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Autore Discussione: Paolo FLORES D´ARCAIS..  (Letto 73979 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Novembre 22, 2016, 05:44:45 pm »

La contro-riforma putiniana di Renzi, Boschi e Verdini

   Di Paolo Flores d'Arcais, da Repubblica

Amici lettori, pensate davvero che la “riforma” costituzionale Renzi-Boschi-Verdini non costituisca un pericolo per le vostre libertà? Provate a ragionare su questi ineludibili dati di fatto.

Oggi in Italia vi sono tre schieramenti che ottengono grosso modo il 25/30% dei voti (il resto si disperde tra forze minori). Poiché ormai un terzo degli italiani non va a votare (e il fenomeno è in crescita), con la “riforma” suddetta e la concomitante nuova legge elettorale (sia nella versione Italicum che, forse ancora peggio, in quella “corretta Cuperlo”), chi rappresenta solo il 17/20% dei cittadini otterrà una schiacciante maggioranza assoluta in Parlamento (di nominati, dunque fedeli al Capo “perinde ac cadaver”), il controllo della Corte Costituzionale, del Consiglio Superiore della Magistratura (da cui dipendono tutte le nomine ai vertici di Procure Tribunali e Cassazione), la scelta del Presidente della Repubblica (e la possibilità di facile impeachment nel caso non piacesse più e non si “allineasse”), il controllo della Rai, tutte le nomine delle Authority di “garanzia” (Consob, Privacy, ecc.), oltre ovviamente al governo.

Potrebbe vincere Renzi, potrebbe vincere Grillo, potrebbe vincere la destra-destra (in declinazione Berlusconi/Salvini o Berlusconi/Parisi, a seconda degli umori di Arcore). Io voterò M5s, come faccio già da tempo, ma avrei paura se a questa forza andassero i poteri previsti dalla contro-riforma (chiamiamola col suo nome, vivaddio!) Renzi-Boschi-Verdini. E ne avrebbero anche i “cinquestelle”, responsabilmente, visto che hanno proposto una legge elettorale “proporzionale corretta” (tipo Spagna e in parte Germania) e sono impegnati per il No.

Perché con la contro-riforma costituzional-elettorale (le due cose sono inscindibilmente intrecciate proprio nel disegno dei promotori), un leader da 17/20% di consenso dei cittadini avrebbe un potere che sfiora quello di Putin e di Erdogan, senza necessità di ricorrere alla galera e alla violenza. E, ripeto, chi sia questo leader dipenderebbe da spostamenti minimi di voti (nel caso del turno unico saremmo addirittura alla roulette). Davvero questa prospettiva non vi gela il sangue?

Se non vi fa paura vuol dire che avete superato in atarassica serenità zen il più “disincarnato” dei monaci orientali, il che sarà magari ottimo per la vostra psiche e le vostre future reincarnazioni, ma per il funzionamento di una democrazia è micidiale. In ogni democrazia fondamentale è il rispetto delle minoranze, le garanzie per i bastian-contrari, i diritti civili e gli spazi di comunicazione reale di quella minoranza delle minoranze che è il singolo dissidente. Niente di tutto questo resta in piedi con le contro-riforme Renzi-Boschi-Verdini.

Vi flautano nelle orecchie: ma è il prezzo da pagare per l’efficienza, per la velocità del processo legislativo. Davvero ci siete cascati? Non l’avete ancora letto l’articolo 70 controriformato? Claudio Santamaria lo ha recitato in pubblico, alla manifestazione indetta da MicroMega con Maltese, Rodotà, Zagrebelsky, Carlassare, Ovadia e tanti altri, lo ha letto come si conviene a un grande attore e come esige la punteggiatura di quella pagina e mezzo (attualmente l’articolo 70 è di una riga): un incomprensibile labirinto mozzafiato di commi e sottocommi, su cui i giuristi hanno già dato una dozzina di interpretazioni diverse, una sbobba procedurale che garantirà ricorsi su ricorsi fino alla Corte Costituzionale. Santamaria ha detto che sembrava scritta da Gigi Proietti in uno dei suoi momenti satirici di grazia. Forse, ma certamente con la collaborazione del notissimo e manzoniano dottor Azzeccagarbugli.

Vi sventolano davanti agli occhi lo specchietto per le allodole dei costi della politica che diminuiscono, davvero ve la siete bevuta? Qualche decina di milioni in meno: costa assai di più ogni settimana semplicemente tener in vita l’ipotesi del Ponte sullo Stretto (se poi, con il Sì nelle vele, lo costruiranno davvero, saremmo a una tragedia da piangere per generazioni). E se i senatori saranno un pochino di meno, in compenso i politici regionali e comunali che andranno in quegli scranni godranno del premio più ambito per i troppi politicanti che della politica fanno mercimonio e profitto: l’amatissima immunità. I costi della politica si tagliano in radici riducendo a zero le migliaia e migliaia di consigli di amministrazioni delle “partecipate”, le migliaia e migliaia di consulenze di nomina politica, il groviglio ciclopico di enti inutili, e insomma i milioni di persone che “vivono di politica”, e lautamente, per meriti che con il merito hanno ben poco a che fare.

Millantano che con il Sì combatterete la Casta, ma la Casta sono loro, ormai, il giglio magico e le sue infinite propaggini, l’indotto di nuovi piccoli satrapi messo in moto dalle Leopolde, le incredibili mediocrità assurte a posizioni apicali, le imbarazzanti nullità innalzate nell’Olimpo dell’intreccio affaristico-politico, che ormai fanno apparire uno statista perfino Cirino Pomicino.

Col No, il No che conta, vince invece la società civile di questo quarto di secolo di lotte. Che ha come programma l’unica grande riforma necessaria: realizzare la Costituzione, che i conservatori di sempre hanno bloccato, edulcorato, sfigurato, avvilendola nella camicia di forza della “Costituzione materiale”, democristiana prima, del Caf (Craxi Andreotti Forlani) poi, infine di Berlusconi (che con le sue televisioni ammicca al Sì e a chiacchiere sta col No, il solito piede in due scarpe), e oggi del suo nipotino Renzi.

Se col tuo voto vincerà il No, amico lettore, non ci sarà nessuna instabilità, semplicemente diventerà inevitabile un governo di coerenza costituzionale, e si aprirà la strada per l’unico rinnovamento di cui l’Italia ha bisogno, quello che porta scritto “giustizia e libertà” e come stella polare ha l’eguaglianza incisa nella Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza.

(21 novembre 2016)

Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-contro-riforma-putiniana-di-renzi-boschi-e-verdini/
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« Risposta #91 inserito:: Maggio 08, 2017, 10:37:37 am »

Francia

La fascista non ha vinto. Ma il sonno della memoria produce mostri

   Di Paolo Flores d'Arcais

L’orrore è stato evitato, il candidato fascista non salirà i gradini dell’Eliseo. Un grande sospiro di sollievo dunque, ma da entusiasmarsi c’è poco. Se nel cuore storico della democrazia europea, la Francia di “liberté, égalité, fraternité” che deve la legittimità delle sue istituzioni ai sanculotti del 1789 e ai resistenti del maquis e del governo in esilio contro il tradimento di Vichy, il candidato di un partito intasato di negazionisti in nostalgia di Petain e di cattolici vandeani, prende un terzo dei consensi, sarebbe più serio mantenere un certo timore, oltre che qualche oncia di vergogna. E capire come sia stato possibile arrivare a tanto, andando alle radici per poter reagire. Prima che sia troppo tardi.

Perché è già molto tardi. Lo dice la noncuranza di massa (e anche di élite) che ha minimizzato o negato, in realtà rimosso, il carattere fascista del partito Fn, nella continuità tra Le Pen padre, figlia e nipotina Marion. E che ancor più lo farà, ora che “Marine la Patriota” cercherà di accreditarsi tale addirittura “rifondando” con nuovo nome e nuovi apporti il Fn.

Noncuranza che si lascia imbambolare da qualche frase ad effetto, belletto e botulino ideologici, e sarebbe il meno, ma che si radica soprattutto per affatturazione della sirena sociale e collasso dello spessore storico, massime nella generazioni più giovani. Circolano massicciamente posizioni del tipo “il nazi-fascismo - salvo frange minoritarie di nostalgiche macchiette - è un fenomeno del secolo scorso”, oggi esistono solo “destre sociali”, “il revisionismo storico è una posizione culturale, all’operaio che vede ridursi i suoi diritti non importa niente di cosa Le Pen pensi di Giulio Cesare”.

Destra sociale? I fascismi si sono sempre dichiarati sociali, dalla parte dei lavoratori e dei disoccupati. Hitler aveva chiamato il suo partito “nazional-socialista” (nazismo è la contrazione). Abbindolate le masse, hanno sistematicamente e regolarmente distrutto ogni organizzazione di lavoratori, intrecciato valzer e amorosi sensi con i più biechi poteri finanziari e industriali, distrutto ogni possibilità legale di lotta per i non privilegiati.

È evidente e sacrosanto che prima viene la pancia piena e poi la morale (citazioni di Brecht a bizzeffe, volendo), e che anzi il grande capitale e la grande finanza, quando messi alle strette, tra un’avanzata democratica di oppressi ed emarginati e la soluzione fascista hanno troppo spesso preferito quest’ultima. E allora? E’ un buon motivo per fare harakiri e immaginare che il DNA della Resistenza antifascista non sia più necessario? La pancia vuota che si lascia affatturare da un fascista resterà vuota, e non potrà neppure lottare, se non a rischio di carcere tortura e vita.

