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Autore Discussione: Paolo FLORES D´ARCAIS..  (Letto 69764 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Gennaio 31, 2012, 11:22:12 pm »

MicroMega ricorda Oscar Luigi Scalfaro, un Presidente davvero Custode della Costituzione

Scalfaro: Il senso dello Stato e i suoi nemici


di Oscar Luigi Scalfaro, da MicroMega 2/2001

La strategia degasperiana
Dalla Provvidenza ho avuto il dono grandissimo di essere stato vicino a De Gasperi. Molto vicino. E anche un secondo dono, di cui non ho merito alcuno: che De Gasperi non mi ha fatto sottosegretario. Dunque, il fascino della sua figura, che ho sentito fortissimo – giusto o sbagliato che fosse – non è influenzato da alcun dare/avere, per quanto pulito e ineccepibile.
La sua prima caratteristica era l’enorme equilibrio nel cercare sempre con gli altri un denominatore comune fondato su una grande ricchezza umana. Di De Gasperi mi aveva colpito l’impostazione strategica, di grandissima apertura d’ali. I francesi parlerebbero di envergure. C’erano molti problemi urgenti. Li potremmo riassumere sotto la dizione generica di «giustizia sociale». Nei giorni e nei primi anni successivi alla Liberazione, indubbiamente il problema più sentito era primum vivere, perché cruciale, il tema della libertà. L’Unione Sovietica era in mano a Stalin, le notizie ancora non erano chiare, lo stesso famosissimo libro di Kravcenko Ho scelto la libertà non era ancora uscito, ma la scelta strategica di De Gasperi di privilegiare la libertà e di puntare sulla politica estera fu fondamentale.
Sia chiaro: con gli Stati Uniti non ha mai avuto atteggiamenti che non fossero di altissima dignità. Non li ha mai considerati infallibili. Ma gli Stati Uniti non hanno peccato contro la libertà. Ecco il perché della scelta atlantica. Risento in me i suoi discorsi di politica estera. Ne rivedo il volto e il modo di parlare: sembrava lo scultore che prepara la grande arcata. Da qui anche le alleanze nella politica interna, con i partiti di sicura sensibilità in tema di libertà e di democrazia: liberali, repubblicani, e anche demolaburisti e azionisti, che rappresentavano una posizione molto a sinistra, ma inattaccabili sulle questioni di libertà.
Mi ricordo che De Gasperi, nel consultare l’opposizione sulle questioni di politica estera, secondo la grande tradizione democratica occidentale, ha sempre chiamato Nenni, mai Togliatti, per l’opposta concezione dell’uomo e dello Stato e per la marcata sudditanza in politica estera con l’Unione Sovietica.
Bisogna tener conto che ai tempi dell’Assemblea Costituente eravamo un po’ tutti chiusi nelle nostre reciproche torri. A me e a molti miei colleghi cattolici, perciò, colpiva vedere il dc Campilli passeggiare sotto braccio al comunista Pesenti, nel salone dei passi perduti a Montecitorio. La separazione era rigida, secondo la logica comunista che anche un rapporto umano finiva per indebolire una posizione politica.
Una volta, a confermarmi questa tesi, fu Davide Lajolo, nome di battaglia nella Resistenza «Ulisse», allora direttore dell’Unità. Fu ancora lui a dirmi, di Togliatti, che mancava di sentimento umano ed era uomo di considerevole aridità. Eppure il degasperismo, e la sua grandezza, è stato anche questo: aver scritto la Costituzione insieme a uomini come Togliatti. Una pagina incredibile. Io sono stato all’Assemblea Costituente, come un allievo, a cercare di non perdere quella grande lezione: l’incontro di tre grandi culture, quella cattolica, quella marxista-leninista, quella laica moderata.

Il dialogo con i diversi schieramenti
Eravamo inesperti in fatto di dialogo, dunque carenti di una particolare ricchezza umana. Però c’erano quelli che erano stati in montagna insieme, alcuni che già si erano incontrati. Ricordo il vescovo di Novara, un cappuccino eroico, monsignor Leone Ossola, già prigioniero degli inglesi in Africa, che mandò i sacerdoti della sua diocesi in montagna, dove si moriva tutti i giorni, a stare vicini ai partigiani. Li inviò non come preti combattenti (anche se ve ne furono) bensì come preti-preti, per condividere in un rapporto umano e spirituale particolarmente ricco la vicenda di chi combatteva. Fu una pagina estremamente positiva. Fu proprio monsignor Ossola a presentarmi, nel periodo clandestino, il comandante partigiano comunista Cino Moscatelli.
La Resistenza combattuta insieme ha voluto anche dire condividere sofferenze, e questo è un grande patrimonio, una ricchezza che crea legami formidabili. Credo di aver raccontato più volte un episodio davvero significativo: De Gasperi era ministro degli Esteri, e attraverso gli scarsi mezzi della diplomazia nascente, della Croce Rossa e del Vaticano, cercò notizie di una figlia di Nenni, deportata nei lager e di cui non si sapeva più nulla. Alla fine De Gasperi fu informato che era stata trovata morta. Il ministero degli Esteri era dove adesso c’è la presidenza del Consiglio, e il quotidiano Avanti! che Nenni dirigeva era a tre o quattro minuti da lì, dietro via del Vicario. Quando venne informato che era stata trovata morta mi disse: ho telefonato a Nenni e gli ho detto: vengo da te! Lui ha capito. E poi: cosa può dire un padre ad un altro padre in queste circostanze, anche perché lui, che è molto rispettoso del sentimento religioso, non ha però fede. Mentre continuavo a pensare ho attraversato la piazza, ho fatto questa scaletta, mi sono trovato, abbracciato, a piangere insieme. E poi aggiunse: queste cose, sai, né lui né io le potremo dimenticare mai.

Il valore della sofferenza
Tutte le sofferenze condivise nella Resistenza, dalle montagne al Laterano, hanno creato un patrimonio comune che ha reso possibile la grande pagina della Costituente. Veramente grande pagina. Ecco perché l’antifascismo è il punto di origine, il fondamento della nostra Repubblica che non si può cancellare.
Oggi siamo invece arrivati ad affermazioni di incredibile gravità. Quando il capo dell’opposizione minaccia che cambierà la Costituzione – anche nella prima parte – con la sua sola maggioranza, sostenendo che questa prima parte ha sapore di comunismo, si tratta, in termine tecnico, di ignoranza crassa, cioè ignoranza pesante e colpevole, che esclude la buona fede. Perché basta leggerla, la Costituzione, non è neanche necessario conoscere le vicende storiche da cui è nata, per sapere che nessun valore di libertà, nessun diritto è in essa stato compromesso. Quindi, quando si parla in quel modo si compie un attentato alla Costituzione. Un conto è proporre modifiche – in questo caso devono essere prese in considerazione – un altro è minacciare con evidente tracotanza di sovvertire la Costituzione con una qualsiasi maggioranza.
La prima parte della Costituzione non si può toccare. Non si deve toccare. I valori fondamentali, che in essa sono scritti, possono anche essere indicati come la proclamazione dei diritti della persona umana. Sono dunque intoccabili. Diversamente, si compie un attentato contro la civiltà di un popolo. Non c’è dubbio.

Verità e chiarezza per la pacificazione
Questo taglio delle radici, questo parificare tutto, democrazia e dittatura, è inaccettabile. Vuol dire innanzi tutto negare la storia, negare la verità. Per questo ritengo che sono state pronunciate frasi rischiose, perché non sufficientemente chiare, quando si è parlato dei giovani che scelsero la Repubblica di Salò. Un giovane può avere un numero indefinito di attenuanti. Abbiamo avuto in Parlamento giovani che avevano fatto i Littoriali… e ci sono stati quelli che si sono rifiutati… Il sottoscritto, da studente universitario, si dispiacque quando nacque il nuovo codice per celebrare il ventennio del fascismo con la collaborazione di tanti giuristi cattedratici. Altri docenti universitari hanno preferito perdere la cattedra, piuttosto che giurare fedeltà al fascismo: li ammiro profondamente.
La pacificazione può nascere solo dal rispetto della verità. Ci sono stati degli eccessi, e anche fatti criminosi, da parte di partigiani. Questo è tanto più grave perché veniva da chi si batteva per la libertà. Io lo considero perfino una aggravante, proprio perché i partigiani erano schierati dalla parte giusta, dalla parte della libertà. Gli altri, che hanno scelto Salò, erano dalla parte sbagliata, dalla parte della dittatura contro la libertà. Possono aver vissuto momenti eroici ed eroicamente averci lasciato la pelle, ma erano dalla parte sbagliata. Non è un’accusa, è una constatazione. Se non si rispetta questa realtà, questa verità, viene meno ogni base per un retto giudizio e ogni fondamento per la pacificazione. Salta tutto: ogni rapporto umano, ogni dialogo.
C’è stata, purtroppo, già alla Costituente, la forzatura polemica delle sinistre di identificare il «fascismo» con la destra: la destra è sempre fascista, inserendo con ciò un elemento di confusione molto grave. In un paese libero una posizione di destra, anche dura, è legittima e direi necessaria. Siamo fuori dell’ordine costituzionale, appena ci si rifà alla dittatura. Ma anche una posizione di sinistra può diventare illegittima: quando la sinistra finisce in Br, evidentemente siamo fuori dell’ordine costituito.

