale o limitata (più tempo indeterminato ma con maggiore flessibilità in uscita), mentre sono state respinte le sue suggestioni che prevedevano una profonda revisioni delle riforme Fornero su pensioni e lavoro.

da - http://lastampa.it/2013/01/17/italia/politica/incontro-segreto-con-monti-prove-di-futura-alleanza-hegMpbABpECLaWbvpMxB0K/pagina.html
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