Ma ogni generazione sente il prepotente bisogno di ripetere gli errori delle generazioni precedenti. Anche Mussolini, e Hitler, e i loro scherani, a molte personalità e persone comuni dell’epoca apparivano delle “macchiette”: in pochi anni hanno ridotto l’Europa in macerie e fame.

Oggi queste consapevolezza storica minima si è perduta, e il sonno della memoria, come quello della ragione, produce mostri. Purtroppo, in Francia, come in Italia, come in Europa tutta, si sconta un peccato originale, non aver dato vita nel dopoguerra alla necessaria epurazione antifascista in tutti gli apparati dello Stato (ma anche nel giornalismo e nella cultura). Non aver realizzato quella damnatio memoriae tassativamente ineludibile, che non garantisce contro ritorni di fascismo (la pulsione di servitù volontaria possiede circuiti neuronal-ormonali più antichi e radicati di quelli illuministico-democratici, ahimè), ma ne riduce le probabilità per il possibile.

Invece, nei decenni, con lenta ma infine inesorabile crescita, si è tollerato che partiti e movimenti fascisti si ricostruissero, si legittimassero per partecipazione elettorale, divenissero per mitridatizzazione parte del panorama ordinario del nostro habitat politico e sociale.

È stata questa l’altra faccia di una politica di establishment che per guerra fredda prima e liberismo selvaggio poi ha impedito che venissero realizzate nelle leggi e nella pratica di governo le solenni promesse contenute nelle Costituzioni nate dalla vittoria contro i fascismi.

In Italia fu chiaro da quasi subito, purtroppo. Il 2 giugno 1951 Piero Calamandrei, che della Costituente era stato uno dei massimi protagonisti, già doveva stigmatizzare che mentre nella Costituzione “è scritta a chiare lettere la condanna dell’ordinamento sociale in cui viviamo”, la politica del governo andava in direzione opposta, e il vero nome della festa della Repubblica era perciò “La festa dell’Incompiuta”.

E rivolgendosi ai giovani nel 1955, a Milano, ribadiva: “La nostra Costituzione è in parte una realtà, ma solo in parte. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere”. In Italia, come in Francia, come in Europa, siamo più che mai a questo, e la convinzione ormai dilagante che i fascismi siano lontani dal nostro orizzonte possibile quanto Giulio Cesare, fornisce ai reazionari e conservatori un’ulteriore arma di narcolessia di massa.

Macron non è la soluzione, a meno che da Presidente non diventi un Macron inedito, perché la finanza (e più in generale la politica economica) liberista è il motore della crisi sociale e della deriva politica che, per hybris di diseguaglianze, infesta e mina le democrazie. Rispetto ai lepenismi (in Europa si sono ormai moltiplicati sotto le più diverse e accattivanti fogge, ma sempre humus fascista veicolano), la vittoria di Macron potrebbe confermarsi solo il laccio emostatico che tampona l’emorragia in attesa dell’intervento chirurgico. Ora si tratta di realizzarne gli strumenti, quella sinistra illuminista egualitaria e libertaria oggi purtroppo introvabile in forma politica organizzata, ma diffusa in forma sommersa o carsica nelle società civili di molti paesi d’Europa.

(7 maggio 2017)

Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-fascista-non-ha-vinto-ma-il-sonno-della-memoria-produce-mostri/
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« Risposta #92 inserito:: Febbraio 28, 2018, 11:24:06 pm »

4 marzo: al voto tra peggio, più peggio e peggissimo
   
Questo articolo può essere riprodotto anche integralmente, purché preceduto dalla dicitura “riprendiamo questo testo dal sito www.micromega.net” e seguito dalla dicitura ©Paolo Flores d’Arcais.

Di Paolo Flores d’Arcais

Troppi dicono che domenica 4 marzo l’unica sarà votare il meno peggio. Ottimisti. Alle urne un democratico potrà scegliere tra il peggio, il più peggio, il peggissimo. O per maggiore precisione filologica: tra lo schifo, il più schifo, lo schifissimo.

Il Movimento 5 stelle fa schifo. Il rosario delle evidenze avrebbe più grani di quello delle beghine (del resto Di Maio biascica di peggio quando va a baciare la superstiziosa ampolla di un santo mai esistito, con tanto di salamelecchi al cardinale). La cartina di tornasole è la moltiplicazione dei candidati immondi e perciò espulsi. Vuol dire che demenziale, o peggio, è il sistema di selezione dei candidati. Peggio, perché scegliere attraverso un casting di tre minuti di video autoincensatori e successivi clic di “like” (talvolta poche decine per diventare sindaco di una città di medie dimensioni) significa piegarsi a quanto di più antidemocratico e di meno meritocratico, di più corrivo verso la politica spettacolo, ulteriormente degradata a finzione pura. E fermiamoci qui.

Che la destra di Berlusconi Salvini Meloni faccia schifissimo, se prendiamo minimamente in considerazione la Costituzione, cioè il patto solenne che ci rende concittadini anziche homines hominibus lupi, è dimostrabile per tabulas e per quotidiane scelleratezze politiche. Ormai il razzismo è incensato a senso comune, e Macerata farà scuola, e si sognano ulteriori diseguaglianze e degradi sociali, culturali, ambientali, con flat tax e condoni edilizi e fiscali.

Il sistema planetario renziano, con i zero virgola Lorenzin e prodiani e la mistificazione pluridecennale Bonino (per cascarci ancora si deve avere una golosità inossidabile, ossessiva, inguaribile, per le fette di Parma sugli occhi e la cera di Ulisse nelle orecchie), per non parlare dello specchietto per allodole Gentiloni, merita il “più schifo” per tutto quanto ha fatto e ha omesso: ha realizzato su (in)giustizia, (dis)informazione e umiliazione del lavoro quanto Berlusconi ha tentato con intimidazioni e fanfare riuscendovi però con frustrante (per lui e l’establishment) parzialità.

Stavo dimenticando Liberi e Uguali, e sarebbe ingeneroso. Bisognerà allora ricordare che D’Alema è stato la “sinistra” dell’inciucio, Vendola quella del lingua in bocca telefonico con Girolamo Archinà braccio destro dei Riva (Ilva di Taranto), e Pietro Grasso il magistrato che a Palermo si scontrava quasi sistematicamente con Gian Carlo Caselli e i suoi “allievi” Scarpinato e Lo Forte sul processo Andreotti (si legga ora l’irrinunciabile libro di Caselli e Lo Forte edito da Laterza). E sarebbe diventato Procuratore nazionale antimafia grazie a una legge berlusconiana ad personam (anzi contra) che escludeva Caselli, salvo rispondere, anni dopo e già in sella, alle critiche di Travaglio sospirando che quella legge era proprio brutta. Meglio non infierire.

Ciascuno perciò deciderà cosa tra schifo, più schifo e schifissimo preferirà. Non votare, o annullare il voto, dal punto di vista dei risultati è infatti impossibile. Costituisce solo autoinganno e autoillusione. Il non voto non fa che sanzionare la distribuzione dei saggi secondo quanto stabilito dai voti degli altri cittadini. Il non voto è dunque il conformismo per eccellenza, funzionalmente equivale a dare oltre un terzo della propria scheda a Berlusconi Salvini Meloni, un po’ meno di un terzo a Di Maio e un quinto a Renzi e satelliti. Se a qualcuno piace dare questo voto, decida pure di non votare o annullare la scheda. Chi poi si immagina che un alto tasso di astensioni possa preoccupare l’establishment e i partiti ha mente più fervida dell’hidalgo coi mulini a vento.

L’establishment, ecco un punto che potrebbe spingere a decidersi tra peggio più peggio e peggissimo. Le destre di Berlusconi e Salvini e la destra di Renzi Gentiloni e Bonino sono l’establishment. Il Movimento 5 Stelle no, o per essere più lucidi non ancora, non sempre (a Roma la giunta Raggi è ormai l’ennesima giunta dei palazzinari, vedi il documentatissimo libro dell’architetto Paolo Berdini). Per il momento sono una pietra d’inciampo per l’establishment, più sono i voti pentastellati e minore per l’establishment la tanto concupita stabilità.

In realtà un voto che si sottrae allo schifo ci sarebbe, anche se con programmi claudicanti e ideologia contraddittoria. Potere al Popolo. Con l’attuale sistema elettorale e la non copertura mediatica è pressoché certo che non arriverebbe al quorum, dunque funzionalmente equivarrebbe al non voto. Tuttavia se è un miracolo il san Gennaro ossequiato da Di Maio potrebbe succedere anche questo. E uscire dalla cabina elettorale senza conati di vomito non è indifferente alla salubrità dell’esistenza.

“Questo voto è una scelta di campo”, ha tuonato l’innocuo Gentiloni. In effetti: tra establishment e non. Tra il certissimamente certo dello schifo che abbiamo vissuto da un quarto di secolo e l’incertezza, il rischio, l’azzardo, l’incognita, l’alea. Il peggissimo o il peggio.

(25 febbraio 2018)

Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/4-marzo-al-voto-tra-peggio-piu-peggio-e-peggissimo/
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« Risposta #93 inserito:: Marzo 09, 2018, 06:14:28 pm »

Dopo il 4 marzo: eguaglianza o barbarie? Il M5S e la necessaria mossa del cavallo
Oggi in Occidente, e soprattutto in Italia, ci sono solo due politiche possibili: per la barbarie dei capri espiatori o per l’eguaglianza. Anche il M5S dovrà scegliere: al governo con la Lega o con quanto resta di Pd e LeU. Da Zagrebelsky a Davigo, ecco i nomi della società civile a cui il Movimento, se avrà lungimiranza e coraggio, dovrebbe guardare per un governo davvero contro diseguaglianze, corruzione ed evasione.