Libertà e giustizia
Torniamo alla libertà come tema strategico prioritario. Su di esso nasce la socialdemocrazia. Quella scissione fu un atto di coraggio enorme compiuto da Saragat. Ma è evidente che la vita quotidiana di un popolo, specie di un popolo che esce dalla guerra, è una vita dove conta, e molto, anche la giustizia, che è parte integrante del concetto di libertà. Entrambe discendono dalla verità, non solo secondo il concetto evangelico. Il problema, allora, era drammatico. C’era tanta gente in condizioni non già di povertà ma di vera e propria miseria. Ricordo, come fosse ieri, quando De Gasperi ci raccontò che aveva telefonato a Fiorello La Guardia, già sindaco di New York, responsabile degli aiuti del piano Marshall, dicendogli: sono il presidente del Consiglio dell’Italia, lei è italiano e so che ama l’Italia. Se qui le navi arrivano con viaggio normale arrivano dopo sette-otto giorni, e intanto potrebbe scoppiare la rivoluzione, perché abbiamo pane per due giornate. Fiorello La Guardia dirottò le navi. Arrivarono a Palermo, a Venezia, a Genova: fu una cosa veramente commovente.
Dunque, nel momento in cui si affrontano i temi di giustizia sociale, qual è il denominatore comune coi liberali, persone degne (basti pensare non solo ad Einaudi, ma a Badini Confalonieri, Villabruna)? La libertà non poteva restare l’unico criterio. Bisognava varare immediatamente anche grandi riforme sociali. Ricordo che in Consiglio dei ministri ci fu una sfuriata di Scelba, ministro dell’Interno, perché la riforma agraria faticava tanto a nascere. E intanto c’erano i morti a Melissa nelle manifestazioni per la terra ai contadini. A questo punto il denominatore comune si estendeva alla sinistra, perché nessuno può negare l’impegno e la combattività delle sinistre su questo tema. Quando dissi queste cose a un congresso della Dc a Roma, nei primi anni Cinquanta (si teneva al Teatro dell’Opera e presi la parola dopo Giovanni Gronchi), malgrado fossi un giovane deputato poco conosciuto, terminai il discorso accolto da un’ovazione a non finire. Lo stesso De Gasperi mi abbracciò. Un manifesto fascista, invece, diffuso in tutta Italia mi accusava di comunismo. Io lo vidi in Sicilia.
Del resto De Gasperi lo disse chiaramente: la Democrazia cristiana è un partito di centro che guarda verso sinistra, che si muove verso sinistra. E io, con la semplicità e l’impreparazione di un giovane, durante l’Assemblea Costituente, parlando al gruppo Dc, avevo proposto: prendiamo le encicliche sociali e il radiomessaggio di Pio XII per il 40° della Rerum novarum; in un dialogo con un liberale serio, quanti di quei principî potevano essere condivisi? E quale denominatore comune potevano trovare presso uomini della sinistra, anche marxisti ma riformisti, con tutta la loro ricchezza umana?
Ma parliamo di liberali. Oggi si può dire che c’è un mondo liberale? No. Quel mondo ormai – almeno per ora – in questa destra non trova posto (forse qualcuno uti singulus…). Che un liberale riesca a sentirsi a casa sua con questa destra mi pare davvero un controsenso.
Oltre a quanto detto sopra a proposito della prima parte della Carta Costituzionale, è tutto il modo di agire di questo schieramento che non ha nulla a che fare con i principi liberali. Parla e decide uno solo! E parla solo per slogan. Ci sono docenti universitari, in quello schieramento, che non dicono più una parola. E l’unico che parla se ne esce con espressioni non condivisibili. Con quale coraggio può dire di avere come punti di riferimento De Gasperi e Sturzo?

Liberismo senza etica
Mi fermo, con molto rispetto, alle soglie del discorso economico, che non è il mio. Anche qui, però: nemmeno da un punto di vista di un mero ed esasperato liberismo, questa destra e il suo leader hanno le carte in regola. In tutto il mondo, infatti, liberismo vuol dire antitrust e soluzione del conflitto di interessi. Su questo il centro-sinistra ha sbagliato. Il conflitto di interessi è un tema che, in democrazia, non ammette compromessi. Consentire che tale conflitto permanga, fa saltare il patto di convivenza fra cittadini anche sul piano economico. È una cosa molto grave e non può essere tema di transazione.
Il dialogo con l’opposizione è sempre auspicabile, e dunque bisogna mettere in conto compromessi e accomodamenti. Ma questa era ed è una questione di principio. Assoluta. È stato gravissimo non imporre la soluzione di quel conflitto subito dopo la vittoria dell’Ulivo. È stato un secondo errore riproporla a poche settimane dalle elezioni, fornendo l’occasione pretestuosa all’opposizione di presentarsi come vittima.
Sappiamo che c’è una legge del 1957 che definisce l’ineleggibilità e l’incompatibilità. In parlamento, in quegli anni, io succedetti all’onorevole Lucifredi come presidente della Giunta per le elezioni, che dichiarò la incompatibilità per circa 120 parlamentari, di cui almeno una settantina appartenenti al mio partito. Era motivo di incompatibilità, per esempio, far parte del consiglio di amministrazione di una banca, e per molte altre cariche, tutte di peso assolutamente inferiore all’attuale concessione delle frequenze di tre reti televisive. Facevano eccezione solo gli enti morali, quali una casa per anziani, un asilo infantile. A Zaccagnini, capogruppo Dc, che insisteva perché accettassi la presidenza della Giunta, avevo risposto in modo negativo dicendo chiaramente: io applico la legge, ma temo che non se ne desideri l’applicazione. Poi dovetti assumermene la responsabilità. Fui «imputato» di fronte al presidente della Camera Bucciarelli Ducci.
Mi ricordo un’altra polemica in proposito, sui sindacalisti parlamentari che erano nei consigli di amministrazione di enti di previdenza. Camera e Senato, sottolineando che per gli enti di assistenza era prevista la compatibilità con il mandato parlamentare, vi avevano assimilato gli enti previdenziali. Io mi opposi, poiché assistenza e previdenza sono due concetti per nulla assimilabili, e ottenni dalla Giunta che tutti i sindacalisti eletti si dimettessero da presidenze e consigli di quegli enti. Altrimenti sarebbero stati dichiarati decaduti da parlamentari. Ma ciò non avvenne al Senato.
Anche all’estero, sia chiaro, non sempre il problema è risolto. Ci sono intrallazzi ed escamotage, e la potenza delle lobby. Basti pensare che quando il presidente Clinton ha cercato di intervenire sulla libera vendita delle armi, è stato schiacciato dalla forza della lobby dei fabbricanti, malgrado il susseguirsi di episodi tragici.

Il senso dello Stato
Per un liberale vero l’elemento irrinunciabile è il senso dello Stato. E lo Stato non può essere trattato come un’azienda, perché così si perde proprio il senso dello Stato. Einaudi, che era liberale e liberista, sostenne che l’economia è ancella della politica. Non la padrona.
Naturalmente, capire e tener fermo il senso dello Stato è faticoso. Ma irrinunciabile. Anche nella storia del mio partito, la Democrazia cristiana, ci sono stati momenti di caduta del senso dello Stato. Di contaminazione con interessi privati. Una delle contaminazioni peggiori che possano esserci. Io penso addirittura, e non da oggi, che in un cittadino che è titolare di un’enorme ricchezza già vi sia uno status che non lo rende idoneo a governare.
Ma senso dello Stato vuol dire anche rigoroso rispetto del potere autonomo della magistratura. E su questo tema basterebbe richiamare la recente aggressione del capo dell’opposizione contro la Corte Costituzionale: evidentemente cosa assai grave. La Corte non ritiene di difendersi: rimane bersaglio dell’accusatore. Non è la prima volta che avviene. Ricordo che io fui costretto a intervenire severamente, quando ero al Quirinale, per stigmatizzare un incredibile attacco contro la Corte che a breve distanza di tempo sarebbe stata chiamata a decidere sull’ammissibilità o meno di alcuni referendum. In quella difesa fui, allora, lasciato più o meno solo.
Riprendendo il discorso sul senso dello Stato, non si possono approvare gli attacchi alla magistratura di chi dà la sensazione che autonomi, indipendenti e imparziali siano i magistrati quando gli danno ragione.
La Chiesa ha impiegato anni per apprezzare il sistema democratico. Ne sono certo: lo ha fatto con una bellissima motivazione che è espressa nel finale della Centesimus annus. Nel capitolo «Stato e cultura» la democrazia è vista come l’irrinunciabile spazio della partecipazione. Che è esercitata nelle scelte politiche, nella possibilità di eleggere i governanti e di verificarne l’operato. Di cambiarli, anche. Ma la distinzione dei poteri – fondamentale – quella c’è già nella Rerum novarum, a dimostrazione della sua essenzialità.
Certo, a tener fermo il senso dello Stato ci si scontra con una mentalità diffusa. Ho parlato di senso dello Stato per far capire che partecipazione e responsabilità sono le condizioni perché lo Stato funzioni.
Inutile nascondersi, però, che si è insinuata un’onda di sostegno a posizioni che giudico inaccettabili. C’è un certo mondo, anche cattolico, che dice: questo Scalfaro che ha portato i comunisti alla testa del governo… L’Osservatore Romano scrisse che il capo dello Stato aveva deciso di dare l’incarico a Massimo D’Alema. Il capo dello Stato, in realtà, aveva appena proposto all’attuale suo successore, Ciampi, allora ministro del Tesoro, di presiedere un governo per far approvare la legge finanziaria e arrivare alle elezioni europee. Ciampi si era dichiarato disponibile quando, con incredibile immediatezza e conseguente sorpresa, fui avvertito che in parlamento era già nata una nuova maggioranza: con il contributo di Cossiga insieme con Mastella. Unanimemente designava Massimo D’Alema Presidente del Consiglio. Secondo la nostra Costituzione quando il parlamento genera una maggioranza e questa esprime un premier, il capo dello Stato può solo prenderne atto.
Che si fosse fatta una nuova maggioranza lo dimostrano le cifre: perché Romano Prodi cadde per mancanza di un voto. Il nuovo governo nacque con trenta voti di maggioranza, che non sono pochi.
Eppure anche Ciampi avrebbe avuto una maggioranza per la fiducia: di questo resto convinto. Anche perché in quei frangenti sul parlamento agisce, giustamente (lo sottolineo in modo positivo), la paura dello scioglimento, e il parlamento, saggiamente, difende la sua sopravvivenza. Nel mio settennato ho detto mille volte una cosa: primo dovere del capo dello Stato è fare l’impossibile perché le istituzioni vivano il loro tempo fisiologico. Ho ceduto quando? Quando c’è stato quel voto referendario dell’80 e più per cento in favore della legge elettorale maggioritaria. In quel caso era doverosa la domanda su quale fosse la legittimazione del parlamento in carica. Non potevo prendere la legge che dal referendum scaturiva e metterla in un cassetto: sarebbe stato veramente un atto non costituzionalmente corretto. Ma altrimenti ho sempre difeso a oltranza la scadenza naturale del mandato parlamentare.

