I russi sono orfani della storia
I russi sembrano non interessarsi alla guerra di Putin. Da dove viene l’indifferenza della società russa?
La risposta si radica nella necessità di sopravvivere, durante e dopo il periodo sovietico, scrive l'autore russo Sergej Lebedev.
Pubblicato il 28 Febbraio 2022 alle 12:55
Sergej Lebedev
Traduzione di Francesca Barca
Secondo una tesi diffusa, che è diventata quasi un dogma religioso per l'opposizione liberale russa, ci sono due Russie: la prima, quella ufficiale, la Russia di stato, una sorta di fantasma; a questa si oppone un secondo paese, la Russia reale, radicata, che vive in segreto e non condivide le inclinazioni autoritarie del regime di Putin.
Il nome del partito di opposizione —Drugaja Rossija (L'altra Russia) — fa riferimento proprio a questa idea; allo stesso modo lo slogan delle proteste popolari, "Wy nas dashe ne predstawljaete", il cui doppio significato ("Non ci conoscete affatto/non ci rappresentate") prende di mira anche i brogli nelle elezioni della Duma, il parlamento. I sociologi usano volentieri questa stessa teoria per mettere in dubbio la validità dei sondaggi che confermano la popolarità in crescita del presidente Vladimir Putin o quella di Stalin come personaggio storico: le persone danno la risposta che ritengono più sicura senza pensare davvero quello che dicono.
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Il crollo di un castello di carte
Questa tesi delle due Russie trova le sue radici nel crollo dell'URSS, nel 1991. Un momento un colosso era solido e sicuro; quello dopo è crollato come se fosse fatto di cartapesta. Quello emerso dalle macerie era un popolo molto diverso, un popolo che non era affatto devoto alla "causa del partito e del governo" come i mezzi d'informazione sovietici lo avevano ritratto. L'esercito si rifiutava di aprire il fuoco sul suo stesso popolo, il potente KGB era paralizzato, l'onnipotente Partito comunista dell'Unione sovietica era crollato come un castello di carte. Queste cose erano davvero diverse: non restava che riconoscerne la portata e rimettere a zero il cronometro di una nuova fase storica.
Questa immagine di una rivoluzione pacifica, quasi totalmente priva di spargimenti di sangue e di violenza, una rivoluzione che sarebbe dovuta essere risultato naturale delle forze della storia, divenne la chiave di lettura della maggior parte degli intellettuali russi.
Paradossalmente, fu questa lettura della storia a giustificare il loro comportamento nella tarda epoca sovietica: adattamento, piuttosto che resistenza al potere statale; disincanto politico, autoconservazione, collaborazione.
Putin, più di chiunque altro, ha saputo sfruttare l'indifferenza della popolazione: è proprio questo che lo ha reso così potente
Ed effettivamente non c’è stato, in Urss, un movimento di resistenza paragonabile al Solidarność polacco o ai movimenti clandestini antisovietici in Ucraina o Lituania. Nessuno ha proposto un programma politico alternativo, eppure la libertà è arrivata lo stesso. Non perché qualcuno avesse distrutto la prigione, ma perché questa era crollata, semplicemente, sotto il suo stesso peso.
È più o meno in questa forma, con questo metodo, che la maggior parte dell'opposizione russa immagina il momento di transizione dalla Russia “di Putin” alla Russia “post-Putin”. Se domandiamo perché la società russa alza a malapena un sopracciglio di fronte ai brogli elettorali, alle frodi fiscali o all'annessione illegale della Crimea, la risposta che otteniamo è: “Il popolo è avvilito. Ma appena ci sarà un disgelo…”
Sulla base dell'esperienza storica dovremmo credere che la "maggioranza di Putin" sia un'illusione ottica. E che se l'attuale governo russo cadesse, lo scenario del 1991 si ripeterebbe: la popolazione si staccherà dall'identità precedente, e le vecchie strutture politiche crolleranno.
Quello che dimenticano, in questo ragionamento, è la velocità con la quale le strutture autoritarie e le pratiche di dominio si sono rigenerate in Russia dopo il 1991. Già nel 1993 Boris Eltsin ordinò ai carri armati di bombardare il parlamento "rosso", nel 1994 lanciò una guerra in Cecenia e riportò la Russia sulla strada della violenza imperiale. E il popolo lo accettò.
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La pandemia come misura
Penso che le deplorevoli peculiarità del sistema politico della Russia post-sovietica siano radicate nei deficit sistemici della sua moralità sociale. Non è facile misurare il “grado di moralità" di una società autoritaria, ma la situazione estrema creata dalla crisi del Coronavirus ha, come il bagno del rivelatore nella fotografia analogica, reso molte cose chiaramente visibili.
La pandemia ha avuto un effetto paradossale in Russia: le autorità, lo stato e l’opinione pubblica progressista si sono inaspettatamente trovate nello stesso campo, a sostenere misure di protezione, contro una maggioranza che ha negato o minimizzato il pericolo del virus e sabotato le misure sanitarie.
I no-vax e coloro che si opponevano all’uso delle mascherine non si prestano a facili categorizzazioni: chiunque può farne parte, uomini o donne, giovani o vecchi, ricchi o poveri. Le autorità per necessità fanno finta che tutto sia come dovrebbe essere. E da qui è emersa in Russia una straordinaria solidarietà, l'unione perversa di coloro che sono disposti a vivere secondo le leggi della selezione naturale, persone con un'inclinazione all'irresponsabilità, alle teorie del complotto, alla negazione dei fatti… il tutto per non dover sopportare le restrizioni alle libertà personali.
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