Questo articolo può essere riprodotto anche integralmente, purché preceduto dalla dicitura “riprendiamo questo testo dal sito www.micromega.net” e seguito dalla dicitura ©Paolo Flores d’Arcais.

Di Paolo Flores d’Arcais

Ha vinto Salvini, che umilia Berlusconi con oltre 3 punti di vantaggio. Ancora di più ha vinto Di Maio e il Movimento 5 stelle. Che ha il diritto di governare, e soprattutto non può ora sottrarsi al dovere di governare.

I numeri azzardano solo due possibilità: una maggioranza di governo con la Lega e una maggioranza che inglobi quanto resta di Pd e LeU. L’alleanza con la Lega sembra la via più facile, propiziata anche da corrispondenze di amorosi sensi sia programmatiche che umorali. Per il Movimento 5 stelle sarebbe però investire la vittoria in titoli tossici e preparare l’harakiri. Salvini diventerebbe il vero protagonista, per la coerenza con cui vellica l’intero armamentario di pregiudizi, capri espiatori, spurghi emotivi del cittadino malpensante, anche razzista, ma con rosario e crocefisso.

La moneta cattiva, come diceva il banchiere Thomas Gresham oltre mezzo millennio fa, scaccia quella buona, ma in politica anche quella così così. Il lepenismo sfrontato di Salvini metterebbe nell’angolo gli alleati cinque stelle con i loro ammiccamenti titubanti verso sovranismi e basta tasse. Di Maio premier dovrebbe subire Salvini come vicepresidente del governo e un terzo di ministri leghisti, capaci di oscurarlo con overdosi di demagogia.

A prima vista l’alleanza con Pd e LeU sarebbe per il M5S ancora più difficile. Renzi ha un gruppo parlamentare suo e catafratto, le finte dimissioni indicano che vuole lo stallo/sfascio per andare alla rivincita elettorale. Un vice premier e alcuni ministri Pd (con uno strapuntino per Grasso o D’Alema) risulterebbero indigeribili. L’unica possibilità per Di Maio resta perciò sarebbe la mossa del cavallo: una scelta inaspettata, spiazzante, al limite del temerario.

Proporre al capo dello Stato un governo con gli elementi portanti del programma dei cinque stelle, che per trovare in parlamento i voti per il 51% sia affidato a una personalità fuori dei partiti, che scelga ministri tutti della società civile. Per i deputati Pd, anche se renziani, sarebbe difficile dire no a una proposta che il Presidente Mattarella presentasse con intensa e inesausta moral suasion come la soluzione migliore per l’interesse generale (in effetti lo sarebbe).

Mossa temeraria, perché per i dirigenti 5 stelle vorrebbe dire comportarsi per la prima volta da statisti, rinunciando al narcisismo identitario (e anche personale) pur di realizzare contenuti importanti del loro programma. Lasciando sconcertata fino all’ostilità la base e probabilmente anche “Beppe”. Convincerli sarebbe la prova del fuoco per conquistare un’autorevolezza politica non effimera e con futuro.

Quali aspetti del programma? Quelli, radicalissimi, che picconino l’hybris di diseguaglianze, taglino artigli alle prepotenze finanziarie e marchionnesche, straccino i ponti sugli stretti, concentrino le risorse su ricerca scientifica e cultura, sistema idrogeologico e paesaggio (contro la speculazione edilizia, ovviamente), e non più dichiarino ma realizzino guerra permanente ai grandi evasori recuperando pacchi di miliardi, e senza quartiere la facciano a mafie e corruzione.

I nomi di governo non si devono fare, sostiene chi vuole la politica come “arcana imperii”, e invece sono il banco di prova di un voltar pagina nella trasparenza. Su MicroMega li abbiamo sempre fatti, nella mia generazione di terza età Gustavo Zagrebelsky e Salvatore Settis, in quella successiva Tomaso Montanari (del resto a Davigo e Montanari Di Maio si è già rivolto). Diranno sempre di no, fino a che la prospettiva di un governo di svolta egualitaria e civile non venga proposta con convinzione, e non come ripiego, dai cinque stelle.

L’alternativa sono nuove elezioni a breve. Ma è ragionevole tornare alle urne senza una nuova legge elettorale (su cui l’accordo è improbo) mentre ovviamente la speculazione finanziaria non resisterà a focalizzarsi sull’Italia anello debole? E come reagirebbero gli elettori se dovessero votare proprio in tale temperie?

L’establishment sembra ormai cieco di fronte a quanto è da tempo ovvio (si leggano le annate di MicroMega), in Europa, anzi in Occidente, e in modo particolarissimo in Italia, ci sono solo due politiche possibili, entrambe radicali: per l’eguaglianza o per la barbarie dei capri espiatori. Un po’ di ragionevolezza sarebbe sperabile nel “potere d’opinione”, che dell’establishment non dovrebbe essere parte (il giornalismo “persegue una missione estremamente utile, estremamente grave e faticosa, quella d’una censura continua sugli atti del potere” diceva il grande Jules Michelet centosessant’anni fa).

L’obbrobrio di diseguaglianze sfrenate (Valletta guadagnava cinquanta volte un operaio, Marchionne mille, e c’è di peggio) per fortuna non viene sopportato più da ondate tumultuose di cittadini, sempre più decisi ad aggredirlo. La protesta può assumere la bandiera del razzismo, dell’intolleranza, dello sgangherato plebeismo, oppure delle misure egualitarie, che per gli happy few risulteranno evidentemente dolorose. Storicamente la borghesia ha sempre scelto la prima strada, sacrificare le libertà pur di impinguare i profitti.

Eguaglianza o barbarie, oggi nessun tertium è dato. I pannicelli caldi che il pensiero “ragionevole” o di “buon senso” degli Scalfari o dei Severgnini ha continuato (e temo continuerà) a propinarci, non sono nemmeno callifugo contro un’epidemia, ormai sono l’Lsd che spinge a credere di poter volare e, posseduti dalle proprie visioni psichedeliche, a convincere tutti gli altri perché si buttino dalla finestra.

(6 marzo 2018)

Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/dopo-il-4-marzo-eguaglianza-o-barbarie-il-m5s-e-la-necessaria-mossa-del-cavallo/
« Ultima modifica: Marzo 09, 2018, 06:20:05 pm da Arlecchino » Registrato
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« Risposta #94 inserito:: Maggio 12, 2018, 05:58:41 pm »

Flores d'Arcais: “Abominevole l’intesa con la Lega. Il M5S ne uscirà con le ossa rotte”

Intervista a Paolo Flores d'Arcais di Andrea Carugati, da La Stampa, 11 maggio 2018


Paolo Flores d’Arcais, direttore di MicroMega. Come giudica il nascente governo M5S-Lega?
«Per quello che se ne può giudicare allo stato attuale è abbastanza abominevole».

Sarà il governo più a destra dell’Italia repubblicana?
«Salvini rappresenta in Italia il lepenismo, cioè il fascismo postmoderno. Questo basterebbe. Ma in più c’è il fatto che tratta con Di Maio anche a nome di Berlusconi, mentre milioni di elettori hanno votato M5S per chiudere un quarto di secolo di egemonia di Berlusconi sulla vita pubblica, esercitata dal governo e dall’opposizione attraverso la legittimazione del conflitto di interessi e leggi che hanno reso più difficile la lotta alla mafia e alla corruzione. Come può dunque un governo siffatto rispondere alle motivazioni che hanno spinto gli elettori a votare M5S?».

Il Movimento sostiene che nel contratto di governo ci sarà anche la voce conflitto d’interessi. Si fida?
(Ride con difficoltà a frenarsi)

Pensa che questo esecutivo aiuterà le fasce più deboli?
«Salvini vuole la flat tax, che è incostituzionale e regalerà altri soldi ai ricchi. Che altro c’è da aggiungere? In più ci sarà l’opposizione benevola di Berlusconi!».

Crede che i 5 Stelle usciranno con le ossa rotte da questa avventura?
«Penso proprio di sì».

Questo esito è responsabilità del Pd renziano?
«Hanno fatto di tutto per arrivarci e l’hanno pure dichiarato. Si illudono che l’inevitabile malgoverno che tradirà le aspettative degli elettori del Movimento offrirà una rivincita a Renzi. Si può solo dire “Quos vult Jupiter perdere dementat prius” (A quelli che vuole rovinare, Giove toglie prima la ragione, ndr)».

Un’esperienza di governo negativa Di Maio-Salvini non potrebbe riportare voti al Pd?
«Gli umori degli elettori oggi sono molto volatili e imprevedibili. Ma la credibilità dell’entourage di Renzi e dei suoi finti oppositori dentro il Pd è al livello delle suole delle scarpe».


Prevede una reazione della base grillina contro Salvini?
«Non mi aspetto nulla. Spero che prima o poi ci sia un risveglio della società civile, a partire dalla generazione dei ventenni e dei trentenni. Per quanto possiamo contare, con MicroMega continueremo a fare il possibile perché questo accada...».
(11 maggio 2018)

Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/flores-darcais-abominevole-l-intesa-con-la-lega-il-m5s-ne-uscira-con-le-ossa-rotte/
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« Risposta #95 inserito:: Settembre 23, 2018, 04:51:10 pm »

Il blog che da oggi affidiamo a Emanuela Marmo, Pappessa della Chiesa dello Spaghetto Volante, cioè della religione pastafariana, non ha nulla di scherzoso. È una scelta serissima e meditata, in difesa di uno dei temi, anzi dei valori cruciali, che fin dall’inizio (ormai oltre trentadue anni fa) caratterizzano l’impegno etico e culturale di MicroMega: l’eguale libertà di ogni religione e di ogni critica della religione (anche quando tale critica suoni offesa per il credente).