Altro che «ribaltone»!
Quando nel dicembre del ’94 l’attuale capo dell’opposizione mi chiese di sciogliere le Camere, per via di quello che poi è stato chiamato il ribaltone, mi rifiutai. Cosa è un ribaltone? Che si tolga la maggioranza a chi ce l’ha e la si passi agli altri. La «maggioranza» del ’94 era FI più An in contrasto con Bossi. E Bossi aveva detto contro Fini, in campagna elettorale, tutte le ingiurie possibili. Perciò quando Bossi, nel dicembre, cioè dopo nove mesi dalle elezioni, toglie la fiducia, il presidente del Consiglio sale al Quirinale e dice: mi dimetto, perché non ho più la maggioranza. Infatti la maggioranza si era dissolta. Poi ritorna al Quirinale e chiede tre cose: scioglimento delle Camere, elezioni anticipate, e «le elezioni le faccio io».
In queste condizioni si va alle urne: con un parlamento che non ha un anno di vita? Siccome io rimasi ad ascoltare queste richieste, l’interlocutore riprese e disse testualmente: ti ho chiesto tre cose, ti ho fatto tre domande, cosa rispondi? E questa è la registrazione, puntuale, di quei pochi momenti. Risposta: rispondo tre no, perché se io dovessi rispondere sì tradirei la Costituzione, perché finirei per compiere un atto, lo scioglimento, che sarebbe fatto solo in favore della tua parte. Questo non è lecito per il capo dello Stato che su questa Carta ha giurato fedeltà.
Ricordo che, pochi giorni dopo, all’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione, non sentii quasi la relazione: tanto avevo la testa che continuava a ruminare per cercare una via idonea alla soluzione della crisi.
Ho avuto gravi preoccupazioni in questa grande crisi politica: con due grandi partiti che si disgregano c’è il rischio della rivoluzione, e se la rivoluzione fosse scesa in piazza, inimmaginabili sarebbero state le conseguenze. Assai fondato in me era il timore della disgregazione dello Stato. Anche la moneta crollava. Un giorno, l’attuale capo dello Stato, allora governatore della Banca d’Italia, mi venne a dire: ho messo in vendita questa mattina i titoli di Stato, nessuno li ha comprati. Ho telefonato alle banche che comprino e io pago le banche. Cioè: lo Stato mette in vendita i suoi titoli e lo Stato se li ricompra, credo che sia peggio della moneta che crolla, peggio, perché è la sfiducia totale.
Questi due pericoli, con l’aiuto di Dio, e con l’autentico impegno di quanti, nelle responsabilità e tra la gente, vi hanno creduto, siamo riusciti a superarli. Ma sono stati pericoli veri. Fortissimi. Questo era lo sfondo di una realtà tremenda.

Una proposta senza precedenti: il premier indicato dalla minoranza
Torniamo alla inaugurazione dell’anno giudiziario 1995. Dissi: presidente, viviamo ancora una situazione tesa, a rischio. Non posso sciogliere le Camere e seguire le altre tue richieste, la Costituzione non me lo consente. Devi perciò fare un passo indietro. Prendi atto che sei in minoranza e io farò un passo che non ha precedenti nella storia d’Italia. Anche se sei in minoranza, sarai tu a darmi il nome della persona che devo chiamare per fare il governo; è essenziale che teniamo insieme questo nostro paese. E su sua indicazione ho chiamato Dini. In realtà aveva fatto anche il nome di Cossiga, poi però lo aveva escluso. Oltre al nome di Dini aggiunse: facciamo un governo distaccato dai partiti, quindi anche senza nessuno ministro dell’attuale governo.
Ventiquattr’ore dopo o giù di lì, viene da me Dini che mi aveva già presentato una lista di ministri. È stato detto e scritto che io avevo imposto a Dini una mia lista. Non me lo sono neppure sognato. Mai. Ma i falsi sono di casa in un certo giornalismo. Dini mi disse questa frase: presidente, ormai sono anch’io un traditore. Sono stato chiamato dal presidente del Consiglio dimissionario, presente il comando supremo del suo movimento. Mi hanno chiesto di inserire nella compagine cinque ministri del governo in carica: il presidente del Consiglio, quindi, aveva già cambiato totalmente idea. Dini allora mi disse: io rimetto il mandato.
Ho risposto: questa cosa con me non può capitare, perché sono sempre stato contrario alle crisi fatte in sede di partito e fuori del parlamento. Nella legislatura precedente c’è una proposta di modifica costituzionale che porta il mio nome. È stata votata alla Camera ma seppellita al Senato. Specificava come ogni crisi di governo dovesse necessariamente passare per il parlamento. Quindi ho detto a Dini: ti presenti in parlamento. Otterrai la fiducia perché il parlamento non vuole lo scioglimento delle Camere. Ed ha ragione.
Al presidente dimissionario avevo già detto: se tu voti questo governo, lo rendi tuo, metti la tua mano a sua tutela. E il giorno che si ritiene che si debba dimettere – Dini è persona di tua fiducia, l’hai fatto tu ministro del Tesoro – gli fai sapere che l’esperienza di governo ha fatto il suo tempo. Certamente Dini la chiuderà. Ma se non lo sostieni, ti sfugge totalmente.
Dopo di che loro non lo votarono.

Il famoso ribaltone, che non è mai esistito, fu realizzato a fronte di un governo che aveva perso la maggioranza, con il presidente del Consiglio che si era – giustamente – dimesso, con una proposta di soluzione della crisi che usciva da tutti gli schemi: con il nuovo premier indicato da quello dimissionario e ormai in minoranza. Senza contare che, in tutte le democrazie occidentali, dove vige il maggioritario secco, la crisi di governo non porta automaticamente allo scioglimento delle Camere. Non esiste questa procedura.
In Italia il cosiddetto «ribaltone» è solo un prodotto aziendale. È un prodotto confezionato dal bombardamento dei mezzi di comunicazione.

(conversazione con Paolo Flores d’Arcais)

(30 gennaio 2011)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/scalfaro-il-senso-dello-stato-e-i-suoi-nemici/
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« Risposta #46 inserito:: Marzo 14, 2012, 11:03:23 am »


Senza legalità nulla cambia


di Paolo Flores d’Arcais, da il Fatto quotidiano, 3 gennaio 2012


L’emergenza è lo “spread”? Anche. Ma la vera emergenza strutturale in cui l’Italia si avvita da un ventennio, e la cui mancata soluzione rende impossibile affrontare tutte le altre urgenze, dal debito pubblico all’occupazione, dal fisco allo sviluppo, dalle grandi opere alla sicurezza e al welfare, ha un solo nome: legalità. La legalità è il “grande rimosso” del discorso politico e della coscienza collettiva, il grande assente nell’azione di governo e nel dibattito sui media.

Il Capo dello Stato ammonisce che evasione fiscale e corruzione sono pratiche intollerabili, ma sono vent’anni che lo sentiamo ripetere, rischia di essere una giaculatoria se alle parole non seguono immediatamente i fatti. Il governo Monti simpatizza col modello danese di flessibilità del lavoro, ma un ex-ministro rivela che dopo averlo studiato in loco il governo Prodi rinunciò a importarlo, perché mancavano le condizioni culturali che ne impedissero l’abuso: un diffuso senso dello Stato e della legalità, appunto. Ora si parla di “crescita”, dunque di opere pubbliche, di incentivi, di liberalizzazioni e privatizzazioni, ma un chilometro di ferrovia o di autostrada costa in Italia due o tre o quattro volte più che in Francia o Germania: il costo della mancata legalità. E in passato ogni bene pubblico è stato svenduto, coniugando impoverimento dello Stato, nuove inefficienze, indecenti arricchimenti di amici degli amici: su scala ridotta, il modello degli oligarchi putiniani. Per indigenza di legalità, anche qui.

Diventa retorico e rischia di apparire insultante, perciò, pronunciare una volta di più la parola “equità” se non si mette mano a una vera e propria “rivoluzione della legalità”. Sono due facce della stessa medaglia, esattamente come giustizia e libertà. La rivoluzione della legalità oltretutto, è l’unica riforma a costo zero. Anzi, a introito sicuro, progressivo, ciclopico. Tra evasione, corruzione, mafie, ogni anno vengono sottratte ricchezze equivalenti a cinque o dieci manovre “lacrime e sangue”. In questi vent’anni – esattamente il 17 febbraio del 1992 veniva arrestato Mario Chiesa e cominciava “Mani Pulite” – la politica ha fatto di tutto per favorire i “mariuoli” anziché la legalità. Portando l’Italia sul lastrico. Se il governo Napolitano-Monti-Passera vuole essere credibile, ed evitare la sacrosanta rabbia del “Terzo Stato” che monta, ha una strada maestra: abrogazione delle leggi ad personam, manette a evasori e per falso in bilancio e ostruzione di giustizia. Eccetera. La legalità presa sul serio.

(3 gennaio 2012)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/senza-legalita-nulla-cambia/
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« Risposta #47 inserito:: Marzo 17, 2012, 11:48:00 am »

Sciopero Fiom, l’intervento di Paolo Flores d’Arcais


Proponiamo il video e il testo dell'intervento del direttore di MicroMega alla manifestazione della Fiom a piazza san Giovanni a Roma,
venerdì 9 marzo 2012.

di Paolo Flores d'Arcais

Un certo signor Marchionne ha accusato la Fiom di fare politica. Una certa signora Marcegaglia si lamenta che la Fiom fa politica. Un certo cavalier Berlusconi ha sempre trattato la Fiom come il demonio, perché fa politica, chiedendo esorcismi ai Sacconi, i Brunetta e altri chierichetti del suo regime. Buon ultimo è arrivato l’onorevole Bersani, che ha vietato ai dirigenti del Pd di partecipare a questa manifestazione, perché la Fiom fa politica, anzi una brutta politica, visto che da questo palco parlerà anche un dirigente del Pd della Val di Susa, ex sindaco e più che mai No Tav.

Vorrei dirlo sommessamente, con i toni sobri che sono di prammatica da quando abbiamo un nuovo governo: questi signori, ogni volta che si stracciano le vesti perché la Fiom fa politica, hanno la faccia come il culo.