La Chiesa di cui Emanuela Marmo è Pappessa è la branca italiana della “Church of the Flying Spaghetti Monster” fondata nel 2005 da Bobby Henderson, uno scienziato che intendeva in questo modo protestare contro la decisione dello Stato del Kansas di insegnare nelle scuole la teologia dell’Intelligent Design allo stesso titolo dell’evoluzione darwiniana.

In Nuova Zelanda i pastafariani hanno il diritto di celebrare matrimoni come i pastori delle altre fedi. In uno Stato americano (se non mi sbaglio) hanno ottenuto di poter essere fotografati per il passaporto con il loro copricapo rituale, uno scolapasta, esattamente come ad altre religioni è concesso il turbante, ecc.

Non appena ne sono venuto a conoscenza, ho citato la Chiesa dello Spaghetto Volante in un paio di miei libri, perché con la sua pratica (ha tutte le caratteristiche di una Chiesa, compresi i suoi eretici) ha reso con evidenza cristallina l’assurdità, dal punto di vista democratico, del trattamento privilegiato che viene riservata alle altre religioni, come se fossero le sole “vere”. Né, per tale discriminazione che in genere vuole favorire ebraismo, cristianesimo, islam, induismo, buddismo, si può invocare l’antichità delle fedi (che comunque sarebbe un criterio illogico), visto che i Mormoni hanno solo due secoli e la Chiesa Avventista del settimo giorno molto meno.

Dunque se anche i fedeli del “Flying Spaghetti Monster” manifestano una ironia e una allegria di cui in genere le altre religioni si mostrano indigenti, ciò non svaluta affatto la caratura della loro religione, né può indurre a trattarla come “setta”. Un carattere settario, al limite (e talvolta oltre, come da scaffali di documentazioni) dell’assoggettamento (plagio non mi piace) e della circonvenzione di capace, sprizza semmai da istituzioni santamente accreditate come i Legionari di Cristo, l’Opus Dei, et similia. E del resto uno spaghetto è fatto di acqua e farina, esattamente come l’ostia.

Benvenuta dunque Emanuela Marmo tra i nostri blogger.
Paolo Flores d’Arcais

***

Perché il pastafarianesimo non è trattato al pari di altre religioni? Lettera a "Repubblica"
EmarmoGentile redazione de «La Repubblica», sono “tal” Pappessa Scialatiella Piccante I, guida spirituale della Chiesa Pastafariana Italiana, al secolo Emanuela Marmo.

Scrivo in riferimento all’articolo di Pietro Del Re datato 17 agosto 2018.

Giacché la notizia riguarda la religione professata dalla mia Chiesa e considerando che sono espressamente citata dal vostro articolo, mi sento autorizzata a chiedere che la vostra testata pubblichi questa lettera.

Ho il dovere di esprimere un’opinione su quanto la frittella olandese subisce, rappresentando il mio sentito appoggio a Mienke de Wilde. Ho il dovere di dare riscontro ai frittelli italiani che mi domandano di intervenire perché sia fatta una informazione più obiettiva.

Parto da alcune evidenze pragmatiche.

I pastafariani non sono organizzati in sette, bensì in ciurme. In Italia le ciurme danno vita a Pannocchie e, via via, a centri di fede più complessi.
Il termine “seguace” non è appropriato. Sarebbe più consono quello di “fedele” o “credente “.
Non comprendo in base a quali criteri la richiesta di indossare il nostro copricapo appaia uno scherzo.
La nostra religione ha vissuto per millenni all’oscuro di molti. Posso immaginare la sorpresa che ha colto la comunità mondiale alla rivelazione del nostro profeta Bobby Henderson. Non vedo altri motivi di stupore. Cosa c’è di sorprendente nel nostro abbigliamento sacro? Turbanti, corone piumate, maschere e tiare sono davvero più ordinarie e discrete?
Perché pastafariani è scritto tra virgolette? Non è slang. Non è gergo. Usate le stesse cautele ortografiche con le altre minoranze etniche o religiose? Perché “Pappessa” è scritto con l’iniziale minuscola?

Quali sono i fattori che riconoscono dignità e spazio d’esistenza a una cultura? Il potere, il governo dovranno indicare alla stampa i formulari cerimoniali con cui rivolgersi a questa o quella guida spirituale? In assenza di tale indicazioni, che si fa? Potremmo affermare che l’attenzione e l’approfondimento sono da assicurare senza pregiudizio?
Sono domande lecite, eppure sono certa che l’autore dell’articolo non sia in malafede. Credo si sia sentito libero di adottare un tono scanzonato, rilassando ogni nervo formale, perché ha senz’altro ravvisato nel linguaggio pastafariano benevolente semplicità. Ha fatto bene.

Tuttavia, altrettanto allegramente, provo ad approfittare della fortunata attenzione che oggi ci coinvolge.

Perché il pastafarianesimo non è trattato al pari di altre religioni?
Sono la storia, la durata della tradizione, il valore economico dei beni posseduti da una chiesa, sono i privilegi, la capacità di venire a patti con i governi, determinando gli usi, i costumi e i diritti dei cittadini, a dare misura del senso di una religione? O hanno pari valore la facoltà di determinare un pensiero, il discernimento del singolo che intorno a concetti e ideali condivisi stringe relazioni fino a formare gruppi dotati di coscienza civile?

Le chiese cristiane, su base biblica, esistono in qualsiasi luogo ove due sono riuniti in nome di Cristo.
Ebbene, molti si riuniscono in nome del Prodigioso sulla base di un testo che è oggetto di studio e culto.
Così come il crocifisso da tanti è inteso quale simbolo sacro e al contempo culturale, il colandro pastafariano è strumento liturgico quotidiano e anche icona che, attraverso la metafora del nutrimento e della convivialità, trasmette all’esterno i principi religiosi e gli ideali sociali dei pastafariani.

La vita spirituale dei pirati pastafariani non è diversa da quella di fedeli di altri culti. Si svolge illuminata da credenze, si consuma attraverso rituali e celebrazioni. La vita pubblica pastafariana appare effettivamente più singolare, perché caratterizzata da un modus operandi razionalista, ironico, possibilista. Per questo motivo l’elemento satirico rinvigorisce molta parte della nostra comunicazione pubblica, offrendo una possibilità di superare ed elaborare le divergenze evitando di imporre le proprie convinzioni.
Esplorare la vita con gioia, disincanto e dubbio non è un atteggiamento poco serio.

Puntare le vele nella coscienza della propria libertà e responsabilità, dando attenzione e valore alla vita terrena e presente, non è una scelta poco seria. Comunicare e percepire gli altrui messaggi senza cedere il fianco alla propaganda o a coloro ai quali è concesso il lusso di entrare nell’esistenza dell’individuo quando questo non ha ancora raggiunto l’età per fare valutazioni razionali e autonome, non è poco serio. Che ciò accada, ad esempio, davvero non è uno scherzo, eppure, vedete, se non ci fossero bricconi come noi non farebbe notizia.

La via pastafariana alla convivenza pacifica e alla pari suggerisce l’estensione dei diritti, al di là di ogni pregiudizio di immagine.
Agli occhi di chi guarda da lontano, il digiuno, la castità, la fustigazione, la fede nel miracolo o nelle apparizioni appaiono egualmente scherzi della ragione. Se l’uomo cerca la pace in un’ostia o all’ombra di una pietra caduta dal cielo, chi siamo noi per giudicarlo? Chi sono loro per giudicare il Vulcano eruttante birra, mentre eterna, sessuale e voluttuosa, innocente e prelibata, si svolge la danza di uomini e donne prodigiosi?

Vi raggiunga la mia pennedizione, con l’augurio che bendiate l’occhio abituato a procedere automatico e scopriate il piacere di essere vedette: in alto si sta benissimo, se è per vedere meglio.

Con ammmore (tre emme),
Pappessa Scialatiella Piccante I

(15 settembre 2018)

Scritto sabato, 15 settembre, 2018 alle 09:30   nella categoria Emanuela Marmo. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. Puoi lasciare un commento, o fare un trackback dal tuo sito.

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« Risposta #96 inserito:: Ottobre 10, 2018, 12:28:12 pm »

Gli attacchi di Di Maio alla stampa sono un insulto alla Costituzione

Di Paolo Flores d’Arcais

Questo pomeriggio, martedì 9 ottobre 2018 alle ore 15, nella sede della FNSI, in corso Vittorio Emanuele II 349, a Roma si terrà una conferenza stampa dal titolo “Giù le mani dall'informazione!”. Iniziativa logica e doverosa, dopo gli spurghi di incontinenza antidemocratica con cui il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio ha creduto di insultare il settimanale L’Espresso e il quotidiano La Repubblica, insultando invece la Costituzione italiana e milioni di elettori che hanno votato il Movimento 5 Stelle, spesso proprio per i solenni richiami al rispetto e alla realizzazione della Carta che i suoi candidati andavano reiterando.