Non fa forse politica Marchionne, quando col sostegno di qualsiasi governo e dei media asserviti, impone che nelle fabbriche la Costituzione diventi carta straccia? Non fa politica la Confindustria, un giorno sì e l’altro pure, che dai governi pretende sempre favori per i padroni (con i soldi nostri) e sacrifici per gli operai? Non fanno politica i grandi banchieri, al punto che uno di loro è ormai il ministro più potente del governo “tecnico”? E il partito di Bersani non ha candidato nelle sue liste i Calearo e i Colannino (bella roba, sia detto en passant, per un partito che si dice riformista e forse di sinistra), ritenendo normale che gli imprenditori facciano politica?

E per quale motivo, allora, per quale discriminazione, per quale ontologica indegnità, non dovrebbero fare politica i metalmeccanici e i loro dirigenti?
Per un unico motivo, forse. Che la loro politica (cioè la vostra) è una buona politica, che la politica della Fiom è una bella politica, la politica dei lavoratori per i lavoratori, dei cittadini per i cittadini. Lontana mille miglia, anzi opposta e alternativa, alla politica delle cricche e delle ruberie, delle nomenklature e delle corruzioni, che fanno costare agli italiani ogni chilometro di opera pubblica cinque volte di più che ai francesi, o tedeschi o spagnoli.

Giuliano Ferrara, un altro che considera la Fiom una iattura, anni fa, discutendo di Mani Pulite con Piercamillo Davigo, ha spiegato che il politico esemplare deve essere ricattabile. Proprio così: ricattabile. E’ stato prontamente accontentato. Nella presidenza della regione Lombardia quattro politici su cinque hanno guai con la giustizia. Esiste un quartiere malfamato, il più malfamato che si possa immaginare, in cui l’80% della popolazione abbia guai con la giustizia? Nemmeno in quelli della Chicago di Al Capone. Ma nel Pirellone di Formigoni, sant’uomo di Comunione e Liberazione, sì. C’è da stupirsi se poi qualche satirico parla di Comunione e Fatturazione?

La verità è che, politici o tecnici che siano, vogliono impedirvi di fare politica per tenerla in monopolio, per farla fare solo ai banchieri che strangolano il credito, agli imprenditori che licenziano, ai parassiti che evadono e ai padroni delle tessere che inciuciano. Vogliono che la politica rimanga “cosa loro”, e la sovranità del cittadino, cioè di ciascuno di voi, che pure è solennemente ricamata in ogni Costituzione, sia solo una beffa. Vogliono che a fare il premier sia sempre uno di loro, mai uno dei vostri, mai un sindacalista.

Voi, col vostro sciopero, avete detto NO! a questa pretesa indecente e antidemocratica. Se un banchiere può essere premier, a maggior ragione può esserlo un sindacalista, visto che l’Italia è “una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.
La politica moderna è nata in Europa col suono di tre parole: Libertà, Eguaglianza, Fratellanza. Voi col vostro sciopero e le vostre lotte state semplicemente riproponendo i valori più autentici della vera politica. Voi volete che queste tre parole – così insopportabili per i gerarchi dell’establishment – tornino a rappresentare il futuro, non la nostalgia del passato.
Oggi tutta l’Italia democratica vi deve ringraziare.

Voi siete la speranza, perché siete la lotta.


(9 marzo 2012)

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« Risposta #48 inserito:: Aprile 21, 2012, 03:55:29 pm »

Usciamo dal gorgo
   
di Paolo Flores d’Arcais, da "Il Fatto quotidiano", 17 aprile 2012


La parte migliore dell’Italia rischia di essere trascinata in un gorgo dove l’unica alternativa alla disperazione sembra la rassegnazione o addirittura la fuga dalla realtà.

Sempre più spesso, persone che mai avevano rinunciato alla passione civile, alla razionalità critica, all’impegno, annunciano agli amici l’intenzione di “dimettersi” dalla cittadinanza attiva: da anni non ascoltavano i Tg, perché megafoni “falsi e bugiardi” dell’establishment, ma ora non leggeranno più neppure quel quotidiano e mezzo che racconta il mondo vero, perché questo mondo vero è troppo disperante, alla ripugnanza del regime di Berlusconi è seguito un governo Napolitano-Monti-Passera che ne perpetua l’iniquità con uno stile meno sboccato e più accattivante, e poiché nessuna opposizione “repubblicana” si profila all’orizzonte, meglio “evadere” con qualche buon libro o addirittura qualche serie tv a lieto fine, altrimenti si finisce nel suicidio (e le cronache ci ammoniscono che non è un modo di dire).

Cosa si può rispondere, che non sia omiletico cataplasma consolatorio, per convincere questa Italia a “non mollare”? Perché la diagnosi, se non imbellettiamo la realtà, è davvero disperante. Manette agli evasori, abrogazione della prescrizione, pene “americane” per il falso in bilancio e l’intralcio alla giustizia, tolleranza zero verso il “concorso esterno”, restano un “vade retro Satana” per quel governo che non ha esitato a salassare esodati e pensionati, poveri e ceti medi. A che serve ribellarsi, senza una forza politica che trasformi la rivolta in voti, e dunque in un governo di “giustizia e libertà”?

Verissimo: questa forza non c’è, e il catalizzatore che la farà nascere non si crea a tavolino. Ma intanto va coltivato il brodo di coltura in cui potrà cristallizzare: la rete di lotte diffuse, iniziative individuali, rivendicazioni locali, i club, la scelta di un giornale, l’esercizio della critica e della solidarietà sul territorio e nel web, dipendono esclusivamente da noi, dalla nostra “inventività civica”. Sembrano impotenti perché frammentarie e isolate.

Ma dieci anni fa bastò il catalizzatore di un “resistere, resistere, resistere” e di un “con questi dirigenti non vinceremo mai” per ritrovarsi in piazza in oltre un milione. Oggi può avvenire lo stesso, a partire da una testata giornalistica, un sindacato che non si piega, un appello contro un’indecenza di establishment che passi il segno, il combinato disposto di questi o altri fattori. Non sappiamo quando, ma il brodo di coltura lo creiamo noi, quotidianamente.

(17 aprile 2012)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/usciamo-dal-gorgo/
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« Risposta #49 inserito:: Aprile 26, 2012, 06:11:14 pm »

Il nostro 25 aprile
   

    Lettere dai partigiani: "Cari ragazzi, ricordatevi del 25 aprile"

di Paolo Flores d’Arcais, da Il Fatto quotidiano, 25 aprile 2012

L’antifascismo non è un optional. La convivenza civile si basa sulle leggi, le leggi sulla Costituzione, la Costituzione solo su un fatto storico che la legittima e che regge dunque l’intero ordinamento. Per l’Italia democratica questo fatto si chiama Resistenza antifascista. Se viene meno il riconoscimento della Resistenza crolla l’intero castello di legittimità. Per questo il 25 aprile è festa nazionale: perché l’identità dell’Italia democratica, della nostra Patria, ha il suo ultimo fondamento nella vittoria della Resistenza antifascista, nella frase “Aldo dice 26x1”, con cui il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia dà l’ordine dell’insurrezione generale e i partigiani liberano le grandi città del nord da nazisti e fascisti prima dell’arrivo delle truppe alleate.

Patriottismo costituzionale a antifascismo fanno dunque tutt’uno. I funzionari pubblici che giurano sulla Costituzione compiono spergiuro ogni volta che non sono coerenti con i valori della Resistenza. E anche il semplice a-fascismo segnala drastica indigenza di patriottismo. Chi non è antifascista non è un autentico italiano. Chi poi è anti-antifascista è semplicemente un nemico della Patria.

Oggi purtroppo l’antifascismo è in minoranza, maggioritaria è la morta gora dell’indifferenza. I giovani nulla sanno dell’epopea della Resistenza a cui devono la libertà di cui godono. Colpa delle generazioni che avrebbero dovuto educarli, di un establishment che ha seppellito l’antifascismo nella retorica di celebrazioni bolse ed ipocrite, o peggio.

I governi democristiani, da perfetti sepolcri imbiancati, commemoravano il 25 aprile mentre trescavano con ogni risma di neofascisti e rottami repubblichini. Il regime berlusconiano ha voluto azzerare ogni memoria antifascista, portando “risma e rottami” al governo, in un progetto coerente di sovversione della Costituzione. La nostra convivenza civile poggia oggi sul vuoto.

Ricostruire quel supremo “bene comune” che è l’identità della Patria repubblicana è perciò un compito morale, culturale e politico prioritario e di lunga lena. Che deve bandire la retorica, restituire ai giovani l’epos di rivolta che è stata la Resistenza e sopratutto la sua attualità in ogni lotta odierna per “giustizia e libertà”.

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-nostro-25-aprile/
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« Risposta #50 inserito:: Aprile 26, 2012, 06:13:01 pm »

26
apr
2012

Un Nuovo Soggetto Politico e la fiducia dei cittadini

 
Firenze, sabato 28 aprile, verso una nuova sinistra. Non un’altra entità politica. Ma un soggetto in grado di instaurare “uno stile di relazione e di azione” completamente nuovo per restituire spessore a “una vita pubblica logorata”. Dopo il Manifesto lanciato all’inizio di aprile, il Soggetto Politico Nuovo parte da Firenze. Da un’assemblea, prevista per il 28 aprile, in cui sperimentare un metodo di lavoro democratico e partecipativo. Per arginare la crisi del sistema dei partiti e restituire fiducia ai cittadini nei confronti del sistema parlamentare. E dopo la vittoria di Hollande al primo turno delle presidenziali francesi cresce l’idea di mettere in cantiere una nuova sinstra.

Partecipazione e cittadinanza. Crisi della democrazia, dei diritti sociali, del lavoro, del Welfare. E poi la crescita, smisurata, delle “diseguaglianze e delle ingiustizie sociali, l’insostenibilità della situazione economica”. L’obiettivo: la costruzione “di uno strumento costituzionale di partecipazione della cittadinanza alla vita democratica del paese, che intende essere protagonista non marginale né minoritario della lotta politica”. Uno strumento democratico nei suoi assetti interni, “orientati al rigoroso principio di legalità e a un’assoluta trasparenza e condivisione dei processi decisionali”.