Chi ha un incarico di governo ha potere. Alle critiche della stampa che del governo metta in luce misfatti o omissioni ha dunque il dovere di rispondere con l’azione riformatrice, non con l’insulto che vuole intimidire. La democrazia è un sistema di poteri plurali che si limitano reciprocamente. Per dirla con il più grande storico del XIX secolo, Jules Michelet, “la stampa persegue una missione estremamente utile, estremamente seria e faticosa, quella d’una censura continua sugli atti del potere”. L’unica risposta legittima che il potere politico può dare è dimostrando con i fatti, con i buoni fatti, che l’accusa di misfatti e omissioni era infondata e pretestuosa.

Ma evidentemente sono proprio i buoni fatti ciò che Di Maio non è in grado di esibire. Fin qui gli unici fatti certi (non gli annunci) realizzati dal governo di cui fa parte sono tre o quattro miliardi di minor gettito fiscale per l’ennesimo condono garantito agli evasori (definito con perversione di neo-lingua orwelliana “pace fiscale”!), e l’ondata di razzismo che i beceri e disumani diktat del suo collega Salvini ha puntualmente diffuso nel sentire comune.

Pensare di occultare questa tragedia, per cui il M5S è attualmente solo un portatore d’acqua del governo Salvini, attraverso una escalation emetica di ingiurie contro la stampa, è francamente puerile. La funzione di pronubo di consensi e voti pro-Salvini, che Di Maio per dichiarazioni e omissioni va sempre più svolgendo, è disgustoso sotto il profilo democratico, ma sotto l’egoistico interesse di partito dovrebbe preoccupare in modo incombente e minaccioso gli altri dirigenti del M5S.

(9 ottobre 2018)

http://temi.repubblica.it/micromega-online/gli-attacchi-di-di-maio-alla-stampa-sono-un-insulto-alla-costituzione/
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« Risposta #97 inserito:: Gennaio 03, 2019, 06:26:25 pm »

Buon Anno: il 2019 sarà peggio

   Di Paolo Flores d’Arcais

Il 2019 sarà peggiore. Al governo Salvini succederà il governo Salvini 2. Per elezioni anticipate o per transumanze parlamentari. Immediatamente prima o immediatamente dopo le elezioni europee, comunque entro i due equinozi o solstizi. Un governo senza il M5S, con le frantumaglie delle destre berlusconiane e meloniane. Oppure, perfino peggio, ancora con il M5S, ridotto da partner subalterno qual è oggi a puro zerbino, alibi dove pulirsi gli stivali del prefascismo.

Perché Salvini fascista non è, sia chiaro. Analiticamente parlando è pre-fascista. Esattamente nel senso di alcune specifiche formazioni cellulari degenerative: può essere che non metamorfizzino mai in tumore, ma annunciano la sua possibilità con alte probabilità, e impongono terapie preventive e comunque radicali mutamenti degli stili di vita.

Lo sfogo “liberatorio” e legittimato agli spurghi razzisti dei fondali psichici, l’esibizione d’accatto di presunte Hulk-muscolature nelle trattative internazionali, con relative fanfare d’orgoglio patrio e confessionale posticci, l’odio per tutto ciò che è intelligenza, cultura, spirito critico, il vellicamento corrivo della melma interclassista dell’evasione fiscale, l’impunità progressiva per le classi possidenti (tanto più … quanto più …), la politica sistematica dei capri espiatori e la loro intercambiabilità, il calcio dell’asino ai residui di giornalismo e informazione già al lumicino per la sequenza Berlusconi e nipote (i. e. Renzi), tutto ciò è già distruzione in profondità di tessuto e anzi trama e ordito democratici, è già brodo di coltura di fascismi possibili.

Eppure schifo scoramento e nausea non riescono a diventare indignazione, e laddove indignazione autentica nasca, non riesce a diventare lotta. E la melma maleodorante di un governo di plumbea mediocrità, inettitudine iperbolica, menzogna sghignazzante, razzismo avanzante, ignoranza esultante, feroce diseguaglianza non scalfita, sembra diventare rassegnato orizzonte naturale, da qui alle calende greche.

Perché?
Perché nessuna indignazione autentica sarà possibile, fino a che circolerà ancora influente la finta indignazione di chi questa melma ha preparato con un quarto di secolo e più di menzogne, accomodamenti, tradimenti. L’indignazione che diventi lotta nulla può avere in comune, ma proprio nulla, con gli alti lai che oggi penosamente si levano da chi ha tollerato il berlusconismo e il renzismo, vi ha fatto accordi e magari li ha anche esaltati, con chi oltre un quarto di secolo fa ha voluto affossare la rivoluzione della legalità, l’unica di cui questo paese ha bisogno, che Mani pulite poteva annunciare, se la politica che si definiva di sinistra avesse proseguito con determinazione, con i mezzi della politica, appunto, la pulizia delle stalle d’Augia dell’establishment inaugurate dal pool di Milano e dal pool di Palermo.

Abbiamo visto invece l’opposto, compresi quei prodromi golpisti striscianti che sono stati e permangono i depistaggi e gli intrecci e i silenzi sulla Trattativa, scattered nelle istituzioni, dagli angiporti ai colli più alti, senza che mai le mele marce siano state tolte da tavolo.

Come può nascere la spinta a tornare in piazza, malgrado le brucianti e pesanti ragioni per farlo, se pensi che potresti trovarti mescolato ai D’Alema e ai Veltroni, ai Fassino e ai Bersani (mi limito ai segretati delle metamorfosi Pci), alle Boldrini e ai Bertinotti (dei Calenda e altri non voglio neppure dire), e insomma al nulla di “sinistra” che imperversando in inciucio, alla “opposizione” o al governo, ha nutrito e pasciuto l’eruzione populista per cui ora si straccia ipocritamente le vesti?

Questa è la semplice, razionale, spiegazione del perché oggi contro il governo Salvini e la sua melma non c’è lotta e sembra non esserci speranza.

Ma le condizioni perché diventi prepotentemente necessaria diventeranno nel 2019 ogni giorno più acute. Nel M5S è iniziata l’effetto Dorian Gray, la lenta ma inarrestabile decomposizione dell’intero organismo, ancorché per il momento invisibile al soggetto stesso. Che ha perduto ogni sua ragione vitale, essendo diventato parte del privilegio che aveva giurato di combattere. Dopo aver vinto le elezioni (dove avevano il doppio dei consensi di Salvini!) hanno sbagliato tutto. I voti raccolti esprimevano speranze precise (in promesse altrettanto altisonanti): ogni giorno, con assoluta coerenza e senza guardare in faccia a nessuno, meno diseguaglianza, più giustizia (quella che l’establishment chiama giustizialismo), niente lottizzazione, lotta spietata a mafie, corruzione, evasione fiscale … Non basta, avevano promesso come ministri (e per ogni incarico pubblico) i migliori, una élite, facendo a iosa nomi come Davigo e Montanari.

Bastava che fossero coerenti. Che non divorziassero i fatti dalle parole. Che enunciassero dieci punti irrinunciabili, ma non generici, puntuali quasi in articolato di legge, con chi li sottoscrive si governa, e magari tra i nomi d’élite indicando anche un premier, a dimostrazione che a loro non interessano le poltrone ma i cittadini, altrimenti fatevelo voi un governo, per noi si può tornare anche al voto.

Avrebbero messo il Pd spalle al muro (e milioni di voti in prospettiva). E Salvini anche, impedendogli ogni velleità di egemonia rovesciata. E invece con Salvini si sono accucciati, coda tra le gambe e bava per i ministeri, innocui col loro doppio di parlamentari. Salvini ha potuto così esibire coerenza, cioè razzismo e fatti giustizia da solo e magari riapriamo anche i casini, il M5S non ha avuto nemmeno la decenza di imporre un paio di riforme a costo zero (niente prescrizione dopo il rinvio a giudizio, introduzione del reato di ostruzione alla giustizia, dichiarazione di ogni bene all’estero, sequestro e manette per i grandi evasori, misure antimafia anche per i reati di corruzione …).

Risultato ovvio: Salvini missile nei sondaggi, M5S in caduta libera, e ogni giorno sarà peggio: per paura di elezioni più succubi che mai, con relativo avvitamento nei consensi.

Tutto questo significa un futuro prossimo di molti altri milioni di voti in libertà, perché sono tempi di sfrenata volatilità del consenso. Due anni fa la Lega era al 4 per cento, sette anni fa il M5S al 3. Milioni di voti alla ricerca di un’espressione politica. Che non potrà in nessun modo essere una qualsiasi forma, accorpamento, metamorfosi, scomposizione, belletto&botulino, dei centro-“sinistra” deja-vu del trascorso trentennio, cascami ultimi alla Calenda compresi. Era già destra una “sinistra” partitocratica, lo scrivevamo esattamente trentadue anni fa, prima annata di MicroMega, e sempre più destra è diventata, fino a sbandierarsi come tale nelle intenzioni del Renzi in delirio macroniano.

Sempre trentadue anni fa scrivevamo che la sinistra vera c’era, una sinistra sommersa, presente e viva nella società civile, priva di rappresentanza politica. Quella sinistra si è manifestata in questi tre decenni con forza sempre maggiore, anche se in forma carsica. Oggi più che sommersa è dispersa, frammentata, polverizzata in mille civilissime iniziative locali e settoriali, gelose e sospettose di ogni proiettarsi in politica. Pour cause. Ma positivamente esistente. Per diventare forza politica, unica possibile alternativa di governo, aspetta un catalizzatore.

Dunque, è alla ricerca di una élite. Perché le forze politiche non nascono dal basso. Dal basso possono nascere le lotte, i movimenti, le esplosioni di collera. Ma una forza politica nasce sempre dall’alto. Da un gruppo dirigente, perfino da un singolo leader. E da circostanze inattese, che la leadership fanno emergere. Inutile perciò almanaccare sul come e il chi, leadership e forza politica non si creano in vitro. L’unico realismo consiste nell’estote parati (più probabile che saranno trentenni o ventenni anziché quarantenni), nell’essere pronti a cogliere e accogliere l’attimo, nel prepararne il terreno. Con la chiarezza delle idee, la critica delle ambiguità che ne soffocherebbero nascita e sviluppo, l’azione intanto possibile nel proprio raggio di influenza.

Perché c’è élite ed élite, caro Ernesto (Galli della Loggia), società civile e società civile, magistrati e magistrati, intellettuali e intellettuali (imprenditori e imprenditori, piacerebbe poter dire, e sui margini del grosso è perfino così), le categorie general-generiche non spiegano un bel nulla e intorbidano l’intelligenza delle cose, ad maiorem Dei gloriam, dove il Deus è l’establishment, l’intreccio politico-finanziario-monopolmediatico che ci sgoverna da un quarto di secolo e di cui Salvini, da quando seguiva Bossi in calzoni corti, è stato sul piano politico pedone e alfiere e infine regina (abbiamo dimenticato l’alleanza organica della Lega con Berlusconi e i fascistissimi?).

Chiarezza nelle idee vorrà dire perciò lavorare a liberare la carsica sinistra dispersa dalle tentazioni e miasmi reazionari che costantemente e illogicamente la lusingano, il multiculturalismo e il rifiuto della scienza, per dirne due ricorrenti, che negano emancipazione ed eguaglianza in nome di identità di fede sangue e suolo, gerarchiche nel midollo e nel midollo sprezzanti per le donne, e propiziano oscurantismi nuovi e revival dei più vetusti e retrivi.

Chiarezza nell’azione vorrà dire lucidità intransigente nel non mescolarsi più, per quanto nobili le cause o “realistici” appaiano a prima vista i motivi, con l’intero (intero!) mondo e demi-monde delle finte sinistre di establishment e partitocrazia (anche mini) che in un supponente harakiri venticinquennale hanno impinguito Berlusconi e Renzi preparando infine l’apokolokyntesis altrimenti resistibilissima di Salvini.

L’alternativa sarà rigorosamente egualitaria e libertaria, inflessibilmente laica e illuminista, o non sarà, non sarà di massa almeno, non sarà vincente.

Buon Anno, perciò, a tutte le donne e gli uomini di questa buona volontà.

(1 gennaio 2019)

Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/buon-anno-il-2019-sara-peggio/
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« Risposta #98 inserito:: Giugno 03, 2019, 02:11:32 pm »

Ha vinto il pre-fascismo. E non sarà il Pd a fermarlo

   Di Paolo Flores d’Arcais

Ha vinto il pre-fascismo. Salvini e Meloni (34,26+6,45) superano da soli, la percentuale che con l’attuale legge elettorale per le politiche garantisce con altissima probabilità la maggioranza assoluta. Del resto, possono imbarcare anche ciò che si decomporrà di Forza Italia, con Berlusconi totem inoffensivo. Avranno i numeri per cambiare la Costituzione (repubblicana antifascista) che detestano. Potranno dilagare nella Corte Costituzionale e nel Csm, asservendo la magistratura.

Il pre-fascismo non è il fascismo, ovviamente, e potrebbe non diventarlo. Ma ne contiene già tutti gli ingredienti costitutivi, razzismo, sciovinismo, clericalismo, rapporto diretto viscerale acritico subordinato Capo/popolo (Capo, in latino Dux, in tedesco Führer), disprezzo per le minoranze, medioevo per i diritti civili, subalternità delle donne, odio per gli intellettuali … La cecità di editorialisti e politologi si ostina a non vedere il repentaglio.

Salvini con il voto di domenica è il mazziere del gioco, il padrone che dà le carte. Può decidere se andare subito alle elezioni o se gli convenga ancora l’alleanza con un M5S tappetino, su cui scaricare magari lo scontento per l’inevitabile finanziaria.

Era tutto scritto. Lo avevamo scritto, del resto, perché non era necessario essere Nostradamus. Il 6 marzo 2018, a risultati appena noti, scrivevamo che un governo con Salvini “per il Movimento 5 stelle sarebbe investire la vittoria in titoli tossici e preparare l’harakiri. Salvini diventerebbe il vero protagonista, per la coerenza con cui vellica l’intero armamentario di pregiudizi, capri espiatori, spurghi emotivi del cittadino malpensante, anche razzista, ma con rosario e crocefisso”. E il 23 aprile insistevamo che “se fosse andato in porto il governo Di Maio/Salvini, con quest’ultimo ministro dell’Interno e caccia ai migranti, sarebbe stata la coerenza lepenista del secondo a tenere banco e imprinting del governo presso gli elettori”.

L’11 maggio, su “La Stampa” definivo “abbastanza abominevole” il nascente governo (“abbastanza” era ironico), e il 1 giugno radicalizzavo il giudizio esaminando uno per uno i ministri leghisti (e più d’uno dei 5S). Il 1 gennaio 2019, nel “Buon Anno” ai lettori scrivevo: “Il 2019 sarà peggiore. Al governo Salvini succederà il governo Salvini 2. Per elezioni anticipate o per transumanze parlamentari. Immediatamente prima o immediatamente dopo le elezioni europee. Un governo senza il M5S, con le frantumaglie delle destre berlusconiane e meloniane. Oppure, perfino peggio, ancora con il M5S, ridotto da partner subalterno, qual è oggi, a puro zerbino, alibi dove pulirsi gli stivali del prefascismo”.

Perché ciò che era lapalissiano non lo si è voluto vedere? Perché ci si è resi ciechi di fronte al fatto che decenni di spaventosa crescita delle diseguaglianze, di sfrenato liberismo, dove “arricchitevi!” e “guai ai vinti!” sono due facce della stessa politica, avrebbe potuto avere due soli sbocchi: una politica di radicale redistribuzione in direzione egualitaria, attraverso tassazione superprogressiva e politiche di welfare spinto, oppure una politica dei capri espiatori, dei penultimi messi in conflitto con gli ultimi e risarciti con il privilegio di cartapesta delle identità vicarie (“prima gli italiani”, “migranti a casa loro”, “spara a casa tua”).

Le sinistre hanno smesso di essere i partiti dell’eguaglianza, fino a dimenticare la parola stessa e trovarla fastidiosa e financo sudicia. Del resto erano ormai ceto politico, “Casta” o “minicaste” autoreferenziali, strutturalmente parte del privilegio.

Il M5S ha presunto che si potesse essere “oltre” rispetto a destra e sinistra. Vero, se con questi termini si intendevano le forze politiche organizzate, tragicamente falso se riferito ai valori culturali e agli interessi materiali. Perciò è finito in un magma (un blog!) indistinto, fino all’indifferenza e alla collusione con l’ostilità propria della Lega, sui valori di fondo: laicità, diritti civili, eguaglianza delle donne, amore per la scienza e la cultura … Perciò il suo prevedibile e previsto harakiri (e mettiamoci l’assurdità della selezione dei loro dirigenti, per reality anziché per lotte e capacità, su cui abbiamo scritto ennesime volte).

Immaginare che un argine (parlare di alternativa è oltre il ridicolo) all’attuale dominio pre-fascista possa venire dal Pd di Zingaretti è l’ultima, e forse più pericolosa, illusione. In secondo luogo, rispetto a un anno fa, il Pd ha perso 111.545 voti. L’aumento in percentuale è solo perché meno elettori in generale si sono recati alle urne. In primo luogo, il Pd è alla radice dei problemi che hanno portato all’attuale catastrofe: il Pci aveva gravissimi difetti e tare, da Togliatti a Berlinguer, ma la metamorfosi Pci>Pds>Ds>Pd, per cui una forza di sinistra è diventata una forza della destra perbenista e benpensante (chiamiamoli col loro nome, basta parlare per il Pd di sinistra) è la causa prima e cruciale di quanto avvenuto negli ultimi trent’anni.

L’argine, la resistenza, l’alternativa, potranno perciò venire solo dalla nascita di una forza coerentemente “giustizia e libertà”. Che rispetto alle “sinistre” degli ultimi decenni, però, anche “estreme”, sia libera da ogni tentazione del multiculturalismo e del politically correct (comprese alcune versioni di ideologie femministe reazionarie), che sia antipartitocratica e contro gli attuali establishment, che sia per la scienza. Egualitaria, illuminista, laicissima.

Come possa nascere non è prevedibile, che esista in forma dispersa nel paese è probabilissimo. Ma dispersa, appunto, elettoralmente invisibile perché quasi tutta rifugiata nel non voto. A farla nascere potrà essere solo un catalizzatore oggi imponderabile, ma il brodo di coltura in cui si produca il big bang dobbiamo lavorare ad incrementarlo e arricchirlo ogni giorno, ciascuno nella sfera d’azione che riuscirà a crearsi. Qualche ipotesi in una riflessione successiva.

(28 maggio 2019)

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« Risposta #99 inserito:: Giugno 11, 2019, 11:40:16 pm »

Il M5S può ancora sopravvivere come protagonista?
   
Il M5S è finito. Comunque si muova, continuerà nel suo precipitare, iniziato da quando non è più una forza anti-establishment ma lo stuoino di Salvini. Di Maio pensa di rimediare con una Grande Riorganizzazione che aggira però le questioni cruciali: la contrapposizione destra/sinistra, le modalità di selezione dei quadri dirigenti e la democrazia interna.