Il programma. Cinque i punti all’ordine del giorno: Il nome da dare al movimento, il modo di “stare dentro la battaglia in corso per i diritti del lavoro, e in particolare il tentativo di liquidare, o di limitare, le garanzia dell’art.18”. Poi il tema delle elezioni – “perché quanto avverrà in Italia nel 2013 avrà un effetto decisivo sul destino della nostra democrazia” – e quello dell’individuazione di “quadri di senso programmatici, per l’altra Italia e l’altra Europa che vogliamo”. Infine l’organizzazione: “Dovremo strutturare la nostra presenza a rete nei territori, e trovare una forma di coordinamento dando vita ad una struttura non centralistica, ma neppure acefala. Cosa bella a dirsi, difficile a farsi”.

Qui il sito del Nuovo Soggetto Politico. Tra i primi firmatari del Manifesto: Paul Ginsborg, Ugo Mattei, Luciano Gallino e Stefano Rodotà.

da - http://saviano.blogautore.repubblica.it/2012/04/26/un-nuovo-soggetto-politico-e-la-fiducia-dei-cittadini/?ref=HREA-1
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« Risposta #51 inserito:: Maggio 10, 2012, 11:34:05 pm »

Bersani, Vendola e Di Pietro, adesso tocca a voi

   
di Paolo Flores d’Arcais, da il Fatto quotidiano, 10 maggio 2012


Cari Bersani, Di Pietro, Vendola (e naturalmente D’Alema, Veltroni e compagnia cantando), vi rendete conto che ormai il problema siete voi? Vi è rimasta un’oncia di lucidità per capire che il futuro del centrosinistra dipende dalla vostra disponibilità a passare il testimone promuovendo gruppi dirigenti radicalmente nuovi? Se vi poniamo queste domande non è per polemica, e meno che mai per provocazione, ma per REALISMO, come doverosa presa d’atto di una situazione ormai chiarissima, che solo i ciechi riescono a evitare di vedere.

In due parole: sono vent’anni che vince le elezioni chi conquista (almeno nell’immaginario) la piazzaforte dell’antipolitica. Berlusconi si presentò come “imprenditore”, contro Occhetto “politicante”. E Prodi vinse enfatizzando il “valore aggiunto” di società civile dell’Ulivo rispetto ai partiti della coalizione. Ora siamo al passo successivo: tutta la partita si gioca nell’antipolitica, cioè nell’altrapolitica, rispetto alla morta gora che sono (con buona pace di Napolitano) i partiti esistenti.

Berlusconi lancerà una nuova “forza”, perché il Pdl è ormai vissuto come un partito. Casini ha ammesso che il terzo polo non nascerà, e la nuova “forza” conservatrice la potranno fondare solo Passera&Co., i “tecnici” non i politici, candidando Monti alla presidenza della Repubblica. A sinistra, se non vi levate di torno (voi e tutta la nomenklatura dei burocrati grandi e piccoli, allevati come “polli in batteria” nelle manovre di corridoio e nelle stanze dei bottoni, compresi gli infiniti “giovani” nati vecchi, alla Renzi e Civati) sarà un esodo biblico verso il Movimento 5 Stelle, che coinvolgerà anche chi trova detestabile la dittatura carismatico-mediatica di Beppe Grillo, ma riconosce (e simpatizza con) la pulizia e la passione civile dei candidati del suo movimento.

È sperabile perciò una vostra “Damasco”, che vi liberi dalla tentazione di restare abbarbicati alle poltrone e agli strapuntini, alle interviste e ai talk-show. C’è da domandarsi, anzi, perché non ve la impongano i militanti di base del Pd, Sel, Idv, che pure esistono (questo giornale li ha incontrati, a centinaia, ogni volta che ha organizzato un dibattito), che spesso assomigliano in energia e pulizia alle giovani leve di M5S, ma che con la loro passività diventano corresponsabili delle nomenklature nell’harakiri in atto. Dite “basta!”, imponete primarie vere, con pari risorse e pari chance: un candidato della società civile le vincerebbe a mani basse. Solo così la sinistra avrà la possibilità di prevalere sulle destre vecchie e nuove.

(10 maggio 2012)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/bersani-vendola-e-di-pietro-adesso-tocca-a-voi/
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« Risposta #52 inserito:: Maggio 21, 2012, 05:46:42 pm »

Contro la strategia della tensione, rivolta democratica

di Paolo Flores d'Arcais

Non è vero che non abbiamo paura. Abbiamo paura eccome! Non aver paura sarebbe folle. Chi ha compiuto l’atroce e lurido crimine di Brindisi è convinto dell’impunità, altrimenti non avrebbe osato un delitto talmente esecrando ed esecrato (perfino dalla criminalità comune) che, se scoperto, promette il linciaggio in carcere. Chi ha compiuto l’orrore sa di avere spalle coperte, copertissime. E’ certo di far parte di una potentissima “strategia della tensione”, informale o formale che sia. Abbiamo paura e rabbia, un’infinita e democratica rabbia. Vogliamo trasformare entrambe in azione politica di democratica rivolta.

In Italia orrori di così ributtante cinismo li abbiamo già visti troppe volte: nell’immediato dopoguerra, quando a Portella della Ginestra si vuole terrorizzare il movimento sindacale e la speranza/incubo (dipende per chi) di un domani “rosso”. Negli anni successivi al ’69, da piazza Fontana a Milano a piazza della Loggia a Brescia, la strage è di Stato, un intreccio di criminali neofascisti, mafie, servizi deviati (e politici di riferimento), con cui i settori eversivi (molto ampli) dell’establishment (non solo politico) esorcizzano nel sangue il timore di un rinnovamento democratico sull’onda lunga del sessantotto studentesco e operaio. Nel ’91-’93 le stragi sono il volto osceno di una trattativa tra mafie e establishment (soprattutto politico, ma non solo) per paralizzare nel sangue, una volta di più, un rinnovamento democratico che il tracollo del Caf fa avvertire plausibile e prossimo. Poi il quasi ventennio berlusconiano, regime in cui i settori eversivi (molto ampli) dell’establishment vanno direttamente al governo e la strategia della tensione e delle stragi sarebbe autolesionista.

Ora la strategia della tensione è tornata, strategia di morte puntuale come la morte, perché le macerie cui il berlusconismo ha ridotto il paese, e la mancanza di un’alternativa parlamentare (l’opposizione Pd invischiata fino al midollo in due decenni di inciuci e leggi bipartisan contro la legalità), hanno portato la fiducia dei cittadini nei partiti (complessivamente presi!) ad un comatoso quattro per cento. E perciò da questa crisi verticale potrebbe uscire come soluzione anche un rinnovamento vero della democrazia italiana, la realizzazione della Costituzione anziché il suo affossamento (la parola “crisi” in cinese è composta da due ideogrammi, “pericolo” e “opportunità”, che in politica equivale a speranza).

Non ha senso azzardare chi specificamente abbia realizzato l’infame attentato di Brindisi, ma sarebbe assurdo non dire quello che anche un bambino capisce: la paura di una soluzione democratica della crisi alle prossime elezioni, con una maggioranza in cui una presenza massiccia di società civile garantisca la fine del berlusconismo e dello spadroneggiare delle illegalità di ogni risma, costituisce un incubo incombente e immediato per i mille strapoteri che sulla illegalità lucrano e metastatizzano. Da esorcizzare, una volta di più, nel sangue di cittadini innocenti: dall’impudenza di colpire le due personalità più scortate del paese (Falcone e Borsellino) a quella di uccidere ragazze adolescenti che entrano a scuola. E’ l’impudenza illimitata di chi pensa che detterà sempre e comunque le proprie condizioni, e può spingersi perciò a qualsiasi orrore perché non pagherà mai.

Perché nessuno ha pagato, per tutto il sangue del dopoguerra. Tranne qualche pesce piccolo, qualche “scartina”. Gli assi, i re, i jolly di questo mostruoso “gioco al massacro” sono sempre restati e restano più che mai i padroni del tavolo. Riveriti, anzi. Omaggiati. Chiamati in mille interviste e porte a porte a fare gli oracoli su come combattere il potere illegale ed eversivo che essi stessi sono. Che sia iniziata una “seconda trattativa” perché l’Italia delle ingiustizie conosca come unico rinnovamento possibile quello del gattopardo, è l’ipotesi che razionalità e storia impongono. Saremo felici se dovremo riconoscere di esserci sbagliati, e che si tratti di un crimine orrendo ma senza “santi in paradiso”. Ma troppe volte abbiamo visto in questi decenni che solo i depistaggi di establishment hanno – anche molto a lungo, purtroppo – consentito versioni del genere.

Oltre all’impegno per smascherare ogni depistaggio (che si realizza per atti ma anche per omissioni) da parte di ciò che resta in Italia di giornalismo degno del nome, e che si spera avrà un sussulto anche al di là di quel paio e poco più di testate che il giornalismo già onorano, urgentissima è la necessità di una risposta democratica di massa. Nessun rituale “unitario” però: è davvero mera retorica, anche qualora sincera, pretendere di “unire tutti gli italiani”, quando se si vuole unire il 90% (si spera che tanti siano gli italiani onesti) bisogna voler combattere senza infingimenti e senza compromessi, con intransigente “tolleranza zero”, quel restante 10% di intreccio affaristico/politico/ istituzional-deviato/criminale.

Il che significa una grande manifestazione di massa, subito, sabato prossimo a Roma, da affidare – per le decisioni su chi parlerà – a una figura incontestabile come don Luigi Ciotti, e che imponga al governo pochi e non negoziabili misure: dall’abrogazione di tutte le leggi ad personam alla reintroduzione con pene “americane” del falso in bilancio e della falsa testimonianza, all’introduzione (sempre con pene “americane”) di quello di “ostruzione di giustizia e alle altre misure che tutti conoscono e troppi nell’establishment (anche non “colluso”) non vogliono realizzare per una affinità di classe che di fronte alla barbarie di Brindisi non è più tollerabile.