Di Paolo Flores d’Arcais

Da parecchi giorni i democratici più sinceri si stanno prodigando in consigli al M5S su come invertire la rotta che in un anno ha portato sei milioni di italiani (sei milioni!, un salasso permanente, praticamente un elettore ogni cinque secondi) a ritirare il consenso appena dato, e rivolgersi alla Lega oppure disertare le urne. Attenzione sacrosanta, poiché solo il M5S sembra ancora costituire un freno al dilagare del pre-fascismo di Salvini. Prodigarsi che trascura però il più pesante e palese dato di realtà: il M5S è finito. Purtroppo. Questo purtroppo è da sottolineare, perché al momento altri argini al pre-fascismo di Salvini e dei suoi molti alleati nei “poteri forti” non si vedono proprio.

Il risultato delle europee per il M5S non è una rotta. Perché a Caporetto può seguire il Piave, e poi la vittoria (ormai le metafore militari stanno scalzando quelle calcistiche, il degrado del linguaggio continua). Quello che sta vivendo il M5S è invece l’avvitamento, che in aeronautica indica quando il precipitare di un aereo raggiunge il punto di non ritorno, e nessuna manovra e nessun miracolo potrà più salvare il veicolo. Qualsiasi linea scelgano infatti Di Maio e/o Casaleggio jr., il M5S continuerà nel suo precipitare.

Se rompe con Salvini e si va a elezioni anticipate l’emorragia di consensi continuerà. Se rompe con Salvini e si forma una coalizione di centro destra con tanti “responsabili” transfughi dal M5S che non vogliono perdere il seggio, la catastrofe sarà ancora più rapida. Se rompe con Salvini e nasce un “governo del Presidente” per fare una finanziaria con il solito “lacrime e sangue” (che tradotto vuol dire, paga chi ha meno, s’impingua chi ha di più), dimostrerà la sua impotenza e irresponsabilità (se va all’opposizione) o la sua impotenza e acquiescenza verso i poteri forti (se vota il governo). Se non rompe con Salvini ma continua a governarci insieme, dovrà inchinarsi a una dieta di rospi quotidiani che delle promesse elettorali faranno strame fino in fondo.

Comunque si muova, il M5S è nella condizione del dilemma siberiano: “Qualora il ghiaccio si rompa e tu cada nell’acqua ghiacciata, se in quattro minuti non ti tirano fuori sei morto, ma se ti tirano fuori, nell’aria ghiacciata, sei morto comunque in due minuti”. Il 24 aprile 2018, prima che nascesse il governo Salvini (Conte), scrivevamo: “In Siberia il M5S di Di Maio ci si è messo da solo”.

L’avvitamento è iniziato allora, quando il M5S ha scelto di andare al governo con un partito che aveva programmi, passato, radici, valori, opposti ai propri. E ha finto che si potesse stabilire invece un programma comune. Il famoso “contratto”, che Salvini ha considerato carta straccia da subito, facendo del governo Conte il suo governo, dell’odio per il migrante lo specchietto per le allodole, dell’odio per i magistrati e dell’amore per i padroni del cemento e degli appalti la stella polare della continuità con Berlusconi, e della spartizione in Rai e in ogni carica dove il governo ha voce l’unico terreno effettivo di accordo tra i due partiti. In un sabba di oscenità (tranne rarissime nomine di meritevoli).

Salvini è ormai l’uomo di Confindustria e di tutti i poteri che non vogliono il controllo di legalità come orizzonte ineludibile di una democrazia. A questa quintessenza del berlusconismo aggiunge il “libera tutti!” rispetto agli spurghi psichici indotti dalla paura in tanta parte dell’elettorato. La politica della paura ha infatti lo scopo di spostare il bersaglio della sacrosanta rabbia popolare dall’establishment al capro espiatorio.

Il M5S ha fatto lo stuoino di Salvini, puntando tutto sul salario di cittadinanza, che ha dovuto però rimpicciolire ed edulcorare fino a farne poco più di una elargizione di emergenza per alcune delle fasce più deboli (sempre meglio che niente, sia chiaro). E ha invece rinunciata a fare le battaglie qualificanti sbandierate nella campagna elettorale e unificate nel ritmato “onestà, onestà!”.

Che in effetti sarebbe – eccome! – un programma di governo, implicando guerra senza quartiere alle mafie, al loro brodo di coltura, grande evasione, riciclaggio, segreto bancario, corruzione, e poi fine di ogni lottizzazione in Rai e in ogni funzione pubblica, rigorosa politica ecologica, valorizzazione (l’opposto della mercificazione!) dei beni culturali, e via articolando. E invece ingoieranno anche la Tav, la seconda per inutilità delle grandi opere (la prima è il ponte sullo stretto di Messina, la cui società ancora non è stata azzerata). E hanno ingoiato il go-go di condoni, liberi subappalti e ogni altra nefandezza di berlusconiana origine e memoria.

Ovvio che polemizzare con Salvini nelle ultime settimane di campagna elettorale è servito solo ad accrescere il discredito: nessuno ti prende sul serio con l’antifascismo in zona Cesarini, o con quattro ciance sull’eguaglianza, mentre continui ad accettare che si discuta di flat tax, cioè del più gigantesco regalo che si possa fare ai ceti abbienti (la Costituzione, non a caso, esige una fiscalità progressiva, per trasferire danaro dai più ricchi ai meno fortunati).

Ora Di Maio, insieme al suo “fratello” Di Battista (evitiamo blague sui fratelli coltelli), pensa di rimediare con una Grande Riorganizzazione. Che aggira le due questioni cruciali.

La prima: la contrapposizione destra/sinistra è superata. E’ vero il contrario. Vale infatti solo se per destra e sinistra si intendono i partiti che tradizionalmente si sono dichiarati o si dichiarano tali (spesso con il pudibondo prefisso di centro-…). In chiave di valori e interessi, invece, l’opposizione è sempre più significativa e anzi spinge alla polarizzazione. Salvini ha così trasformato una Lega settentrionale in un partito iper-lepenista su scala nazionale, inverando il berlusconismo in salsa razzista e di finto anti-establishment (la volgarità o l’odio per le élite quale calderone indistinto sono l’opposto della lotta contro l’establishment, cioè il privilegio dei veri ricchi-e-potenti e la sua hybris). Insomma, incarna nel modo più (pre)potente la destra, unificata sotto l’egemonia più estrema.

Il M5S ha un futuro solo se sapesse incarnare l’alternativa a questo potere dei poteri forti occultato dai modi plebei e dal furore contro i capri espiatori. Cioè i valori e gli interessi di sinistra, perché contro i privilegi d’establishment. I valori giustizia-e-libertà intransigenti e praticati coerentemente. Ma il M5S non è nato con questa cultura, e se ne ha assunto qualche spezzone (anche qui: meglio che niente), lo ha fatto in un quadro ideologico di penoso ciarpame antiscientifico, complottismo puerile, con annesso anti intellettualismo e ibridazione con ogni opportunismo democristiano o sbandamenti da vera destra.

La seconda questione cruciale è intrecciata alla prima, in una debilitante sinergia al peggio: le modalità della selezione dei quadri dirigenti e la democrazia interna. Una forza anti-establishment, cioè giustizia-e-libertà, dovrebbe selezionare i suoi quadri e dirigenti attraverso la partecipazione alle lotte, il contributo di impegno pratico e culturale, la credibilità e coerenza dei propri tragitti in questi ambiti. I meet-up potevano essere l’embrione delle istanze di base di un tale progetto. Le “parlamentarie” sono invece delle specie di provini per mini-reality o uomini/donne stile De Filippi (che rispetto alle “parlamentarie” è cinema da oscar), o spot per aspiranti influencer, in cui con qualche decina di like, cioè di amici facebook, si diventa candidati (bloccati) per essere eletti sindaco o parlamentare. Un terno al lotto, una cuccagna, che con la caratura dell’impegno politico non hanno parentela alcuna. Naturalmente viene fuori anche qualcuno (rara avis, comunque) di valore. Ma accadrebbe anche estraendo i candidati a sorte.

Quanto alla democrazia interna, l’impermeabilità alle critiche, e anzi il riflesso pavloviano per cui chi non si allinea perinde ac cadaver è un nemico o un traditore, hanno fatto il resto. Un deserto di elaborazione e confronto collettivo.

I risultati si sono visti, e hanno mortificato, avvilito e infine distrutto, alcune intuizioni sacrosante che hanno fatto la fortuna del movimento: il rifiuto della partitocrazia e della politica come mestiere, per trasformarla invece in alcuni anni, non ripetibili, di “servizio civile costituzionale” nelle istituzioni. Con il loro fallimento i 5S gettano il discredito su misure antipartitocratiche che invece restano più che mai attuali.

L’avvitamento del M5S potrà durare più o meno a lungo (fino a che non nascerà un’alternativa possibile, e continuerà a ingrossarsi il partito del non voto). La possibilità che sia un protagonista della vita politica e soprattutto della sua urgentissima ri-democratizzazione è invece definitivamente tramontata. A meno di credere ai miracoli, stile apertura del mar Rosso. Non è il nostro caso di atei incalliti. E soprattutto non c’è nessun Mosè alle viste.

(In un prossimo articolo le colpe della società civile, ovvero le nostre responsabilità).