Vedremo allora alla prova dei fatti chi vuole liberare l’Italia e chi ha scelto invece la convivenza con i “mostri” della continuità del potere.

ps. L’ipotesi di un “crimine locale”, che è circolata e circola e che non voglio affatto trascurare, non alleggerirebbe di un etto l’angoscia democratica per la situazione nazionale sopra descritta. Se a realizzare un crimine talmente mostruoso fosse stata una banda locale, vorrebbe dire che ormai è talmente diffusa nella malavita dell’intero paese la percezione che le autorità di governo hanno rinunciato ad un effettivo contrasto contro criminalità e illegalità (perché in tale criminalità e illegalità sono invischiati ormai pezzi decisivi e diffusi di “classe dirigente”), che anche una banda locale si lancia in gesta criminali che un tempo solo un potentissimo intreccio mafia/fascisti/apparati deviati si sarebbe permesso.

(20 maggio)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/contro-la-strategia-della-tensione-rivolta-democratica/
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« Risposta #53 inserito:: Giugno 04, 2012, 09:43:58 am »

Liste civiche, istruzioni per l’uso

di Paolo Flores d’Arcais, da il Fatto quotidiano, 2 giugno 2012


D’improvviso “tutti le chiedono, tutti le vogliono...”. Stiamo parlando delle liste civiche, diventate di colpo, proprio come il Figaro rossiniano, “il factotum della città”, cioè della politica. Fino a ieri, invece, per chi le proponeva erano solo frizzi e lazzi, o peggio: un irridente silenzio. Questo giornale, praticamente dalla nascita, insiste sulla necessità di liste autonome della società civile (e su primarie vere di coalizione) come antidoto all’avvitamento e imbarbarimento della politica in partitocrazia. Ora si svegliano tutti. Come mai? E soprattutto con quali intenzioni?

Il “come mai?” è semplice e si chiama Movimento 5 Stelle. Ai partiti il disprezzo degli elettori “non scuce un baffo” fino a che si traduce in assenteismo dalle urne (tanto, anche se vota la metà degli elettori, i seggi se li occupano e spartiscono tutti). Se però una percentuale a due cifre trasmigra verso Grillo, per le nomenklature sono dolori: la torta si riduce. Ora, lasciamo perdere il mondo berlusconiano e quello dei finti tecnici, insomma l’establishment e le due destre. Che senso possono e debbono avere, invece, liste civiche e primarie per la rappresentanza del Terzo Stato e per una politica di “giustizia e libertà”?

Eugenio Scalfari vuole una lista civica propiziata da Saviano (anche se non si candida), e caratterizzata da una pregiudiziale: il sostegno al governo Monti. Proprio quello che non vuole la società civile mobilitata nelle lotte e nelle campagne di opinione. Scalfari, in sostanza, vuole una lista di “portatori d’acqua” al Pd, piena di bei nomi e che faccia il pieno dei voti in fuga da Bersani &C.

E non parla di primarie. Lo fanno, invece, i “giovani” della fronda Pd (Civati, Concia, Scalfarotto, ma soprattutto l’anziano Parisi, prodiano doc e fondatore del Pd) che in compenso rifiutano le liste civiche. Ma primarie e liste civiche (al plurale) non possono essere messe in contrapposizione. Sono entrambe necessarie perché nella loro sinergia restituiscano agli elettori democratici un briciolo di sovranità. Altrimenti questi ultimi restano a casa o emigrano chez Grillo. La coalizione di centrosinistra può vincere solo se si apre alla società civile da anni critica e ostile alle scelte di inciuci e subalternità (si chiamino Berlusconi, Marchionne, Monti, anche se non assimilabili). Solo se accetta vere primarie di coalizione, che affidino agli elettori la decisione sul programma politico, di cui i candidati premier in concorrenza – dirigenti di partito, sindacalisti, giuristi, preti... – saranno l’espressione. Bersani accetta la sfida?

(2 giugno 2012)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/liste-civiche-istruzioni-per-l%E2%80%99uso/
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« Risposta #54 inserito:: Giugno 17, 2012, 06:37:40 pm »

Il Terzo Stato della Fiom e l’alternativa di governo che ancora non c’è
   
di Paolo Flores d’Arcais, da il Fatto quotidiano


Quello organizzato dalla Fiom sabato 9 giugno è stato un vero e proprio vertice pubblico di tutte le forze della sinistra. A discussione avvenuta, è doveroso trarne “bilanci e prospettive”.

Primo. Il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, ha presentato un vero e proprio programma di governo. È partito dalle condizioni dei lavoratori in fabbrica (il che significa anche in mobilità, cassa integrazione, precarietà, disoccupazione), dimostrando come non si cambino (in meglio) queste condizioni senza affrontare i temi della legalità, della rappresentanza, dell’informazione, della scuola, della ricerca, dell’ecologia, della “governance” europea... E su ciascuno di questi temi ha dato indicazioni assai chiare sull’orientamento che deve avere un programma di governo nel quale la parola “equità” non sia una beffa. Infine, e come logica conseguenza, Landini ha spiegato che per la Fiom è all’ordine del giorno la necessità che con questo programma si realizzi la rappresentanza elettorale-parlamentare di lavoratori, precari, disoccupati, pensionati… insomma del Terzo Stato. Che oggi non c’è.

Secondo. Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani ha risposto no a tutti i punti programmatici qualificanti. Un no talvolta mascherato (“sull’articolo 18 abbiamo ottenuto una difesa sostanziale…”, e giustamente arrivano i fischi) ma nella sostanza inequivocabile. I due programmi, della Fiom e del Pd, sono diversi e perfino alternativi. Di Pietro ha già rivendicato i comportamenti del suo partito in linea con la linea Fiom (Ferrero e Diliberto, per quel che conta, l’hanno sottoscritta perinde ac cadaver), Vendola ha invece fatto lo slalom, con quel linguaggio fumoso che scambia per poesia. Ma alla fine dovrà decidere.

Terzo. È possibile una convivenza tra le forze che queste due organizzazioni, Fiom e Pd, rappresentano? Oppure, anche in presenza della legge elettorale maggioritaria “Porcata”, è inevitabile che vadano alle urne divise, propiziando una vittoria delle destre? Naturalmente si può obiettare che un sindacato non può occuparsi di elezioni parlamentari, ma è evidente che quando, partendo dalle condizioni di fabbrica, si arriva – giustamente – a ritenere ineludibili determinati temi programmatici politico-generali, quel sindacato è obbligato a dare indicazioni elettorali. Tanto più che è diventato, per le sue lotte e la sua coerenza, un punto di riferimento per una opinione pubblica assai vasta (e per molte lotte della società civile).

Quarto. Con l’attuale “Porcata” una divisione sarebbe ovviamente una iattura. Ma l’unico modo perché non si consumi è che l’alleanza elettorale che dovrebbe tenere unite Pd Fiom e altre forze sia affidata, per la scelta del programma e dei candidati, ai cittadini stessi. Primarie, insomma. Primarie vere. Bersani ha promesso le primarie, ma nel solito involucro di nebbia, cioè di ambiguità quanto alla sostanza. Perché ha parlato di primarie “aperte”, il che in buon italiano significa che può partecipare chiunque rientri nell’ampio e variegatissimo spettro del centrosinistra, ma uno dei suoi più “fedeli”, Stefano Fassina (da ultimo onnipresente nelle tv), ha spiegato che prima si decide il programma e poi solo chi lo sottoscrive può partecipare alle primarie. Non ha spiegato, però, CHI lo decide il programma, se le primarie devono essere “aperte”. Perché se il programma lo decide il Pd, o un vertice tra Pd e Vendola, anziché gli elettori stessi del centrosinistra, le primarie non sarebbero affatto “aperte” ma sarebbero “chiuse”, e anzi assai più “chiuse” della famose “case” prima che arrivasse la legge Merlin.

Quinto. I vari “attori” della discussione a sinistra, o almeno qualcuno di essi , sono pronti a decidere su questo punto cruciale senza ulteriori ambiguità? Sono pronti a parlare secondo Matteo 5,37, “il tuo dire sia sì sì, no no, perché il di più viene dal Maligno”? Di Pietro, Vendola, e soprattutto la Fiom, sono decisi a porre la questione delle primarie-per-il-programma (oltre che per i nomi, evidentemente: ma legati ai programmi) in modo ultimativo? Se non lo fanno consegnano ai vertici del Pd (per altro rissosi e divisi) il patrimonio di credibilità fin qui accumulato, e dunque lo disperdono, poiché il risultato sarà milioni di cittadini di sinistra che si rifugiano nell’astensione o votano faute de mieux il movimento di Beppe Grillo.
Come si potrebbe dar loro torto?

Sesto. Forse già troppo tardi. Tuttavia il sondaggio realizzato da Pagnoncelli per Ballarò indica quali margini ancora sussistano: nelle primarie a sinistra il primo posto viene conquistato dal “candidato della società civile ancora sconosciuto”. In altri termini: se ci saranno primarie vere, e in esse ci sarà un candidato credibile della società civile (proposto o comunque “catalizzato” dalla Fiom, unico soggetto organizzato che abbia oggi l’autorità morale necessaria) potrebbe fermarsi il mare di consensi in emigrazione verso Grillo e non-voto, e potrebbe essere sventato il rischio della vittoria delle destre “decenti”, la cui nuova configurazione si va delineando (il partito cattolico di Passera-Bonanni benedetto da Bagnasco, la lista dei tecnici di Monti in tutte le varianti immaginabili, ecc.).

Insomma: perché al governo vada l’alternativa della “democrazia presa sul serio” e del Terzo Stato “giustizia e libertà” è necessario che si pronuncino subito in modo “chiaro e distinto” Landini/Airaudo, Di Pietro, Vendola, ma anche gli intellettuali – presenti o meno al convegno – che rappresentano aree di opinione vaste e identificabili (“Libertà e Giustizia”, “Alba”, “Libera”, ecc.). E i sindaci, De Magistris in primis. Altrimenti per la sinistra ci sono solo le calende greche, come dire il giorno del mai.

(16 giugno 2012)

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« Risposta #55 inserito:: Luglio 18, 2012, 11:08:52 pm »

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Chi indebolisce le istituzioni?

di Paolo Flores d'Arcais | 18 luglio 2012


Domani si commemorano a Palermo i venti anni dall’eccidio di via D’Amelio, la strage in cui vengono trucidati Paolo Borsellino e gli uomini e donne della sua scorta. La strage con cui la mafia si libera di un uomo delle istituzioni, di un servitore integerrimo dello Stato che perciò si oppone a ogni trattativa tra Stato e mafia, trattativa che avvilisce lo Stato davanti a un anti-Stato che si farà ancora più tracotante.