(7 giugno 2019)

Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-m5s-puo-ancora-sopravvivere-come-protagonista/
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« Risposta #100 inserito:: Novembre 21, 2019, 11:24:12 am »

Le sardine di Piazza Maggiore e la sinistra sommersa
   
Di Paolo Flores d’Arcais

Quanto sarà effimero il movimento delle “sardine”? O fino a che punto si moltiplicherà per contagio e si radicherà per organizzazione? Lo vedremo presto con i prossimi flashmob di Modena e Firenze. Intanto l’exploit di Bologna ha dimostrato una verità politica, o meglio l’ha ribadita in forma perentoria: per dar vita a una mobilitazione democratica (di “sinistra”, insomma) bisogna prescindere dai partiti. Quattro amici e un appello progressista sul web possono creare un’iniziativa, se avessero voluto coinvolgere un partito (il Pd, ormai) immaginando di avere il valore aggiunto di una forza organizzata, si sarebbero assicurati un flop. Il Pd, per una mobilitazione democratica, non costituisce un valore aggiunto ma la macina al collo, un handicap che garantisce il fallimento.

Per un motivo assai semplice: il Pd, come insieme dei suoi dirigenti, anche locali, come apparato nel senso più ampio e articolato del termine (decine di miglia di persone) è totalmente screditato sotto un profilo democratico progressista, è vissuto (lucidamente o inconsciamente, ma comunque giustamente, esattamente) come parte integrante dell’establishment, come un “loro” estraneo alla cittadinanza attiva, un pezzo della Casta, insomma. Gettando un alone negativo e un’ombra di vituperio anche sugli eventuali quadri di base che magari vivono coerentemente l’impegno democratico progressista d’antan.

Il movimento delle “sardine” (d’ora in avanti senza virgolette), se anche Modena e Firenze saranno un successo (è una concreta speranza), costituiranno l’ultimo episodio di una lunga serie di protagonismo auto-organizzato della società civile progressista, quella che prende più che mai sul serio i valori della Costituzione repubblicana. Un fenomeno oramai quasi ventennale, dove ciascun episodio ha le sue assolute specificità, ma che evidenzia un filo rosso da analizzare. Anno Domini 2002, i Girotondi. A seguire “Il popolo viola” (due volte, se non ricordo male), poi le donne di “Se non ora quando”, poi le mobilitazioni anti legge bavaglio (e a inframmezzare, qualche ondata di lotte studentesche), solo per ricordare le tappe più rilevanti di grandi piazze gremite.

Nell’età dell’amnesia che è la nostra, queste vicende, che pure hanno avuto carattere di massa perfino grandioso (la manifestazione dei Girotondi a Roma, san Giovanni, il 14 settembre 2002 dilagò in un intero quartiere coinvolgendo quasi un milione di persone) vengono dimenticate già l’indomani. Oltre all’azzeramento dello spessore storico che il mondo dei social ha ormai nebulizzato nelle due generazioni più giovani, ha però giocato un altro elemento: nessuna di queste mobilitazioni ha lasciato traccia, è diventata movimento, ha sedimentato in presenza politica. Una fiammata, anche ciclopica, sempre entusiasmante, che un deposito lo lascia certamente negli animi dei partecipanti, ma politicamente parlando poi più nulla.

Tutte queste mobilitazioni della società civile, in sostanza, erano affette da un limite, che politicamente ha pesato come menomazione insormontabile e dissipativa. Hanno sempre oscillato tra l’idea di costituire un pungolo di rinnovamento (anche radicale, ma possibile) dei partiti della sinistra esistenti (in primis i Ds>Pd) o di doverne rappresentare un’alternativa, data l’irrecuperabilità degli apparati.

La prima ipotesi è stata sistematicamente vanificata dai Ds>Pd stessi, il cui apparato non hai mai tollerato innesti dalla società civile che intaccassero anche marginalmente il sistema interno di potere. La seconda ipotesi non ha potuto vedere la luce neppure in forma embrionalissima per la catafratta Nolontà di questi di partecipare in modo costruttivo e progettuale alla vita politica, che in una democrazia parlamentare significa dar vita a liste elettorali.

Il M5S è nato, e ha dominato per dieci anni la vita politica della protesta popolare, esattamente per quel vuoto, perché ha evitato di cadere nell’illusione di un rinnovamento/palingenesi del Pd, e perché molto rapidamente ha accompagnato le sue mobilitazioni di protesta con la presentazione di liste locali e infine nazionali nelle competizioni elettorali. Per questo, del resto, ha drenato in più occasioni milioni e milioni di voti del Pd (altri milioni sono finiti nell’astensione). Altri errori, però – anzi vera e propria tabe originaria bicorne – hanno segnato la fine del M5S, come ho ricordato nel mio precedente articolo: il rifiuto di riconoscere l’antagonismo (valoriale e di interessi sociali, non di schieramenti tutti ormai partitocratici) tra destra e sinistra, e la demenziale e avvilente selezione dei candidati attraverso provini da “reality” e voti-like da amici di facebook.

Due foto di piazza Maggiore a Bologna evidenziano plasticamente, carnalmente, il declino irreversibile del M5S: Beppe Grillo dentro un canotto sopra una folla debordante (2010), 15 mila cittadini in gioioso ritrovarsi progressista col tam tam digitale di quattro amici, e un M5S che in piazza non porterebbe nessuno e medita addirittura di disertare le urne.

L’inaspettato e galvanizzante esito di massa del flashmob delle sardine palesa perciò che esiste la SINISTRA SOMMERSA, una sinistra nella e della società civile, totalmente autonoma dal Pd. Magmatica, ma profondamente radicata nelle coscienze, nella capacità di indignazione, nella volontà e aspirazione ad un impegno concreto per “giustizia-e-libertà”, sempre più “giustizia-e-libertà”, per l’attuazione integrale della Costituzione, insomma.

Che spesso esercita questi valori quotidianamente, nel volontariato, nella serietà professionale, nel rigore della ricerca.

Magmatica, ma soprattutto carsica: sembra scomparire, ma sta semplicemente scorrendo sotto terra, custodita in milioni di coscienze, pronta a riemergere non appena si presenti l’occasione, quando in modo per lo più imprevisto un evento o un gruppo di amici fanno da catalizzatore a questa massa di energie egualitarie e libertarie diffuse, anche se troppo spesso frustrate. E quando una nuova generazione prende il testimone si ritrova accanto quelle scese in piazza dieci, venti, trent’anni prima.

Speriamo che le sardine dilaghino a macchia d’olio. Se accadrà, è sperabile che non commettano il duplice errore con cui, dai Girotondi in poi, le mobilitazioni della società civile si sono sempre esaurite: immaginare di trasformare i partiti della sinistra, rinunciare al momento della verità dell’alea elettorale. Che è un salto mortale, ovviamente, senza il quale, tuttavia, di una grande ondata di mobilitazione democratica, che a Bologna speriamo abbia avuto solo il suo esordio, non resterebbe nulla, una volta di più.

Mattia Santori, Roberto Morotti, Giulia Trappoloni e Andrea Garreffa non ameranno ricevere consigli, come quasi sempre accade a chi realizza una iniziativa politica inedita. In parte a ragione, perché la tentazione di “recuperare” una mobilitazione, “metterci il cappello”, e insomma farla lavorare per un proprio progetto, non solletica solo i partiti ma può albergare anche negli intellettuali.

E tuttavia qualche consiglio lo darò, perché in realtà è un auspicio, una speranza, o forse un wishful thinking, quello di vedere finalmente una mobilitazione progressista che non sia solo entusiasmo coinvolgente ma effimero, che metta invece radici e possa invertire la tendenza (non solo italiana) secondo cui ormai le masse vanno a destra (destra, cioè establishment, di cui molta “sinistra” è parte integrante).

Avete registrato il marchio, siete quindi consapevoli che può avere un valore, che in politica significa avere un futuro. Lo avete già concesso a chi sta promuovendo analoghe mobilitazioni a Modena e Firenze, e avete dichiarato che “siete subissati di richieste”. Arricchitelo con un progetto programmatico, almeno con il suo scheletro, perché non resti un movimento solo “contro” (identificare i nemici è importante, sia chiaro), ma anche “per”.

I materiali di analisi per un programma di sinistra non mancano, anzi abbondano. I più recenti sono quelli elaborati dal seminario contro le diseguaglianze coordinato da Fabrizio Barca. MicroMega vi ha dedicato due interi corposissimi volumi, nel 2011 e nel 2018, più una quantità di saggi sparsi lungo oltre trent’anni di vita (mediamente quella delle quattro Sardine, lo dico con ammirazione, il contrario del paternalismo).

L’abbondanza di analisi ha bisogno di tradursi in un programma politico. Per approssimazioni successive, ovviamente. Cominciate a realizzare questa traduzione. Parallelamente alla mobilitazione, coinvolgete quanti nelle varie città si dimostreranno, con l’azione, sulla vostra stessa lunghezza d’onda, anche nella comune elaborazione di un programma. Per punti essenziali, ma non generici (quali misure per combattere la diseguaglianza? Quali capisaldi per una riforma della giustizia? E per la guerra alla grande evasione? Ecc.). Naturalmente senza trasformarvi in professionisti della politica, che non solo vi muterebbe umanamente, esistenzialmente, ma vi impoverirebbe anche politicamente.

A enunciarla sembra la quadratura del cerchio, e invece fa parte dell’orizzonte del possibile. Auguri, allora, perché il vostro successo e il vostro futuro ci riguarda tutti.

(18 novembre 2019)

Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/le-sardine-di-piazza-maggiore-e-la-sinistra-sommersa/
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