Con che coscienza, domani, si potrà dire nei discorsi ufficiali che lo Stato vuole continuare nell’impegno contro la mafia con l’intransigenza che fu di Falcone e Borsellino? Con che coscienza si potrà domani riaffermare che lo Stato vuole davvero tutta la verità su quella trattativa ormai accertata, ed evidentemente indecente, se altissimi funzionari coinvolti continuano a negarla, e in ogni accenno di telegiornale viene pudicamente derubricata a “presunta”?

Qui vogliamo prescindere da ogni polemica sulla decisione del Quirinale di aprire un conflitto contro la Procura di Palermo presso la Corte costituzionale. Illustri giuristi hanno già spiegato perché sia improponibile, e altri che non vogliono rinunciare alla logica e al diritto lo faranno nei prossimi giorni. Ma assumiamo come ipotetica del terzo tipo che la mossa di Napolitano sia giuridicamente difendibile, che cosa indebolirebbe di più la credibilità dell’istituzione più alta, la trasparenza su quanto è intercorso tra Mancino e il Presidente o la pervicace volontà che tutto resti piombato nel segreto? Lo domandiamo a Michele Ainis, Carlo Galli, Stefano Folli e Ugo Di Siervo, che sui quattro più diffusi quotidiani del paese (Corriere della Sera, Repubblica, Sole 24 Ore, Stampa) affermavano ieri all’unisono che il problema cruciale è impedire che il Colle sia indebolito come “punto di equilibrio del sistema”.

Benissimo. Ma è un fatto che Mancino ha parlato almeno otto volte col consigliere giuridico di Napolitano, il quale nelle registrazioni afferma costantemente di essersi consultato col Presidente nell’attivarsi secondo i desiderata del Mancino stesso. D’Ambrosio millantava e il Presidente era all’oscuro di tutto? O, messo al corrente, ha dato disposizioni che a un molesto Mancino venisse cortesemente messa giù la cornetta? E proprio questo magari si evincerebbe dalle due telefonate dirette tra Mancino e Napolitano?

Non sarebbe meglio, proprio per non indebolire il Colle, una parola chiara del Presidente che ribadisca come, esattamente nella sua funzione di “punto di equilibrio del sistema”, ogni suo discorso con Mancino era ineccepibile, a prova di divulgazione?

Il Fatto Quotidiano, 18 Luglio 2012

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« Risposta #56 inserito:: Gennaio 16, 2013, 04:41:31 pm »

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Cari presentabili, dite qualcosa

di Paolo Flores d'Arcais | 16 gennaio 2013


Un magistrato, Pietro Grasso, tre giornalisti, Massimo Mucchetti, Rosaria Capacchione e Corradino Mineo, due filosofi, Michela Marzano e Franco Cassano, ma si potrebbe continuare. Sono solo alcuni dei nomi che danno lustro alle liste del Partito democratico, personalità della società civile che hanno più che meritato nel loro campo professionale, e che dunque con le loro ineccepibili credenziali costituiscono l’atout irrinunciabile con cui il Pd prova a far dimenticare a tanti elettori, delusi e tentati dal non-voto, anni di inciuci, di subalternità, di latitanza (“Di’ qualcosa di sinistra” e “Con questi dirigenti non vinceremo mai” sono i fotogrammi indelebili di quegli anni). Sono i fiori all’occhiello senza i quali le liste del Pd risulterebbero indigeribili anche agli stomachi più avvezzi ai grigiori di apparato e alle mediocrità di nomenklatura. Bersani ha svolto personalmente un lavoro di convincimento, perfettamente consapevole che senza questo “pacchetto di mischia” della società civile diffuso in tutte le circoscrizioni non avrebbe recuperato – malgrado il fuoco d’artificio delle primarie – neppure un’oncia dei milioni di elettori perduti negli scorsi anni.

Dunque, ciascuna delle personalità che abbiamo citato possiede, anche singolarmente e più che mai assieme alle altre, un potere enorme, una vera e propria golden share: possono dire a Bersani “o noi o loro” ed essere sicuri di vincere qualsiasi resistenza, di vedere la loro richiesta accolta integralmente. “Loro” sono, ovviamente, gli impresentabili, quella lunga processione di candidati che smentiscono i principi etico-politici che il Pd ricamerà su ogni manifesto e di cui il segretario Bersani e ogni altro dirigente si riempie la bocca in ogni talk show. Vladimiro Crisafulli detto Mirello è diventato il loro simbolo, ma i molti altri segnalati puntualmente su questo giornale non sono certo da meno. Non hanno condanne definitive, sfuggono alle maglie assai larghe del “codice etico” del Pd, ma costituiscono antropologicamente (e talvolta lombrosianamente) la perfetta antitesi dei Grasso, Mucchetti, Capacchione, Mineo, Marza-no, Cassano…

Dipende solo da questi ultimi, se i Crisafulli & Co. entreranno in Parlamento a discreditarlo ulteriormente o saranno lasciati a casa. Basta che dicano con semplicità e fermezza a Bersani “o noi o loro”, e saranno esauditi all’istante, magari facendo felice un Segretario a cui era mancato il coraggio.

Avete in mano la carta della decisione, potete davvero far finta di nulla? In coscienza, ve la sentite?

Il Fatto Quotidiano, 15 Gennaio 2013

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/01/16/cari-presentabili-dite-qualcosa/471190/
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« Risposta #57 inserito:: Gennaio 28, 2013, 11:30:39 pm »

Che aspetta il Ppe a cacciare Berlusconi?
   
di Paolo Flores d’Arcais*, da Libération, 28 gennaio 2013


Nella “resistibile ascesa di Silvio B”, che ha ridotto l’Italia a macerie morali e culturali, oltre che economiche e istituzionali, il Partito Popolare Europeo ha non poche responsabilità. La legittimazione di Berlusconi, voluta soprattutto dalla signora Merkel e dal premier spagnolo Aznar, addirittura tra fanfare di entusiasmo, ma avallata da tutti i partiti membri del Ppe, compresa dunque l’Ump di Sarkozy e di Copé, ha aiutato in modo decisivo il Cavaliere di Arcore a superare alcuni momenti di crisi che senza l’appoggio internazionale avrebbero anche potuto decretarne la fine politica (il che, sia chiaro, non diminuisce di un grammo la colpa dei milioni di italiani che colpevolmente lo hanno votato, in un tripudio masochistico di “servitù volontaria”).

Ora il Ppe sembra pentito, sembra domandarsi se espellere Berlusconi, avendo scelto di giocare, in Italia, la carta di Monti e della sua nuova alleanza “centrista”. Ma lo fa alla sua maniera: poiché è un partito europeo di ispirazione cristiana, cerca di adeguarsi al modello di una figura del Vangelo. Peccato che abbia scelto un “non protagonista”, il procuratore di Giudea Ponzio Pilato. Il Ppe, insomma, della questione Berlusconi “se ne lava le mani”, almeno prima delle elezioni. Avesse scelto il protagonista vero, un profeta apocalittico di Galilea ai suoi tempi semisconosciuto, Yeoshua ben Joseph, giustiziato sulla croce come “lestos” (bandito) ai tempi dell’imperatore Tiberio, il Ppe si sarebbe attenuto ad uno dei suoi insegnamenti, che recita “il tuo dire sia sì sì, no no, perché il di più viene dal Maligno” (Mt 5,37).

E’ infatti ormai chiaro a tutti che Berlusconi e il suo partito (come del resto la Lega Nord una volta di più sua alleata) non ha nulla a che vedere con la democrazia, neppure nella sua accezione di destra, e costituisce invece la versione italiana del lepenismo (o del putinismo, se si preferisce): l’aggressione populistica, nutrita anche di razzismo e se necessario di clericalismo, contro la costituzione repubblicana. Una miscela eversiva che cerca di vellicare i fondali psichici più inconfessabili degli elettori, e che nel caso di Berlusconi può disporre anche di ricchezze illimitate e del monopolio della televisione commerciale, una concentrazione di poteri che già di per sé costituisce un vulnus per la democrazia liberale (anche se B. non avesse un ruolo politico).

Aspettando i risultati elettorali per porre l’espulsione di Berlusconi all’ordine del giorno, il Ppe compie – questa volta per omissione – un nuovo gesto di sostegno a uno dei politici più inguaribilmente e antropologicamente ostili alle regole della convivenza civile, visto il crescendo di violenza verbale e di aggressione mediatica che Berlusconi ha scatenato contro i magistrati che fanno il loro dovere. Non solo, il Ppe continua di fatto a legittimare un personaggio politico che ormai rivolge accuse di golpismo, di complotti e insomma di grande delinquenza proprio ad altri dirigenti europei del suo stesso partito, in primo luogo alla cancelliera tedesca (le accuse alla signora Merkel sono in genere accompagnate anche da ingiurie di tipo personale).

Come possa il Ppe tollerare tutto questo resta misterioso, a meno che Berlusconi non sia in grado di ricattare qualche personalità di vertice di tale partito. Altra spiegazione logica infatti non c’è. Ormai Berlusconi spara a zero sulle istituzioni europee, sull’euro, sulle banche tedesche pubbliche e private, cerca di fomentare rigurgiti di sciovinismo che suonano ridicoli fino a che non si rivelano pericolosi, ma il Ppe per il momento tace, rimanda, procrastina, benché sia evidente che non possa nemmeno invocare l’alibi della non-interferenza. Il diritto-dovere all’interferenza è infatti sancito sia a livello di istituzioni europee (ed è grave che le sanzioni prese contro Haider non siano state prese anche contro i governi di Berlusconi) sia a livello dei partiti sovranazionali quale appunto è il Ppe. Nei suoi statuti è solennemente sancita l’incompatibilità fra la propria carta dei valori e il comportamento di menzogne e aggressioni (anche personali) e di vera e propria ostilità contro gli ordinamenti della democrazia liberale (compresa la divisione dei poteri) che è ormai il quotidiano pane (meglio: caviale e champagne) del Cavaliere.

Vista l’ispirazione cristiana del Ppe, sarebbe opportuno che i suoi dirigenti si rileggessero il Catechismo, dove è detto in modo inequivocabili che si pecca – con la stessa gravità e meritando lo stesso inferno – tanto per opere che per omissioni. Il Ppe, perciò, alla campagna elettorale in Italia sta già partecipando: al fianco di Berlusconi, per omissione, per non averlo ancora espulso. E di ogni voto che Berlusconi raccoglierà, Merkel e Copé e Rajoy saranno perciò, moralmente e politicamente, corresponsabili.

* questo articolo è stato scritto una settimana fa

(28 gennaio 2013)

DA - http://temi.repubblica.it/micromega-online/che-aspetta-il-ppe-a-cacciare-berlusconi/
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« Risposta #58 inserito:: Marzo 02, 2013, 03:23:44 pm »

Berlusconi va cacciato dal Parlamento
   

All’opposto di quel che sostengono i teorici dell’inciucio, l’abc della governabilità consiste nel dare a Berlusconi un definitivo ostracismo. Come? Semplicemente applicando la legge del 1957 che dichiara ineleggibile chiunque goda di una concessione statale. Al Pd scegliere se stare con la legalità (e con M5S) o con l’illegalità del Cavaliere.

di Paolo Flores d’Arcais

Eugenio Scalfari – dallo schermo di Repubblica tv – ha trattato a pesci in faccia Bersani per la timidissima apertura a Grillo, e ha lanciato il suo ukase: s’ha da fare un governo di alleanza del Pd con Berlusconi e Monti, perché governabilità e stabilità sono il bene supremo. Scalfari da tempo è il più stretto compagno d’armi di Napolitano, le sue parole apodittiche suonano perciò come autorevolissima “sponda” a quella parte di nomenklatura del Pd, D’Alema in primis, che vuole l’inciucissimo.

All’intelligenza di Scalfari sfugge tuttavia che l’abc della governabilità e della stabilità consiste nel dare a Berlusconi un definitivo ostracismo, lasciandolo fuori dal parlamento, e dunque anche “eguale di fronte alla legge” e a eventuali mandati di cattura. Se infatti Berlusconi esce definitivamente dalla scena politica crolla anche la sua coalizione, e lo spettro di nuove elezioni perde una parte del suo colore apocalittico.

Questo abc è del resto facilissimo da realizzare, esiste la legge 361 del 1957 che dichiara ineleggibile chiunque goda di una concessione statale sia in proprio (proprietà effettiva) che come amministratore o manager. Questa legge deve essere applicata dalla Giunta delle elezioni, anziché da un magistrato, e dunque è stata sistematicamente violata. Ma al Senato la somma di centro-sinistra e M5S garantisce una forte maggioranza, si tratta solo di vedere se il Pd questa volta sceglierà di stare con la legalità (e con M5S) o con Berlusconi, calpestando la legge una volta di più.

Questo abc di ogni possibile “stabilità” non solo è dunque facilmente realizzabile, non solo è democraticamente doveroso, poiché si tratta solo di rispettare la legge anziché sputacchiarla, ma oltretutto sarebbe anche nell’interesse del partito di Bersani (e di quello di Monti) perché porrebbe fine all’ipoteca putiniana su un quarto dell’elettorato, favorendo come nuovo centro-destra quello in loden e “presentabile”.

Naturalmente Berlusconi e le sue Santanché farebbero fuoco e fiamme, di fronte ad uno scenario di legalità parlamentare finalmente rispettata. E allora? E poi? Chiamerebbero alla piazza? Forse, ma sarebbe un flop. Mentre immediatamente si scatenerebbe la diaspora tra le fila berlusconiane, definitivamente in rotta perché questa volta senza più speranza di essere risuscitate da bicamerali provvidenziali. Perfino i mercati reagirebbero meglio (o meno peggio), visto che da settimane la loro stampa internazionale non faceva che auspicare la fine politica del Cavaliere.

Cosa osta, a tutto ciò (che va certamente in direzione dell’interesse nazionale, generale, e chi più ne ha più ne metta)? Solo quel po’ di demenza anti-repubblicana che evidentemente circola nel centro-sinistra, dove speriamo nessuno rispolvererà la giaculatoria “vogliamo battere Berlusconi per via politica e non con la legge”, come se il rispetto della legge non fosse un imperativo politico in democrazia ineludibile.

Speriamo perciò che questa volta accada il miracolo del rispetto della legge, con i cittadini del M5S eletti al Senato che mettono i loro colleghi del centro-sinistra con le spalle al muro.

p.s. da domani MicroMega lancerà su questo tema una campagna di opinione, con un appello, la raccolta di firme via web e altre iniziative.

(28 febbraio 2013)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/berlusconi-va-cacciato-dal-parlamento/
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« Risposta #59 inserito:: Marzo 13, 2013, 05:31:54 pm »

Berlusconi ineleggibile, verso le 200 mila firme! Ma Napolitano mette il veto
   
Il direttore di MicroMega parlerà dell'appello oggi alla Zanzara (Radio 24, ore 18,30) e a Otto e mezzo (La7) in controversia con Sallusti.

Tra le nuove adesioni segnaliamo quella di Luigi Zanda, senatore Pd: "Firmo il vostro appello.

Ai sensi delle leggi italiane Berlusconi non è eleggibile in Parlamento. Se sarò chiamato al voto, mi comporterò di conseguenza".


di Paolo Flores d’Arcais, da il Fatto quotidiano, 13 marzo 2013


Il marcio ventennio berlusconiano può davvero finire tra pochi giorni. Ma Napolitano ha posto il veto: “bisogna garantire al Cavaliere la partecipazione politica”, così l’Ansa sintetizza nel titolo il senso di questa Immoral Suasion del Colle. Invece, 190 mila cittadini hanno già aderito, in poco più di una settimana, all’appello che tramite www.micromega.net Andrea Camilleri e Dario Fo, Margherita Hack e Barbara Spinelli, Franca Rame e Vittorio Cimiotta, e infine il sottoscritto, hanno lanciato perché il nuovo Parlamento finalmente rispetti la legge 361 del 1957 che rende Berlusconi inequivocabilmente NON eleggibile, e della quale uno spregevole inciucio ha fatto strame nelle passate legislature. Il primo ricorso, nel 1994, e il secondo nel 1996, ho avuto l’onore di firmarli insieme agli indimenticabili Alessandro Galante Garrone, Antonio Giolitti, Vito Laterza, Paolo Sylos Labini, Aldo Visalberghi.

Che nel 1994 una maggioranza berlusconiana calpestasse la legge era purtroppo prevedibile: l’espressione “in proprio”, fu “miracolata” dalla Giunta delle elezioni in “in nome proprio”, con una interpretazione alla azzeccagarbugli, pretendendo che la ineleggibilità valesse per amministratori e manager ma non per i proprietari, per Confalonieri e non per Berlusconi. Che la stessa ingiuria alla legalità venisse inflitta nel 1996 dalla maggioranza dell’Ulivo resta invece un triste abominio, che il centro-sinistra ha purtroppo reiterato nella successiva vittoria elettorale. Ora Napolitano ci mette il suo carico da undici. Ma due giorni fa Vito Crimi, cittadino del M5S eletto al Senato, ha ufficialmente annunciato che i membri del M5S nella Giunta delle elezioni voteranno per il rispetto della legge e per dichiarare dunque Berlusconi NON eleggibile e NON eletto. Questa decisione ufficiale cambia completamente il quadro politico.

E infatti: da molte parti si invoca un “dialogo” tra M5S e Pd, ma un dialogo sulle cose il M5S lo ha già avviato, su almeno tre questioni altamente qualificanti : rinuncia ai rimborsi elettorali (e successiva legge che li abroghi), accettazione di una presidenza della Camere, purché senza trattative, e infine la NON eleggibilità di Berlusconi. A questo punto è Bersani che deve rispondere, con un evangelico “sì sì, no no” (“perché il di più viene dal demonio”, Matteo 5,37) senza ciurlare nel manico. Quando la giunta delle elezioni del Senato si riunirà, gli esponenti del Pd voteranno insieme a quelli del M5S o a quelli del cieco di Arcore?

Se voteranno per la legalità, affiancandosi al M5S, Berlusconi uscirà di colpo dalla scena politica, e di fronte alla legge, alle inchieste, ai processi, alle sentenze, sarà un cittadino eguale a tutti gli altri. Se fossi Nostradamus scommetterei che il giorno dopo la decisione del Senato (forse un minuto dopo) il putiniano di Arcore sarebbe già all’estero, malgrado l’uveite.

Questa clamorosa svolta nella politica italiana è dunque a portata di mano, e si deciderà tra pochi giorni. Il moltiplicarsi delle firme all’appello di MicroMega è lo strumento perché l’indignazione democratica si trasformi in azione e costringa Bersani, Vendola e Renzi a dire senza più infingimenti se vogliono che l’Italia esca dalla vergogna delle macerie morali e materiali cui l’hanno portata Berlusconi e gli inciuci senza complessi di D’Alema, oppure se i loro “8 punti”, “rottamazioni” e altre” narrazioni” sono il solito ritornello gattopardesco con cui si vuole puntellare un potere di establishment avvitato nell’indecenza.

Non si facciano illusioni: ogni titubanza, ogni contorsionismo verbale, ogni tentativo di procrastinare la decisione del Senato, saranno vissuti dai cittadini che ancora credono nella Costituzione repubblicana come complicità e omertà con Berlusconi e i suoi bravi. Perché di questo in effetti si tratterebbe.

È semmai incredibile che lo squadrismo in botulino con cui i parlamentari Pdl hanno aggredito il palazzo di giustizia di Milano e l’autonomia della magistratura non abbia avuto risposta adeguata da parte del Pd. Non si tratta di un golpe, infatti, solo perché i protagonisti sono a livello della pochade, ma la volontà eversiva c’è eccome. Contro la quale in piazza il 23 dovrebbero magari scendere gli amici della Costituzione.

(13 marzo 2013)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/berlusconi-ineleggibile-verso-le-200-mila-firme-ma-napolitano-mette-il-veto/
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